| «Sarà che ho sempre usato la scrittura come mezzo per ordinare i pensieri e vivisezionarli [...], ma boh in genere non tengo in conto la prospettiva di condividere»Queste sono state le mie parole di risposta quando qualche settimana fa una persona a cui tengo mi ha detto che la scrittura, in quanto forma d’arte, ha bisogno di un pubblico e viceversa. Una risposta sincera, ne ero convinta, eppure nei giorni seguenti non ho potuto fare a meno che chiedermi se fosse davvero così. La mia mente correva alle poesie delle elementari, alle storie delle medie, a questo mini-blog: ai pensieri buttati giù e pubblicati, al tempo speso a riflettere attivamente su di me. Scrivere ha questo magico potere che mi permette di distanziarmi da quello che mi affolla la testa, mi permette di vederlo in prospettiva e analizzarlo; mi permette di separare i pensieri veri dalle ansie generate dal mio cervello: tutto diventa più gestibile. Non ricordo il momento in cui ho smesso, so solo che ad un certo punto —dall’essere il tipo di persona che non condivide— sono passata ad essere il tipo di persona che in effetti non scrive affatto. Ed è questa la bugia che involontariamente ho detto e che ha continuato a ronzarmi intorno come una mosca fastidiosa. Se non il quando, almeno il perché; perché ho smesso? Perché non avevo niente da dire, era la mia scusa. Perché avrei voluto scrivere quello che provavo, ma in realtà —anche scrutando a fondo— sentivo solo un torpore diffuso. Perché non avevo tempo, ed ero già abbastanza indietro con le cose che avrei dovuto fare secondo gli standard di qualcun altro. E allora, anche se non sono il tipo di persona che butta giù i buoni propositi e si impegna a mantenerli, o che si mette a tavolino per fare un bilancio dell’anno passato (o magari sì, ma ad un certo punto me lo sono dimenticata), voglio cogliere quest’occasione per tirare un po’ le somme. È incredibile come si possa non accorgersi di trovarsi in un ambiente estremamente tossico finché non si capisce quanto bene si sta dopo essersene allontanati. Per me è stato il primo anno di università, il gradino più basso di una vorticosa spirale discendente iniziata al liceo che mi ha privata di qualsiasi curiosità e voglia di imparare. Travolta da quell’assoluto senso di smarrimento che si prova quando si giunge al punto della propria esistenza in cui bisogna scegliere che strada intraprendere, terrorizzata all’idea di compiere una decisione che avrebbe per forza di cose plasmato parte della mia vita, mi sono aggrappata alla ragione, al raziocinio, alla logica. Pensa al futuro, Elena; pensa alle possibilità di lavoro; affrontala con un occhio critico e una mente pratica, saprai adattarti. Beh, mi sono adattata, ed è stata la cosa peggiore che potessi fare. Perché quando cerchi di incastrarti in un puzzle che non è tuo, convinto di nonsoquale senso etico, finisci con l’accettare cose che avresti ritenuto intollerabili senza neanche accorgertene. Ti ritrovi a stringere i denti, darti i pizzicotti, ripeterti che “devi solo impegnarti di più” e farti carico di un peso ancora maggiore. Ti ritrovi a dover gestire nuove paranoie, nuovi attacchi d’ansia, sbalzi umorali più frequenti, sintomi fisici generati dallo stress; allontani gli amici, divertirti è impossibile e quando lo fai ti senti in colpa. Andiamo Elena, non fare la bambina. Com’è possibile che a quasi venti anni anni ancora tu non riesca a ordinare al ristorante? Andiamo Elena, che scansafatiche devi essere se dopo mezza giornata all’università non hai la forza di uscire dalla camera? Andiamo Elena, fallo un sorriso e cerca di partecipare alla conversazione anche se la loro voce ti sta letteralmente spingendo sull’orlo di una crisi di nervi. Andiamo, Elena.
Da piccola mi è stato insegnato che quando si prende un impegno, poi lo si deve portare a termine. Lo penso tuttora, per questo allontanarmi mi sembrava una sconfitta, uno smacco. Inaccettabile. Intanto sfiorivo, ma almeno il mio orgoglio era intatto. Sono andata avanti un anno, poi non so cosa sia cambiato. Una mattina, semplicemente, mi sono alzata con un pensiero stampato in testa: io non voglio ritrovarmi tra dieci anni a lavorare come ingegnere biomedico. Neanche se mi mettessero in mano la laurea in questo preciso istante. Una constatazione banale, incomprensibile che ci abbia messo così tanto; era la prima volta che lo affermavo senza farlo seguire da un “però”; era così e basta, punto, fine della discussione. Alla luce di quella nuova consapevolezza, era chiaro cosa dovessi fare e, perdio, che sensazione di leggerezza. Stavo letteralmente volando il giorno del mio compleanno, rimbalzata da un ufficio universitario all’altro, bruciata dal sole, coi crampi alla pancia, per una maledetta rinuncia agli studi. Quando si prende un impegno, poi lo si deve portare a termine. Lo penso tuttora, ma non quando c’è di mezzo un costo così elevato. Il 2017 è stato perciò un anno strano, di transizione. Nuova facoltà, nuova città, una borsa di studio persa ed un anno di ritardo; quasi nessuna ansia. Certo, le prime settimane mi sono mossa in punta di piedi, aspettando che quella botta di fortuna sfacciata si esaurisse, perché le abitudini sono dure a morire; ma nel giro di cinque giorni avevo conosciuto più persone di quante ne avessi conosciute in sei mesi ad ingegneria. Tornavo a respirare. I miei tempi sono piuttosto lunghi, rimugino molto sulle cose, le analizzo da ogni punto di vista, agisco con cautela. Così ho passato un altro anno facendomi le ossa, ricostruendomi pezzo per pezzo con la delicatezza con cui si trattano gli oggetti fragili. Andiamo Elena, alzati dal letto, apri la finestra. No, non importa che tu vada a lezione oggi, ti meriti una mattinata per te. Andiamo Elena, prova a partecipare a quel progetto; vedi, stai migliorando! Andiamo Elena, rovescia la testa all'indietro e lascia libera quella risata. Senti come tirano gli zigomi? Siamo lentamente scivolati nel duemiladiciotto e le cose sono migliorate ancora. Il gruppo si è allargato, le amicizie si sono consolidate, l’intesa è aumentata e per la prima volta da quando ho memoria mi sono sentita compresa; quella pace che deriva dal deporre l’armatura, dalla libertà di poter dire “ho bisogno di allontanarmi dieci minuti e stare per conto mio” senza essere giudicata, dal senso di pienezza che solo il ridere fino a non avere più aria nei polmoni ti può dare. Questo è stato l’anno delle piccole conquiste come chiedere ai passeggeri del treno di togliere le proprie borsette dai sedili per farmi sedere, grazie gentilissimo sì scendo all’ultima fermata; come contattare persone sconosciute su facebook per scambiare consigli, appunti e libri; come decidere non solo di fare, ma anche di ricevere alcune —poche— telefonate con numeri sconosciuti; come usare i mezzi di trasporto pubblico senza farsi prendere troppo dal nervoso; come fregarsene di avere la voce troppo alta e delle occhiate della gente perché ti senti troppo bene per curartene. Come accettare un invito da parte di persone conosciute su internet, nonostante la timidezza, e ringraziare il cielo di averlo fatto perché, anche se il mio stomaco ancora trema all’idea del piccante, sono grata di aver potuto conoscere gente così meravigliosa. Mi sono abbonata in palestra ed andarci è un sollievo; alle volte mi sento ancora al centro dell’attenzione, sotto osservazione, ma riesco a relegare quella piccola vocina in un angolo della mia testa. Mi sono persino iscritta a quello stramaledetto corso di tedesco, pieno di gente che non avevo mai visto e in qualche modo mia zia mi ha già fatto promettere che in estate passerò un intero mese con lei in Germania. Voglio dire, l’idea mi terrorizza, ma al tempo stesso non vedo l’ora. Siamo a dicembre e sto letteralmente collassando perché ho tantissima carne al fuoco e rimangono ancora moltissime cose da mettere a posto, ma questo è l’anno in cui ho cominciato e —per la prima volta dopo tanto tempo— mi sento bene. Mi sento e basta, ed è meraviglioso.~
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