| ♦ Horus R. Sekhmeth ♦ Outfit ♦ L’aria fredda dell’inverno e della notte fu come una coltre che entrambi attraversarono, lasciandosi alle spalle il calore e l’asfissiante atmosfera della Sala da Ballo. Il gelo lo sferzò con forza, facendo rabbrividire il ragazzo non appena la porta-finestra si chiuse dietro di sé; la neve che cadeva andava a creare suggestivi giochi di luce, riflettendo l’ambrata luce che proveniva dalle vetrate, talvolta facendo sembrare i propri fiocchi come tinti d’oro. Il suo tocco algido sulla pelle, fece capire ad Horus quanto caldo avesse provato in quel momento e se ne beò, rinfrancato, dalla frescura e dalla morbidezza del sottile strato di neve che andava ammucchiandosi nei giardini del Castello: l’indomani, si disse, sarebbe stato tutto ricoperto dal bianco mantello invernale. La neve gli era sempre piaciuta: benché nel suo sangue scorresse per metà sangue di una progenie abituata a convivere e ad apprezzare la calura ed il Sole picchiante, lui aveva preso da sua madre e dai suoi antenati irlandesi. Preferiva il freddo al caldo, soffrendo molto di più d’estate che d’inverno. Lo sentiva affine, forse, e la vista dei candidi fiocchi gli provocava una puerile gioia che lo spingeva a rallegrarsi quando, nelle mattine, si svegliava scoprendo alla finestra un paesaggio imbiancato. Il Castello innevato, d’altronde, era una delle cose che più amava e che gli comunicava, talvolta, un senso di familiarità ed appartenenza tanto forte quanto comunicava la sua stessa casa in ogni stagione. Nella mano sinistra teneva il bicchierino che Emily gli aveva porto pochi istanti prima; lo aveva stupito quando, trovandola ad attenderlo con un delicato sorriso dipinto sulle labbra rosse, gli aveva allungato uno shot, una bevanda che la sua gola arsa sicuramente aveva desiderato. Aveva ridacchiato, ironico, alla sua battuta, dicendole che in fondo, tanto valeva provare ad avvelenarsi un po’ se questo l’avrebbe salvati dalla bolgia in cui si trovavano, mentre mentalmente era tentato di annusare la bevanda alcolica per cercare di capire cosa cavolo ci fosse dentro. Aveva un vago profumo di pesca, ma il forte odore dell’alcol che gli pizzicò le narici gli fece comprendere che di sicuro la gradazione alcolica era più alta di un banale vino e, allo stesso tempo, minore di un Whisky Incendiario: beh, aveva pensato, era già qualcosa. Prima ancora, però, che avesse potuto sincerarsi che fosse più o meno commestibile, si erano ritrovati da soli, fuori dal trambusto. La musica, alle loro spalle, giungeva attutita ed Horus si sentì come immerso in un altro Mondo, con il silenzio della neve che cadeva nel cortile silenzioso, la lieve voce roca del vento che scuoteva i rami spogli e scheletrici degli alberi e faceva vorticare i cristalli in piccoli turbini. D’un tratto, abituatisi al cambio di temperatura, la Serpina alzò il braccio, alzando il bicchierino di vetro: a sua volta, Horus fece lo stesso, alzando anche un fulvo sopracciglio con fare ironico, ma compiaciuto dalle sue parole. Gli piaceva quel gioco di rivalità che da sempre li vedeva protagonisti: e a lui, piaceva vincere, c’era poco da fare.« Questo è tutto da vedere. » Le rispose divertito, con un piccolo ghigno che si apriva sul suo volto. Aveva visto Serpeverde vincere una sola volta, di recente: una parte di lui se ne dispiaceva, convinto che la Casata di Emily e quella da lui sempre ambita meritasse molto di più. Gl anni passati erano stati un susseguirsi di vittorie giallo-nere e rosso-oro, ma Horus si disse che preferiva di gran lunga cedere la Coppa a Serpeverde, piuttosto che a Corvonero o Grifondoro. Buttò giù il bicchierino tutto d’un fiato: aveva imparato, a sue spese, che centellinare un liquore forte in un contenitore così piccolo poteva seriamente fargli più male che bene. Fu un’esplosione, improvvisa, di calore e bruciore che gli penetrò prima al palato e poi scivolò nella gola, riscaldandolo intensamente e facendogli appannare, leggermente, gli occhi. Lo stomaco diramò un calore che per un attimo gli fece dimenticare il freddo in cui era immerso. Zuccherato, ma non stucchevole, il sapore della pesca si mescolava al mosto fermentato dei cereali, in un equilibrio che Horus trovò delizioso, al punto da fargliene desiderare un altro. Lasciò andare il bicchierino a mezz’aria che, con uno sbuffo di fumo, andò Evanescendosi. Il rossore gli era salito agli zigomi, tingendoli e quando udì —e vide— la reazione di Emily a quell’assaggio, scoppiò a ridere, trovandosi poi a tossire per il bruciore residuo alla gola. La trovò carina, con quell’espressione terribilmente schifata per una bevanda che, decisamente, non era di suo gusto. « Respira… col naso! » Riuscì a dire, fra un eccesso di risa e di tosse, prontamente occultati da una mano sulle labbra, gli occhi bagnati da un sottile velo di lacrime. Il gelo gli era penetrato nelle narici e nei polmoni e in breve, Horus riprese il controllo, portandosi la mano fresca al viso accaldato e non riuscendo ad eliminare del tutto il residuo di quel riso che permase sul suo volto che rimase nascosto, fra le sue dita, per un momento. Lasciò che lei si voltasse, osservandola allontanarsi lievemente, il capo lievemente piegato dalla curiosità per quell’improvviso risvolto. Emily sembrava assorta nell’osservare la cadenza della neve che, come in una danza, aumentava d’intensità e volteggiava nell’aria intorno a loro, similmente a come loro due avevano fatto, soltanto pochi minuti prima. Cosa si agitava in quella bella testa? Horus si ritrovò a porsi la domanda solo una volta, quasi inconsciamente, osservando i riccioli di lei ricadere morbidi sulla schiena, risaltando sul broccato; alcuni fiocchi di neve le erano rimasti impigliati fra le ciocche, giocando con i riflessi ramati come piccole perle fra i capelli di una sirena. Ah, si disse il ragazzo, mentre il sorriso abbandonava il suo volto: ancora una volta, quell’immagine gli tornava alla mente. Emily, la sua figura aggraziata, la sua bellezza di bambola ed i suoi gesti, a volte impacciati, a volti eleganti e precisi, gli suscitavano mille immagini diverse, come una Musa che gli sussurrava stralci di poemi. Ma a volte, Horus si stupiva di come gli venisse naturale, alla fine, tornare sempre all’origine di quell’incontro. Ora, però, non temeva più la sua dipartita negli abissi. La sua voce, serena, gli giunse come un’eco trasportata dal vento, ed Horus non rispose, intuendo che quel pensiero fosse dedicato più a se stessa, che a lui, limitandosi nell’apprendere quanto, ancora una volta, fossero sulla stessa lunghezza d’onda. Rimase immobile, incantato da quella figurina che si stagliava fra la nivea coltre, come la principessa di una fiaba russa che osservava con malinconia il suo paese Natale. Lo strascico blu del suo abito andava inumidendosi ed i bordi della stoffa erano più scuri del resto del vestito, ma Emily sembrava non badarci. Piuttosto, quando la sua voce cristallina ruppe ancora una volta il silenzio che, discreto, s’era adagiato intorno a loro come la neve, Horus sentì un angolo della bocca incurvarsi, nel ricordo di quanto lei aveva evocato.« Già. » Rispose soltanto, con un velo di malinconia che permeò chiaramente quell’unica affermazione. Socchiuse gli occhi, ricordandola quel giorno del Ballo d’Inverno di anni prima, quando per la prima volta erano stati affiancati l’uno all’altro, quando le cose erano così diverse, complesse. Allora, entrambi erano troppo lontani ed intrappolati nelle proprie vite, per rendersi conto del filo che li univa a loro insaputa, procedendo su due binari paralleli, apparentemente destinati ad incontrarsi per effimeri istanti, per poi allontanarsi di nuovo, senza mai sfiorarsi. L’attrazione che aveva provato in quell’istante in cui lei era giunta al suo fianco, la bellezza dell’abito che indossava, ma la glacialità che ella emanava, la rendevano nient’altro che un bocciolo racchiuso nelle spine per un Horus che, del resto, al tempo cominciava a comprendere la complessità dell’Amore e la difficoltà del proprio animo torbido. Aggrottando la fronte, guardando Emily di fronte a sé in quel momento, Horus si chiese se al tempo aveva avuto ragione di credere che, davvero, il Gelo si sposasse bene con la sua immagine, lontana ed inavvicinabile. La rivide nei suoi ricordi, più piccola ed infantile nei lineamenti e nel corpo, eppure non meno bella. Al tempo sì, si disse, il Gelo era il compagno ideale per Emily Rose che, del resto, nient’altro conosceva che l’Oscurità stessa e sembrava ammantarsene ella stessa con orgoglio. Ma ora non più, pensò il ragazzo, vedendola voltata ancora verso di lui, una punta di tristezza nella voce e negli occhi che la rendevano più vera di quanto non fosse mai stata, se non quel giorno sulla scogliera. No, asserì, guardandola allungare una mano verso di lui, le piccole dita affusolate protese verso la sua intera figura; no, ripeté, quando la fanciullesca, quanto intensa richiesta venne espressa dalla sua voce flebile che lo aveva, silenziosamente, chiamato. Il Gelo aveva abbandonato Emily, liberandola dalla sua algida stretta. Seguendo la sua richiesta, avanzò verso di lei, il lungo mantello rosso che frusciava leggiadro sulla coltre nevosa. Quell’ammissione che lei aveva infuso in quel gesto, lo avevano spinto a comprendere quanto lei fosse diversa dall’Emily che aveva conosciuto. Quanto, a poco a poco, lei gli stava rivelando con piccoli, semplici gesti: anche solo vederla lì, le spalle voltate ed il viso rivolto al cielo puntellato da stelle e cristalli, era di per sé un mettere a nudo una delle parti più intime di lei, rivelando a lui e solo a lui, la malinconia che spesso attanagliava il suo cuore, una debolezza, che, in fondo, era una Singolarità, come la luce in un Buco Nero, la perla nella conchiglia. La raggiunse, intrecciando le proprie dita alle sue, rimanendo così, sospeso, per un lungo istante; guardò le proprie mani strette l’una all’altra, le dita che si stringevano; vide la grandezza della propria mano contro la tenerezza di quella piccina di lei. Così, lasciò che le dita scivolassero, andando a cercare, piuttosto, un confronto, appoggiando, il palmo alla sua mano contro quello di lei, confrontandoli; una stretta al petto ed un sorriso puerile, sincero, gli animò le labbra ed Horus la strinse in un abbraccio. Fredda, la sua pelle nuda baciata dal ghiaccio emanava, tuttavia, un calore che Horus percepiva dentro di sé e la strinse forte, preziosa come nessun altro era per lui al mondo. Le accarezzò i capelli con la mano libera, giocando con quelle ciocche come tanto tempo prima aveva fatto con arroganza il cui gesto, ora, invece, voleva comunicare molto più di quanto le parole fossero in grado di dire. Per un lungo istante, baciati dal vento di Dicembre, Horus la tenne stretta a sé, comprendendo solo in quel momento che era ora di darle il suo regalo. Prima, tuttavia, le prese il viso tra le mani, baciandole la fronte con tenerezza improvvisa. Non seppe cosa aveva albergato dentro di lei in quegli istanti, rendendola improvvisamente fragile: se quel cambiamento di cui aveva accennato, la spaventasse nel timore che quello che avevano raggiunto e che stavano creando potesse sciogliersi come neve al sole. Nonostante ciò, Horus seppe che non l’avrebbe lasciata andare, non più.« Sbagliavo. » Le sussurrò, improvvisamente, discostando le labbra dalla sua pelle, osservandola in quei grandi occhi argentati. Le efelidi, arrossate dal freddo, spiccavano sulla pelle pallida con viva intensità.« Tu non sei il Gelo. Non più. Il Gelo è splendido, sacro, sì, ma è sterile e non cresce nulla su una lastra di ghiaccio. No, tu sei il Fuoco. Fui cieco a non vedere le fiamme che si agitano dentro il tuo petto, belle, letali, certo, ma calde e familiari, in grado di illuminare e crescere di forza ed intensità. » Sorrise, lievemente imbarazzato per quell’ammissione. « Tu sei Viva. » Le confidò, con un sospiro, carezzandole la guancia fresca ed umida, lieto di vedere in lei molto più di quanto avesse mai sperato, grato di quel momento di pace che li aveva avvolti come una morbida coperta. La liberò dall’abbraccio, muovendo un piccolo passo all’indietro. « È giunto il momento del mio dono. Ma prima… chiudi gli occhi e porgimi le mani… mh, così. » Chiese, celando la tensione. Ambo le mani si allungarono verse quelle di lei, guidandole affinché i palmi fossero rivolti verso di lui, vicini tra di loro. Si sentì un po’ sciocco, ma con un sorriso colpevole, si assicurò che lei chiudesse gli occhi, le lunghe ciglia vermiglie ben strette.« Non sbirciare e aspetta che ti dia il via io. » Riferì, prendendo dalla tasca il minuscolo pacchettino ridotto. Lo adagiò fra le mani di lei, a metà fra i due palmi e poi, estraendo la bacchetta da una tasca nascosta del mantello, eseguì mentalmente l’incanto per ripristinare il suo regalo alle dimensioni normali. Emily poté udire il peso crescente sulle sue mani, senza, tuttavia, appesantirla. Quando Horus mise via la bacchetta, titubante, e con un lieve cipiglio preoccupato —resistendo alla tentazione di guardarsi intorno— esclamò:« Apri gli occhi. »Era una piccola scatola oblunga e rettangolare, di un cupo verde acquamarina: nessun fregio, nessuna scritta, semplice tinta unita che non lasciava comprendere, in un primo momento, cosa celasse al suo interno. Quando Emily l’avrebbe aperta, avrebbe trovato un piccolo e sottilissimo stiletto, chiuso nel suo fodero nero. L’elsa, di un argento lievemente cangiante sui toni del petrolio, riluceva preziosa bagnata dalla luce lunare. Minuscole, sottili decorazioni incise rappresentanti foglie di salice non appesantivano né fodero, né l’arma, impreziosendola, invece, senza alcun bisogno che pietre o oro ne sporcassero né volgarizzassero la bellezza. Il pugnale, una volta sfoderato, avrebbe rivelato una lama in acciaio a sezione triangolare e a doppio filo, temibile e, al tempo stesso, terribilmente bella. Una piccola incisione, in alto, poco sotto la guardia, recava la scritta: “Mors tua, via mea”. Lo stiletto era sottile e discreto, perfetto per una mano piccola come quella di Emily, ma il bilanciamento della lama era letale e lo rendeva l’arma ideale per una creatura silenziosa. Horus, osservò attentamente la reazione di Emily, mordendosi lievemente il labbro, in attesa di prendere parola. Pur sentendo il peso di quel regalo e rendendosi conto dell’immagine cupa che lei avrebbe potuto avere di lui, la bellezza di quell’arma lo incantava e niente lo faceva desistere dal pensare che fosse perfetto per lei. « È lo Stiletto di una Banshee. » Disse solamente, sorridendo al ricordo del regalo che, invece, lei gli aveva fatto poco prima. Dei, pensò, com’era assurdo il Chaos.« Ho pensato… ho pensato che un’arma, al di là della Magia, è necessaria in certi frangenti. Dovresti averlo capito anche tu. » Aggiunse, alzando col braccio sinistro il mantello e mostrando il fodero del Pugnale Normanno che portava sempre con sé e la cui lama, tanto tempo addietro, aveva rischiato di bere il sangue di lei.« L’incisione recita: “La tua morte, è la mia vita”. Ho le stesse parole incise sul mio. » Rimase in silenzio un istante, abbandonando il volto di lei e puntando lo sguardo sullo stiletto, osservandone i baluginii. Poi, lentamente, alzò il viso, tornando a scrutare le pallide iridi di lei.« Questo… per ricordare che entrambi non siamo né vittime, né guardiani, e nemmeno assassini. Siamo guerrieri. E non dobbiamo temerci, poiché simili. » Le sue parole, sicure, lo sguardo fiero nei suoi occhi comunicavano non la paura e il timore per la propria natura, ma la consapevolezza. Uccidere era sbagliato, ma uccidere chi per primo aveva intenzione di farti fuori… beh, era istinto di sopravvivenza. Se volevano sopravvivere in quell’orrida palude di nefandezze che il Signore Oscuro aveva ordito per loro, dovevano farsi strada e combattere, a costo di sporcare le proprie mani del sangue lordo di chi voleva strappare loro la vita.
E, l’amava; non riuscì a dirlo, non in quel momento, non a voce, ma nonostante tutto amava la sua natura, il suo lato di luce così come il suo lato d’ombra, come la Luna, per quanto lei ne fosse spaventata. Lui l’amava.« What love's lies blessed What love's light cursed Just fear for the best And hope for our worst
I know it and I feel it Just as well as you do, Honey It's not our fault if Death's in love with us It's not our fault if the Reaper holds our hearts. » All'interno del pacchetto: ♦ Stiletto della Banshee: Pugnale di antica e pregiata fattura. Ce ne sono pochi in circolazione.
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