O Ermione. Odi?

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view post Posted on 16/4/2018, 19:57     +4   +1   -1
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La guardò con la condiscendenza con cui si parla ai bambini, o agli inetti. E si lasciò andare al sospiro più lungo della sua vita. C'era un non so che di stremato sul suo volto, mentre lo accarezzava con la mano come a lavare via la stanchezza a favore della lucidità.

"Le persone ti vogliono bene. Non importa quanto tu possa ostinarti a diventare inaccessibile: in qualche modo, gli piaci comunque. Prendi i miei amici, per esempio. Se sanno che vieni a trovarmi, non è che vogliono uscire con te. Lo pretendono. E, se sono loro a venire da noi, si assicurano sempre che ci sia anche tu perché vogliono passare del tempo con te. O prendi gli amici di tua sorella, che si chiedono come mai tu non esca con loro più spesso."
Ridacchiò, più imbarazzata che lusingata. "È che non mi conoscono. Altrimenti, farebbero in fretta a tenersi alla larga!"
"No, è che si vede. Oltre quella nebbia, oltre il tuo essere scostante e umorale, guardinga e pure un po' stronza, si vede come sei. Ma tu lo sai come siamo diventati amici?"
"Col tempo?"
"No. A un certo punto, mentre tu eri impegnata a remarmi contro, io ho deciso che sarei stato tuo amico anche se tu non fossi stata amica mia. Cioè, non me ne fregava proprio un cazzo. Potevi mettere il muso quanto ti pareva, ho deciso che ti avrei ignorata. Ho fatto come la marea: mi ritiravo per farti credere di aver vinto e tornavo all'attacco quando mi rendevo conto che fossi distratta."
Alzò lo sguardo, incuriosita. "Quindi, fammi capire: tu hai fatto il topo e io la noce. E, alla fine, mi hai perciata?"
Rise. "Esattamente. Quindi, tieniti stretta la tua rigidità, se ti fa sentire al sicuro. Non puoi fermare tutti. Ne sono una prova vivente."
"Ma non è quello che voglio, infatti!" Abbassò lo sguardo, come se temesse di pronunciare a voce alta un segreto di cui era gelosa. Come se la spaventasse la prospettiva di essere scoperta con tutte le conseguenze che ne sarebbero potute derivare. "Voglio solo... farmi il meno male possibile."
"E le persone feriscono e sono brutte e cattive!"
Lo scherno nella voce di lui la fece ridere. "A volte! O, magari, tu ti affezioni e gli succede qualcosa di brutto. E finisce che rimpiangi di esserti legata perché hai solo dato un'arma in più al mondo per metterti in ginocchio. Succede spesso, sai? Un giorno sei felice e spensierato, hai una bella famiglia, degli amici e mille possibilità. Poi, ti svegli e tutto quello che conoscevi ha smesso di esistere nel modo in cui eri abituato a vederlo. Allora, devi fare una certa violenza a te stesso per adattarti a questa nuova versione della realtà. Ed è difficile, tanto difficile."
Comprese a cosa alludesse. Benché avesse parlato in termini generali, la conosceva abbastanza da scorgere l'impronta personale sottesa a quelle considerazioni. "Ma non è impossibile! Sbaglio?"
Fu il suo turno di sospirare. "Non sbagli. Il punto è..." S'interruppe a labbra schiuse e, solo dopo una lunga pausa, tornò a guardarlo. "Il gioco vale la candela? È questo che sto cercando di capire!"
 
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view post Posted on 24/4/2018, 12:16     +3   +1   -1
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"Dovresti ascoltare una canzone, perché penso che ti si addica."
"Quale?"
"Ho un po' paura a inviartela, però. È forte..."
"Mandamela."




"L'hai più ascoltata quella canzone?"
"È stata la colonna sonora di una settimana. L'ho consumata."
"Perché non mi hai detto nulla?"
"Sono fatta così, lo sai."
"E cosa ne pensi?"
"Con 'It's not like I make the choice to let my mind stay so fucking messy' ho svortato. Mi sono sentita capita. Ho preso atto della cosa, mi ci sono fatta una risata e ho continuato a ripetermelo. Non è colpa mia! Ma perché non volevi che la sentissi?"
"Volevo che la sentissi, ma avevo paura che ti buttasse giù. Immagino di non aver capito ancora un cazzo di come funzioni."
"Non sei così male, se hai pensato di suggerirmela. Significa che, al di là di tutto, hai inquadrato la situazione e io lo apprezzo. Mi piacciono tanto le piccole cose, lo sai."
"Intravedo gratitudine nelle tue parole?"
"Non tirare troppo la corda, ora..."

Grazie.
 
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view post Posted on 2/5/2018, 12:10     +2   +1   -1
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L'atmosfera in cucina è briosa, quieta. Fotografa il benessere semplice dello stare insieme senza forzature. Federico è appollaiato su uno sgabello, troppo curioso per lasciarsi sfuggire una sola parola del discorso, e i suoi occhi saettano da una parte all'altra della stanza. Francesco sta poggiato al piano cottura, sorridente; ha quel modo di fare scanzonato che rende tutto più divertente, leggero. Guarda Elettra nel tentativo di dare un senso a tutti i sentimenti che sta provando: è felice di essere lì, desideroso di condividere gli ultimi aggiornamenti, preoccupato e sorpreso per tutta una serie di dettagli che non ha potuto fare a meno di cogliere. C'erano cose che non si sarebbe aspettato di scoprire quando ha oltrepassato l'uscio, poche ore prima.

"Sai che stavo pensando? Ti ricordi quella volta che Milly ha detto che-"
"Io non riesco a parlarne, Fra." La voce di Elettra è grave e nasconde una punta di imbarazzo mentre, a sguardo chino, strofina la spugna sulle incrostazioni del piatto. Deglutisce, poi sfiata: "Mi dispiace!"
"No, lo capisco. Io riesco a parlarne solo se non penso a quello che è successo. Parlo di lei come se tutto fosse ancora come prima, altrimenti..."
Elettra alza lo sguardo e lo punta sulle mattonelle che sovrastano il lavabo. Sospira piano, profondamente. Le sue ciglia tremano. Ad occhi chiusi, tenta di trovare le parole giuste per ribattere. Per spiegare.
"Io non posso, non posso proprio," gli rivela. Deglutisce ancora e serra le palpebre per rispedire al mittente le emozioni che minacciano di prendere forma. Serra le labbra con vigore e si concede un paio di istanti di silenzio. "Mi fa così male che, se oso pensarci un solo secondo, mi trascino per settimane. E non mi riferisco a quello che è successo in particolare: non riesco proprio a parlare di lei, in nessun modo. Mi fa impazzire." Si volta a guardarlo. Ha gli occhi velati di un sentimento che non potrebbe non confermare la veridicità delle sue parole; e la bocca ha assunto quell'innaturale piega all'ingiù che la tristezza porta con sé. "E mi dispiace questa cosa, ti giuro. Mi dispiace farla diventare un tabù, perché non è giusto per nessuno. Ma non ci riesco, non posso."
"Lo capisco, E." Capisce davvero. Non del tutto, ma abbastanza. "Io so che tu hai visto e fatto cose che non avresti dovuto fare o vedere perché nessuno era lucido abbastanza in quei momenti." Elettra ha distolto lo sguardo e serrato le labbra un po' più forte. Scrolla le spalle come a volersi togliere di dosso la sensazione fastidiosa venuta con quelle parole, ma l'umidità che vela i suoi occhi si sta pian piano trasformando in bagnato. "Quindi, lo capisco, ti giuro."
"Qualcuno doveva pur farlo, no?" Ride appena per smorzare la tensione. "E, inoltre, non è quello a darmi noia. Non so nemmeno io cosa sia, in realtà. So solo di non poterlo affrontare al momento. Di questo sono sicurissima. E' troppo e io non sono pronta."
Francesco fa per parlare un paio di volte, ma non è certo di quello che vuole dire e del modo più appropriato per dirlo. Lancia uno sguardo a Federico, che se ne sta zitto zitto sul suo trespolo senza intervenire. Non ancora.
"Io penso che sia stato molto coraggioso da parte tua. Fare quello che hai fatto e farlo nel modo in cui l'hai fatto, caricandoti addosso una responsabilità che non ti apparteneva. E lo hai fatto per proteggere qualcuno cui volevi bene. Ci pensi mai?"
Elettra scuote il capo, esasperata. Attraverso i guanti gialli, il piatto le scivola di mano e, sbattendo contro le pareti del lavabo, riempie il silenzio di tonfi sordi.
"Non mi aspetto mica una medaglia al valore, Fra. In certe situazioni, non hai molte alternative: o ti fai avanti, o rimani a guardare. E io ho fatto quello che ritenevo più opportuno senza star troppo a pensare al dopo o ai meriti. Qualcuno doveva agire e io ero quella più lucida, paradossalmente."
Francesco sospira. "Quello che volevo dire è che non dovresti scusarti. Non dovresti dispiacerti per gli altri, se non riesci a parlarne, se non sei pronta. Va bene anche così. Intesi?"
"Ha ragione, sai?!"
L'intervento di Federico stempera il clima di tensione. Elettra ride. Sa che non è una frase come un'altra, ma l'ennesima di una serie di citazioni che lei e Federico si ripetono costantemente.
"Asciugate i piatti, va."


Edited by ~ Nieve Rigos - 15/5/2018, 18:24
 
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Memorandum: tenersi strette le persone che trascorrono il Sabato sera a ballare con te musica giapponese, agitando foulard multicolor per aria, nel tentativo di farti distrarre da chi - per converso! - s'impegna a rovinarti le giornate.
 
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Qualche giorno fa, rileggevo gli ultimi post del blog e mi ha divertita e compiaciuta notare le tappe del percorso che ho fatto nel tempo. In ogni scritto, ho trovato un pezzetto della mia storia e sono riuscita a ricollegarlo ad un preciso momento che ho vissuto: oltre i modi che ho per nascondermi - la vaghezza, il dico-non dico, la tendenza a romanzare e cambiare, l'ermetismo - e proteggermi, ho visto esattamente quello di cui avevo bisogno. Quindi, forte della sensazione positiva che mi ha lasciato quest'esperienza, mi sono detta: "Se dovessi rileggere questo blog tra un mese, tra un anno o tra dieci, vorrei trovarci un preciso scorcio di storia". Ed eccolo qui! Lo butto giù finché i dettagli sono ancora freschi e non rischio di dimenticarli.

Weekend 10-13 Maggio 2018 — Come ho detto nel post degli Awards, non ringrazierò mai abbastanza il forum per quello che mi ha dato. Mi sono iscritta in un periodo della mia vita in cui avevo bisogno di un rifugio - Cielo, se ne avevo bisogno! - e, per un po', l'ho considerato una maledizione. Io, che ho la tendenza a svicolare e a nascondermi, trovavo su questa piattaforma il buchetto ideale (complice anche l'esercizio della scrittura!) per fingere che tutto andasse bene. A distanza di un anno e mezzo, rivaluto il percorso e mi riscopro a fare un bilancio tutto positivo. Su (o, comunque, per mezzo di) questo forum, ho incontrato persone di una bellezza così intensa da lasciarmi senza fiato. E parlo proprio di bellezza in purezza, come esseri umani.

Non vi ringrazierò mai abbastanza per questi tre giorni. Per le chiacchiere spensierate e il frizzantino amabile alle quattro del pomeriggio, passato tra un'imitazione e l'altra. Per la spesa più inopportuna di sempre a ridere e sussurrare cose sconvenienti, convinte che non ci sentisse nessuno quando ci sentivano tutti pure a corsie di distanza ("Vi ho trovate seguendo le vostre risate!"). Per il tragitto da ubriache fino alla colonia felina dove faccio volontariato e per le confidenze stese sul cemento coi gatti attorno. Per le attese in stazione e i racconti del vagone geriatrico ("Pistaaaaaa!"), il buffet sempre troppo scarso e le salsicce rumene. Per le colazioni tutti insieme con talmente tanta scelta da non saper decidere. Per i pomeriggi trascorsi spensieratamente tra piazze e vicoli a fare i paparazzi ("Vorrei una foto spontanea, presa per intero!"), pure per quelle maledette 500 pose sul cavalcavia perché "Oddio, la luce è troppo bella" vi ho odiate. Per la catena di montaggio più efficiente di sempre per la preparazione delle arancinE e gli aneddoti sulle figure demmè ("La raSSionalità rimane"). Per i balli a casa fino alle tre di notte, i travestimenti, le altre imitazioni e la buonanotte sussurrata nel dormiveglia. Per la gita a Firenze e gli incontri improbabili sul treno:

Misky: "Dove siete?"
"Carrozza accanto all'ascensore."
D: "Niè, c'è una con gli occhiali rettangolari."
Misky: "Siete voi?"
"Oh ma sei tu!!! Misky me la prendo io, cià."
(Breve parentesi: devi essermi piaciuta proprio tanto, se ho deciso non solo di chiederti - Madonnnna, le pare! - di raggiungerci, ma addirittura di incontrarti. Volevo lo sapessi.)

Per le altre e ancora spontanee chiacchiere lungo il tragitto, in giro per Firenze, tra un angolo e l'altro a stimolarci la fame a vicenda. Per la fila all'Antico Vinaio e le ipotesi più assurde dettate dalla fame ("Ma tu il panino lo addenti subito? Perché pensavo: e se ti cade a terra appena esci? E se ci caga un piccione sopra?" che, secondo me, le due signore davanti a noi ridono ancora). Per lo studio antropologico di quella coppietta che mica l'abbiamo capito se s'è lasciata oppure no e le facce intente, spaventate a tratti (causa piccioni, povera Giuliettis!). Per la capatina da Tiger e gli occhiali da crisi epilettica e per lo stravaccamento nel sottopassaggio a guardare le foto di Grimilde (Serenix, c'eri anche tu, ma la prossima volta devi esserci di più!). Per la camminata in stile zombie in stazione e la capatina al McDonald's solo per sedersi.

"Ah, dimenticavo che tu sei una fan del Mc!"
Ru: "Io?!?!?!"
"Sì, tu e Giulia."
Ru: "Ah, allora sì!"
"Ma spiegami, scusa: ammetti la cosa solo se condividi l'onta con Giulia?"

Per il tragitto di ritorno, le ultime chiacchiere (Medello, quanto hai sofferto la solitudine!) e i saluti a malincuore. Per i preparativi a rilentissimo a casa, il Beer River, i balli a mezzo borsa ("Pretty Princess" de li mortacci sua!) e il ritorno a braccetto. Per l'ultima buonanotte, il risveglio un po' in ritardo e l'ennesima colazione col morto ("Ma, secondo voi, Ru si alza dal letto? Ma ci sente? Ma è sveglia almeno?"). Per le corse dell'ultimo minuto sul cavalcavia, i saluti in stazione e un invito a sederci nel vagone da parte di quei tipi strani.

A Ru e Poxi vorrei dire grazie anche per i dettagli. Per la pazienza e le accortezze piccole piccole, come il notare qualcosa dalla mia espressione. Per le conversazioni più impegnate senza aver mai - nemmeno una volta - forzato la mano quando mi ritiravo. Per i gesti spontanei e la comprensione. Avete l'incredibile dono della misura: sapete rispettare quando c'è da rispettare e forzare quando c'è da forzare. Quando sto con voi, ho la conferma che tutte le cautele nel farmi avvicinare servano a qualcosa, perché so con certezza che i miei sforzi si sono concentrati sulle persone giuste. E mi stupisco sempre nel realizzare che ci siamo viste non più di 2-3 volte, perché il modo in cui v'incastrate nella mia vita non genera alcuno stridore, alcun imbarazzo nonostante la mia persistente (oserei dire maledetta, peggio della raSSionalità) reticenza. Ne è una conferma vedere come vi relazionate alle persone della mia vita e notare la compatibilità che vi accomuna tutti: mi rimproverate le stesse cose, ridiamo delle stesse cose, ci prendiamo in giro con quella leggerezza e ci siamo senza filtri. Nemmeno uno. Beh, io qualcuno ce l'ho ancora, ma sono come la noce e a voi tocca la parte del topo.

Grazie di tutto, davvero. E, anche se io non lo dico perché non lo dico, sapete. ♥
 
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view post Posted on 27/5/2018, 15:09     +1   +1   -1
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Mi chiedo come faccia lo scoglio a resistere al mare,
quando si infrange a ondate e non c'è modo di inspirare.
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view post Posted on 11/6/2018, 15:42     +4   +1   -1
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"E' che io non mi sento titolato a provare tutto quello che sto provando."
"Titolato?"
"Titolato, esatto. Sto lì a piangermi addosso per cose che non dovrebbero riguardarmi, non così e non con questa intensità. Soprattutto, non adesso. Mi comporto da protagonista e so che non lo sono, né dovrei esserlo. Quindi, piagnucolo e buhu."
"Buhu?"
"Propriamente. Bu-hu."
"E spiegami com'è che si diventa titolati. Non l'avevo mai sentita, questa."
"Ci sono diversi modi per diventarlo, in realtà. Non uno soltanto."
"Addirittura? Questa, poi!"
"Mh-Mh. Per fare un'approssimazione, direi che il grado di vicinanza familiare ed emotiva alla persona fa molto la differenza. Se sei il fratello, la madre o il padre, hai un titolo pieno perché rientri nella primissima cerchia, quella dei legami più stretti. Se ti allontani dal primo anello, il titolo inevitabilmente si indebolisce. A mio modo di vedere le cose, in un certo senso, influisce anche l'età. Devo dire, però, che quest'ultimo parametro non mi convince del tutto."
"Perciò, fammi capire: tu eri lontano dalla cerchia dei prescelti, quindi il tuo titolo è praticamente carta straccia. Da qui, buhu."
"Hai afferrato pienamente il concetto."
"Non mi convince tanto questa cosa. Io la vedo diversamente."
"Tipo?"
"E se tu, invece di soffrire una volta, avessi sofferto il doppio?"
"Il... Il doppio?!"
"Sì. Una volta come te stesso, direttamente, per l'impatto dell'evento in sé e della solitudine che ne è conseguita. E un'altra di riflesso, per aver percepito e assorbito il dolore dei titolati veri. Da quello che mi dici, ho l'impressione che tu immagini questa cosa dei titoli come una struttura a cerchi concentrici per cui tanto più ci si allontana dal centro, quanto meno valore hanno le emozioni."
"Continua..."
"Se è così, ammesso che sia possibile una cosa del genere, io la vedo nel seguente modo: ciò che si irradia dal centro colpisce, sì, in purezza chi sta più vicino, ma si carica di un'intensità diversa a mano a mano che attraversa i cerchi. Quindi, il primo livello subisce la prima botta, sì, ma il secondo prende sia la botta che gli strascichi di dolore di chi sta nel primo livello. Sempre ipoteticamente. Che te ne pare? Qual è il risultato, se abbracci questo modo di vedere le cose?"
"Niente buhu?"
"Niente buhu."
"Che titolo strano che avrei, però."
"Ammesso che ne serva uno. Perché hai bisogno di una legittimazione a provare quello che provi?"
"Perché deve avere un senso. Se non ne ha uno, sono in balìa di tutto e non c'è modo di portare a casa un risultato decente."
"E la tua amica cosa ne pensa di questa visione del mondo? Quella che non le manda a dire, a cui chiedi i pareri e, poi, ci litighi se dice qualcosa che non ti piace."
"Che sono contraddittorio, perché dico di essere razionale e, poi, mi perdo in pensieri irrazionali e ho la pretesa di spacciarli per razionali, credibili e verificabili. Lei dice che mi invento scienze tutte mie per giustificare la mia paura del confronto. Ieri sera, ad esempio, mi ha detto che sono presuntuoso: è presuntuoso da parte mia pretendere che gli altri interpretino i miei silenzi e si facciano sempre avanti per capirmi. Io sto zitto e mi aspetto non soltanto che gli altri capiscano cos'ho, ma pure che interpretino correttamente quel silenzio e dicano le cose giuste. E io, che non muovo un dito e non fornisco alcuna coordinata per aiutarli a orientarsi, mi arrabbio se sbagliano. E questo, ha precisato, senza fare lo sforzo di spiegarmi il minimo indispensabile. Me ne sto nella mia fortezza, gli do le spalle e pretendo che si avvicinino senza nemmeno abbassare il ponte levatoio. Secondo lei, nella fortezza non sono rimasti manco i servitori e mi tocca fare pure lo sguattero, altro che il padrone del castello."
"Abbiamo appurato che continua a non mandarle a dire. Tu che ne pensi?"
"Che ha ragione. Ho dato per scontati comportamenti, gesti, interazioni e rapporti per questa mia pretesa di essere capito senza capire, senza aiutare. Però, non me ne sono accorto finché non me l'ha detto lei. Lì per lì mi sono pure incazzato, eh. Mi dice le cose con la faccia da presuntuosa e mi indispone. Sa tutto lei."
"Ma..?"
"Ma finisce sempre che non mi riesco a togliere le sue parole dalla testa. Quindi, ho passato la notte a immaginarmi in quella cazzo di fortezza vuota e a cercare i servitori, ma non ce n'erano. Aveva ragione lei."
"Glielo dirai?"
"Se le passa l'incazzatura. Mi ha detto - e cito testualmente - che, per quanto la riguarda, posso morire pazzo nella mia fortezza, io e il mio caratteraccio. Che, poi, non ha senso. Lei dovrebbe esserci nella fortezza, so che c'è."
"Ah sì? E dove pensi che sia?"
"Ci sono due posti in cui sarei sicuro di trovarla: o sul trono, dove mi aspetta per dirmi che sapeva che sarei tornato a chiedere scusa - l'ho detto che è presuntuosa?; o sulle mura, mentre mi guarda e prende nota di tutte le cazzate che faccio per rinfacciarmele e sentirsi dire che aveva ragione."
"Però, c'è..."
"Però, c'è."


Bu-hu a me e famiglia.
 
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Astaroth Morgenstern
view post Posted on 11/6/2018, 17:17     +1   +1   -1




CITAZIONE

"Perché deve avere un senso. Se non ne ha uno, sono in balìa di tutto e non c'è modo di portare a casa un risultato decente."


CITAZIONE
Ho dato per scontati comportamenti, gesti, interazioni e rapporti per questa mia pretesa di essere capito senza capire, senza aiutare.

Ti mando tanto amore ❤️. U precious ❤️❤️❤️
 
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view post Posted on 3/7/2018, 20:54     +1   +1   -1
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La osservai prendere parola, sorpreso. Durante gli ultimi incontri, si era riservata il diritto di tacere e ascoltare: a volte, si dipingeva in viso un’espressione intenta; altre volte, sembrava distante mille miglia da tutti noi, irraggiungibile. Quel giorno, invece, decise che fosse giunto il turno di dire la sua.

Nello spazio protetto della comunità, al sicuro nella segretezza dell’anonimato, i partecipanti vomitano le loro storie in lunghi, viscerali monologhi che li lasciano senza fiato. Non accade di rado che, in simili occasioni, io mi alzi per recuperare un bicchiere d’acqua e porgerlo allo speaker di turno per pura gentilezza. Alla fine di ogni sessione, più o meno lunga che sia, tutti tirano – tiriamo, perché mi sono reso conto nel tempo di fare altrettanto – un sospiro di sollievo, sommessamente e ad occhi chiusi. Liberati, sgravati, ci godiamo la sensazione senza vergogna. Lei no. È diversa. Trattiene sempre il fiato prima di iniziare il soliloquio e parla con lentezza, come se ponderasse il significato del discorso parola per parola, frase per frase. E, alla fine, sembra quasi pentita.
All’inizio, l’ho trovata indisponente. In quell’ostentata ritrosia, non vedevo timidezza o garbo. Avevo, piuttosto, l’impressione che volesse essere pregata, che facesse la preziosa con tutti quegli indugi. Cosa temeva? Un giudizio da altri alcolizzati come lei? O che non capissimo la disperazione di chi si attacca alla bottiglia? Presuntuosa! Poi, un giorno che mi trovavo seduto a un bar con un gruppo di amici, mi capitò di cambiare idea. Così, senza un apparente motivo. Mi ero ripromesso di parlare loro del mio problema e del gruppo di sostegno del Sabato sera, che passavo da circa sei mesi a bere caffè forte per mascherare il desiderio di sedere al bancone di uno qualsiasi dei locali lungo la strada. Avevo perfino considerato la possibilità di parlare dei miei recenti progetti – primo fra tutti, cambiare lavoro – quando mi resi conto di aver perso la mia corsa. Presi dalle loro vite, che io avevo più o meno disertato per l’alcol, erano tutti un “io, io, io” e ridevano di situazioni che io non conoscevo e di fronte alle quali non potevo fare a meno di sentirmi estraneo. Mi resi conto che non c’era più spazio per me e, così, mi trovai irrimediabilmente a pensare ad Elsa. Lei, mi dissi all’improvviso, sarebbe stata pronta ad ascoltarmi comunque. Mi stupii della considerazione. Perché lei? E perché in quel momento? La mia mente, quand’era sobria, giocava brutti scherzi, riflettei con espressione incerta. Ma l’episodio mi servì a cambiare atteggiamento.

Quel Sabato sera, dicevo, Elsa prese parola e io rimasi sorpreso nel constatarne la modestia. La ascoltai paragonarsi alle braci di un grande camino in una fredda e buia stanza. Disse di sentirsi sopita, lenta, quasi sospesa: le braci della sua vita erano calde – calde al punto da poter scorgere le venature aranciate tra un tizzone e l’altro – ma non riscaldavano. Stavano nel loro angolino, chete, e si sentivano quasi in pace. Aggiunse che, alle braci, capitasse di sentirsi fuori posto quando la stanza minacciava di riempirsi: gli avventori cominciavano a sfregare le mani sulle braccia e lamentavano le basse temperature dell’ambiente, dunque provavano ad attizzare il fuoco nel camino. Allora, le braci provavano a rispondere, ma lo facevano di malavoglia. Forse, ci chiese, perché si rendevano conto dell'imminente insuccesso? Forse perché non volevano deludere i presenti, sapendo di non poter adempiere a quel compito? La stanza era tutta la sua persona, i visitatori gli stimoli esogeni e le braci l'intimità del suo io. A quel punto, si prese una lunga pausa.
Quando parlava, Elsa si chiudeva in se stessa, proprio fisicamente: accavallava le gambe, incrociava le braccia al petto e stringeva le spalle come se temesse di esporsi troppo. Mi ricordò un gatto e la cosa mi fece sorridere. Ci raccontò anche del timore di fare ritorno a casa per le vacanze di Natale. A quel posto erano legati ricordi così insopportabilmente dolorosi, per lei, che ne avrebbe fatto volentieri a meno, se solo avesse potuto. Infine, ci mostrò la targhetta dei 60 giorni di sobrietà. La donna di mezza età alla sua destra le carezzò con tenerezza la spalla ed Elsa, dopo un primo momento di sorpresa, le sorrise di rimando.

Quel giorno, nell'ascoltarla - ascoltarla per davvero! - ebbi l’impressione che non fosse poi tanto strana come avevo pensato. Aveva una certa reticenza di fondo che non capivo ancora – in fondo, ci chiamano Alcolisti Anonimi per un motivo, no? – e parlava per immagini, ma non mi parve inaccessibile come in passato. Al termine dell’incontro, la vidi che fumava una sigaretta e provai il desiderio di parlarle.

“Quello che hai detto oggi mi ha molto colpito. La storia delle braci, intendo.”
Lei mi sorrise e buttò fuori una boccata di fumo. Era la sua pausa, realizzai, una delle tante. “Ci ho messo un po’ per capirlo,” mi rispose e fece spallucce. “All’inizio, mi ha fatto un po’ paura, poi tanta tristezza.”
“E adesso?” la incalzai, curioso.
“Adesso non lo so.”
Temendo che la conversazione potesse concludersi lì, mi affrettai ad aggiungere: “Pensi di disertare il Natale dai tuoi?”
Elsa rise e quel suono mi piacque. “No, non penso.” Aspirò un’ultima boccata di fumo, prima di gettare il mozzicone a terra e spegnerlo sotto la suola delle scarpe. “Anche se mi terrorizza, preferisco affrontare la cosa che non evitarla per sempre. In un certo senso, finché non sarò faccia a faccia col problema, non potrò mai dire di aver vinto la mia battaglia, no?”
Annuii. “Hai una strategia?”
Il suo sguardo brillò per un attimo. “Evitare lo zabaglione.”

Le sue labbra mi regalarono un sorriso vivace e io provai l’impulso di dirle che l’avevo sentito, anche solo per un istante, il calore delle sue braci.
 
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Meno di tre settimane fa:

"Ho deciso che stalleremo dei gattini per un mese."
Persone della mia vita: "Niè, tu? Ma ci hai pensato bene? Non mi pare la cosa più giusta. Lo sai che ti ci affezioni e, poi, li devi dar via. Finisce che ci rimani male, io lo so e dovresti saperlo pure tu. Al momento di restituirli, non ci riuscirai."
"Ma no, ma no! So tutto tuttissimo. Mi sono preparata a dovere. Parto proprio pronta. Vedi, se so che devo darli, non mi affeziono più di tanto. So che è una cosa temporanea e sono stata così tanto lungimirante - notare preparazione impeccabile e ragionamenti razionalissimi che spaccano, eh! - da scegliere di stallare proprio a inizio Luglio. Così, stanno solo tre settimane circa e, se anche mi affezionassi un po', sarebbe poco. Il giusto. Insomma, niente drammi!"
"Se lo dici tu..."
"Lo dico io e sai bene che, prima di dire una cosa, io mi preparo, razionalizzo, processo e schematizzo. Sono in una botte di ferro."

Oggi, 25 Luglio 2018, esattamente 27 giorni dopo l'inizio dello stallo:

Volontaria (sms): "Nieve, oggi arrivo a prendere Barack intorno alle 14:40. Ti trovo a casa, giusto?"
sms: "Sì, sì, sono prontissima. Passa e ti prendi il gatto."
realtà:



E io vorrei anche spiegarlo come mi sento, ma è difficilissimo metterlo insieme a parole. Lo so che è una cosa bellissima che stiano adottando Barack, che sarà felice, che è una cosa bella. È una cosa molto, molto bella. Ad adottarlo sarà un signore di 68 anni che ha da poco perso il suo gatto, che ne aveva 15 - non vi dico manco come mi sono ridotta a sentire la storia e, peggio, a raccontarla a Medellone, non ve lo dico! - e che gli vorrà bene. Sono felice, davvero.
Solo che, allo stesso tempo, penso che mi mancheranno tantissimo - io e la mia incapacità di lasciare andare, siore e siori. Penso alle ore che ho trascorso seduta sul pavimento nella speranza di aiutarli a sciogliersi, a non aver paura degli esseri umani. Penso al primissimo giorno di stallo, quando, pur di instaurare un contatto, ho infilzato dei cubetti di prosciutto con una stecca e glieli passavo (rigorosamente senza guardarli, ché il contatto visivo li sconfinferava) tipo marshmallow. Penso alle serate trascorse a giocare e accarezzarli di nascosto, mentre erano distratti, e alle risate quando d'un tratto si accorgevano che ero io a muovere la canna da pesca. Penso alle conversazioni coi coinquilini, a tavola, convinti che Obama fosse femmina e alla scoperta della verità (oh, non è femmina, no!) con Obama a pancia all'aria e alla sua mascolinità buffamente ostentata. Penso alle abitudini che impari a creare, se solo hai la pazienza di non forzare i tempi altrui e rispettarne gli spazi senza violenza: il fatto che avessero imparato a riconoscere il richiamo per il cibo e ci aspettassero davanti alla cucina; il fatto che salissero sulla scrivania di prima mattina per guardare fuori la finestra della mia camera; il fatto che abbiano praticamente attentato all'integrità di una casa intera; il fatto che bullizzassero Medellone.
Penso anche al fatto che proprio oggi, dopo 27 giorni esatti, abbiano acquistato la fiducia necessaria a sedersi sul divano accanto a me e da mangiare i bocconcini direttamente dalle mie mani, leccando piano i polpastrelli. Proprio oggi, dopo 27 giorni, oggi che dovevo darne uno via.
E penso a tutte queste cose e non sono solo triste, quello no. Sono un po' malinconica, e dispiaciuta, e dispiaciuta di essere dispiaciuta, e anche triste e felice insieme, sì.

La verità - quella proprio basilare, semplice semplice, che io fatico a pensare, figurarsi a dire - è che mi mancheranno tantissimo. Razionalmente, so di doverli lasciare andare. Egoisticamente, mi spezza il cuore separarmene.

Vi ho voluto così tanto bene, bimbi! ♥
Spero che ve ne vorranno altrettanto, e perfino di più.
0isXnyl


E, comunque, per Medellone solo lame che mi rideva in faccia! :angry2:
 
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view post Posted on 25/7/2018, 14:51     +1   -1
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You are not saving this world, you are preparing it for me.

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PPPIIIICCOLIIIINO NELLA TAAAAZZA :ihih:
 
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view post Posted on 10/8/2018, 16:11     +2   +1   -1
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Il vestito delle grandi occasioni



Indosso il vestito delle grandi occasioni. Che, a dire il vero, è più una maschera che non un vestito. Mi copre per intero e mi fa apparire come voglio apparire o, almeno, lo fa in parte. Per meglio dire, ha smesso da un pezzo di essere il vestito delle occasioni sporadiche. Un po' come quando ci si scorda di togliere le lentine, ho imparato a indossarlo così spesso da scordarmi di levarlo finché, nel tempo, l'ho reso il vestito di sempre senza che mi riuscisse di separarmene. Mi ha protetta. Mi ha accompagnata. Mi ha nascosta. Oserei dire che mi ha dato molto, se non avessi imparato a capire quanto, a parti invertite, mi abbia tolto. E' facile attribuirgli la colpa dei miei sbagli, me ne rendo conto. Punto il dito e spersonalizzo le mie responsabilità, attribuendole ad un velo altro. Solo che, alla fine, non faccio altro che additare una parte di me. E tutto torna a girare nel verso giusto, che poi è il verso sbagliato.

Dicevo che mi sono scordata di levarlo, questo vestito o, se volete, questa maschera. Per anni, anni, anni e anni. Poi, un giorno, succede che arrivi al limite e ti sta stretto. Ma non come un capo in cui non entri più perché hai preso peso. E' più una sensazione di asfissia. Sotto quella stuoia, mi manca l'aria e non respiro. Ci ho sepolto talmente tante cose che, adesso, a furia di bitorzoli, fa brutto pure a vedersi. E io, che l'ho indossato per anni, non lo voglio più, ma non mi riesce di levarmelo. Provate a immaginare di uscire per strada nudi, abbigliati della vostra sola pelle, e di esporvi agli occhi degli altri in tutte le vostre imperfezioni. Qualcuno di voi, come me e come tanti altri, l'avrà perfino sognato e, al risveglio, avrà provato una sensazione di sollievo. Ora, provate a immaginare di non essere nel mondo astratto dell'inconscio, dove la presa sulle briglie si allenta e la mente fa un po' quello che le pare. Siete veri e siete nudi di una nudità emotiva. Vi riscoprite, tutto d'un tratto, piccoli e fragilissimi. Frangibili, come dico spesso per ora. Il primo istinto è quello di nascondervi sotto la stuoia e farla finita con quest'improvviso sfoggio di ardimento. Sotto la maschera, alla fin fine, male male non si sta. Però, quando la mettete, vi manca di nuovo l'aria, quindi la tenete per poco. E così avanti per giorni, settimane, infine mesi.

La verità è che io, questa maschera, me la strapperei volentieri di dosso, ma ho paura delle conseguenze. Ho paura delle paure. Ho paura e basta. Quindi, continuo a metterla e toglierla a momenti alterni, giusto il tempo di prendere un grosso respiro e trattenerlo finché mi riesce. Ma, ripeto, sotto il vestito mi manca l'aria e i bitorzoli non fanno che dirmelo. Allora, esco di casa e passeggio per le strade della mia infanzia sotto il sole cocente di Agosto, con la musica nelle orecchie e la voce dentro la mia testa che ne supera il volume altissimo. Sento i pensieri affannarsi, parlarmi, chiedermi di uscire. Al di là della compostezza marziale che mi piace mostrare, mi arrabbio, mi frustro, mi spavento e tremo. Non mi piace sentirmi così. Sai che novità! Chiunque, al mio posto o al suo, provando quello che sto provando, direbbe altrettanto. Ma io me ne infischio e lo dico lo stesso.

Non mi piace sentirmi così. E sono esausta. Profondamente, indicibilmente, totalmente esausta. E mi manca. Voi non lo sapete, ma mi manca. Nel sottosuolo della mia anima, sta un dolore grandissimo che mi prega di uscire. Ma io lo soffoco. Mi manca tantissimo. Mi manca a tal punto che il mio dolore si è evoluto. E' passato dall'essere una comparsa a intermittenza a diventare tutt'altro. Il mio dolore è costante e riempitivo. Mi prende tutta. Lo sento in ogni più piccola porzione del mio io e ci convivo. Ed è così reale che mi aiuta a sentire i contorni del mio corpo. Sento la linea delle braccia, la curva delle spalle, la morbidezza dei polpastrelli, la forza delle cosce. Mi sento tutta e mi sento dolere. Mi manca in un modo che non avrei creduto possibile. I ricordi tornano a sprazzi in base a quel che consento alla mia povera mente vessata. La costringo a tenere il controllo di tutto, a centellinare, a elaborare, a dominare, a risparmiarci qualcosa se le riesce. Quindi, mi capita spesso di dimenticare le cose. Perdo i ricordi, finché non riaffiorano di prepotenza e mi stanno talmente stretti, appunto, che sento il bisogno di levarmi la maschera. Mi manca ancora. Non i suoi occhi resi vacui dalla malattia, né il respiro profondo della fine, o le frasi senza senso, o i gesti piccoli. Mi manca la sua essenza. Prima che se ne andasse, era lei ad essere riempitiva, non il dolore. Copriva una superficie così vasta delle vite altrui da essere pervasiva. Mi manca come se fosse andata via adesso, ora che ho cominciato a dar voce al disgelo. E mi pento amaramente di aver sequestrato ogni cosa, a suo tempo. Forse, mi dico, non sarei dove sono ora. O, forse, ci sarei comunque.

Sono esausta, dicevo. So che lo pensiamo tutti, probabilmente lo facciamo tutti davvero. Ma io mi sono così profondamente data che non mi è rimasto quasi più nulla. Chi ha avuto da prendere ha preso, chi ha avuto da chiedere ha chiesto, chi ha avuto da andarsene se n'è andato. A me è rimasta la contraddizione di tanti piccoli vuoti e di un unico dolore riempitivo che mi prende tutta. Quindi, non ho più le energie, non riesco più a dare, non riesco più a impormi un ritmo. Il mio, quello che naturalmente il mio corpo e la mia mente sono disposti a seguire al momento attuale, è così lento e soffuso da stranirmi. Se faccio il paragone con gli altri, le cui vite vanno avanti alla velocità della luce, non posso fare a meno di invidiarli di un'invidia buona. Lo vorrei anch'io, sapete? Quel benessere semplice che non è assenza di dolore, ma capacità di lasciarsi andare e non avere paura di avere paura, quindi vivere. Sono talmente esausta che non ho nemmeno voglia di leggere, scrivere, uscire, parlare. Non mi rimane che pensare e sentire.

Perché, a dispetto di tutto e forse ora più che mai, mi sento tantissimo. Mi sento almeno quanto sento il mio dolore. Ed è stranissimo. Ora che non porto una maschera, ho una voce così sottile e timida, ma so urlare il mio scontento quando non mi ascolto. Ho dato tutto e non ho preteso o preso nulla, quindi mi sono sgretolata. Io mi do sempre molte responsabilità, ma qui me le spartisco col Caso, o con la vita, o con Dio per chi ci crede. Sarebbe potuta andare diversamente, se ci fossimo stati a sentire - io e il Caso, o io e la vita, o io e Dio. Invece, sono qui. Non ho rimpianti, non ho accuse, non ho nemmeno forze. Ho solo un vestito delle grandi occasioni che mi sta un po' stretto.

E mi sono rotta il cazzo pure di romanzare.
 
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view post Posted on 4/9/2018, 08:48     +3   +1   -1
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Non mi capitava di divertirmi così tanto da nemmeno ricordo quanto. E non dico tanto per dire. Ho proprio provato a fare un viaggio a ritroso nel tempo e non ho trovato nessun episodio da qui a un anno in cui io abbia riso così tanto e mi sia sentita così genuinamente bene e me stessa - scema, stuzzicarella, sfacciata - come ieri sera.

C'è stato un periodo, nemmeno troppo tempo fa a dire il vero, in cui ho confidato a una persona "Sento di stare bene solo quando sto da sola" ed ero serissima. Ricordo il desiderio intenso di solitudine e il benessere puro dei momenti rubati: guidare senza meta per la città con la musica a tutto volume e i giri del motore alti come piacciono a me; in silenzio su una spiaggetta isolata a guardare una farfalla fragilissima farsi coraggio di fronte allo sciabordare delle onde; al mare alle 9 del mattino con 4 bagnanti in croce, che oramai ci conoscevamo pure per abitudine. Smaniavo per stare da sola aggiungerei: sotto lo sguardo confuso di Medellone che, per converso, non sa stare solo manco per niente e temeva stessi male, quindi "un penny per i tuoi pensieri, vuoi che venga?" "NO EH!". Smanio ancora, è chiaro.

Però, è stato così bello ritrovare quella parte sociale di me che quasi non ci credo. Una delle persone più importanti della mia vita da 6 mesi a questa parte me l'aveva detto: "non sarà sempre così, è una fase, fidati di me". E io l'ho fatto, ma più perché non avevo alternative che non per effettivo slancio di fiducia. Del resto, ci tengo alla mia coerenza in fatto di diffidenza.
Quindi, me lo segno. Lo segno qui per ricordarmene in futuro. Scrivo che, ieri sera, ho riso così tanto e sono stata così bene che mi viene da piangere solo a pensarci. E che aprire whatsapp e trovare il messaggio della mia più cara amica con su scritto "mi mandi un vocale... di 10 minuti... soltanto per dirmi quanto sei felice" mi ha commossa tantissimo, perché so che lo ascolterebbe, e sarebbe felice di sapermi felice, e si entusiasmerebbe non come se quell'emozione fosse sua ma come se fosse mia, ben sapendo cosa significhi.

"Insieme a chi sa farti ridere, ma ridere di cuore."
Grazie, Claclà e Dani!
 
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view post Posted on 27/10/2018, 16:13     +2   +1   -1
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Hurricane




«Il quartiere è deserto. C'è desolazione ovunque. Le case sembrano denti poco curati, incastonati nelle gengive un paesaggio scosso. Ricorda un po' quegli scenari pre-apocalittici dei film americani, hai presente?» Ridacchio della mia puntualità nelle descrizioni. Sento gli ingranaggi del mio cervello muoversi con solerzia: per me è un ritmo normale; altri lo hanno definito frenetico, suggerendomi di provare a regolarizzarlo. Ma loro che ne sanno del mio cervello, in fondo?! «Sta arrivando un tornado e di questo sono sicura. Il vento scuote tegole e infissi; frusta gli elementi naturali; mi scombina i capelli tanto che mi occupano la visuale. E io ho il respiro affannoso. Mi guardo intorno nel disperato tentativo di scorgere la sagoma della tromba d'aria. Ho bisogno di capire da dove stia arrivando. Non sono sicura che questo possa cambiare la mia condizione, è chiaro. Sono in pericolo, e sono esposta, immobile, nel mezzo di un quartiere che sta per essere travolto dalla furia della natura.» Sento i battiti accelerare in un riflesso incondizionato, quasi che la me reale desideri entrare in contatto con la proiezione di me di cui sto parlando. «So che potrei nascondermi. Anzi, so che dovrei farlo. Gli altri - ammesso che il quartiere di cui parlo sia veramente abitato - hanno fatto presto a cercare rifugio. Io potrei trovarlo nell'enorme casa alle mie spalle, ma non lo faccio. C'è una parte di me che si muove entro il perimetro del mio corpo e sbatte contro le sue pareti, intimandomi di riscuotermi prima che sia troppo tardi. Ma io sto ferma, capisci? A parte guardarmi intorno alla ricerca del tornado, non muovo un muscolo. Sono come paralizzata.» Comincia a farmi rabbia questa mia inerzia. Io sono abituata ad affrontare le cose di petto. Se c'è un problema, lo prendo per le spalle e ce la vediamo a quattr'occhi. Non mi piace tergiversare, né nascondere la testa sotto la sabbia. Se uno tra me e il problema deve sopravvivere, facciamo presto a capire chi la spunta e leviamoci il pensiero. Nel tempo, mi sono chiesta se una parte del nocciolo della questione non risieda proprio in questa mia disabilità: io non mi scanso mai. Ma è un interrogativo per un altro momento. «Mentre rimango lì in attesa di vedere la tromba d'aria, terrorizzata e frustrata, ho il tempo di pormi delle domande. Arrivo alle seguenti conclusioni: vedere il tornado potrebbe non assicurarmi la salvezza, ma io saprei individuare il problema e capire quali strade ho per tentare di avere la meglio, magari cominciando a scartare la direzione da cui lo vedo arrivare; in secondo luogo, non riesco a nascondermi perché ho paura che la casa mi crolli addosso e io rimanga intrappolata nel rifugio sotterraneo. Mi rendo conto di temere la stasi, l'attesa, il limbo del non-so-cosa-succederà. E l'idea di rimanere schiacciata dalla struttura mi annienta. Preferisco farmi sbattere contro qualsiasi cosa paia al tornado, che non starmene sotto i detriti.» Non ho mai pensato di essere claustrofobica, ma mi sa che devo rileggermi il manuale delle mie personalissime istruzioni. «E lo sai come finisce tutto? Finisce che non finisce. La scena continua a ripetersi sempre uguale a sé stessa. E la morale della favola è che io sono bloccata. Ed è una cosa che detesto. L'unica parte che mi piaccia dell'intero episodio è il fatto di essere da sola. Io so gestirmi, ma, se ci fosse qualcuno di cui prendermi cura, impazzirei nel timore di non riuscire a salvarlo, o di vederlo farsi male.»
«E tu? Tu non hai paura di farti male? Che il tornado abbia la meglio, alla fine?»
«No. Per qualche ragione, lo scontro non mi fa paura e nemmeno la possibilità di perdere. Ma sai perché? Perché ho già perso contro molti tornadi. So esattamente cosa si provi e mi fa paura quanto basta a sollecitare una reazione di preservazione. Per il resto, vada come vada.»
«Sei coraggiosa!»
Sorrido.
«Sono fuori controllo.»
 
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view post Posted on 27/1/2019, 18:11     +7   +1   -1
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entropia.

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Non so se a qualcuno di voi sia mai capitato — e la mia esperienza coi pattern mi dice di sì — di incontrare una persona capace di cambiare completamente la visione prospettica che avete sul mondo intorno a voi e, in particolare, su voi stessi. A me è successo l’anno scorso, inaspettatamente per certi versi e non per altri. Per arrivarci, però, ho dovuto affrontare un percorso difficilissimo, e mi sono dovuta mettere in discussione, e ho raschiato il fondo in modi che non avrei mai creduto possibili e che mi creano ancora i lucciconi, se solo oso pensarci.
Io sono quel genere di persona che, contrariamente a Nieve, vive le emozioni in modo molto intimo. Ne ho un grandissimo pudore per motivi che non sto qui a raccontarvi, altrimenti smentirei quello che ho appena detto e a me piace essere coerente, e avere sempre ragione, e “cadere sempre in piedi come i gatti” direbbe papà. Mentre scrivo, pensare di esporre tutto allo sguardo di estranei mi mette così a disagio da spingermi a desistere. Fermati adesso, ora che puoi. Ma, se c’è una cosa che ho imparato nel mio soffertissimo 2018, è che la condivisione ha il potere di unire le persone, e di aiutarle, e di farti guadagnare tesori di inestimabile valore. Per questo, ho deciso di raccontare questo spaccato di intimità, del quale mi pentirò amaramente per giorni, settimane e, se mi conosco bene, perfino mesi. Ma, tant’è, il sangiovese mi rende briccona e spavalda al momento, quindi cavalco l’onda della spontaneità finché posso!

Un mese fa circa, parlando con la persona cui accennavo, ho avuto la fortuna di aprire i miei orizzonti. Come vi dicevo, al pari di tantissimi altri esseri umani, io vivo con molto pudore le mie emozioni. Ne sono gelosa in modo quasi maniacale. E vivo il complesso per cui “ciascuno di noi ha il proprio bagaglio e nessuno vuole vederselo appesantire dalle paturnie altrui”. Perciò, tendo a cavarmela da sola. Mi affanno tantissimo per aiutare le persone cui voglio bene e sono capace di struggermi per i loro problemi. Ma i miei li tengo per me perché detesterei il pensiero di essere percepita come un peso. Mi devasterebbe emotivamente e ci ho messo così tanto a ricostruirmi da non poterlo permettere, non ancora e non senza aver vagliato attentamente le persone cui mi rapporto. Conosco la mia fragilità al punto da doverla preservare, come si preserva una laguna predata dai bracconieri.
Ebbene, dicevo, un mese fa mi sono scontrata con una realtà con cui non mi ero mai confrontata, per il fatto di essere una persona che sminuisce sempre i propri affanni.

“Esiste un abuso minorile che, in diritto, si chiama violenza assistita. Integra quelle situazioni in cui una persona, solitamente un minore, assiste ad una violenza — fisica, psicologica, emotiva — e ne rimane così sconvolto e provato da trasformarla in un trauma. E se la trascina dietro per tantissimo tempo, ma non sa dargli un nome, e si sente sbagliato. Non ha subìto lui quella violenza, l’ha solo vista, eppure non riesce a rimanerne immune. E nessuno glielo riconosce, nemmeno il nostro ordinamento che lo valuta alla stregua di una mera aggravante.
Questo è per dire che esiste una forma di violenza diversa da quella solita. Vedi soffrire qualcuno che ami e il dolore ti si attacca addosso, e non riesci a spiegartelo. E nessuno te lo riconosce, e ti senti una persona egocentrica a darti tanta importanza. Ma quello che senti c’è, esiste ed è legittimo. Quelli della violenza assistita si chiamano bambini invisibili. Tu lo eri, invisibile?”


Ricordo di aver trattenuto il fiato così a lungo da sentire il cuore accelerare i battiti, mentre stavo ad ascoltare nel tentativo di afferrare il nocciolo della questione. A quel punto, l’ho lasciato andare in un sospiro, ma piano piano perché non volevo piangere e non volevo che la persona all’altro capo del telefono mi sentisse. E ricordo di non aver risposto in modo diretto, perché non ero pronta a fare i conti con tutte le implicazioni del caso, e a me piace riflettere molto sulle cose prima di farle mie: dissezionarle, capirle parte per parte e, poi, nel complesso; allora, faccio ancora un po’ di resistenza giusto per mostrargli chi ce l’ha più grosso (io, se non si fosse capito!) e, infine, gli concedo di arrivare a destinazione. Ho fatto un commento scherzoso con la voce mortalmente piatta e una risata sterile, poi ho riattaccato.
Ricordo di aver posato il telefono sulla trapunta e di aver pianto per ore, così tanto che mi sarei aspettata di addormentarmi per sfinimento. Ma, allo stesso tempo, ero così sollevata, così leggera. Come se, sentendo riconosciuta la mia invisibilità, d’un tratto ne fossi stata sgravata. Mi sono vista per anni farmi piccola piccola, silenziosa e mescolarmi alla tappezzeria; sviluppare la tecnica dello scacchista — “Nì, tu vuoi essere sempre tre mosse avanti, non te ne rendi conto, ma lo fai. Noi stiamo parlando di qualcosa e tu hai già vagliato pro e contro, conseguenze ed un paio di eventuali soluzioni. Dev’essere stancante. Perché lo fai?”, “Perché da bimba c’erano cose che non riuscivo a spiegarmi e mi facevano tantissima paura, allora provavo a prefigurarmele nella loro veste più spaventosa per essere pronta in qualche modo: se fosse successa quella brutta cosa, io l’avrei già vissuta in un certo senso e non sarei stata schiacciata da un arrivo a sorpresa!” — e aggrapparmici con le unghie e con i denti; imparare a trasformare il pianto in attacchi di panico, e gli attacchi di panico in tachicardia, e la tachicardia in sospironi tra le mani a cucchiaio che nessuno avrebbe mai sentito. Mi sono rivista e mi sono tolta di dosso il mio personalissimo mantello dell’invisibilità.
Dopo una vita, una persona conosciuta per caso mi ha vista così in profondità, attraverso un telefono, e io mi sono sentita… libera. Piangevo un po’ di tristezza, ma un po’ anche di felicità. Non mi ero nemmeno resa conto di quanto mi stesse stretta la coperta sotto la quale mi ero nascosta finché non è arrivato qualcuno a sbirciarci sotto. E, improvvisamente, il bitorzolo sotto il tessuto infeltrito è diventato una persona: sono diventata io.

Allora, mi chiedo: è questo che si prova quando qualcuno ci vede e noi lasciamo che lo faccia? E provo a ricordarmelo quando l’abitudine mi spinge a starmene sotto il mantello a giocare a guardia e ladri con me stessa, torcia alla mano e occhi che scrutano con timidezza il mondo fuori.
Dovrei ricordarmene più spesso senza che siano il vino e la spossatezza a tirarmelo fuori.
Dovrei ricordarmene quando sistemo l’armadio e individuo una gruccia libera.
È lì che dovrei mettere il mio mantello.
Il problema è che, se svesto il mantello, la paura mi rimane comunque addosso.
E io voglio tutto e subito. Come direbbe Medello, sono come i cavalli coi paraocchi: “tu ti prefiggi un obiettivo, Niè, e non vedi nient’altro finché non l’hai raggiunto; e, se dici che vuoi tutto, devi avere tutto”.
Quindi, ad oggi, mi aspetto che, togliendomi il mantello, vada via la paura; o che l’una cosa sia conseguenza dell’altra. Che me lo levo a fare, mi chiedo, se devo trovarmi esposta e tremante in un mondo che gira così veloce da dare le vertigini?

Vi confesso che la mia speranza è rileggere questa pagina di blog — affidata da un’estranea a degli estranei — da qui a un anno e scoprire di aver trovato il coraggio di rifarmi il guardaroba, rendendo la paura un accessorio e l’invisibilità un ricordo. E di essere fiera di me come lo sono adesso pensando a come stessi un anno fa.
Intanto, mi preparo a un altro giro, all’ennesima corsa.

Se qualcuno di voi fosse già pronto, comunque, e si sentisse di osare con un coraggio che io non possiedo, ho una gruccia che mi avanza. Ve la passo volentieri.
 
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55 replies since 26/4/2017, 12:12   1783 views
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