| Sophie
Armstrong
Serpeverde - III Anno - 17 Anni Ricordava quel Ballo di Fine Anno come fosse il giorno prima. Aveva sempre odiato le feste, più di ogni altra cosa al mondo, ma quella spilla che aveva portato al petto fino a qualche mese addietro l’aveva obbligata a presenziare praticamente a tutti quei noiosi eventi. Molto spesso si era ritrovata a fare una semplice toccata e fuga, soprattutto durante i suoi primi due anni. Si era recata a quelle feste, si era fatta vedere dai Docenti e da almeno un Caposcuola e, una volta assicuratasi di essersi fatta vedere, si dileguava in brevissimo tempo. Ma l’anno precedente non era stato come tutti gli altri. Quell’anno Serpeverde aveva vinto la Coppa delle Case e lei sarebbe dovuta restare lì per forza di cose. Chi avrebbe ritirato la coppa se Emily, nonché sua sorella, non avesse potuto farlo per un motivo o per un altro? Senza considerare il fatto che dai piani alti per quell’occasione avevano avuto la brillante idea di ambientare i festeggiamenti in un posto molto lontano da Hogwarts, ragion per cui i Prefetti dovettero dividersi gruppetti di primini da riportare sani e salvi al Castello. Si era pentita di non essersi data per malata già non appena quella mongolfiera si palesò davanti ai suoi occhi. Ricordava bene la nausea che quel volo le aveva causato, senza considerare il continuo muoversi da una parte all’altra di quegli stupidi ragazzini super eccitati per la loro prima festa scolastica. Li voleva ammazzare, letteralmente. Non sapeva come, ma era riuscita ad atterrare senza aver rigettato nemmeno una volta, ma si portò dietro quell’orrenda sensazione allo stomaco per gran parte della serata. Fino a quando non cominciò a bere. Fatto stava che era passato decisamente troppo tempo da quell’evento. Se non fosse stato per la vittoria della Coppa delle Case, avrebbe voluto eliminare dalla sua testa ogni singolo momento di quella serata, compreso il ritorno in Sala Comune. E da quel giorno, tante, tantissime cose erano cambiate. Lei era cambiata. O meglio, era riaffiorato in lei quel suo essere particolarmente cinica e poco incline alle belle sensazioni. Aveva imparato ad evitarle, come se si fosse arresa all’idea di non poter mai raggiungere la felicità. Eppure in quel momento era lì, in compagnia di qualcuno che la stava facendo sentire bene, che la stava facendo sentire desiderata e di questo non poteva che esserne contenta. «Mi sembra di capire che “qualcuno” potrebbe capire soltanto ciò che gli conviene…» Gli fece eco, nel chiaro intento di provocarlo, lasciandosi sfuggire un altro lieve sorriso. «Da mezzanotte in poi potresti anche diventare l’ultima persona sulla terra che voglio vedere.» Sì, lo disse, ma era ovvio che non era così. Non poteva essere così, non con lui. Gli lanciò un’occhiataccia in seguito alle sue successive parole, senza rispondere. Divenne leggermente più seria subito dopo aver udito quel suo intento di spronarla a buttarlo fuori. Ma non lo avrebbe fatto, no, né in quel momento né dopo mezzanotte. Parole sussurrate sulla sua pelle, sulla quale poteva sentire il suo fiato caldo e piacevole. E poi ci fu il bacio. Quello leggero, quello casto, quello breve, ma che comunque riuscì a lasciarla del tutto esterrefatta. Un bacio che ad ogni modo la spinse ad andare oltre, a spingerlo nuovamente verso di sé e a farlo più suo, come se ne avesse sentito un estremo bisogno. Riuscì a sentire il suo sapore, che si rivelò essere più buono di quanto si aspettasse, così buono che accettò a malincuore quel millisecondo di distacco dalle sue labbra. Si limitò a sorridere in modo beffardo, sorriso poi catturato di nuovo da un altro bacio, molto più intenso, molto più profondo. Le mani di Abel sul suo viso la costrinsero a provare ancora più fatica a staccarsi, anzi, la portarono a lasciarsi andare ancora di più. Continuò a baciarlo, fregandosene altamente di quel bancone in mezzo che divideva i loro corpi, ma, puntuali come un orologio svizzero, ecco che arrivarono le mille fisime mentali, pronte a rovinare tutto. Perché stava accadendo? Come si erano ritrovati, quei due, a baciarsi in quel modo? Abel non era uno sconosciuto, ma non era nemmeno un suo amico, un suo fidanzato. Non era nulla. E allora perché? Era davvero arrivata al punto di non riuscire a resistere davanti ad una provocazione? No, era convinta che non era solo quello. Non poteva essere soltanto attrazione fisica, o non gli avrebbe mai ceduto le sue labbra. Cercò di allontanare via quei pensieri, facendo scivolare la mano tra i suoi capelli tanto belli quanto disordinati, ma senza effettivamente riuscirci. Nonostante l’alcool presente nel suo corpo, il suo cervello era ben vigile, ragion per cui fu costretta a staccare le labbra da quelle di Abel. Col respiro affannoso, andò a cercare i suoi occhi, mentre la testa si sarebbe avvicinata nuovamente, nell’intento di appoggiare la fronte sulla sua. Una volta fatto, avrebbe spostato la sua mano dai capelli di lui alla guancia, abbassando lo sguardo. Era passato del tempo, forse troppo. E il suo turno ai Tre Manici era finito. «Devo… Devo andare.» Avrebbe sussurrato, ancora in quella posizione. Poco dopo, si sarebbe allontanata, facendo cadere quella stessa mano sul bancone. «A breve arriva la mia collega, devo darle il cambio.» Avrebbe portato entrambe le mani dietro la schiena e avrebbe slacciato il nodo di quella stoffa scomoda che era costretta tenere attorno alla vita per tutto il turno. «Preferisci che ti lasci nelle sue mani, o vieni con me?»
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