« we are the blood of the underground, we are a chosen seed so they will come for us, we are the sons of a fallen race. »
C'era
stato un lungo momento in cui, nel silenzio di quell'angolo sperduto di Diagon Alley, Horus si era chiesto se stesse facendo la cosa giusta. Aveva evitato accuratamente di sondare il viso di Zoey, timoroso dell'espressione che vi avrebbe trovato. Fino a quell'istante si sentiva pronto a tutto, ma confidare la propria storia lo aveva reso molto più titubante di quanto avesse previsto. Aveva comunicato alla Lesnicky, una ragazza che conosceva appena, un suo desiderio intimo, personale, un obiettivo che aveva covato per anni e custodito gelosamente dentro di sé. Quando aveva preso quella decisione, quella di contattare la ragazza, Horus s'era detto che il fine giustificava i mezzi; non smise di ripeterselo neanche allora, quando infine si decise a voltarsi verso di lei.
« So che è vagamente inquietante, ma... » Aveva cercato di rompere quell'assenza di suoni che lo turbava dentro spingendo Zoey a parlare, ma fu costretto ad interrompersi. L'eco dell'ultima parola rimbalzò sulle sporche pareti del vicolo e si spense come una scintilla, mentre Horus sussultava sorpreso subendo la morsa della mano della ragazza. Fu un contatto inaspettato, quasi bruciante e senza che il Tassorosso potesse replicare, venne catapultato suo malgrado in un universo onirico che i suoi piedi profani mai avevano calpestato. Trattenne il fiato, spalancando gli occhi e rimanendo impietrito al fianco della Veggente. Capì, improvvisamente, di non avere più percezione del proprio corpo: non comandando nemmeno la propria vista, Horus intuì di essere nient'altro che un ospite, un fantasma al fianco di Zoey in quella che ormai era chiaramente la sua Visione. Fu difficile in quella dimensione anche solo formulare un pensiero; come uno spettatore che, travolto dal dramma, si fa trascinare completamente da ciò che si rivela ai suoi occhi, Horus seguì con lo sguardo quel che Zoey stessa vedeva. Non sapeva se le sue percezioni, lontane, grezze, fossero le stesse che lei stava provando, ma smise di chiederselo. O meglio, ignorò con sorprendente facilità la matassa di dubbi e domande che sentiva premergli lì, da qualche parte in quel corpo sospeso.
Immerso in un buio saturato di rosso, galleggiò informe finché il candore bianco di una schiena di una giovane donna non comparve poco distante da lui. Un sipario di vermigli capelli si accasciava morbido sulla linea sinuosa del collo e della colonna e la consapevolezza di aver già visto quella scena sfiorò il silente osservatore.
Sangue sulla neve.
Fu la metafora che gli giunse alle labbra, ma che mai prese vita come suono.
Avido, le iridi di lui scrutarono quel corpo alla ricerca di un indizio sull'identità di colei a cui apparteneva; un timore, un pensiero che quella schiena rispondesse al nome di Aryadne Cavendish lo sfiorò e lì, dentro di lui, si radicò come edera. E come la pianta, qualcosa si arrampicò sulla pelle nivea di lei ed Horus, inorridito, non poté che assistere impotente. Fragile ed effimera, l'epidermide si crepò come porcellana e grottesche, frastagliate ferite dense e nere come pece si aprirono sulla schiena della fanciulla. Ricordò, a quel punto, le cicatrici che vergavano il dorso di Aryadne ed Horus percepì, da qualche parte, la tristezza di Zoey. Sentì la commozione come un velo pietoso che gli calava sul volto e trattenne il respiro quando vermiglie rose, madide del sangue della fanciulla, fiorirono da quelle fetidi, aride cicatrici. S'aggrappavano come radici su di lei, graffiando e lambendo la carne, avare di quel cruore di cui si nutrivano. Le spine, minute, letali, crescendo strappavano la pelle e divenivano via, via più grandi, grottesche, temibili. Ben presto si tramutarono in lunghi artigli che, implacabili, afferrarono la schiena della ragazza come fosse stata un tenero, candido coniglio. Nelle grinfie della fiera, la ragazza s'inarcò e, spalancate le braccia, si liberò di un grido profondo che violò il silenzio.
Horus riaprì gli occhi improvvisamente, terrorizzato. Senza rendersene conto si era portato una mano alla bocca, inorridito. Aveva capito cosa la visione poteva significare ancor prima della propria Ragione e, spaventato, non riusciva ad uscirne, sentendosi ancora intrappolato in ciò che aveva appena veduto. Sentiva nelle orecchie l'urlo della ragazza entrare in risonanza col suo cuore che, agitato, si dimenava nella sua cassa toracica, battendo così forte da permettergli di udire il rombo del proprio sangue. Gli ci vollero diversi secondi per rendersi conto che il peso che sentiva all'altezza del petto veniva dal palmo di Zoey, premuto sul suo maglione, avvenuto in un momento a lui sconosciuto. Schiuse le labbra, guardandolo intimorito e sconvolto, mentre la propria mano ricadeva inerme lungo il fianco. Non sapeva cosa dire, non sapeva cosa fare. Lei aveva potuto capire e cogliere ciò che lui sapeva? No, non poteva sapere di Emily, né Zoey poteva anche solo immaginare che quegli artigli, quelle grinfie rapaci, potevano appartenere al Falco, a
lui.
Il corso del suo respiro si fece più concitato e nel silenzio che seguì l'accaduto, gli attimi furono dilatati dallo sconvolgimento che quel Dono aveva provocato. Mai si sarebbe aspettato di assistere alla Visione, se non passivamente ed esternamente: Zoey era capace anche di questo? La domanda prese vita sulle sue labbra, ma fu lei ad infrangere la tesa quiete che li circondava.
« Sì... » Le rispose alla sua affermazione con tono accorato, specchiandosi nella profonda oscurità dei suoi occhi castani. Provò a sorriderle, ma non ci riuscì, profondamente inquietato da ciò che aveva visto. Lasciò che lei si liberasse dal contatto col suo corpo, ma rimase ancora una volta immobile, come se il suo fisico fosse ancora proiettato in un'altra dimensione. Ciò che lo riscosse e lo portò brutalmente alla realtà non fu la curiosa battuta che lei riuscì a farfugliare. Fu l'avvertimento che gli rivolse su Emily.
« C-cosa? » Colto alla sprovvista, Horus si riscosse dal rigore che l'aveva imprigionato e, aggrottando le sopracciglia, la guardò confuso.
« Come fai a... Zoey! » Non riuscì mai a sapere come lei sapesse di lui ed Emily; in seguito ipotizzò che il Dono che lei aveva dentro di sé poteva averle donato la consapevolezza, ma lì, in quel momento, senza risolvere alcun dubbio, Horus riuscì solo a sbilanciarsi in avanti per afferrare il corpo esanime della ragazza prima che questo toccasse bruscamente terra.
Spaventato dall'improvviso svenimento, Horus s'abbassò, poggiando un ginocchio a terra e sostenendo con delicatezza il corpo della ragazza. Un vago senso di rimorso s'impadronì del ragazzo che capì che lo sforzo doveva esser stato per lei inimmaginabile. Sospirò, turbato, spostando lo sguardo dal viso rilassato di lei e piegando il capo verso l'alto.
Il cielo, di un bianco abbacinante, era vergato dai fumi dei comignoli che si mescolavano alle nubi, sfumando nei toni freddi del grigio. Nonostante il corpo della ragazza che teneva fra le braccia —avrebbe atteso che si riprendesse e le avrebbe offerto qualcosa di caldo, prima di accompagnarla a Scuola—, nonostante il cuore che non accennava a voler diminuire la sua corsa, nonostante il terrore che s'era impadronito in ogni suo più intimo anfratto, percepì dentro di sé una stilla di trionfo. Seppe di aver fatto la cosa giusta; ora non c'erano più dubbi sul Volere degli Dei.