La cosa bella di avere questo miniblog è che funge quasi da diario personale senza eccessive pressioni. Conto un gran numero di diari iniziati che morivano dopo essersi visti riempire solo poche facciate, non essendo mai riuscita ad essere costante in un’operazione del genere. Mi ricordo che in terza elementare, la maestra ci aveva dato come compito per casa quello di scrivere almeno una paginetta di diario: in esso dovevamo descrivere le nostre emozioni, le nostre giornate, le nostre paure e i nostri desideri per poi leggerlo in classe a voce alta e correggerlo tutti insieme. Leggerlo in classe.
Ne avevo scelto uno che in copertina aveva una foto della luna e dei suoi crateri e mi piaceva tanto, mi faceva sentire diversa avere il diario della luna contro i miei compagni che sfoggiavano quello dei Pokémon, quello di Dragon Ball virando a quello di Barbie o di Winnie The Pooh (ma come si fa ad apprezzare quell’orso con quella voce lenta e fastidiosa? Boh). Ci avevo anche applicato qualche adesivo di animali, in modo che sembrassero gli abitanti di quella luna solo mia e che mi appartenesse di più. Sì, perché in realtà non sono mai stata una fan di argomenti vicini allo spazio, alle galassie o alle astronavi - né ho mai voluto fare l’astronauta - però gli animali mi piacevano molto: ne ero ossessionata e leggevo enciclopedie dettagliate che ne andavano a spiegare specie, comportamento, fisionomia, razza, regno. A sette anni potevo vantare di essere a conoscenza del periodo di gestazione dei procioni.
Però, quando si faceva sera, quel diario lo detestavo. Perché mai avrei dovuto scriverci quello che sentivo o quello che mi succedeva? Per poi leggerlo a voce alta e rendere partecipi tutti, tutti quei bambini che una parte di me ancora poco preponderante detestava con ogni singolo atomo, ed esprimere quello che provavo? No, assolutamente. Che senso aveva chiamarlo “diario personale” se dopo dovevo convivere con la consapevolezza che nulla, al suo interno, sarebbe rimasto personale?
Sono sempre stata piuttosto egocentrica ed estroversa, ma nonostante ciò quel periodo non era semplice e l’idea di essere forzata da qualcuno che voleva dare un voto alle mie emozioni, mi faceva incazzare.
Perciò la mia tattica era quella di non raccontare ma di domandare. Scrivevo cose banalissime, narravo brevemente la mia giornata tipo partendo con l’appuntare l’ora in cui mio padre veniva a svegliarmi, dicendo che a scuola era andata bene e che il pomeriggio, dopo i compiti, avevo guardato i cartoni. Dopo iniziavo ad elencare domande, cercando di collegarle a ciò che avevo scritto in precedenza. A volte chiedevo perché il cielo fosse blu, altre invece mi concentravo su quello di cui sentivo parlare durante il giorno. Ricordo la faccia della maestra quando le chiesi come avessero fatto Adamo ed Eva, unici esseri umani al mondo (stando alla lezione di religione di qualche giorno prima), a popolarlo tramite i figli dei loro figli e chiedendole se lei non lo trovasse sbagliato.
Più domandavo più non avevo bisogno di raccontare di me, spostando l’attenzione su macro argomenti che animavano la classe e spingevano i miei compagni a fare altre domande su domande su domande su domande.
Dopo circa quattro mesi, la maestra cominciò a diminuire la frequenza con cui mi costringeva a leggere a voce alta quello che scrivevo.
Da quel momento decisi di chiudere con i diari. Non capivo perché le persone sentissero il bisogno di ricordare i momenti bui, i momenti che sarebbe bello poter mettere via attendendo che si autodistruggano senza lasciare traccia. Metterli nero su bianco non li rendeva ancora più reali e tangibili? Crescendo ci ho provato, vedevo le mie compagne che avevano dei diari davvero molto interessanti, ci inserivano ritagli di giornale, scrivevano delle loro crush, usavano penne coloratissime rendendoli veri e propri pezzi d’arte. Potevo essere da meno? No. Dunque ci provavo. Ne compravo ogni volta uno nuovo e stavo attenta anche al tipo di penna che sceglievo (è inutile negare che certe penne migliorino la scrittura facendoti quasi sentire un ammanuense), iniziavo a scrivere per uno, due, tre giorni…poi me ne dimenticavo. La mia mente faceva tabula rasa e quell’ammasso di carta e poche parole finiva nascosto negli oscuri meandri della mia cameretta. Alcuni li ho ritrovati, altri penso siano stati fagocitati direttamente dai muri.
Scrivevo molte canzoni, poesie, ma i riassunti o i pensieri articolati e logici non erano per me.
Qui però è tutto diverso. Ho scoperto cosa possa esserci di bello nello scrivere, nel condividere e nel rileggere, nel tenere tracciati determinati stati e determinati argomenti. Da una parte mi spaventa sapere che quello che scrivo possa essere letto da altre persone, le quali partoriranno un’idea a riguardo o addirittura un giudizio, ma dall’altra questo diventa quasi un bisogno. E scopro che non si deve per forza fare un recap della propria giornata, che si può scegliere di pubblicare una canzone, poche parole, pagine e pagine di frasi scollegate e apparentemente senza senso.
Ora ci provo gusto a usare la scrittura per far ordine nella mia mente.
Dunque, adesso che so perché il cielo sia blu (grazie amico mio Google), voglio lasciare un segno per poter rileggere di quanto spesso mi ritrovi a guardarlo pensando a quanto sia bello. Ci sono dei giorni, specialmente in piena estate, in cui non c’è nemmeno una nuvola ed è di un colore pazzesco. E non parlo di tramonti mozzafiato o di albe pallide: parlo del cielo delle 12, col sole che spacca le pietre e ti scioglie. Lo trovo magnifico, lo guardo tra le case e penso a quanto sia immenso, globale e a quanto dovrei ricordarmi di considerarlo più spesso. Poi devo smettere perché iniziano a bruciarmi gli occhi e il mio campo visivo si riempie di scintillii e cosine che si muovono di vari colori - mi sfugge il nome dell’effetto, ma è lo stesso che si ha dopo aver fissato una forte fonte di luce.
Il cielo è proprio bello. Non lo vorrei mai verde, come non vorrei che esistesse bianco o, peggio ancora, grigio. Bisogna goderselo quando è blu.