DRINKY CONTRO LE DROGHE:
2020. Venti e venti. Mi ricordo ancora il Capodanno in cui si sarebbe festeggiato l’arrivo del nuovo millennio, il 2000. Avevo sei anni credo, o sette. E adesso sono già passati vent’anni, mentre io credo ancora di essere nel 2011. Mi sono resa conto che più si invecchia, più il tempo tende a contrarsi. Prendete le estati. Quando ero piccola, l’estate mi sembrava essere un anno a sé, bella, lunga, infinita. Adesso invece vado a letto che è giugno e mi sveglio che è fine settembre, e mi domando che ho fatto in quei quattro mesi. Stessa cosa per il Natale. Non l’ho mai apprezzato come festività, ma ricordo l’hype che iniziava a ronzarmi intorno verso novembre, per poi sprigionarsi completamente il 7 gennaio, quando la scuola riprendeva e la bocca sapeva ancora da canditi. Anche lì, sembrava durasse una vita. Questo Natale invece non mi è sembrato diverso da un altro qualsiasi giorno, se escludiamo i parenti e le decorazioni sparse per la casa.
Casa mia non l’ho mai decorata, ma al momento sono tornata per un periodo a vivere coi miei genitori, da ottobre circa, perché il mio cervello ha ben pensato di esaurirsi completamente e di abbandonare l’alto funzionamento, dando spazio al mio disturbo di essere l’unica cosa rimasta dentro la scatola cranica. Insomma, ho avuto un crollo. E quindi mi ritrovo a dormire nella mia cameretta che non può più vantare l’arredamento accuratamente scelto da me, ma ha solo degli impersonali mobili Ikea (niente contro l’Ikea, amo l’Ikea e le loro polpette) e pochissimi residui della mia infanzia. Ci sono ancora appesi al muro il mio basso elettrico e la mia prima chitarra elettrica. E poi, una new entry: il mio papiro di laurea. Mio papà ha voluto appenderlo in questa camera quando io me ne sono andata fuori casa per andare a convivere. Non so bene come mai abbia deciso di appenderlo, visto che al suo interno ci sono descritte accuratamente tutte le mie performance sessuali finite male, il periodo in cui ero una sottona e altre cose che qualsiasi figlio si guarda bene dal far sapere ai propri genitori. In mezzo al papiro c’è una caricatura che mi ritrae con molte vagine in testa, quasi fosse un aureola, una chitarra appesa alla spalla, una Winston Blue in mano e il piede appoggiato sopra una confezione di Xanax.
Lo Xanax.
Le benzodiazepine.
La mia gloria e la mia rovina.
Ormai fa figo, no? Dire: “Ehi sono talmente in ansia che mi piglio una pastiglia di Xanax adesso!”. Tutti sanno cosa sia e pensano che ormai, nel 2020, sia giusto farci dell’ironia sopra come se stessimo parlando di Tic Tac. Io stessa, spesso, ci faccio ironia. Io e lo Xanax ci siamo conosciuti intimamente nel lontano 2012, dopo un’estate nella quale ho scoperto quanto potessero essere tremendi e destabilizzanti gli attacchi di panico. Io e lo Xanax abbiamo iniziato questa relazione meno intermittente di quanto dovesse essere fino ad oggi. Prima di lui, però, c’è stato il mio grande amore: si chiamava Minias. Un amante generoso, cortese, finché non cerca di ucciderti perché non sai più dirgli basta. Se escludiamo sigarette e canne, lui è stato la mia prima vera dipendenza. Potrei dire “tossicodipendenza” ma io prendevo cose legali, dunque la società ci insegna che i tossici sono quelli per strada che si bucano, non chi prende quantità spropositate di benzodiazepine, mischiandole magari con alcol e rischiando di lasciarci la pelle. Non quelli che vanno in farmacia, dicendo che si sono dimenticati a casa la ricetta e che le gocce sono per la nonna che ha difficoltà a dormire. No. I tossici sono quelli per strada che si bucano. Eroina, crack, ciccozzi, bamba, keta, md, cartoni.
“Facciamoci una raglia prima di entrare!”
“Bevi un sorso d’acqua, dentro c’è l’md.”
“Perché quello cammina così strano guardando in basso?” “Ah, è sotto keta.”
“Franci, perché stanotte mi hai mandato dei messaggi strani?” “Eh? Quali messaggi?” “I messaggi! Parole a caso! Non ti ricordi?” “No, non pensavo nemmeno di averti scritto. Ero sotto Minias. Non ricordo nulla.”
Trovatemi le differenze.
La verità è che non ce ne sono.
Che io non ero diversa dagli altri, non mi salvavo solo perché compravo in farmacia e non per strada.
Disintossicarsi dal Minias è stato tremendo, ma ci sono riuscita. Mi sono ripromessa che mai, mai più sarei finita così in basso. Perché quando lo prendevo, smettevo di esistere. Facevo cose e non me le ricordavo. Passare da 15 gocce ad una boccetta al giorno è stato talmente veloce, talmente facile, tanto da spaventarmi. Però, quella sensazione di anestesia e libertà, ancora oggi mi manca.
Sono appunto passata allo Xanax ma devo dire che su di me non ha mai avuto un grande effetto. Niente di niente. Non era un ipnoinducente dunque adios amnesia e totale perdita dei freni inibitori.
Finché, circa due anni fa, tramite una psichiatra, la mia strada non si è incrociata con il mio terzo amante fedele. Lui si chiamava Zolpidem.
Una pastiglietta grande meno di mezzo centimetro, orosolubile. Bastava metterla sotto la lingua e lasciare che quel gusto dolciastro che addormentava un po’ anche le papille gustative e la gola, facesse effetto. Dieci minuti circa. In dieci minuti, un sorriso ebete mi si stampava in faccia e tutto diventava più leggero, più tollerabile, più gestibile. Poi passava il tempo e la sensazione si incrementava, rendendomi brilla e spingendomi a fare cose, a contattare persone, a mandare messaggi, a mangiare. Una volta ho scoperto di essermi mangiata mezza confezione di Nesquik col cucchiaio, proprio la polvere, senza latte né altro. Non capivo perché quella mattina mi fossi svegliata con un bruciore di stomaco così forte, finché, arrivata in cucina, vidi la scena del crimine (NESQUIK OVUNQUE) e non mi tornarono in mente alcuni flash.
Amnesia anterograda. Vi siete mai ubriacati tanto da non ricordarvi assolutamente nulla? Da avere un blackout totale? Per me è stato così ogni sera, per quasi due anni. Ho incrementato la dose sempre di più perché la tolleranza si sviluppa in fretta e gli effetti cominciano a diminuire; ho avuto serate in cui tornavo a casa molto prima rispetto ai miei amici, perché volevo solo prenderlo. Volevo essere cullata tra le sue braccia che mi rendevano completamente priva di responsabilità. Ma, come si dice? “Non puoi avere la botte piena e la moglie ubriaca.” Lo scotto da pagare è arrivato presto. Nausea - perdita di peso - pensieri orribili - tono dell’umore ancora più oscillante - depressione - terrori notturni - sonnambulismo - panico - tremori - nistagmo. Basta.
Eppure qualcosa mi faceva ancora andare avanti. Non mi permetteva di dirgli addio per sempre, perché per quell’ora di euforia, valeva la pena non vivere più durante il giorno. Ma ne valeva davvero la pena? Valeva davvero la pena perdere completamente il controllo di me stessa, avendo ripercussioni anche sugli altri? A cosa stavo rinunciando, pur di non stare con le mie emozioni negative, pur di non provare nemmeno a tollerare il malessere?
Mi è scattato qualcosa in testa, in queste lunghe vacanze di Natale, alla fine di un anno che, per un insieme di cose, è stato uno dei peggiori della mia vita. Ho fatto un bilancio all’inizio, ed era in negativo. Quest’anno mi hanno diagnosticato il disturbo borderline, ma anche l’endometriosi (una malattia cronica abbastanza bastardella), ho concluso una relazione lunga 4 anni e mezzo e ne soffro ancora, una delle mie due ratte ha avuto un tumore e ho dovuto dirle addio, ho avuto molte, molte crisi, sono tornata a vivere dai miei e un mio parente stretto ha avuto una brutta malattia. Però, c’è un “però".
Nonostante tutto, il lavoro è sempre andato bene e mi sono resa conto di quanto io sia circondata di persone che mi amano, che mi vogliono bene e mi accettano esattamente per quello che sono, e sono molto fortunata. Adesso non voglio sembrare una di quelle che “ohmmioddio ma che brava, ha risolto la sua vita! UAO.” perché non è così. I problemi ci sono ancora e vanno sistemati uno alla volta, con calma, con pazienza, con la consapevolezza che il dolore non svanirà e che i periodi orribili si ripeteranno, intervallati, si spera, da periodi meno brutti. Ma una scelta ce l’abbiamo sempre. Tanta forza mi è arrivata anche da persone che ho conosciuto qui e che, grazie alle loro parole, mi hanno fatta sentire compresa pure quando pensavo di parlare una lingua diversa dal resto del mondo, o mi mandavano immagini e video divertenti solo per farmi sapere che c'erano. E, per questo, vi ringrazio. Siete persone meravigliose.
Ho scalato questo Zolpidem e ieri ho preso l’ultima dose, mezza pastiglia. Il ritmo sonno-veglia è un po’ andato per gli affari suoi, ma va bene così. Sto meglio, sono lucida e mi è tornata la voglia di vivere e di riprovare, di riordinare tutti i tasselli che pensavo fossero andati perduti. Un passo alla volta, un piede dietro l’altro.
Grazie.
P.S. - so che ho toccato argomenti un po’ peso e spero di non ostacolare le linee guida del forum. In tal caso, rimuovete pure il post.
P.P.S. - la mia esperienza non vuole essere un cercare di scoraggiare l’assunzione di determinati tipi di farmaci. Diciamo che, però, per alcune patologie esistono farmaci che a mio avviso sono meglio di altri e che, sfortunatamente, le benzodiazepine vengono prescritte come se fossero acqua fresca. Ma se un medico di fiducia dovesse mai prescrivervele, prendetele. I farmaci servono soprattutto per aiutarci e non tutte le storie sono uguali. Io stessa, al momento, continuo a prendere lo Xanax finché la mia psichiatra non mi darà l’ok per scalarlo e prendo anche antidepressivi. E, per piacere, non abbiate mai paura di chiedere aiuto. Mai.