Rosso sangue, azzurro cielo

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view post Posted on 26/8/2016, 00:14     +1   -1
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Sometimes I can feel my bones straining under the weight of all the lives I'm not living.

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È una bimba!
Brutale, ma pur sempre una bimba
Comunque ora che lo hai riportato a galla nella mia memoria, sento il bisogno di tatuarmi "I know five fat people in this compound and you're three of them" ovunque.
 
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view post Posted on 3/10/2016, 09:42     +2   +1   -1
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There's no where, there's no when
there's no start, there's no end
'cause this love, it transcends
I found you before and I'll find you again.

There's no where, there's no when
There's no start, there's no end
So if we're gonna feel
alive
Then let's feel it now.

We could all be blown to pieces
because time's a ticking bomb.
We could all be dead tomorrow
but our love will carry on.
'Cause when you know your days are numbered
and you're looking in my eyes
it's not the end, 'cause the energy never dies.

 
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view post Posted on 19/1/2017, 18:44     +3   +1   -1
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sRHiQsh

 
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view post Posted on 17/2/2017, 18:59     +1   +1   -1
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“It may be that you are not yourself luminous, but that you are a conductor of light. Some people without possessing genius have a remarkable power of stimulating it.”
fNQ5oyn
 
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view post Posted on 6/4/2017, 13:40     +2   +1   -1
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Credo di essermi innamorata.


 
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view post Posted on 2/5/2017, 07:32     +1   -1
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view post Posted on 21/12/2018, 23:11     +11   +1   -1
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«Sarà che ho sempre usato la scrittura come mezzo
per ordinare i pensieri e vivisezionarli [...], ma boh in genere non tengo
in conto la prospettiva di condividere
»


Queste sono state le mie parole di risposta quando qualche settimana fa una persona a cui tengo mi ha detto che la scrittura, in quanto forma d’arte, ha bisogno di un pubblico e viceversa.
Una risposta sincera, ne ero convinta, eppure nei giorni seguenti non ho potuto fare a meno che chiedermi se fosse davvero così. La mia mente correva alle poesie delle elementari, alle storie delle medie, a questo mini-blog: ai pensieri buttati giù e pubblicati, al tempo speso a riflettere attivamente su di me.
Scrivere ha questo magico potere che mi permette di distanziarmi da quello che mi affolla la testa, mi permette di vederlo in prospettiva e analizzarlo; mi permette di separare i pensieri veri dalle ansie generate dal mio cervello: tutto diventa più gestibile.
Non ricordo il momento in cui ho smesso, so solo che ad un certo punto —dall’essere il tipo di persona che non condivide— sono passata ad essere il tipo di persona che in effetti non scrive affatto. Ed è questa la bugia che involontariamente ho detto e che ha continuato a ronzarmi intorno come una mosca fastidiosa.
Se non il quando, almeno il perché; perché ho smesso? Perché non avevo niente da dire, era la mia scusa. Perché avrei voluto scrivere quello che provavo, ma in realtà —anche scrutando a fondo— sentivo solo un torpore diffuso. Perché non avevo tempo, ed ero già abbastanza indietro con le cose che avrei dovuto fare secondo gli standard di qualcun altro.
E allora, anche se non sono il tipo di persona che butta giù i buoni propositi e si impegna a mantenerli, o che si mette a tavolino per fare un bilancio dell’anno passato (o magari sì, ma ad un certo punto me lo sono dimenticata), voglio cogliere quest’occasione per tirare un po’ le somme.
È incredibile come si possa non accorgersi di trovarsi in un ambiente estremamente tossico finché non si capisce quanto bene si sta dopo essersene allontanati.
Per me è stato il primo anno di università, il gradino più basso di una vorticosa spirale discendente iniziata al liceo che mi ha privata di qualsiasi curiosità e voglia di imparare.
Travolta da quell’assoluto senso di smarrimento che si prova quando si giunge al punto della propria esistenza in cui bisogna scegliere che strada intraprendere, terrorizzata all’idea di compiere una decisione che avrebbe per forza di cose plasmato parte della mia vita, mi sono aggrappata alla ragione, al raziocinio, alla logica.
Pensa al futuro, Elena; pensa alle possibilità di lavoro; affrontala con un occhio critico e una mente pratica, saprai adattarti.
Beh, mi sono adattata, ed è stata la cosa peggiore che potessi fare. Perché quando cerchi di incastrarti in un puzzle che non è tuo, convinto di nonsoquale senso etico, finisci con l’accettare cose che avresti ritenuto intollerabili senza neanche accorgertene. Ti ritrovi a stringere i denti, darti i pizzicotti, ripeterti che “devi solo impegnarti di più” e farti carico di un peso ancora maggiore.
Ti ritrovi a dover gestire nuove paranoie, nuovi attacchi d’ansia, sbalzi umorali più frequenti, sintomi fisici generati dallo stress; allontani gli amici, divertirti è impossibile e quando lo fai ti senti in colpa.
Andiamo Elena, non fare la bambina. Com’è possibile che a quasi venti anni anni ancora tu non riesca a ordinare al ristorante? Andiamo Elena, che scansafatiche devi essere se dopo mezza giornata all’università non hai la forza di uscire dalla camera? Andiamo Elena, fallo un sorriso e cerca di partecipare alla conversazione anche se la loro voce ti sta letteralmente spingendo sull’orlo di una crisi di nervi.
Andiamo, Elena.

Da piccola mi è stato insegnato che quando si prende un impegno, poi lo si deve portare a termine. Lo penso tuttora, per questo allontanarmi mi sembrava una sconfitta, uno smacco. Inaccettabile.
Intanto sfiorivo, ma almeno il mio orgoglio era intatto. Sono andata avanti un anno, poi non so cosa sia cambiato.
Una mattina, semplicemente, mi sono alzata con un pensiero stampato in testa: io non voglio ritrovarmi tra dieci anni a lavorare come ingegnere biomedico. Neanche se mi mettessero in mano la laurea in questo preciso istante.
Una constatazione banale, incomprensibile che ci abbia messo così tanto; era la prima volta che lo affermavo senza farlo seguire da un “però”; era così e basta, punto, fine della discussione.
Alla luce di quella nuova consapevolezza, era chiaro cosa dovessi fare e, perdio, che sensazione di leggerezza. Stavo letteralmente volando il giorno del mio compleanno, rimbalzata da un ufficio universitario all’altro, bruciata dal sole, coi crampi alla pancia, per una maledetta rinuncia agli studi.
Quando si prende un impegno, poi lo si deve portare a termine. Lo penso tuttora, ma non quando c’è di mezzo un costo così elevato.
Il 2017 è stato perciò un anno strano, di transizione. Nuova facoltà, nuova città, una borsa di studio persa ed un anno di ritardo; quasi nessuna ansia.
Certo, le prime settimane mi sono mossa in punta di piedi, aspettando che quella botta di fortuna sfacciata si esaurisse, perché le abitudini sono dure a morire; ma nel giro di cinque giorni avevo conosciuto più persone di quante ne avessi conosciute in sei mesi ad ingegneria. Tornavo a respirare.
I miei tempi sono piuttosto lunghi, rimugino molto sulle cose, le analizzo da ogni punto di vista, agisco con cautela. Così ho passato un altro anno facendomi le ossa, ricostruendomi pezzo per pezzo con la delicatezza con cui si trattano gli oggetti fragili.
Andiamo Elena, alzati dal letto, apri la finestra. No, non importa che tu vada a lezione oggi, ti meriti una mattinata per te. Andiamo Elena, prova a partecipare a quel progetto; vedi, stai migliorando! Andiamo Elena, rovescia la testa all'indietro e lascia libera quella risata. Senti come tirano gli zigomi?
Siamo lentamente scivolati nel duemiladiciotto e le cose sono migliorate ancora.
Il gruppo si è allargato, le amicizie si sono consolidate, l’intesa è aumentata e per la prima volta da quando ho memoria mi sono sentita compresa; quella pace che deriva dal deporre l’armatura, dalla libertà di poter dire “ho bisogno di allontanarmi dieci minuti e stare per conto mio” senza essere giudicata, dal senso di pienezza che solo il ridere fino a non avere più aria nei polmoni ti può dare.
Questo è stato l’anno delle piccole conquiste come chiedere ai passeggeri del treno di togliere le proprie borsette dai sedili per farmi sedere, grazie gentilissimo sì scendo all’ultima fermata; come contattare persone sconosciute su facebook per scambiare consigli, appunti e libri; come decidere non solo di fare, ma anche di ricevere alcune —poche— telefonate con numeri sconosciuti; come usare i mezzi di trasporto pubblico senza farsi prendere troppo dal nervoso; come fregarsene di avere la voce troppo alta e delle occhiate della gente perché ti senti troppo bene per curartene. Come accettare un invito da parte di persone conosciute su internet, nonostante la timidezza, e ringraziare il cielo di averlo fatto perché, anche se il mio stomaco ancora trema all’idea del piccante, sono grata di aver potuto conoscere gente così meravigliosa.
Mi sono abbonata in palestra ed andarci è un sollievo; alle volte mi sento ancora al centro dell’attenzione, sotto osservazione, ma riesco a relegare quella piccola vocina in un angolo della mia testa. Mi sono persino iscritta a quello stramaledetto corso di tedesco, pieno di gente che non avevo mai visto e in qualche modo mia zia mi ha già fatto promettere che in estate passerò un intero mese con lei in Germania. Voglio dire, l’idea mi terrorizza, ma al tempo stesso non vedo l’ora.
Siamo a dicembre e sto letteralmente collassando perché ho tantissima carne al fuoco e rimangono ancora moltissime cose da mettere a posto, ma questo è l’anno in cui ho cominciato e —per la prima volta dopo tanto tempo— mi sento bene.
Mi sento e basta, ed è meraviglioso.~
 
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view post Posted on 1/8/2019, 20:33     +7   +1   -1
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Ho sempre avuto l'impressione che la mia testa lavorasse con mezzi ragionamenti, concetti vaghi e argomentazioni sottintese seguendo la logica del "ho capito cosa sto pensando, ne ho percezione, non c'è necessità di verbalizzare". Per cui, gran parte di quello che ho qui dentro rimane in questo stato amorfo e implicito in cui potenza ed atto si fondono fino a diventare indistinguibili.
Per non parlare della scarica di piacere, di quel senso di appagamento che provo nel momento in cui qualcosa nel mio cervello fa
clic, e come per magia —intuito, elaborazione implicita di una serie di informazioni mai analizzate a livello cosciente— sblocco un nuovo grado di consapevolezza, un concetto a cui non ero mai arrivata, un'emozione mai sperimentata, una comprensione più intima e diversa.
Che m'importa del processo? Ho bisogno solo di uno spunto di partenza e del risultato a cui sono giunta —istintivamente, a livello inconscio—, ed è tutto lì; che me ne faccio degli step intermedi, delle sottili mutazioni tra pensiero e pensiero?

Solo che poi mi scontro con la realtà, e mi ricordo che non esisto solo nella mia testa; mi ricordo di questo mondo esterno, della necessità di interagire, esternare, comunicare. E mancano le parole.
Allora sperimento l'intensa frustrazione di dover tradurre —e di conseguenza
alterare— il guazzabuglio limpido di pensieri, le idee e i vaghi-ma-precisi concetti per trasmettere quell'esatta sfumatura di significato, per proiettare il preciso sentimento che voglio innescare, per mostrare all'altro ciò che ho visto in questo sprazzo di lucidità onirica.
Ed è qui che subentrano il metodo, la logica, l'analisi; qui iniziano i problemi. Spiegatemi come si fa a prendere qualcosa di sfuggente, dinamico e pulsante e strizzarlo perché entri in quelle gabbie rigide che sono le parole. Come faccio a preservare la purezza del pensiero se lo spezzetto in parti minuscole al fine di scansionarle e individuarne il filo logico, le relazioni che connettono le diverse fasi in modo da poterlo esprimere in un linguaggio comune?
Subentra anche il perfezionismo, il bisogno di operare con attenzione e lentezza, mantenendo una supervisione costante perché tutto fili liscio, controllando che io abbia usato proprio il termine più adatto.
Quindi, nuovamente, l'esterno scompare perché sono troppo concentrata in quest'opera massiva di decompressione per curarmene. Solo che l'esterno non scompare mai veramente, rimane lì, pervasivo, in attesa, inquisitore severo col suo conto alla rovescia.
E se già scrivere risulta così difficoltoso, pur disponendo di intimità e pace, il confronto diretto diviene quasi insostenibile; ansiogeno al punto da preferire il silenzio allo sforzo profuso in una traduzione che, per quanto mi impegni, rimane imperfetta.~
era nato come sfogo perché non riesco a scrivere un post ed è diventato molto di più senza che neanche sapessi di averne bisogno.
 
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view post Posted on 10/2/2020, 02:13     +6   +1   -1
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«Non importa in che forma, ma lascia una testimonianza.
Così, anche se potrebbe sembrarti di essere cristallizzata
e di non cambiare, avrai dei riferimenti tangibili del contrario.
»


Un consiglio prezioso, specie per chi come me tende sempre ad avere una percezione distorta in negativo di sé stesso, ricevuto lo scorso Novembre.
Quindi approfitto di questo spazio, sconfiggendo una volta di più la ritrosia nel condividere, ora che finalmente riesco a ritagliarmi un po' di tempo per raccogliere i pensieri e ripercorrere le tappe di quest'ultimo anno.
Mi guardo indietro e fatico a credere a quanto sia cambiato negli ultimi dodici mesi. Voglio dire, sono sempre io e —dall'esterno— si può dire che faccia sempre le stesse cose. Stessa storia, stesso posto, stesso bar. Sono la stessa, ma non lo sono. Come se fossi cambiata nell'unico modo in cui sarei potuta cambiare, facendo mia la naturale versione successiva di me stessa, conquistando e attuando ciò che in potenza già faceva parte di me.
Il 2019 si è presentato con la delicatezza di un cazzotto nello stomaco, e poi un altro, e poi un altro ancora. Eppure è in quei mezzi respiri affannati tra un colpo e l'altro che mi sono pian piano riappropriata di me, lucida a sufficienza da realizzare che si è trattato di uno dei periodi più importanti della mia vita e che più delle cose che ti capitano è importante il modo in cui lasci che accadano.
Ho chiuso il 2018 euforica, consapevole di aver piantato dei semi importanti e ignara della portata del contraccolpo che ne sarebbe derivato.
In cambio, il 2019 mi ha spezzato il cuore. Un anno fa mi sarei sentita imbecille solo per aver usato un'espressione simile, eppure in un certo senso è così. C'è della bellezza persino in questo, fosse anche per la banale scoperta di averlo, un cuore.
Quindi grazie, T., per la delicatezza con cui hai accolto i miei sentimenti e per avermi dimostrato che non sono difettosa, che non sono sola e che persino i demoni si tengono d'occhio a vicenda di tanto in tanto.
Ho impiegato mesi a riconoscere queste emozioni, mesi ad accettarle e mesi a trovare il coraggio di ammetterle ad alta voce. Una lotta intestina che, a distanza di quasi due anni dall'ultima volta, ha riesumato gli attacchi d'ansia.
Solo che non erano più —non solo— vampate di rabbia cieca o elettricità che ti scorre nelle vene e che ti implora di urlare a pieni polmoni in mezzo ad un'aula affollata per dire a tutti di stare zitti e smettere di respirare; era la tachicardia improvvisa in pubblico, il senso di sopraffazione, le crisi di pianto che giungono di punto in bianco e che riesci a trattenere il tempo necessario a correre nello spogliatoio della palestra e che non distingui dal getto della doccia e che non smettono, non smettono, non smettono.
Sarebbe stato facile chiudersi di nuovo a riccio, tornare alle vecchie abitudini e isolarmi; ma per quanto cambiare potesse sembrare terrificante, restare ferma lo era di più.
E. mi ha colto dubbiosa e con le ferite che appena iniziavano a rimarginarsi, ma con la guardia —sorprendentemente— ancora abbassata. Non importa che non sia andata come speravamo, neppure la seconda o la terza volta che sei ricomparsa; neppure quando hai voluto farmi notare che sono cambiata.
La vera sfida sarebbe stata
non cambiare.
A maggio mamma è finita in ospedale per un tendine della mano spezzato e questo ha costretto lei —così dinamica e frenetica— al riposo e me alla chiamata alle armi. Tra le costanti visite mediche e la sua impossibilità a fare anche i movimenti più semplici, ci siamo trovate a spendere insieme una discreta quantità di tempo.
In un momento carico di tensioni come quello —la sua convalescenza, la mia sessione estiva, l'esame di maturità di mio fratello— il rischio di scoppiare era altissimo eppure non penso di essermi sentita così in pace molte altre volte. La serenità che si prova nel riconoscere i tuoi obblighi non come un peso ma come un dato di fatto, né più né meno; nel godere di ciò che stai facendo senza pensare alle mille altre cose più divertenti che avresti potuto fare.
Una prospettiva quasi zen iniziata a maturare grazie ad una serie di piccole coincidenze. Tra queste, un libro che trattava di mindfulness per la preparazione di un esame e, soprattutto, una giornata di formazione sul lavoro su di sé a cui ho partecipato un po' per caso convincendo mamma e fratello ad una trasferta di un giorno a Bologna. Così, mentre loro ne approfittavano per incontrare parenti, io conoscevo persone che avrebbero plasmato una parte di me, anche se ancora non lo sapevo.
Una giornata di giugno decisiva perché per la prima volta mi sono permessa di correre un rischio in barba alle conseguenze e al giudizio altrui; una follia che mi ha fatto vorticare la testa e martellare il cuore per giorni, provocando una scarica di adrenalina e paura che non pensavo di poter gestire.
Lo stesso fuoco incenerisce e forgia.
Era lo slancio necessario a conquistare nuove tappe e spingersi sempre più in là rispetto alla mia comfort zone, e così ho fatto. Ho messo da parte la mia paura delle responsabilità per trovarmi un lavoro temporaneo mentre mamma non poteva e ne ho ricavato un mini ingaggio come babysitter che porto avanti tuttora.
Cambiava la mia visione del mondo, cambiavano i mezzi con cui potevo affrontarlo, cambiavano le priorità.
Ho continuato a "fare pratica sul campo" quando a fine agosto mio padre è stato operato d'urgenza per via di un infarto sul lavoro. Di quelle settimane frenetiche ricordo il via vai tra due case e un ospedale in macchina con mio fratello, sbraitando la sua playlist a tutto volume e ammirando il riflesso del tramonto in superstrada. Ricordo il "è giusto che mi assuma di più io il peso, visto che di mamma ti sei occupata tu". Ricordo la realizzazione del fatto per quanto io possa vedermi come un impiastro ambulante, le altre persone fanno affidamento su di me e che a dispetto delle mie convinzioni distorte sono in grado di fare molto molto di più. Ricordo la notte passata a ballare per scaricare la tensione e la mattina successiva passata a pulire casa ancora ballando, ancora su di giri per la serata.
In autunno la solita voglia di fare che mi coglie ogni anno per poi scemare irrimediabilmente all'approssimarsi delle festività natalizie: lezioni universitarie, baby-sitting, corsi facoltative sulla formazione professionale e sulle ricerche d'archivio.
Ho incrociato M. in stazione proprio al ritorno di una giornata sfiancante. Io assorta con la mia solita bitch-face che impiego qualche istante di troppo a vederla tra la folla; lei che sventola la mano per salutarmi regalandomi un sorriso a trentadue denti e le grinze intorno agli occhi.
Mi rinvengo appena in tempo per ricambiare il saluto, altrettanto entusiasta anche se non so esprimerlo a dovere. M. è una delle mie persone preferite.
Non siamo mai state veramente amiche, non nel senso comune del termine; non uscivamo insieme e non ci scrivevamo su whatsapp, non mi raccontava dell'università o del suo ragazzo.
Di M. conoscevo a memoria il modo in cui le sopracciglia si corrugavano in campo, mentre aspettava il servizio della squadra avversaria. Di M. sapevo che detestava quando canticchiavo una canzone che mi era rimasta in testa perché poi finiva per fischiettarla anche lei.
Di M. mi piaceva che potevo fidarmi e che eravamo oltre le malizie e le rivalità nelle quali le altre compagne di squadra rimanevano invece intrappolate.
M. è una delle mie persone preferite. Di quelle che senti affini e che se anche non le vedi per tanto tempo, si riparte da dove avevate lasciato; di quelle che se anche non le frequenti spesso, quando le incontri è sempre una gioia. Come in stazione.
Non la vedevo da più di un anno e cinque giorni dopo se ne era andata per sempre.
Quel cazzotto in particolare è stato difficile da incassare. Lì per lì non mi è neanche parso d'averlo ricevuto, ma l'attacco d'ansia della settimana successiva racconta un'altra storia.
È stato allora che ho dovuto ingoiare una lezione amara e confortante al tempo stesso: non ti capita niente di cui tu non abbia bisogno. Se succede, c'è una lezione da ricavarne.
Ho impiegato un po' di tempo a scendere a patti con quella realtà, ma le crisi sono sparite.
Meno di dieci giorni dopo ero a Roma per un corso di formazione di quattro giorni durante i quali ho potuto conoscere e vivere a stretto contatto con decine di persone diverse. Un'esperienza in grado di minare molte delle mie certezze e al tempo stesso arricchirmi in modi che non avrei immaginato.
Il 2019 è stato perciò un anno piuttosto duro, ma non cancellerei niente.
È stato l'anno in cui ho capito che più dell'obbiettivo conta il processo. Ho ancora un sacco di strada da fare e un sacco di cose sulle quali lavorare, una lista per la quale probabilmente non mi basta una vita intera, ma va bene così.
Non mi focalizzo sul traguardo, ma sul percorso.
 
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158 replies since 5/11/2012, 14:38   3050 views
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