| Da bambino ero un librodipendente, uno di quei drogati di narrativa che nessun genitore vorrebbe come figlio; uno di quei marmocchietti emaciati che aveva sempre addosso l'odore del sussudiario nuovo, per intenderci. Negli anni ho comprato centinaia di libri, forse migliaia; di alcuni non ricordo né il titolo né la storia e neppure il nome del protagonista, alcuni li ho solo iniziati senza mai portarli a termine, altri, riprendendoli in mano oggi a distanza di anni, mi chiedo anche solo come avesse potuto sfiorarmi il pensiero di leggerli.
Eppure non mi sono mai realmente pentito di aver acquistato un libro; neanche quelli che pensi decine e decine di volte di voler abbandonare sul comodino alla polvere, dopo esserti fermato all’ipocrisia dell’incipit. Forse perché ho sempre preferito i libri alle persone. La verità è che mi piaceva di più girare tra le brossure e le copertine fresche di stampa piuttosto che trascorrere del tempo con i miei coetanei.
Poi mi sono iscritto all’università ed è stata – brutto a dirsi – la morte della lettura. Quando studi lettere non esistono avventure, né pensieri, né emozioni, né significati, né gioia. C’è la stilistica, marziale e dispotica, c’è la metrica, precisa come il calcolo, c’è la critica con le sue interpretazioni esondanti e fiorite, c’è persino l’ecdotica. Mi hanno trasformato in un chirurgo della parola, in un macellaio di libri. Per un periodo sono esistite solo le verità del latino e del greco, con la gloria cifrata delle loro grammatiche, oggigiorno inaccessibili ai più.
Dopo diversi mesi che non entravo in una libreria, questo pomeriggio ho deciso di dare una curiosata. E per un attimo c’erano solo i libri con le loro spalle invitanti, le loro pagine sottili, il loro profumo di carta inchiostrata. Tutto ha ripreso il suo esistere quando, bancomat alla mano, mi sono avvicinato al bancone per pagare. C’erano dei bambini con i cappellini in un banchetto vicino alla cassa, e dei genitori con gli occhi tristi. “Vuole donare un libro? – mi chiede la libraia – E’ per il reparto di oncologia pediatrica…” Di norma non amo l’ostentazione del dolore, non mi piace quando ti viene buttato in faccia e ti arriva addosso con l’asciuttezza di uno schiaffo, odio che la sofferenza venga commercializzata. Eppure ogni bambino dovrebbe avere diritto a una testa piena di fiabe, ad un mondo tutto suo, fatto di nuvole e fantasia, penso. Dalla pila delle offerte scelgo un libro 6-12 – 'Miti greci raccontati ai piccoli', o una cosa del genere – sulla brossura cartonata, laccata di bianco, sta l’immagine di un piccolo cavallino di Troia. Sorrido, pensando che altrimenti potrei regalare il saggio che sto acquistando: una rilettura intertestuale su Didone un filino complessa. “Ci puoi prendere questo?” – mi parla un pupo con gli occhi verdi come colibrì, porgendomi il primo romanzo di Harry Potter. La copertina, che mi mostra con emozione, brilla come una spilla.
Lo prendo, pago per me e per lui, e glielo riporgo. “Racconta di un castello di magia”, mi spiega con gentilezza, trattandomi come se fossi un po’ idiota. “Lo so”, gli faccio. “L’hai letto anche tu?” “Io? Io in quel Castello ci insegno”.
La sua boccuccia attonita mi ha sorriso esterrefatta. Non saprà mai che ho detto la verità.
Edited by Dorian - 31/8/2018, 22:27
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