| Il vestito delle grandi occasioni
Indosso il vestito delle grandi occasioni. Che, a dire il vero, è più una maschera che non un vestito. Mi copre per intero e mi fa apparire come voglio apparire o, almeno, lo fa in parte. Per meglio dire, ha smesso da un pezzo di essere il vestito delle occasioni sporadiche. Un po' come quando ci si scorda di togliere le lentine, ho imparato a indossarlo così spesso da scordarmi di levarlo finché, nel tempo, l'ho reso il vestito di sempre senza che mi riuscisse di separarmene. Mi ha protetta. Mi ha accompagnata. Mi ha nascosta. Oserei dire che mi ha dato molto, se non avessi imparato a capire quanto, a parti invertite, mi abbia tolto. E' facile attribuirgli la colpa dei miei sbagli, me ne rendo conto. Punto il dito e spersonalizzo le mie responsabilità, attribuendole ad un velo altro. Solo che, alla fine, non faccio altro che additare una parte di me. E tutto torna a girare nel verso giusto, che poi è il verso sbagliato.
Dicevo che mi sono scordata di levarlo, questo vestito o, se volete, questa maschera. Per anni, anni, anni e anni. Poi, un giorno, succede che arrivi al limite e ti sta stretto. Ma non come un capo in cui non entri più perché hai preso peso. E' più una sensazione di asfissia. Sotto quella stuoia, mi manca l'aria e non respiro. Ci ho sepolto talmente tante cose che, adesso, a furia di bitorzoli, fa brutto pure a vedersi. E io, che l'ho indossato per anni, non lo voglio più, ma non mi riesce di levarmelo. Provate a immaginare di uscire per strada nudi, abbigliati della vostra sola pelle, e di esporvi agli occhi degli altri in tutte le vostre imperfezioni. Qualcuno di voi, come me e come tanti altri, l'avrà perfino sognato e, al risveglio, avrà provato una sensazione di sollievo. Ora, provate a immaginare di non essere nel mondo astratto dell'inconscio, dove la presa sulle briglie si allenta e la mente fa un po' quello che le pare. Siete veri e siete nudi di una nudità emotiva. Vi riscoprite, tutto d'un tratto, piccoli e fragilissimi. Frangibili, come dico spesso per ora. Il primo istinto è quello di nascondervi sotto la stuoia e farla finita con quest'improvviso sfoggio di ardimento. Sotto la maschera, alla fin fine, male male non si sta. Però, quando la mettete, vi manca di nuovo l'aria, quindi la tenete per poco. E così avanti per giorni, settimane, infine mesi.
La verità è che io, questa maschera, me la strapperei volentieri di dosso, ma ho paura delle conseguenze. Ho paura delle paure. Ho paura e basta. Quindi, continuo a metterla e toglierla a momenti alterni, giusto il tempo di prendere un grosso respiro e trattenerlo finché mi riesce. Ma, ripeto, sotto il vestito mi manca l'aria e i bitorzoli non fanno che dirmelo. Allora, esco di casa e passeggio per le strade della mia infanzia sotto il sole cocente di Agosto, con la musica nelle orecchie e la voce dentro la mia testa che ne supera il volume altissimo. Sento i pensieri affannarsi, parlarmi, chiedermi di uscire. Al di là della compostezza marziale che mi piace mostrare, mi arrabbio, mi frustro, mi spavento e tremo. Non mi piace sentirmi così. Sai che novità! Chiunque, al mio posto o al suo, provando quello che sto provando, direbbe altrettanto. Ma io me ne infischio e lo dico lo stesso.
Non mi piace sentirmi così. E sono esausta. Profondamente, indicibilmente, totalmente esausta. E mi manca. Voi non lo sapete, ma mi manca. Nel sottosuolo della mia anima, sta un dolore grandissimo che mi prega di uscire. Ma io lo soffoco. Mi manca tantissimo. Mi manca a tal punto che il mio dolore si è evoluto. E' passato dall'essere una comparsa a intermittenza a diventare tutt'altro. Il mio dolore è costante e riempitivo. Mi prende tutta. Lo sento in ogni più piccola porzione del mio io e ci convivo. Ed è così reale che mi aiuta a sentire i contorni del mio corpo. Sento la linea delle braccia, la curva delle spalle, la morbidezza dei polpastrelli, la forza delle cosce. Mi sento tutta e mi sento dolere. Mi manca in un modo che non avrei creduto possibile. I ricordi tornano a sprazzi in base a quel che consento alla mia povera mente vessata. La costringo a tenere il controllo di tutto, a centellinare, a elaborare, a dominare, a risparmiarci qualcosa se le riesce. Quindi, mi capita spesso di dimenticare le cose. Perdo i ricordi, finché non riaffiorano di prepotenza e mi stanno talmente stretti, appunto, che sento il bisogno di levarmi la maschera. Mi manca ancora. Non i suoi occhi resi vacui dalla malattia, né il respiro profondo della fine, o le frasi senza senso, o i gesti piccoli. Mi manca la sua essenza. Prima che se ne andasse, era lei ad essere riempitiva, non il dolore. Copriva una superficie così vasta delle vite altrui da essere pervasiva. Mi manca come se fosse andata via adesso, ora che ho cominciato a dar voce al disgelo. E mi pento amaramente di aver sequestrato ogni cosa, a suo tempo. Forse, mi dico, non sarei dove sono ora. O, forse, ci sarei comunque.
Sono esausta, dicevo. So che lo pensiamo tutti, probabilmente lo facciamo tutti davvero. Ma io mi sono così profondamente data che non mi è rimasto quasi più nulla. Chi ha avuto da prendere ha preso, chi ha avuto da chiedere ha chiesto, chi ha avuto da andarsene se n'è andato. A me è rimasta la contraddizione di tanti piccoli vuoti e di un unico dolore riempitivo che mi prende tutta. Quindi, non ho più le energie, non riesco più a dare, non riesco più a impormi un ritmo. Il mio, quello che naturalmente il mio corpo e la mia mente sono disposti a seguire al momento attuale, è così lento e soffuso da stranirmi. Se faccio il paragone con gli altri, le cui vite vanno avanti alla velocità della luce, non posso fare a meno di invidiarli di un'invidia buona. Lo vorrei anch'io, sapete? Quel benessere semplice che non è assenza di dolore, ma capacità di lasciarsi andare e non avere paura di avere paura, quindi vivere. Sono talmente esausta che non ho nemmeno voglia di leggere, scrivere, uscire, parlare. Non mi rimane che pensare e sentire.
Perché, a dispetto di tutto e forse ora più che mai, mi sento tantissimo. Mi sento almeno quanto sento il mio dolore. Ed è stranissimo. Ora che non porto una maschera, ho una voce così sottile e timida, ma so urlare il mio scontento quando non mi ascolto. Ho dato tutto e non ho preteso o preso nulla, quindi mi sono sgretolata. Io mi do sempre molte responsabilità, ma qui me le spartisco col Caso, o con la vita, o con Dio per chi ci crede. Sarebbe potuta andare diversamente, se ci fossimo stati a sentire - io e il Caso, o io e la vita, o io e Dio. Invece, sono qui. Non ho rimpianti, non ho accuse, non ho nemmeno forze. Ho solo un vestito delle grandi occasioni che mi sta un po' stretto.
E mi sono rotta il cazzo pure di romanzare.
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