"The Master, Legilimency first chapter & background - 「VM 18」

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view post Posted on 5/2/2019, 12:13
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Il Fato

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I don't know what I'm supposed to do, haunted by the ghost of you

Alcune storie sono più terrificanti di altre e il loro potere sta nella suggestione. Oggi, voglio raccontarvi del demonio e della sua mortalità, in particolare del modo in cui — per parafrasare le favolette della religione — riesca a mescolarsi tra i vostri simili. Ad essere uno di voi.
Questa leggenda mi è stata raccontata dalla boccaccia sdentata di una vecchia terribile, perché non si dica che il Fato non abbia da imparare come tutti gli altri. Vestita di panni scuri e munita di un bastone nodoso quanto le sue ginocchia, mi ha parlato di un demonio senza corna, coda e forcone. Mi ha parlato di un demonio umano. E mi ha detto che, non molti anni or sono, si vociferasse di un giovane, bellissimo, irresistibile seduttore, intinto nel fascino e nella perversione e mosso da una insaziabile brama di paternità. Ha una passione tutta intellettuale per le donne, pare e io mi limito a riferire; ma la sua preferenza rifugge le consuete propensioni sessuali. Per spargere il suo seme ed evitarne la dispersione, ha bisogno di un terreno che sia disposto a farlo attecchire, e crescere, e soprattutto nascere. Allora, feconda le fanciulle — che siano belle, brutte, alte, grasse o mezzo mutilate, poco importa! — e lascia che il tempo faccia il suo corso. Ama osservare quel minuscolo pezzo di dannazione farsi spazio nel grembo di un’incubatrice qualunque e nutrirsi di lei fino ad esaurirla. E, da buon padre, si adopera per la salute della sua discendenza. Non c’è figlio del demonio che sia stato abortito, lo sappiamo per certo, come non c’è donna che sia stata risparmiata dal baratto della vita.
La madre di Edward Reeve, ad esempio, non è sopravvissuta al parto.

Ascoltata la domanda di Dorian, il docente tacque.
Edward Reeve aveva una predilezione per il gioco. Le persone e le dinamiche umane lo interessavano nella misura in cui riuscivano ad arricchire le trame della sua partita, rendendogli il servizio del divertimento. Per questo, e non per amore dell’insegnamento, aveva deciso di insediarsi a Hogwarts — quella era, ad ogni buon conto, la decisione migliore che avesse preso. Il castello pullulava di vita e le menti degli studenti… Oh, le loro menti acerbe erano così arrendevoli alla plasmazione che gli sembrava d’impazzire in preda a una febbre smaniosa quando li aveva intorno! A volte, nel cuore della notte, protetto dallo studio che gli avevano assegnato, riusciva quasi a sentirla respirare, l’esistenza. Allora, inspirava a pieni polmoni e si concedeva una risata grassa e sguaiata; e si lasciava squassare finché, estinto il suono, giaceva scompostamente sul pavimento con gli occhi iniettati di desiderio. Aveva conosciuto il piacere sessuale solo per appurare che nulla, nulla fosse in grado di estasiarlo come la sofferenza altrui.
Dorian era giust'appena subentrato a riempire il posto vacante lasciato dall'ultimo occupante, che era stato anche il pezzo più importante della scacchiera: la Regina.

«La verità,» disse in un primo momento. «O la versione che ritieni meglio spendibile della verità.»

Nell’arte dell’inganno, Edward Reeve aveva imparato che lasciare una possibilità di mentire alla vittima le desse un’illusione di libertà utile allo scopo di rilassarla. Si comportava, né più né meno, come un cacciatore dai gusti delicati che, nel folto della foresta, pratichi l’arte venatoria e s'impegni a sublimarla. La parte che preferiva era l’appostamento strategico teso a osservare la preda, quando le lasciava credere di essere stato un carceriere disattento e l'illudeva di poter riguadagnare la salvezza. Così, la seguiva fuggire in affanno, dapprima, e, poi, aggrapparsi alla speranza, che diventava sollievo, che diventava gioia. A quel punto — solo a quel punto —, la stordiva con un sonnifero e la trascinava di nuovo in gabbia. Le urla di disperazione del risveglio in cella erano un atto di lussuria che aveva pari solo nella golosità del burro su una fetta di pane caldo, quando dolcezza e sapidità corteggiano le papille gustative e, nelle pieghe del contrasto, fiorisce l'estasi.
Lasciò la presa sul cappio che aveva stretto al collo di Dorian, presentandogli l’immensità della brughiera e le sue vaste possibilità. E caricò l’arma, annusando l’aria per poterla studiare.

«Non mi aspetto un racconto a cuore aperto, ragazzo.» Il tono e i modi erano compassati e la postura rilassata. Solo nel calmo languore degli occhi scuri potevano intravedersi le sue intenzioni vestite di nero e cremisi. Quello status avrebbe potuto essere interpretato come l’ostinazione di chi non sa venir meno al proprio dovere di supervisore del corpo studentesco, o come il turbamento di chi abbia assistito a un tentativo di suicidio, o ancora… «Ma capirai bene che è mio dovere prendere atto di quello che ho visto e stabilire se sia il caso di rivolgermi a un’autorità più alta di questa scuola facendo presente il problema oppure — i suoi occhi inchiodarono l’interlocutore, mentre tratteneva a stento la frenesia folle che si agitava dentro di lui — se non ci sia una spiegazione che eviti questo risvolto.»

Il bordo del bicchiere tornò a sfiorargli le labbra ed Edward si concesse un sorso di cognac ad occhi chiusi. Era l’atteggiamento pacifico di chi abbia tutto perfettamente sotto controllo e non paventi risvolti inaspettati. Inspirò ancora, piano.
Se è vero quel che si dice e, cioè, che la paura abbia un odore, nell’ufficio del docente di Rune Antiche, Dorian non era in preda né al terrore né al panico. Il suo sudore possedeva una nota dolciastra di sottofondo, che controbilanciava l'impronta acuta lasciata dal dolore. Dorian profumava di disperazione e la sua disperazione — che era una disperazione devota — aveva rievocato il profumo di un amore perduto.
Reeve lo trovò sublime.

«La conoscevi?» domandò, vago, lasciando il bicchiere sulla mensola del camino. Si allungò in direzione di un punto apparentemente vacante rasente la stessa parete. Non appena le sue mani entrarono in contatto con l’oggetto, il velo di invisibilità cadde e tra le dita di Reeve si materializzò uno sgabello. Lo posizionò a poca distanza dal parascintille del focolare e sedette solo dopo aver recuperato il bicchiere. «Intendo dire… La conoscevi davvero?»
 
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view post Posted on 18/2/2019, 11:22
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Quomodo cecidisti de caelo

MAyqxAW

In quello studio tiepido del calore del fuoco, la danza degli scacchi lentamente aveva preso forma nelle parole leggere dei loro discorsi, in una musica manierata fatta di quiete e sorrisi. L’effluvio del fastidio appena provato penetrò le narici di Dorian, passando oltre la mucosa riarsa della sua gola: da lì si insinuò prepotente nelle profondità convesse della sua anima, risvegliandola dal sopore dell’oblio con il suo forte odore amaro. Quella notte, nel letto disfatto e umido di sudore, la sofferenza, tanto intesa da stordire, aveva trafitto il suo corpo come uno spillone rovente, ma ora che il calore si stava nuovamente dispiegando in ogni punto delle sue membra svestite, paradossalmente, la lucidità gelida dell’intelletto tornava a congelare in imponenti stalattiti le emozioni che la disperazione aveva liberato dal ghiaccio. Il flusso liquido della coscienza riportava velocemente l’ordine.
Le parole dell’uomo non erano state leziose, anzi: come una carta da parati color corda avevano rivelato un singolare senso pratico e un elementare bisogno di rassicurazioni, eppure, proprio nel momento più accorato, quando il discorso si era fatto più incisivo, Reeve era ricorso ad una particolare espressione, unica nota stonata in quell’accordo privo di virtuosismi: tirare le cuoia.
Una siepe rinsecchita dall’arsura, tira le cuoia. Un gatto investito da un’auto, tira le cuoia. Anche un criminale, nel momento in cui, prono, cade a terra folgorato dalla sedia elettrica, tira le cuoia. Mai una giovane donna che muore d’infarto, mai lei.
Emma, come un cigno che aveva intonato il suo canto pur sapendo che nulla avrebbe mutato la sua condizione, aveva alzato gli occhi al cielo con forza, mentre la vita le sfuggiva dalle candide piume e, fragile, volava via per sempre.
Chiunque fosse insensibile alla sfumatura dispregiativa di un tale fraseggio non doveva provare né stima, né affetto, né nostalgia nei suoi confronti. E lei aveva il dono straordinario di saper vedere dentro le persone; qualsiasi cosa condividesse con Reeve – se non ne aveva la certezza in quel momento se ne convinse – non poteva avere niente a che fare con loro due.
Midnight adorava osservare il contrasto tra l’intenzione e la parola, e soprattutto si compiaceva di come quest’ultima quasi sempre non rispecchiasse l’altra, falsandola e deformandone i contorni netti, sbavandone grossolanamente le linee come polpastrelli con l’inchiostro.
Da molto tempo ormai aveva smesso di irritarsi ogni qualvolta qualcuno si esprimesse in modo inadeguato, eppure non aveva perso la sua sensibilità, che fino ad allora gli era valsa solo inutili nervosismi.
Non avere controllo su ciò che si diceva, aveva imparato a sue spese, serviva solo a svelare le intenzioni. E, come conseguenza logica, a correre il rischio di esporre il fianco.
Senza lasciarsi sopraffare da vacue emozioni, si accigliò.
«La sua morte è stata una tragedia. A quanto dicono, però, non si poteva fare nulla.»
Il concetto era semplice.
Controlla ciò che dici e controllerai ciò che sei.
Ogni locuzione a cui ricorreva o pennellata sentimentale generava la pittura perfetta dell’immagine che voleva dare di sé; perfezionando questa tecnica ad arte aveva confezionato un ritratto senza macchie.
E il vizio si era trasformato in un’ars così precisa che in certi momenti la sottile linea tra l’essere e l’apparire sfumava anche nella sua testa.
«Non posso asserire con certezza di averla conosciuta del tutto, come non posso dirlo di alcuna persona, peccherei di superbia; di certo l’ho amata incondizionatamente.»
Due terzi di verità…
«Ammesso che ne sia mai stato capace.»
… uno di menzogna.
In quel momento Emma divenne questo: dettaglio e niente più. Lungo la discesa rapida di quella conversazione non c’era motivo di ammettere qualcosa di scomodo, sarebbe stato inutile e deleterio; nulla era peggiore che porgere la mano a chi in un secondo momento avrebbe potuto spingerti giù dalla scarpata.
Vide Emma davanti a sé, con la pelle nuda e candida, le punte dei capelli, fili di rame, le solleticavano le spalle sottili.
"Non ti darò in pasto a quest’uomo” – pensò.
«Ho imparato con l’esperienza che per quanto un castello di sabbia possa essere bello, prima o poi arriva sempre l’onda a distruggerlo, trascinando via le macerie e le sue molli fondamenta.» Come un burattino di ceramica riprese a parlare.

Due terzi di verità, uno di menzogna.

«E ciò che ognuno di noi costruisce con un’altra persona è necessariamente fatto di sabbia – sorrise con amarezza – l’unica forma stabile di controllo che possiamo esercitare è quella che esercitiamo su noi stessi.» Piegò le labbra in una curva laconica.
«Ritengo che non ci sia bisogno di rivolgersi ad alcuna autorità… Emma non ha nulla a che fare con questo.»

Due terzi di verità, uno di menzogna.

«Che vi creda o no, professore, mi sono sempre sentito una creatura vulnerabile; come marmo grezzo ho provato a modellarmi e plasmarmi nelle mani dei grandi – maghi, scienziati, scrittori, poco importa. Attraverso le loro parole mi hanno levigato rendendomi nitido, lucido, perfetto. Come un’opera d’arte. Ma non sono riuscito mai ad apprezzarmi per davvero. Nemmeno risvegliare un piacere quasi erotico negli altri, in quelli che mi guardano, mi contemplano e mi ascoltano, mi fa sentire più di un mero materiale di partenza, grezzo ed incolore.»
Era sorprendente quanto in quel momento le luci acide della menzogna non nascondessero la verità profonda, definitiva delle sue parole. Eppure vi erano molti piani nel discorso, c'era qualcosa di dinamico in quella confessione fatta con voce imperturbabile.
«Il marmo anche quando dà vita ad un’opera d’arte mediocre non sente dolore cedendo allo scalpello. La carne sì.»
Tenne gli occhi fissi sul legno che si consumava nel fuoco.
«Vuole la verità? Una spiegazione che eviti quel risvolto? – sorrise – Eccogliela. Ho fatto ciò che ho fatto perché cercavo l’anestesia dei sensi, un cloroformio per l’anima. Sono stufo di vivere sentendomi poco più che una macchia sulla parete dell’esistenza.»

Due terzi di verità, uno di menzogna.

lucifer, fili aurorae?


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Edward Reeve era nato in una famiglia mediocre, fatta di gente mediocre che viveva una vita mediocre, ferma nella certezza che un’esistenza semplice e decorosa fosse il solo modo d’accedere alla felicità. E i suoi se n’erano detti così sicuri da avere instillato nel bambino che era stato la convinzione di essere diverso, sbagliato perfino, a concedersi ad aspirazioni che andassero al di là della sopravvivenza di chi sta nel mezzo. Perciò, aveva convissuto a lungo con la sensazione di doversi peggiorare; a tratti se l’era addirittura iniettata come si imbocca un bambino che non voglia saperne di mangiare un broccolo se può avere una cioccorana, ma che in fin dei conti non abbia scelta.
Un giorno che il tedio aveva minacciato di colmare di follia la sua mente, infine, il Fato gli era venuto incontro e gli aveva svelato la sola verità che lo avesse aiutato a far pace con sé stesso. Un guaito di dolore si era levato dal folto della brughiera arsa dall’estate e lo aveva spinto a inoltrarvisi. Così, in una conca scavata all’occorrenza dalle zampe deboli di una cagnetta tutt’ossa, Edward si era imbattuto inaspettatamente nell’orrore di cui è capace la natura: la bestiola, sfinita dal parto, giaceva tra i resti dei suoi cuccioli smembrati col muso inzaccherato di sangue fresco; e dormiva di una beatitudine che le aveva invidiato. Il piccolo Reeve di a malapena sette anni era rimasto seduto a osservare la scena in contemplazione, scosso dalla smentita all’ordine di credenze che aveva ritenuto immutabile fino a quel momento: si era convinto che fossero le femmine a non sopravvivere al parto, ma che ai bambini non potesse accadere altrettanto. La sua di mamma non ce l’aveva fatta, per dire, mentre lui cresceva forte, robusto e immune da ogni malanno.
Solo quando animo e intelletto avevano raggiunto un accordo e le ombre della sera erano calate su di lui, Edward si era deciso a rompere la stasi e aveva ucciso la cagnetta, sfondandole il cranio con un masso e godendosi i minuti di interminabile sofferenza seguiti a una morte tutto fuorché istantanea. Non l’aveva fatto per senso di giustizia, badate bene, né col proposito di vendicare quei cuccioli venuti al mondo solo per morire. L’aveva assassinata per sentirsi vicino al Dio che gli aveva portato via la mamma, convinto che quel gesto potesse metterlo in mostra assai meglio di una delle preghiere che la sua stupida famiglia babbana lo costringeva a pronunciare nella chiesa di paese.
Quella sera, era tornato in cameretta e si era sentito finalmente in pace col mondo; e, quasi a conferma dell’esattezza del gesto che aveva compiuto, la magia gli si era svelata per la prima volta in assoluto.

Annuì con aria partecipe, mentre il discorso di Dorian si dipanava dinanzi ai suoi occhi perfetto financo nelle sbavature. Oh, era un giovane davvero brillante! Lo era a tal punto che, d’un tratto, il desiderio di giocare con lui e quello di istruirlo divennero parte di un unico, diabolico disegno. Poteva rendere tributo alle meraviglie che prometteva la turpitudine del ragazzo e, nel processo, elevare il proprio diletto come aveva previsto di fare quando aveva compreso di aver di fronte qualcuno di diverso. Diverso come lo era stato lui, ma in modo ancora squisitamente umano.

«La Preside ci ha parlato di te,» esordì, quando le ultime parole del Caposcuola finirono di vezzeggiarlo con una strategia che andava affinata, ma che aveva molto di promettente. «Ha suggerito all’intero corpo docente di tenerti sott’occhio dopo l’atroce fatalità accaduta tra i Grifondoro. E suppongo che, con l’acuta sensibilità che è tipica dell’animo femminile, avesse ragione.» Sorrise all’indirizzo dell’altro, prendendo in prestito il calore del fuoco per simulare una compartecipazione che proprio non possedeva. «Sono contento che l’abbia fatto, altrimenti non saresti qui con me stasera, come sono contento che tu mi abbia parlato con tanta franchezza e apertura della tua situazione.» Gli sorrise più ampiamente, quasi che l’idea di aver ottenuto tanta fiducia riuscisse a scaldargli il cuore. «Non ci avrei mai sperato, ma lo desideravo per il tuo bene, che è ciò che più mi preme in assoluto.»

Edward, che aveva invertito le proporzioni di Dorian nel servirgli menzogna e verità, parlò con una neutralità affabile a tratti repellente, per la ragione che non fosse possibile determinare quanto godimento e quanta indifferenza nutrisse per il dolore di cui era stato reso partecipe. Il Serpeverde aveva parlato in modo studiato, scivolando sulla scacchiera con la regale magnificenza che si confaceva al suo ruolo. Eppure c’erano delle note di umanità — in quel quarto di verità, nelle sbavature di cui il docente aveva preso nota per calcolare la propria mossa — che un interlocutore qualsiasi non avrebbe potuto fare a meno di cogliere senza dispiacersi. Per bello e desiderabile che fosse, Midnight non era amato entro i confini del castello, non di quell’amore che solo una e pochi amici gli avevano riservato con trasporto; eppure nessuno dei suoi più acerrimi nemici sarebbe rimasto immune al cospetto della sofferenza che straboccava dalle metafore ridondanti che aveva usato per schermarsi.
Reeve, per suo conto, non provò assolutamente nulla. Sapere, sentire che Dorian stesse giocando con lui lo allettava e glielo rendeva caro. Somigliava assai, senza saperlo, allo Strigoi che aveva sperato di spingere il Caposcuola nelle profondità del lago; lo stesso del quale non si poteva più avvertire la presenza.

«Capirai che le tue parole siano più che allarmanti, udite dalle orecchie di un docente; udite dalle orecchie di un essere umano qualunque, a dire il vero.» Edward si compiaceva delle imperfezioni della propria recita, in quanto gli permettevano di cogliere le piccole espressioni di confusione, disagio e cautela sui volti di chi riusciva a intuire lo spettro delle sue voglie. «Sei giovane e tutti noi, che siamo più vecchi di te, ci aspetteremmo di saperti vivere a lungo e felicemente.» Avrebbe potuto infarcire il suo discorso di adulazioni, volte a sottolineare quanto Dorian ancora avesse da dare al mondo con tutte quelle sue mirabolanti capacità accademico-sessuali… Ma non gli erano mai piaciute le esagerazioni! «Nel caso di qualsiasi altro studente, avrei sentito imperativo il dovere di rivolgermi alla Preside e lasciare che fosse lei, con l’aiuto di qualche esperto sanitario, a intervenire. Ma ho come l’impressione di poter fare qualcosa per te, a mio modo.» Un guizzo gli attraversò la spina dorsale, adesso che il gioco cominciava a entrare nel vivo. «Mi hai parlato di te stesso e della difficoltà che comporta avere a che fare con la tua vulnerabilità. Ma, come hai detto, gli uomini sono — terza persona plurale, non prima — deboli. Penso alle gesta degli eroi che ci vengono tramandate e a cui ci aggrappiamo perfino in questo castello, che può farsi vanto dello scudo della magia: mi riferisco alle armature nei corridoi. Non c’è condottiero che le abbia indossate che, trafitto da una lama sufficientemente potente e nel punto giusto, non sia morto sotto la mano del nemico. Per forte che sia la corazza, come hai detto tu, la carne è molle e sensibile.» Le sopracciglia si erano studiatamente inarcate per conferire una certa solennità alla sua espressione, la cupezza dello storico di fronte alle mostruosità di un passato di ecatombi. «C’è un motivo dietro il mio bisogno di capire cosa ti legasse a Emma,» disse, apprestandosi a fargli dono di quell’unico quarto di verità che era disposto a concedere. «Penso che il modo in cui l’hai amata ti abbia reso potenzialmente meno in conflitto con la tua vulnerabilità, finché ti è stato concesso del tempo con lei. L’amore ha questa portentosa capacità di stravolgere gli equilibri: la gente smette di pretendere la perfezione da sé perché, se amata veramente, lo è soprattutto per difetti e mancanze. Ed Emma era una ragazza meravigliosa e… piena di vita.» L’ennesima, saporita sbavatura in uno spasmo impercettibile del margine destro della bocca. Gli piaceva tradirsi, poiché traeva godimento perfino dalla propria sofferenza. E lo inorgogliva che la ferrea logica e l’indifferenza ai sentimenti altrui non gli avessero mai impedito di apprendere col giusto distacco i meccanismi sottesi alle relazioni umane. Edward conosceva il funzionamento dell’amore e lo approvava come preludio di ineluttabile, futura sofferenza. «La ratio della mia domanda rifugge la vacuità del pettegolezzo, Midnight. Non m’importa sapere se la conoscessi per il piacere di prendermi un pezzo della tua vita e sfoggiarlo come argomento di conversazione con amici e colleghi. Non sono un mostro, men che meno un frivolo. Mi chiedevo, piuttosto, se…» Chinò lo sguardo per simulare tormento e indecisione; e si massaggiò il mento dopo aver attinto al bicchiere. Solo a quel punto, tornò alla ricerca di un contatto con Dorian. «Quello che ho intenzione di proporti sarebbe sconsigliato dalle regole scolastiche, dal ministero e soprattutto dal buonsenso. Ma è mio dovere, umano ancor prima che accademico, aiutare uno studente come farebbe un padre con un figlio smarrito. Spererei di darti una mano con uno scopo da raggiungere e, magari, lungo la via troverai la pace.»

Dorian era, ad ogni buon conto, il figliuol prodigo che attendeva di accogliere nell’ovile delle sue depravazioni; l’anima perduta che desiderava collezionare nella sala espositiva del suo palazzo mentale.
Reeve si alzò e raggiunse il camino a capo chino. La sua ombra, proiettata dai giochi di fuoco, si stagliava imponente nell’ufficio, mentre lo guardava placidamente, baciato dalle fiamme che si protendevano verso di lui come spasimanti vogliose; una carezza sarebbe bastata a provocarne la dissoluzione… Peccato che Reeve fosse un amante crudele!

«Ho solo bisogno di capire fin dove sei disposto a spingerti per avere un altro po’ di tempo con Emma… Perché io conosco un modo per dartene ancora.»
 
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view post Posted on 20/2/2019, 17:54
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Qui dicebas in corde tuo

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Dorian si concentrò sulle sue stesse nocche, sulle rughe d’ombra che formava la pelle, provando anche a contarle partendo dalla sommità della falange, per non cedere al fastidio delle parole che uscivano – striscianti – dalla bocca di quell’uomo: uno, due, tre, quattro.
Riusciva a vedere la maschera che gli copriva il volto, sembrava che si divertisse quasi a trattenere un sorriso beffardo che, tuttavia, non si manifestava mai, costringendolo a confinare le sue stesse percezioni nel cono d’ombra della mente in cui riposano i timori, le paranoie e la follia. Quella stanza, informe e senza colori, con il suo mobilio essenziale, aveva un che di inquietante e, pur essendo lontana dall’idea che egli si era fatto dei gironi infernali, ritenne che vi si dovesse avvicinare molto.
La verità è che era ancora troppo giovane e debole per riuscire a non barcollare immancabilmente sul terreno instabile delle sue blande certezze; lasciava che l’odio e la disperazione stillassero lungo i suoi zigomi definiti, eppure, per quanto non lo ammettesse, era come un assetato giunto all’oasi tra le dune del deserto: avido di redenzione, di tregua, di possibilità.
Taceva, senza muovere un muscolo, e il suo sguardo deciso non tentennava, ma internamente – oltre all’astio che cresceva in lui come un cancro dell’anima – sentiva un pruriginoso e irrazionale bisogno di credere alle parole di Reeve, un desiderio di abbandono che mai avrebbe ammesso di provare.
Perché in fondo, nella picea oscurità della sua mente, oltre quel suo mostrarsi gelido e distante, desiderava ancora essere amato, avere una speranza.
Respirava piano, al ritmo cadenzato della musica diabolica delle promesse; gli faceva vibrare la pelle, i nervi, le pareti delle vene.
Pensandoci bene, l’Inferno era proprio quello.
Il luogo in cui qualcuno ti fa sentire importante.
Il luogo in cui il suo affetto bagnato è in realtà acido bollente sulla carne viva. E lo sai, ma ti affidi ugualmente, perché non ne hai la certezza e il desiderio si traduce in un atto di puro masochismo.

Midnight era esausto e nonostante avesse imparato a dissimulare la stanchezza, esercitandosi negli incantesimi fino allo sfinimento, prodigandosi mente e corpo nello studio, quella conversazione lo logorava sin dentro le viscere. Ormai il suo viso fiero, imperscrutabile – vitreo scudo – si stava trasformando in uno specchio delle brame relegate nei precordi della sua anima, inaccessibili, impenetrabili, ove dimoravano i desideri più profondi.
«Come un padre» ripeté in un soffio, senza guardare il professore; la menzogna gli stuzzicò la gola riarsa, accentuando il bruciore.
I fiumi narcotici della necessità inebriavano pian piano il suo cuore dilaniato e le sue pupille, colore del caramello sciolto, erano così irretite dallo spettacolo della possibilità che non si domandò nemmeno quali fossero le reali intenzioni di Reeve. Cosa volesse veramente.
Si piegò soltanto.
Ormai le sue conoscenze avevano raggiunto livelli inauditi di perfezione, sapeva di essere il non plus ultra. Così come era ben consapevole di valere meno di una macchia sulla tavolozza dell’universo, e di non aver potuto fare assolutamente nulla per Emma.
Qualsiasi cosa volesse quell’uomo, lui gliela avrebbe data.
Aveva bisogno di imparare di più, aveva bisogno che gli venisse concesso più tempo, ne era certo.
Se glielo avesse chiesto, avrebbe schiuso il panneggio morbido della vestaglia che gli cingeva il corpo, gettandoselo alle spalle come un velo, e si sarebbe inginocchiato, offrendosi – gracile odalisca al suo sultano, puttana al suo re.

La rivoglio
Voglio più tempo
Voglio più potere
Ti affido me stesso e lo faccio di mia spontanea volontà
Affinché tu mi possa insegnare
Dammi il potere
Di vincere la morte
Di distruggere la vita
La mia anima, unico sacrificio.

Una supplica al Diavolo.

«Farò qualsiasi cosa».
Alla fine, quella voce – la sua stessa voce – come una saetta di luce trafisse il telo sottile dei rimorsi e quello si liquefece a terra, riducendosi a puro silenzio. Dorian si limitò a deglutire e con il fastidioso nodo in gola che minacciava di soffocarlo, ingoiò anche l’ultima briciola della sua umanità.

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in caelum conscendam


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Povero, piccolo, disperato Dorian! La mamma non t’ha insegnato a diffidare degli sconosciuti?

«Bene,» sussurrò, segretamente trasognato. Il patto era stato siglato e Dorian, scientemente o meno, adesso gli apparteneva. «Lo sospettavo.»

Trangugiò l’ultima sorsata di cognac e abbandonò il bicchiere sulla mensola del camino. A passi misurati raggiunse il divano e prese posto, ma si curò di occupare lo spazio diametralmente opposto al ragazzo. Se c’era una cosa che aveva appreso dal sesso, era che un amante insistente rischiasse sovente di vedersi respinto: il desiderio andava instillato nell’animo della controparte poco alla volta, finché non era lei a supplicare di essere presa. Dorian meritava il corteggiamento che si riserva alle migliori signorine, quelle caste e perbene che non sanno immaginare il peccato. Per questo, lo sgravò dal peso del proprio sguardo.

«Ti sei mai accorto della subalternità della mente, Midnight?» chiese. «Si erge a gran dama del castello, ma non è che l’umile servetta del cuore. Questo, ovviamente, a meno che non si prenda la decisione di invertire l’ordine delle cose, nel qual caso la mente si trasforma nello strumento più potente e prezioso che si possa immaginare.» Chiuso nella scatola cranica di Reeve, l’intelletto accolse la lusinga con un fremito compiaciuto; aveva lavorato sodo per guadagnarsi ciò che avevano conquistato, per scardinare l’idea che li voleva in errore, malati. «Ed è proprio la mente che può darti ciò di cui hai bisogno, ciò che stai cercando senza tregua.»

Adagiò l’arto dominante sul bracciolo del sofà. Le dita lisciarono la pelle consunta, stavolta senza provare noia. Lo fece attardare in un circolo di troppo, il ricordo degli studenti che erano passati sotto le sue mani nel poco tempo trascorso dal suo insediamento al castello: come creta, riusciva a modellarli perché si fidassero e gli obbedissero ciecamente. Pedoni sacrificabili ma, per ciò solo, non meno utili allo scopo.
A quel punto, volse il capo in direzione del Caposcuola. Si limitò a osservarlo, paziente, nell’attesa che l’altro potesse dirsi pronto ad affrontarlo. Il tormento, che leggeva sull’incarnato cinereo e nella sfumatura violacea sotto gli occhi, fu sul punto di strappargli un gemito.

«Sei abbastanza intelligente da immaginare che non sia possibile riportarla in vita, altrimenti non saresti qui in questo stato ma chissà dove pronto a riabbracciarla.» Torturare Dorian con quei continui riferimenti alla ragazza e al futuro che non avrebbero mai avuto non finiva mai di stancarlo. «Ma esiste un modo per restituirti del tempo con lei… in una chiave un po’ inedita.» Tacque perché l’altro potesse assorbire il vago senso delle sue parole e spasimare nell’attesa. «Hai mai sentito parlare della Legilimanzia? Si tratta di un’arte assai difficile da padroneggiare, ma che consente di esplorare la mente altrui come se fosse un baule e noi le mani che ne trafugano pensieri, idee, ricordi…» Ciò che intendeva proporre a Dorian era così abietto, così brutale da richiedere un’anima senza scrupoli per potersi realizzare. «Emma era parte di questo castello e molti, qui, l’hanno conosciuta. Le avranno parlato; avranno studiato con lei, riso con lei, gioito e pianto; e lei avrà fatto altrettanto. Io posso darti tutto questo.» Il crepitio del fuoco segnò il ritmo delle sue intenzioni. «Posso insegnarti come riottenere Emma attraverso ciascuno di quei ricordi. Per farlo, però, devi essere disposto a profanare la sacralità della mente altrui.» I polpastrelli cessarono ogni movimento. «Allora, mi chiedo: lo sei?»

Mantenne fisso lo sguardo e immobile il capo. I suoi occhi, come dardi infuocati, riflettevano appena la fioca illuminazione della stanza, ma rimanevano incuranti. La loro attenzione era tutta verso la persona che avevano di fronte. Eccola, parevano dire, la mia Regina, la mia sgualdrina!
 
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view post Posted on 23/2/2019, 12:56
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Super astra Dei exaltabo solium meum

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Dori me, interimo
Dori me
Ameno
Latire, latiremo
Dori me

Dorian se ne stava seduto da solo, accomodato sul patio della grande villa che dava sul parco in fiore. Un’espressione tetra gli arricciava appena le sottili labbra pallide, le gambe penzolanti nel vuoto si muovevano lentamente, gli occhi arrossati gli rammentavano il tempo che aveva trascorso a leggere, chiuso nella biblioteca silenziosa di casa. Divorava un libro dopo l’altro, come se conficcandosi nel suo cervello innocente e senza colpa, le parole potessero diluire un po’ di quel rammarico che dentro lo stava logorando, neutralizzandolo.
Eppure nei suoi occhi d’oro il solstizio d’estate continuava instancabilmente a specchiarsi, zampillando come una fontana di acquerelli colorati, caldi e vividi, mentre le orchidee e le dalie germogliavano in uno spettacolo infuocato di luci cangianti, una splendida fiamma allestita per appagare la sua curiosità infantile.
La natura rigogliosa gli sorrideva, gli insegnava l’eleganza dei profumi della terra e dell’estate: le peonie splendenti e la salvia azzurra, gli agrumi e i glicini ancestrali lo inebriavano in un sogno di fiori; l’odore del tiglio lo accompagnava all’imbrunire, quello di miele puro della camomilla gli inumidiva le narici nelle prime ore della notte.
Da qualche giorno non chiudeva più occhio e, dal suo grande letto in camera, si sporgeva di continuo per sincerarsi se il sole avesse finalmente fatto capolino tra le persiane sfregiando d’argento il blu oltremare del cielo; spesso, tuttavia, il buio si dimenticava l’esistenza dell’alba e come un ospite invadente rifiutava di levare le tende.
Così, si ritrovava a rigirarsi nel letto senza poter mai prendere sonno, attendendo il giorno seguente: immaginava i doni che avrebbe ricevuto – i regali che sua madre gli avrebbe portato dai viaggi –, si chiedeva cosa avrebbero mangiato per pranzo e cosa papà avrebbe raccontato di New York e di Tokyo, di quelle persone che vivevano talmente lontano da aver assunto i connotati fiabeschi che solo la miccia della fantasia può innescare nella mente di un bambino. Odiava gli ospiti, eppure, anche se probabilmente la sua caparbietà gli avrebbe impedito di darlo a vedere, sarebbe stato lieto se fossero venuti in villa; era convinto che non vi fosse migliore occasione per celebrare il ritorno a casa dei suoi genitori.
La fine della sua veglia solitaria.

Quella mattina venne assalito di nuovo dal miscuglio di dispiaceri che si erano aggrovigliati dentro di lui, vedendo che il cancello di ferro aggettante non si era dischiuso e che nessuna limousine aveva fatto il suo ingresso nel grande viale.
Dorian stava arrivando in ritardo a comprendere che anche gli altri avevano delle vite. A livello intellettuale lo sapeva, chiaro – era un bambino straordinariamente sveglio – ma la cosa non lo aveva mai influenzato più di tanto. Le persone, nessuno escluso, erano sempre state interpreti secondarie di una rappresentazione di cui lui era protagonista, le loro vite soltanto lacerti di trame in calce alla sua. Sperimentare una consapevolezza tanto diversa – come se il copione fosse stato sconvolto e gli fosse finita in mano la parte sbagliata – lo stava distruggendo.
Adesso era lui il tritagonista, l’attore che prende pochi applausi, mentre i suoi genitori, belli e acclamati dalle folle, giravano il mondo con i loro miliardi. Si rese conto che persino i membri della servitù – imbalsamati feticci de La Belle et la Bête in vendita ad un mercatino delle pulci – lo consideravano alla stregua di un complemento d’arredo: gli preparavano i vestiti e gli spolveravano il capo come ad una graziosa bambolina di ceramica.

Fu proprio quel giorno, a sei anni, che la magia si manifestò per la prima volta in lui.
Precoce e con un aspetto davvero insolito.
Non aveva il dono appariscente di saper generare le fiamme dal nulla, o la capacità di far piangere al cielo le sue lacrime. Non sapeva comunicare con gli animali, né trasmetteva alle cose la sua rabbia, mandandole in frantumi.
Il suo talento era come una brezza che scorreva sul prato, ma più sottile e molto più sinistro.

Gli uccellini avevano cominciato ad inaugurare quella giornata di Luglio con i loro cinguettii monotoni mentre lui scivolava tra la coscienza e l’incoscienza, tra un sonno leggerissimo e una veglia dolorosamente all’erta, sull’orlo di essere turbata anche dal minimo scalpiccio sul pavimento fuori dalla sua stanza. Alla fine, avvertendo il rumore di molte voci – alcune profonde e baritonali, altre accompagnate da urletti di giubilo – decise di alzarsi, col cuore umido di speranza.
Schiuse la porta della stanza, facendo scattare adagio la chiave, scese le scale silenziosamente, col sorriso stampato in fronte, vagò a lungo per la casa... e solo allora si rese conto che nessuno stava parlando.
Sicché si era ritrovato a fare colazione senza essere degnato neanche di uno sguardo dai domestici, neppure di traverso, e a scoprire che avevano paura di lui. Adesso gli bastava un’occhiata per capire cosa pensassero le frivole cameriere in gonnella, per sapere che il giardiniere aveva appena fornicato con la lavandaia, che il maggiordomo aveva sottratto uno dei preziosi sigari alla collezione di suo padre.
Era come sentirli parlare ad alta voce.
Era come sentirli urlare, piccoli sotto i suoi occhi.

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Sollevò le gambe sul gradino davanti casa, circondandole con le braccia e stringendosele al petto con fare pensoso. Avrebbe tanto voluto che sua madre lo avesse svegliato con un bacio sulla fronte, sussurrandogli che un nuovo cavallino, bianco come l’aurora, lo aspettava nelle stalle. Avrebbe tanto voluto che suo padre per un istante, un solo unico istante, si fosse sciolto in quell’abbraccio di tenerezza che, fin da quando aveva memoria, non gli aveva mai concesso.
Ancora una volta, invece, qualcun altro gli aveva rubato l’affetto e la vicinanza dei suoi genitori, qualcosa più importante di lui.
Ma soprattutto, Dorian avrebbe voluto che almeno qualcuno in quella casa fosse contento della sua presenza: qualcuno che fosse degno di accettare l’amore che il suo piccolo cuore scalpitante nella gabbia toracica era in grado di contenere, qualcuno che fosse in grado di ricambiarlo.
Invece, un dio crudele lo aveva punito con quel dono, regalandogli la certezza assoluta, definitiva – dolorosa – che a nessuno importava di lui.


Allora avrebbero pagato.
Tutti avrebbero sofferto.

***


«Ho sentito parlare di quest’arte» rispose, perdendosi nell’oceano profondo dei ricordi.
«Ad Hogwarts non ci è permesso studiarla, sfortunatamente». Aveva distolto lo sguardo dal vuoto, volgendolo nella stessa direzione del professore.
«Gli occhi che si trasformano in una lingua umida e carezzevole pronta ad esplorare con tenerezza la mente di un altro… il ritmo del suo cuore che accelera mentre rivive il passato…» sulla sua bocca pulsò un sorriso; alla fine aveva compreso in che direzione andasse il discorso di Reeve. L’ idea aveva attraversato le sue labbra gonfie e dischiuse, fino a tradursi in un impulso quasi erotico di gioia elettrica per il cervello.
«E’ considerato sbagliato».
Soppesò il pensiero, incantato.
Era davvero una proposta allettante.
«La mente deve essere rispettata…»
E quell’uomo conosceva il modo per permettere a Dorian di prendersi dagli altri ciò che gli spettava.
Rise e lo guardò negli occhi.
«Se qualcuno ha il potere per profanarla, non vedo perché non debba sentirsi legittimato a farlo».
La sua coscienza si era dileguata nell’oscurità, solo un ghigno gli risuonava nella testa. Non si autocensurava nemmeno più.
Non aveva di che temere.
Il rosso della gioia davanti agli occhi.
Avrebbe estratto il ricordo di Emma dalla mente degli altri, salvandola dalle erbacce.

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Poco tempo lo separava dal momento.
Il momento in cui sarebbe divenuto davvero spietato.

Il fiore era sbocciato.
Ora sarebbe divenuto velenoso.


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sedebo in monte conventus


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Non si può proprio dire che tu mi faccia aspettare. :zalve:
 
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Il Fato

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I don't know what I'm supposed to do, haunted by the ghost of you

Reeve annuì, compiaciuto. Era lo stesso movimento accennato che lo si vedeva esibire a lezione in pendenza di un intervento particolarmente brillante, specie se l’esponente faceva sfoggio di una certa saccenteria. Aveva imparato negli anni a distinguere chi era davvero sicuro di sé da chi si trincerava dietro una maschera di tracotanza per occultare la propria debolezza. E spesso gli studenti che si atteggiavano a superiori si portavano dietro delle mancanze; si erano allenati a dissimulare perché gli altri vedessero solo ciò che erano disposti a dare.
Il fatto che Dorian avesse smesso di nascondersi lo inorgoglì.
Stava cambiando e crescendo, ancora una volta sotto il tocco delle sue mani.
Era o non era un padre premurosissimo?

«Bene,» disse. «Perché le nostre lezioni abbiano successo, ho bisogno che la tua mente sia riposata e tu con essa. Apprendere la Legilimanzia richiede molto più di uno sforzo mnemonico, Dorian.» Il passaggio a un tono più colloquiale, sincero a suo modo, seguì una naturale modificazione dell’atteggiamento. Parlava senza gli artifici che aveva adoperato per condurlo dov’erano e, paradossalmente, tanto era bastato a fargli sviluppare una parvenza di partecipazione nei confronti dello studente. Adesso che era suo, voleva prendersene cura. «Non è come imparare a memoria l’esecuzione di un incantesimo, o le cronistorie di Peverell. Per assurdo, ha più a che vedere con l’erbologia.»

Reeve aveva sempre avuto un’autentica passione per il sapere in ogni sua forma. Questo gli aveva consentito di esplorarne ciascuna senza lasciarsi fermare dai pregiudizi. Da che mondo e mondo, un professore di Difesa Contro le Arti Oscure mostrava un’altezzosità confacente al ruolo e tendeva, anche solo inconsciamente, a sminuire i colleghi delle cattedre meno predilette; e la magia ne finiva rinsecchita. Lo aveva visto — e continuava a vederlo tra le mura di quel castello — nel tempo speso a esaltare le sue conoscenze. Perciò, si era deciso ad approcciare tutte le scienze per facilitarsi l’accesso ad altri, più complessi campi d’erudizione.
Condivise una parte delle proprie scoperte con Dorian.

«In erbologia, devi lasciare che il seme attecchisca e rispettarne i tempi, prima di ottenere il frutto. Perfino per i fertilizzanti, esistono regole che non vanno contravvenute a pena del risultato: gli escrementi di Mooncalf, ad esempio, vanno raccolti seguendo indicazioni ben precise. Lo stesso vale per la Legilimanzia, in un certo senso. La tua mente deve essere sgombra da ogni pensiero che non sia quello di riuscire e il bisogno di avere accesso alla mente altrui deve muovere ogni tua intenzione. Non c’è altro che quello! Soprattutto, devi essere pronto.» Le sue pupille si dilatarono. Stava per nominarla di nuovo. «Devi essere pronto a incontrare Emma in tutte le sue possibili distorsioni. Ognuno di noi vede le cose a modo proprio e, come hai detto tu, non ci è dato conoscere mai davvero in fondo una persona.»

Estrasse nuovamente la bacchetta, lasciando che la vaga insinuazione contenuta nelle sue frasi arrivasse a destinazione, e la agitò in aria. Dall’angolo più remoto della stanza, il cigolio di un baule invisibile anticipò il percorso aereo di un libro dalla copertina color pavone. Reeve lo prese tra le mani, ne soppesò il contenuto e lo allungò a Dorian. Era un volume privo di titolo e mancava della firma dell’autore. Eppure era impaginato come si conveniva ai migliori testi in circolazione.

«Leggilo. Jeremiah Vorobyov è un luminare in fatto di Legilimanzia. Scoprirai quali sono le controindicazioni, i pregi e le conseguenze che comporta il ricorrervi. Se sarai ancora dell’avviso di tentare quando avrai finito, raggiungimi in ufficio un Lunedì qualsiasi poco dopo l’ora di cena e io vedrò d’insegnarti.»

Edward si alzò. Gustava piano il sapore della vittoria ottenuta, mentre raggiungeva la scrivania, recuperava la bacchetta di Dorian e tornava in prossimità del divano per riconsegnargliela da sopra lo schienale. Il fuoco nel camino crepitava ancora vivacemente.

«Se pensi di essere abbastanza in forze per fare ritorno in dormitorio, ti suggerisco di andare e goderti il riposo.» L’abiettezza che lo nutriva trovò il modo d’incunearsi fino alle labbra, rendendo il suo sorriso diavolesco. «Nessun dirottamento imprevisto, intesi?»

Ma sapevano entrambi che non gliel’avrebbe permesso comunque.


Puoi descrivere col prossimo post sia l’abbandono dello studio sia il giorno in cui — se così dovessi decidere — Dorian si reca all’appuntamento con Reeve.


Edited by Master Adepto - 1/3/2019, 22:48
 
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Ascendam super altitudinem nubium

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«Lo so» sussurrò Dorian e infilò le braccia nelle maniche morbide della vestaglia, argentea nei soffusi bagliori della luna. Le ciglia gli disegnarono una delicata ombreggiatura sul viso pallido, un sorriso vuoto gli riempì la bocca e lo yukata tornò a coprire le sue membra stanche. A sentir menzionare Emma, serrò le labbra impassibili, sopprimendo con forza il nodo in gola che minacciava di sciogliersi in pianto da un momento all’altro; i suoi occhi – neri come ossidiana alla luce del fuoco – brillavano nella penombra.
L’amore era diventato egoismo e il bisogno di impellente di rivederla, godere del calore della sua pelle e della sua voce, della sua risata imbarazzata e appagata, fu sufficiente a convincerlo che non esistessero menti troppo fragili da meritare pietà o rispetto.
«Nam cetera cernet omnia; de me uno sentiet ipse nihil».
Replicò, parlando più a se stesso – le gambe snelle e pallide, incrociate, si intravedevano oltre la stoffa; i palmi delle mani giunti in una profonda meditazione.
«Infatti vedrà ogni cosa, di me non potrà sapere nulla».
Una folata d’aria, carica del profumo dolce di lei, giunse d’improvviso alle narici della sua memoria, portandosi via un sospiro affranto.
La ricordava come se non fosse passato un giorno, fin troppo vividamente. Ogni attimo in cui la pensava lo pervadeva un dolore struggente: la vecchia ferita dell’anima continuava ad intossicarlo, ad annichilirlo completamente.
Ma quella sarebbe stata l’ultima volta.
Con un cipiglio neutro, strinse le dita intorno al volume che l’uomo gli porgeva e lo dischiuse – la vista in quegli anni iniziava a fargli difetto, ma riuscì comunque a distinguere le parole sulla pagina preziosa –; scoccò un’occhiata interessata ai paragrafi.
«Conosco l’autore. Il tempo che ci separa dal prossimo lunedì è fin troppo», soggiunse come se fosse scontato.
Quando Reeve gliela porse, istintivamente si portò la bacchetta al petto e la ripose nella tasca interna a sinistra, dove era abituato a conservarla scrupolosamente.
Una coltre impalpabile di silenzio colmò l’atmosfera dello studio; Dorian si alzò e si ricompose lentamente, allacciandosi la vestaglia intorno alla vita.
«A lunedì, allora» sussurrò alla fine, con fredda gratitudine.
E andò via, senza dire altro.

Attraverso le vetrate antiche e le arcate a volta larga, la luna giungeva rifratta in una miriade di raggi bianchi che andavano a illuminare le armature, gli scaffali e i vetusti androni del castello.
Alla fine si posò anche su di lui, vestendolo di bianco.
Una cerva su di un altare.

Quando rientrò in sala comune il pendolo dell’orologio sembrava immobile oltre il vetro della cassa, come immortalato in una fotografia d’altri tempi nella notte profonda e silente.
Segnava le tre.

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Dorian riposava a torso nudo, le braccia allacciate ai cuscini di seta nera dietro la testa. Respirava piano, rimirando quieto i meravigliosi affreschi sul soffitto. Si voltò un po’ di lato, solo per indugiare con lo sguardo sulla figura addormentata, distesa al suo fianco.
Nella calma accogliente di quel lunedì mattina, le forme compatte del corpo di Caleb si intravedevano appena, come abbozzate da un acquerello. I suoi capelli erano fiamme ramate nella notte delle federe; un piacevole effluvio di muschio e di cedro effondeva dal suo torace svestito, dalla pelle abbronzata come quella di un mandriano, simile al miele bruno, denso e dolce del castagno.
Mentre lo guardava riusciva quasi a sentirlo sulla lingua, quel sapore. La prima volta che l’aveva assaggiato, qualche giorno prima, era stata la prima volta dopo la morte di Emma che si era lasciato andare, godendosi la ritrovata perfezione di due corpi nudi e uniti. Il fuoco aveva incontrato la neve, e le piante delle serre erano state bruciate dalla salsedine della lussuria.
Era bello Caleb Evans. Aveva un paio di occhi verdi profondi come valli, i capelli scarmigliati sulla nuca che il vento, mentre volava sulla scopa, continuava a scompigliare; labbra carnose e scure, su cui il piacere scottava come il sole di agosto. Il suo corpo era tonico, agile, forte. Un ragazzo diventato improvvisamente uomo senza avere il tempo di rendersene conto. Lo comprendeva, Dorian, ammirando la compattezza delle sue braccia rilassate, nascoste appena dalle lenzuola. Coglieva alla perfezione ogni segnale di quella giovane virilità sbocciata all’improvviso nel suo torace ampio, nel suo ventre asciutto e definito, nelle cosce muscolose leggermente schiuse e avviluppate alle sue.

Il primo a cui far esperire il dolore.

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Si sarebbe spinto dentro la sua mente. L’avrebbe fatto urlare, fischiettando un motivetto allegro. Così come aveva accarezzato la sua pelle vellutata e abbronzata, avrebbe violato il lindore della sua testa.
Sarebbe stato facile come sfogliare una margherita, davvero una gran sciocchezza.
Era quello il valore della vita altrui. Dopotutto, c’è gente capricciosa in giro.
Soffocò una cupa risata.

Non lo udì l’agnus Dei, che sognava l’amore.

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Alle nove in punto, Dorian era davanti allo studio di Reeve.
Il libro, ormai stampato a fuoco nella memoria, stretto nella destra.
Si alzò il sipario, fremettero gli Inferi, rullarono i tamburi.

Toc-toc.


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similis ero Altissimo


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SYnIZ93
“ N e p h i l i m „

Illusione e bellezza.
Forse, illusione della bellezza stessa.
E uno scalpiccio di piedi che si muovono in fretta.

Lo studio di Edward Reeve non era più lo studio di Edward Reeve. O, meglio, lo era ancora, ma le fattezze non conservavano nulla che rimandasse al freddo arredo di un salotto improvvisato. A osservarlo, adesso, ne usciva alimentata l’impressione che mondi ed epoche fossero stati attraversati per, infine, giungere altrove; quasi che la stanza spoglia e inospitale che apparteneva a quell’uomo indecifrabile si fosse prestata a far da portale e nulla più. Una volta servito lo scopo, le era stato presentato l'oblio e in esso si era perduta.
Sotto la considerevole mole di un lampadario di cristalli, invero, si stagliava ora un immenso salone che per dimensioni aveva da far concorrenza alla Sala Grande e che la surclassava in bellezza. Infinite distese di marmo chiarissimo rivestivano il pavimento e le alte pareti finché questo, nell’incontro col soffitto, non cedeva il passo alla raffinata arte dei maestri veneziani. Ampie vetrate — affacciate su un odoroso giardino di roveri e gerani — si aprivano sul fondo e consentivano l’ingresso al vento, che muoveva in dolci volute lungo la pianta ovale della pista da ballo. Rasente il perimetro, poche sedie e altrettanti raffinatissimi elementi d’arredo.
Vestito del suo abito migliore e avvolto dalla luce accesa che dominava l’ambiente, Edward danzava. Teneva le braccia larghe, accompagnando una dama immaginaria, e procedeva con fluida rapidità attraverso l’arena che ne ospitava i volteggi — gli occhi chiusi, il sorriso beato, la mente in fermento.
Avanti ancora, avanti sempre, avanti per chiudere un cerchio e aprirne un altro.
Edward sapeva cose che nessun altro avrebbe mai potuto pensare, neppure immaginare.
Sapeva, ad esempio, che Dorian sarebbe arrivato quella sera stessa, che una porzione del loro Destino si sarebbe compiuta in una delle stanze che componevano il suo palazzo di orrori.
Fece scivolare seducentemente la mano lungo la schiena della ballerina, posizionandola sulla vita stretta. Riusciva a percepirne la pelle di burro sotto il tessuto spesso e i sospiri trattenuti nel petto florido, che sfiorava il suo attraverso gli strati d’indumenti. Senza aprire gli occhi, la vide schiudere le labbra e inspirare un’altra volta; e rise di lei.
Avrebbe potuto baciarla e darle l’anticipazione che cercava nel dopo; come lo cercavano tutti. L’avrebbe baciata a fondo, finché le punta della sua lingua non ne avesse scovato il piacere e provocato il risveglio. Desiderava strapparglielo dalla bocca, dal ventre contratto, dalle cosce tremanti e, infine, dalle morbide intimità che lo aspettavano; che desideravano di vederlo giungere.
Invece, la lasciò andare e si separò da lei.
Posò la mano sul pomello che le nocche di Dorian avevano appena sfiorato l’uscio.
Il viso impassibile di Edward Reeve lo ricevette e, con un cenno, lo invitò a entrare.
Quando la porta si richiuse alle spalle di entrambi, la serratura scattò un paio di volte.

«L’abito non fa il monaco,» gli disse e lo oltrepassò. Poi, agitò la bacchetta con quel suo modo di fare sicuro e perentorio insieme: il libro sfilò via dalle dita dello studente e sparì lontano; e gli abiti scolastici vennero sostituiti da un vestito da sera che ne esaltava l’incarnato perfetto. «Ma l’apparenza può, deve ingannare.»

Gli sorrise paternamente, disvelando sotto l’ambra degli occhi di Dorian una parte del torbido mondo d’incanto che aveva costruito in una vita intera. Della persona indecifrabile, quasi dimenticabile che era stata e che continuava ad esibire tra i banchi di scuola, non era rimasto che l’involucro esterno che ne determinava l’aspetto.
Un movimento del polso e il primo di uno spesso panneggio di veli cadde. Al centro della pista da ballo, seduto e incosciente, stava un giovanotto di non più di tredici anni. Indossava ancora la divisa della sua Casata d’appartenenza: Grifondoro.
La vittima sacrificale di un gioco perverso.

«Benvenuto nella mente umana, Dorian,» aggiunse finalmente nell’accoglierlo e la sua voce riecheggiò nell’immenso salone. Glielo indicò con un gesto del braccio come a volerne sottolineare la vastità: era arioso come sconfinati erano gli intenti dell'uomo che lo aveva plasmato; incantevole e pericoloso teatro delle atrocità che avevano ancora da compiersi. «Cosmo delle illusioni, dove ogni costrutto è arte.»


Rieccoci, dopo una lunga pausa!
È mia premura chiederti di mantenere lo stesso ritmo che abbiamo tenuto prima che si aprisse questa parentesi: trovo sia importante per entrambi, ai fini della buona riuscita del percorso che stiamo intraprendendo, evitare di spezzare troppo il ritmo. Ti invito, quindi, a considerare questo aspetto adesso che ci stiamo approcciando alla fase di vero e proprio apprendimento della Vocazione.

Come sempre, se dovessi avere perplessità di sorta, non esitare a scrivermi.
Per il resto, ti auguro ancora una volta buon gioco!
 
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view post Posted on 20/7/2019, 08:38
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Verumtamen ad infernum detractus es

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Ascolta.
Ascolta, Dorian.
Senti anche tu il gong sepolcrale dei tamburi rullanti?
Lo senti?
E allora lascia che a cullarti sia il suono ipnotico di questo fragile incanto.
E’ il crudele vagito della tua rinascita nel sangue.
Che si alzi pure, adesso, il sipario delle tenebre: che il cielo arda del fuoco divino; e le stelle, cadendo, macchino di sangue il nero di questa mezzanotte.
Sul palcoscenico del peccato va in scena l’epilogo; ed è squisita goduria assistere a questa tragedia.



Corre lenta la scia della musica; si solleva sinuosa, disegnando ipnotiche iperboli nell’aria, ancora satura della stucchevole fragranza del sangue rappreso. Traccia improbabili geometrie, impalpabili linee che si spezzano, solo per ricomporsi, costruendo astratti gradini verso le stelle.

Se ti svelo il mio potere riuscirai a scappare, adesso?
Conosco infiniti trucchi, ragazzo.
Migliori dei tuoi, senz’altro.
Pericolosi, letali.
Chiedi e ti sarà dato.
Uccidi la coscienza, lascia che risorga e uccidila ancora.
Lasciamo stare le carte, stavolta; giochiamo coi dadi.
In palio c’è la tua anima.


Nel momento in cui si accorse dell'altro studente, un sorriso mellifluo si dipinse sulle labbra piene di Dorian stirandone gli angoli; era un tocco di classe a macchiare di tenebra il volto elegante, un acquerello nero a tingere d’oscura bramosia i tratti aristocratici.
Le sue dita affusolate oscillavano con singolare maestria, come a scandire una musica segreta; dondolava l’argento del crocifisso nel vuoto, sospeso alla catena che si muoveva incessante al suo collo, pendolo di un orologio guasto che rintoccava una mezzanotte eterna. All’estremità, sospesa nel vuoto, ardeva l’effigie.
Era nello sguardo affilato che divampa l’ardente tenacia di non soccombere a vaghe, ingannevoli lusinghe e nel cuore che, intrepido, continuava a scalpitare nel petto.

Urla di nuovo.
Mi piace la tua voce, bambino.
Mi piacciono le tue preghiere.
Se ti strappo il cuore, me lo regali?
Se provo a baciarti, piangi di nuovo?



Erano più buone di tutte le labbra di Dorian, tremavano sotto l’assalto improvviso dell’estasi che continuava imperterrita a divorarle, corrompendone ogni reticente purezza.
La lingua le percorse avida, assaporandone i tagli e i graffi, insinuandosi tra esse per emergere trasformandosi in voce, spezzata dal desiderio.
«Ovunque ci troviamo è un luogo gradevole.»

Le dita s’intricavano alle lunghe ciocche dei capelli; sembravano fatti di oro rosso.
Con una morsa impietosa li costrinse alla resa, raccogliendoli in una spira fragile come il gambo di una calendula. Aveva da fare.

Ragazze, uomini, fanciulli.
Mai ho assaggiato labbra più dolci delle tue.
Ti piace, piccolo?
Mi piace…
Mi piaci.
Non respiri?
Vuoi aria?
Vuoi conoscere il Piacere che si prova, soffocando tra le mie braccia?
Potrei ucciderti adesso, rubarti il cuore.
Semplicemente senza smettere di baciarti.
Se allargo le mani, smettendo di toccarti,
potrei consumare la tua vita in un fragile battito d’ali nere di farfalle rapaci.
Se mi fermo, me lo chiederai?
O preferisci perderti ancora in questo gioco fatale?
Se ti prendo, mi guarderai ancora negli occhi senza temermi?
E allora gioca, piccolo.


Le mani, sapienti ed esperte, scivolarono lungo i fianchi compatti, sfiorando le linee morbide dell'abito da sera. Dorian respirò piano.
«Allora mi insegni, professore.»
La sua voce era caramelle e aghi danzanti nel buio, venata da una sfumatura d’ineffabile malizia.
Il suo respiro ormai non era che un filo d’aria trasparente e velenosa.

Peccato che è il tuo cuore, cui manca un pezzo.
E sanguina, sanguina fino a che il sipario non toccherà terra.
Solo allora partiranno gli applausi.
E quando verrà l’alba di te non resterà che il ricordo.
Fino ad allora, fa’ un buon sogno…
Piccolo.



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Chiedo venia, ma non ho proprio potuto rispondere prima. In ogni caso questa role era spesso nei miei pensieri, anche nei momenti meno leciti.
«Mi sta ascoltando? MI STA ASCOLTANDOH???»
...
«...Eh? Sì, sì, certo!»
 
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view post Posted on 28/7/2019, 14:52
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Il Fato

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“ N e p h i l i m „

La bacchetta di Reeve individuò il fanciullo e, un istante più tardi, gli restituì la coscienza. Gli occhi acquosi — di un azzurro spento — si fissarono sul mondo di fasti attraverso le palpebre schiuse. Pareva un militare scampato a morte certa che, risvegliandosi su un letto d’infermeria, non si capaciti di essere sfuggito alle mani avide della Signora con la Falce.

«Bentornato tra noi, Philip,» lo accolse il docente, facendoglisi vicino con aria paterna. Quando il suo sguardo incrociò quello del bambinetto, bastò un sorriso mellifluo perché la tensione sul viso del più giovane si sciogliesse come cristalli di zucchero al fuoco. Edward gli lisciò una guancia glabra con l’indice, poi adagiò la mano sulla spalla dello studente. «Spero che tu ti sia riposato e che ti senta meglio. In ogni caso — la bacchetta appellò un calice d’argento da chissà dove e lo spinse a levitare davanti al Grifondoro, finché quello non lo agguantò — questo dovrebbe aiutarti a recuperare quanto ancora ti manca. Non hai di che temere, ragazzo mio!»

Negli attimi che erano appena trascorsi, Dorian non aveva occupato alcuno spazio nel solco dell'interazione; era come scomparso. E le attenzioni di Reeve verso Philip si erano di molto avvicinate a ricordare quelle di un padre che prediliga il figlio prodigio soltanto finché non si ricordi di averne messo al mondo un altro, meno eccelso ma più caro al suo cuore.
Più semplicemente invero, per come la vedeva Edward, ciascun atto sulla scena trovava la sua ragion d’essere nel tempo. Nessuna battuta poteva essere pronunciata prima che fosse giunto il suo momento; nessun ruolo poteva essere interpretato prima che il suo senso venisse correttamente introdotto nella trama in svolgimento.

«Ho un’altra sorpresa per te,» continuò e, allora, finalmente si volse verso Dorian, rendendolo visibile a Philip. Il fanciullo, dopo un iniziale stordimento, trasalì e fece cadere il bicchiere vacante sul marmo chiaro del pavimento. Edward rise di un calore simulato che, a contatto con la pelle del ragazzino, ne tinse le guance di pesca. «Dorian, ti presento Philip Doe. Philip, ti presento Dorian Midnight. Da stasera in poi, significherete l’uno per l’altro molto più di ciò che significate adesso.» Lo sguardo di Reeve mantenne quello del Caposcuola, che intimamente preferiva poiché immagine speculare della sua stessa deviazione. «Philip ci assisterà nel corso del nostro apprendimento. È un Grifondoro del terzo anno, più che brillante nella materia che insegno.» La lusinga, calcolata abilmente, spinse l’imbarazzo e il piacere fino alla curva delle orecchie del più giovane dei tre, mentre l’insegnante si voltava per sorridergli. «Come ti ho già detto, Philip, non hai nulla da temere: quanto accadrà in questa stanza non vedrà vita al di fuori. Nessuno saprà quello che io già so e che, con un po’ di fortuna, apprenderà anche Dorian.»

A quel punto, la sua espressione si fece seria e tornò a indagare la bellezza infernale dei lineamenti del Serpeverde. Sapeva esattamente cosa andasse fatto e come. Il curriculum di Dorian gli forniva la certezza assoluta che non una virgola del libro di Vorobyov fosse stata data in dono alla dimenticanza — conosceva la tecnica e ogni stilla di cui si componeva la teoria. Il brillio famelico che sfolgorava tra le ciglia dell'altro bastò a fargli da conferma.
Reeve ridusse la distanza che lo separava dal Grifondoro.

«Lascia che ti mostri,» asserì, stendendo il braccio in direzione di Philip, che si fece trovar pronto. Residuavano alcune note di incertezza nell'animo dell'innocente di fronte al timore che il suo segreto potesse essere svelato, eppure la sua fiducia nel docente superava qualsiasi residuo di titubanza. I loro sguardi s’incrociarono come già era accaduto, quella sera e molte altre prima. «Legilimens!»

La coscienza divenne vacuità nelle iridi di cielo e la risolutezza mutò in stupore sul visino ingenuo. Nello spazio profumato del salone, un alito di vento inframmezzò il silenzio e s’intrattenne a studiare i dettagli di quella silente intrusione. Solo quando Edward abbasso l’arma e distolse l’attenzione dalla sua cavia, il corpo mingherlino dello studente si rilassò e le mani smisero di ghermire le cosce attraverso la stoffa dei pantaloni.

«È esattamente quello che devi fare,» disse a Dorian, la voce impastata dal sapore dei ricordi che aveva appena profanato.

Compì un passo lateralmente per invitarlo ad occupare la posizione che aveva abbandonato in suo favore e non aggiunse altro. Omise di dirgli che molti dei passaggi che aveva compiuto non erano che un inutile dispendio di energie per lui, una macchia di teatralità che, ad ogni modo, sanciva nelle sbavature i tratti della sua disumana imperfezione.
Avrebbe potuto scavare nella memoria di Philip — e di molti altri, Dorian compreso — con un solo sguardo e quella formula trattenuta al di qua della bocca. L’allievo che aveva intenzione di istruire — la sua bellissima, bellissima Regina tra infiniti, sciocchi pedoni — ancora no.

«Ora, danza.»
 
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view post Posted on 2/9/2019, 17:06
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Et manus eius extenta, et quis avertet eam?

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Questo è un racconto di Morte e Passione. E’ la storia di come il diavolo, senza saperlo, s’innamorò del suo Signore.


Quell’anno, nella grande cattedrale, c’era un nuovo prete: i suoi capelli erano sottili anelli di oro preziosissimo, i suoi occhi zaffiri lucenti. Padre Adam era molto amato.
“Anche se è così giovane la sua devozione non conosce cedimenti – notavano i parrocchiani, tutti insolitamente abnegati – per quanto sia sconvenientemente bello” aggiungevano prontamente, perché non stava bene complimentarsi neppure con i paladini della chiesa.
“Perché non assomigli a fratello Adam?” domandavano le madri ai loro figli, che erano soliti pregare poco. “Alla tua età non si sognava neppure di andare a letto senza aver ringraziato il buon Dio.”
A dire il vero, padre Adam non si alzava dal letto, né si vestiva, né desinava senza aver reso grazie al Signore. Da quell'onest'uomo che era, si opponeva costantemente ad ogni tipo di sopruso e rifuggiva ogni tentativo di corruzione, preferendo al denaro la miseria e la preghiera, e continuava a dire predica esortando i parrocchiani a compiere coraggiosamente il loro dovere, invitandoli a non ricorrere mai alla violenza né a cedere alla tentazione.
Un giorno, il diavolo, infastidito da cotanta santità, decise di fargli visita e metterlo alla prova. Così, sotto mentite spoglie, si recò alla funzione del mezzogiorno e appuntò i suoi occhi pungenti, verdi e belli come quelli di un gatto, sul suo viso efebico.


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«Mhm…»
Quando il bimbo si ridestò, le labbra di Dorian s’incurvarono e gli angoli della bocca si incresparono in un sorriso inappagato. Era una bocca che ammaliava, oscillava e sussurrava mordace: sorrideva beffarda, livida si dischiudeva e soffiava narcotica polvere di desideri proibiti.
Lo scrutò avido, affilando lo sguardo sui tratti armoniosi del suo corpo esile, infinitamente allettante, squisito.
La lingua lambì lentamente il labbro inferiore e, voluttuosa, una scia brillante di saliva lo umettò, esacerbandone il pallore, coprendolo con il suo velo viscoso.
Il fruscio appena percettibile del leggero yukata color avorio accompagnò il gesto della mano mentre si appropinquava verso di lui.
«Molto lieto» aggiunse infine con dolcezza, reclinando il capo in segno di profonda deferenza. I lunghi capelli gli ricaddero sul volto, adombrandone l’espressione d’insolita e vorace cupidigia.
«E’ mio desiderio esserti amico. Il tuo aiuto è quanto di più mi stia a cuore…» sibilò. Le dita adunche e affusolate si strinsero attorno alla mano del piccolo* e i suoi occhi, come due opali superbi, brillarono di luce rossa, sferzando la penombra.
Così, l’Incantatore di Serpenti sorrise e la sua bocca perversa, esangue e diafana riprese la danza. Lesinava ipnosi e gioie artificiali; lesinava veleno.

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Solo lo scroscio lento dell’acqua infrangeva il silenzio… durava pochi attimi, poi tutto taceva di nuovo; Oceano ritirava le sue onde, azzurri bisbigli brillanti come gioielli, e su ogni cosa calava un silenzio di fiaba. La luna, stanca, tingeva con l’argento i seni profumati d’arancia delle colline e la brezza si trascinava dietro nuvole di sabbia e residui di salsedine, code di stelle cadenti simili a lunghi orecchini.
La pelle del prete era calda, umida per il vapore dell’acqua e intrisa del profumo degli oli essenziali che si era spalmato – vanità esiziale – sulle cosce magre, sul ventre compatto e sui capelli biondi. La lunga tonaca, riversa sul bagnasciuga, oscillava come un cadavere ai piedi del patibolo e il colletto bianco, candido osso, sprofondava pian piano negli abissi della polvere.
“Adam”
Una voce maschile, grave e vellutata, arrocchita in modo sensuale dal fumo di chissà quale sostanza turbò la quiete notturna; sui lunghi steli degli asfodeli si zittirono le cicale insonni. Era quasi nostalgico il tono, eppure bastava quel semplice richiamo, mentre la superficie dell’acqua si increspava al ritmo languido di una coscia, ad alimentare nel sacerdote il fuoco della lussuria. Le fiamme tremule delle candele continuavano ad ardere silenziose sulla sabbia e le gocce di cera, come lacrime di bambole, colavano e si solidificavano in strie lattiginose.
“Vieni, Adam”
Gli occhi color del lapislazzuli del novizio fremettero di godimento e il pensiero, inadatto come la neve all’inferno, si fece strada nei vortici della sua mente: il diavolo stringeva il suo cuore giovane e pulsante tra le dita.
Lui, il Piacere, sapeva come manipolare qualsiasi cosa, acqua, rocce, aria e anche uomini, donne, fanciulle e fanciulli: ogni elemento del Creato gli obbediva. E il Piacere amava avvicinare ciò che era pio, abnegato, incontaminato.
Gli aveva strappato ogni residuo di innocenza ignorando le sue salmodie singhiozzanti, e una notte, mentre le lacrime si seccavano sulle gote e il sangue sulle labbra morse, gli aveva estratto quasi per sbaglio dalla mente l’immagine di quel Dio tanto indifferente alle sorti degli esseri umani, vivida come un l’istantanea di una polaroid.
Il diavolo, d’improvviso, non aveva più badato ai gemiti gutturali e sazi del giovane. Era un ragazzino senza importanza e la sua purezza scialacquata gli offriva ben misero banchetto se confrontata con le gioie del Paradiso; era insapore come secchi aghi di pino.
Così, anche quella sera, mentre il novizio smanioso si chinava e i capelli biondi gli ricadevano morbidi sul viso, egli sbadigliava sonnolento, col suo fiato regolare, cadenzato, flemmatico.
Soltanto quando l’altro fosse ricaduto esausto e spossato sulla sabbia umida, avrebbe potuto prendersi il suo godimento, tempesta di cenere e lapilli infuocati, guardando il volto del Signore attraverso gli occhi di un altro.

Secondo la leggenda il primo legilimens fu proprio Lucifero.
Per questo, ancora oggi, essa è ritenuta da taluni una pratica abietta.


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Appena Reeve portò a termine il suo incantesimo, Dorian si lasciò sfuggire un flebile sospiro: l’eccitazione vorticò colorando di porpora e amaranto le sue gote. Nell’ombra, lo spettatore fremeva, batteva i tacchi, tremava di desiderio e meraviglia come un bambino davanti alla fanfara di un’orchestra; eppure la sua soddisfazione non aveva volto, si celava dietro una macabra maschera di velluto.
Infine, dopo aver atteso quell’agognato invito, si fece avanti.
I morsi della fame erano ormai insopportabili.
Si sentiva il più bello e incantevole degli uomini: la stella più luminosa.
Le sue movenze, come quelle di un ballerino, erano perfette, eteree. Sfilò la bacchetta dalla manica ed essa proiettò sul pavimento un’ombra allungata all’infinito. Era pronto a replicare le movenze del Maestro.
La indirizzò alla tempia sinistra del piccolo e le sue iridi sulfuree baluginarono commosse nelle tenebre. Era orgoglioso di essere stato iniziato a quei misteri, per nulla al mondo avrebbe voluto deludere il suo pubblico. Il suo corpo divenne semplice involucro, la volontà ardeva più fervida del sangue che gli scorreva nelle vene.
Come per incanto, d’improvviso, gli occhi di Dorian si trasformarono in un’enorme, profonda bocca; le ciglia, lunghe ali di una libellula, vibrarono come labbra che succhiano la pelle.
Le sue pupille incontrarono quelle di Philip e in esse, infine, affondarono come denti spietati.

L’appetito raggiunse la sua acme.
Gli parve quasi di sentire il sapore dell’altro sulla lingua: mandorle caramellate e zucchero filato.

«Legilimens.»
La musica della formula sancì l’estremo peccato di gola.
Finalmente si preparò a divorarlo, con struggente passione.


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Il raggio di luce bluastra della candela esaltava le forme armoniose del suo corpo: i suoi occhi compivano acrobazie impazzite sulle pagine scritte fittamente.
Danzava sulle righe d’inchiostro.
Danzava… e d’un tratto si fermava.
Gli occhi arrossati trafiggevano il vuoto, cercavano di cavare luce dall’ombra, ma ormai era tardi.
Dorian non chiuse mai per davvero il libro di Vorobyov, né mai dimenticò il suo infernale racconto.

Il diavolo si leccò le labbra: ed infine lo baciò.
Un bacio umido, vorace.
Con la sua lingua acida gli sottrasse per sempre il sapore di Emma.


De radice enim colubri egredietur regulus, et semen eius draco volans.


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Ti chiedo nuovamente scusa per il ritardo, ma in questi mesi ho avuto davvero poco tempo a disposizione per scrivere e non mi andava di abbozzare una risposta insignificante o scialba stilisticamente. Perdonami! L'asterisco sottende, ovviamente, un'azione potenziale. (Il condizionale, che è pure tanto bello come modo del pensiero, rovina ogni poesia :ihih:).


Edited by Dorian - 2/9/2019, 21:22
 
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view post Posted on 30/9/2019, 17:23
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Il Fato

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“ N e p h i l i m „


Signore e signori miei, bentornati!
Gli avvenimenti m’impongono di svelarvi un’altra piccola porzione della storia di Reeve.
Per farlo, andando a ritroso nel tempo, ho deciso di trasportarvi presso il salone in cui si trovano attualmente Dorian, Philip e lo stesso Edward e di introdurvi al cospetto di un personaggio del quale tutti — a mio modesto avviso — presto o tardi dovrebbero fare la conoscenza… letteraria, se non altro. E, poiché le vicende che interessano entrambi manifestano un certo coefficiente d’intensità, vi prego di concedermi l’onore d’intrattenervi con la promessa di non tirarla troppo per le lunghe. Io, del resto, non sono qui che per questo.
Dorian, fra tutti, è chiaro che il tuo diletto sia quello alla cui cattura tributo tutto il mio impegno. Non essere geloso, quindi. Ti prediligo con la vena squisitamente giocosa che attribuisci al Demonio dei tuoi racconti, ma rifiutandone — con garbo e una punta di dovuta vanagloria — l’irresistibilità. Non mi si addice.
Solo a te, bambino, l’onore di seguirmi.
Gli altri, cortesemente, restino in sala e abbiano un briciolo di pazienza.
Lo spettacolo sta per iniziare!

Jeremiah Vorobyov entrò nel palazzo e lo conquistò con un sorriso.
Giovanissimo, vestito d’un eleganza modaiola che ne esaltava la bellezza spudorata, gettò il soprabito all’indirizzo di un servitore senza prestargli la minima attenzione e baciò la mano di una dama — quella, spontaneamente, arrossì. Ignorando il giovane che le faceva da accompagnatore, l’attirò a sé e la trascinò sulla pista da ballo in una giostra di volteggi e sussurri a fior di pelle. Le tenebre illividirono i suoi occhi, incastonati nell’incarnato latteo, mentre la irretiva col solo fine di abbandonarla.
Sarebbe stata la prima, ma non l’ultima della festa.
L’hors d’œuvre prima dell’entrée, un disimpegno che conduca alla stanza delle libagioni.

Edward Reeve posò il proprio sguardo su di lui per puro caso e, secondo un calcolo improvviso, decise che avrebbe voluto conoscerlo. Scacciando l’ombra della noia e gustando il sapore di una nuova avventura d’abiezione, corresse il tiro alle sue priorità e lo rese oggetto di studio.
Stanza dopo stanza, dettaglio dopo dettaglio, esagerazione dopo esagerazione.
Jeremiah spadroneggiava con l’atteggiamento del provocatore, brandendo l’arma di un fascino dis-umano; rideva sguaiatamente quando sarebbe stato opportuno mostrare moderazione; scopava le donne d’altri a porta socchiusa con gli occhi alla ricerca di un pubblico, che mai lo deludeva; s’intratteneva in chiacchiere frivole coi cornuti che aveva reso tali, affabile oltre ogni misura, e se ne conquistava la simpatia.
Era inarrestabile, irresistibile, indefettibile in ogni dimostrazione d’arguzia.
Si prendeva ciò che desiderava, dando agli altri l’impressione di essere stato sopraffatto, vittima dell’età e dell’inesperienza. Proprio nella dolcezza incauta che usava per approcciarsi a loro, invece, stava il segreto del suo successo. Rifuggiva gli eccessi dell’acerbità e della stucchevolezza e si assicurava di piacere, mutando a seconda dell’interlocutore. E, quando chiunque avrebbe dubitato che potesse riuscire nei suoi intenti di dominatore, Jeremiah passava oltre perché la sua sparizione li facesse pentire di averlo lasciato andare troppo presto.
Viveva la vita come un gioco.
Pertanto, se gli pareva di aver perso una mano, riteneva che bastasse ricominciare daccapo per ottenere di vincere: così tornava a ridere, scopare, ciarlare con chi non aveva ancora collezionato. E capitava spesso che, nel mezzo dei suoi raggiri, uno di quelli che lo avevano respinto tornasse a capo chino a supplicarlo per uno solo dei suoi sguardi di pece.
Era allora che Jeremiah sapeva di aver trovato un Succubo.
Era così che li sceglieva.
Era così che vinceva.
Soprattutto, era così che gli piaceva.

Edward lo intercettò a fine serata in uno studiolo in penombra, che reggeva un bicchiere di cristallo tra le dita affusolate; al suo interno, un liquido rosso di una consistenza apparentemente viscosa.
«Tu sai cosa vogliono,» gli disse Reeve.
Jeremiah sorrise, neppure troppo sorpreso dall’invasione di campo — aveva avuto già modo di accorgersi di lui col trascorrere delle ore e l’alternarsi degli scenari.
I suoi occhi brillarono nell’incrociare quelli dello sconosciuto che aveva parlato.
Reeve avvertì un’inattesa, brumosa debolezza calare su di sé.
Portò una mano alla tempia sinistra, stordito.
«So cosa vuoi tu,» gli rispose quello, fronteggiandolo da seduto.
La dama che giaceva su un divanetto color rubino mugugnò, priva di sensi.
Jeremiah bevve dal bicchiere e le labbra gli si tinsero di cremisi.
Il contatto tra un canino e la fragilità del cristallo generò un tintinnio.
«Qualcuno potrebbe dire che quello che fai sia ingiusto,» gli fece notare Edward, ma, invece che oltraggiato, appariva compiaciuto.
«Se la vita è ingiusta, perché io dovrei essere da meno?!»
Silenzio.
«M’insegnerai?»
La voce di Edward gli concesse l’adorazione di cui l’ego di Vorobyov aveva bisogno.
Jeremiah rise di gusto, dilettato da una svolta così inattesa.
«Se tu mi sarai fedele…» fece, enigmatico almeno quant’era divertito.
«Sarò molto più di questo: sarò devoto e ti insegnerò che esistono forme di immortalità che neppure tu conosci — più alte e inafferrabili. E te ne farò dono senza chiedere altro in cambio! Vuoi?»
Silenzio.
«Sì!»

Edward mantenne la parola.
Negli anni che li videro amici, fu leale al legame come mai lo era stato in vita sua e nel modo che la sua natura gli consentiva, senza i sentimentalismi del caso. Apprese da Vorobyov tutto ciò che c’era da sapere sulla Legilimanzia e ne traspose gli insegnamenti perché prendessero la forma di un volume. Il libro — una delle enciclopedie più accurate esistenti in materia — portava ad eterna memoria il nome di Jeremiah, ma era frutto delle ambizioni di Edward Reeve.
Vorobyov, polvere tra le fiamme, non gliene sarebbe stato grato.
Non aveva mai capito che il prezzo del dono di Reeve fosse la morte.
Edward, per parte sua, era certo che lo avesse perdonato… per quel che valeva o l’interessava.


La mano di Dorian sfiorò la pelle di Philip e il fanciullo, quasi rumorosamente, si sciolse in balìa del contatto e di chi se n’era reso autore. Languiva, piccino, nel guado della propria inesperienza e lasciava che le parole di Midnight — ancelle laboriose, messaggere di suadenza — lo accarezzassero senza opporre loro resistenza. Così, s’infatuò di lui in poco meno di un istante. Non c’era frivolezza, tuttavia, nei sentimenti del Grifondoro. L’innamoramento di Philip differiva da quello di chi era venuto prima di lui e di chi l’avrebbe succeduto nel futuro, poiché divelleva le resistenze di un vissuto fatto di rifiuti e nasceva dal bisogno di trovare sé stesso.
Era genuino, profondo, carico d’aspettativa.
La sensazione seguita al tocco tra le loro dita — un sobbollire capace di renderlo vivo — gli offrì per la prima volta nella vita una prospettiva ingentilita dalla quale valutare il proprio segreto; la speranza che, forse, ci fosse spazio anche per lui in quel mondo senza il peso di un’etichetta pronta a tacciarlo di erroneità. La bellezza di Dorian e l’effetto che gli stava provocando erano la dimostrazione che non residuasse posto per giudizio alcuno in fatto d’amore — era come era, Philip, e andava bene così. E le prese in giro, le persecuzioni, le risate di scherno che aveva subìto smisero di far leva sul suo animo.
Quello che provava non poteva essere contro natura.
Inaspettatamente, perciò, al cospetto di una persona diversa e che molti avrebbero definito sbagliata, le parole di Emma tornarono a rinfrancare il bambinetto con un calore che non aveva più provato dopo la morte di lei e il vuoto che era seguito. E Philip sorrise a Dorian come aveva sorriso alla compagna — la sola con la quale si fosse mai confidato, ad eccezione di Reeve —, mentre il furore dei suoi anni incoccava l’arco della fantasia e gli ventilava possibilità mai immaginate prima. Forse, si ripeteva nell’incapacità di nascondere l’incantamento che stava provando, è un segno del destino esserci incontrati adesso; adesso che Emma non può più averlo. È come se me lo avesse lasciato perché io potessi amarlo al posto suo!. E, se una parte dell’anima candida di Philip temeva di arrecare un torto all’amica defunta, un’altra non poteva fare a meno di indulgere ai capricci del romanticismo.
Fu allora che le difese del Grifondoro crollarono, sbriciolate, e gli concessero il passaggio: da quel momento in poi, Dorian avrebbe potuto sbirciare tra le sue memorie alla ricerca di ciò che più gli piaceva, se tanto fosse bastato a mantenere la vicinanza — e spirituale, e fisica — che adesso li teneva uniti.
E forse, col tempo, Midnight lo avrebbe guardato come lo stava guardando lui ora.
La banalità del gesto si tradusse in una prima, difficilissima vittoria per Dorian nel campo dell’abilità che si era prefisso di padroneggiare. La fitta nebbia che avvolgeva la mente di Philip, per la labilità di un istante, si diradò. E una scheggia di ricordo, minuscola e fragile come un bocciolo sorto prematuramente, lampeggiò dinanzi ai suoi occhi: un sorriso — quel sorriso — sulle labbra che aveva baciato e che adesso gli venivano negate.
Tornò nel salone, mentre il frammento di Emma gli sfuggiva tra le ciglia, geloso dei dettagli che l’inesperienza gli aveva momentaneamente precluso: il vento di Marzo tra i capelli lunghi, la coccola del sole sulla pelle chiara, il compiacimento tutto altruistico di aver risollevato il peso di un’anima fragile che non poteva fare a meno di avere a cuore.
Al suo posto, la freddezza austera dei marmi chiari, la sagoma inamovibile di Reeve, il visino disorientato di Philip.

«Seguimi, Dorian.»
La voce perentoria di Reeve sopraggiunse per sottrarlo alle emozioni generate dal contatto; un contatto che trascendeva la morte e tornava a ritroso nel tempo contro ogni logica forma di buonsenso. Edward chiese a Dorian di affiancarlo e lo invitò a passeggiare per la sala da ballo.
«Hai mai scopato?»
La domanda, disarmonica nel contesto, quasi urticante a contatto con la bellezza eterea venuta col sorriso di Emma, riempì l’aria, mentre prendevano le distanze da Philip e procedevano senza una meta, lemme lemme. Reeve congiunse le mani dietro la schiena, le labbra increspate da un velo di sadismo. Intendeva giocare a rimestare i ricordi del ragazzo contro ogni difesa razionale. Poteva solo immaginare quale effetto avesse avuto la vista della Grifondoro sull’altro — perché, del parziale risultato di Dorian, Edward era certo. E desiderava rinfocolare il dolore subdolo della perdita, solo perché gli piaceva giocare; un po’ com’era piaciuto a Jeremiah a suo tempo ma secondo regole diverse.
«Immagino di sì. Ciò che ti chiedo, in effetti, è più specifico e credo che necessiti di una spiegazione altrettanto specifica.»
Quale che fossero i suoi intenti, aveva recuperato l’attitudine dell’insegnante. La sua mente, invece, vagava alla ricerca di nozioni che aveva appreso molto tempo prima e che aveva avuto cura di archiviare in vista del futuro.
«Nella mia esperienza, esistono due diversi modi di scopare. Il primo è quello in cui il desiderio del piacere è così intenso da intossicarti corpo e spirito: ciascun movimento è votato alla spasmodica ricerca del godimento e, per ogni ondata che si conquista, l’aspettativa verso quella successiva si accresce. Sempre di più, sempre di più fino ad arrivare al massimo. È un piacere che consuma e appaga; una forma di egoismo socialmente accettabile. Non ha niente a che fare con l’amore o l’affetto. Non ha nulla a che vedere con l’altro. Lo cerchiamo per noi stessi, per quell’unico momento di disfacimento dei sensi.»
Vorobyov gli aveva insegnato tutto ciò che c’era da sapere sul sesso attraverso i suoi racconti. Il vampirismo, stando a ciò che gli aveva narrato, era stato in grado di segnare una netta linea di demarcazione tra il prima e il dopo con molti pro e alcuni contro — “Il piacere umano è diverso, amico mio; una delle poche cose che, pur non sapendotelo spiegare a parole, mi manchi davvero dell’essere mortale!”.
Edward, che aveva sperimentato a sua volta l’esperienza carnale e ne era rimasto deluso, si era deciso a fare tesoro di quei resoconti per abbattere la barriera data dalla sua condizione, che gli impediva qualsiasi forma di comprensione verso lo spettro delle emozioni positive. Così, avrebbe potuto fingere di sapere cosa si provasse, se l’occasione l’avesse richiesto. Così, avrebbe potuto inscenare una delle tante recite e ottenere il plauso del suo pubblico di marionette, se l’avessero chiamato ad esibirsi.
«Il secondo è quello in cui l’atto del sesso è uno strumento di sottomissione. C’è un non so che di inebriante nel prendere coscienza di poter piegare al proprio volere qualcuno, servendosi del piacere: lo vedi contorcersi per quello che tu gli stai permettendo di provare. È un approccio più freddo, più distaccato. Ti concede di sperimentare il brivido di avere il momentaneo controllo sulle sensazioni dell’altra persona e ti restituisce una forma di godimento diversa, ma non per forza meno intensa. Ed è questo che devi fare con la Legilimanzia.»
Eccolo, dunque, il nocciolo della questione.
«Non hai speranze di possederla, se lasci che le emozioni ti divorino; che la brama ti pieghi; che la smania guidi le tue mosse.» Nel frattempo, quasi senza accorgersene, erano tornati al punto di partenza. Philip scrutava Dorian con lo stesso sguardo illanguidito. «È una danza in cui devi condurre la controparte. Se consenti che sia l’improvvisazione a ispirarti, finirai per farle fare un giro di pista, sì, ma prima o poi le pesterai i piedi. E non è questo che qualcuno si aspetterebbe da un giovanotto come te!»
Rise. Erano molte le cose che si sarebbe potuto aspettare da Dorian Hades Midnight, alcune delle quali — e forse era quello il versante della sfida che più lo ingolosiva — neppure gli riusciva d’immaginare. Come lui aveva sorpreso Vorobyov a suo tempo, sentiva che Dorian avrebbe potuto stupirlo e dare la sua parte di contributo al gioco. Non l’avrebbe mai scelto, del resto, se così non fosse stato.
«Prenditi il tempo di cui hai bisogno e riprova.» Un lucore sinistro fiammeggiò nei suoi occhi, quando aggiunse con voce vibrante: «Prenditi ciò che ti spetta, ciò che ti appartiene e che nessuno dovrebbe mai osare negarti. Riprenditi ciò che ti hanno strappato via.»
Le sue parole lo incalzavano verso il limitare del baratro, perché a violenza seguisse altra violenza. Reeve, che induceva Dorian a sperimentare la seconda tipologia di piacere, inseguiva per sé stesso la prima dopo un lungo periodo di astinenza. Per un attimo, gli tornò alla mente il giorno in cui aveva chiesto a Jeremiah di dissanguare un bambino di sette anni davanti ai suoi occhi e non era riuscito a trattenere un’erezione.

«Era buono?» gli aveva chiesto.
«Delizioso, Eddy! Dolcissimo! Dovresti provare, un giorno…»
«No,» aveva rantolato lui. «Lo sento comunque.»


Il serpente sibilò un’ultima volta.
«È tua di diritto!»


Edited by Master Adepto - 3/10/2019, 19:10
 
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Ulula, porta! Clama, civitas! Contremisce!

aoCU7CE

Una frizzante folata del vento di marzo scosse lievemente il fogliame degli abeti ai margini del lago, catturandone l’effluvio silvestre ed effondendolo nella fresca aria di stagione.
Dalle bancarelle di dolci e zucchero filato, allestite giù alla fiera di Hogsmeade, il profumo fragrante del caramello si sollevava in sbuffi di vapore tiepido, mescolandosi all’odore della neve ancora fresca sulle montagne che arrivava a saturare l’atmosfera rarefatta del Ponte Coperto.
«Che villaggetto detestabile…»
Le labbra corrucciate di Dorian vibrarono appena in un brontolio infastidito, quasi un sibilo tra i denti stretti.
I suoi piedi martoriati, ormai vessati da quel misero passeggiare senza meta, mossero ancora pochi passi in avanti, scanditi dal suono a malapena percettibile dei tacchi in vernice sul pavimento di legno, prima di arrestarsi completamente.
Nonostante il sole allo zenit inondasse di luce aranciata la volta ombrosa del ponte, in un gioco riposante di chiaroscuri e sprazzi cromatici d'ambra e d’amaranto, il giovane non riuscì a reprimere il lungo tremito che scosse le sue membra infreddolite. Si cinse le spalle con le braccia, constatando seccato quanto la primavera fosse ancora lontana.
«Contenta?» domandò, voltandosi verso Emma. Un nontiscordardimé color blu assoluto tra le dita.
«Dovevamo restare nel bagno dei prefetti, come ti dicevo!»
Il sussurro che sfuggì alle sue labbra acquisì ben presto una tonalità più roca, maliziosa.
«Per tua fortuna possiamo rimediare subito…»
Con le braccia coperte dal maglioncino grigio la avvolse in un stretta impellente, poi, in una carezza quasi dolce – subito tradita da un guizzo di desiderio nelle iridi – le posò il fiore a cavallo dell’orecchio sinistro.
Emma rispose leccandogli piano le labbra, lo baciò a lungo e scoppiò a ridere contro la sua bocca.
«Non posso, stupido. Ho un appuntamento.»
Non. Posso. Stupido. Ho. Un. Appuntamento.
Ogni parola sottratta a quella risposta lo sbalordiva; erano così poderose, nell’insieme, da smorzargli il respiro già corto per l’eccitazione.
«Spero non sia di natura galante… – azzardò, con un filo di sottile arroganza, quasi avesse voluto invitarla a riformulare la frase – come potrebbe qualcuno reggere il confronto?»
Emma prese il nontiscordardimé e lo cullò tra le dita; sollevandolo, reclinò leggermente il capo, come fa chi vuole osservare il cielo.
«Non tutto gira sempre intorno a te, Midnight».


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Corre in curiosi arabeschi il flusso opalescente dei ricordi, si avvita e si snoda in piroette impalpabili, inconsistenti, simili ad aloni di pioggia su un vetro, liso come un vestito più volte smesso e ancora indossato; brucia, continua a bruciare e, maledetto, arde, quando, a distanza di tempo, si arricchisce di un nuovo tassello.

Cosa resta nel momento in cui la terra sotto i piedi d’un tratto viene a mancare?
Non devi guardarti le scarpe, non fissare in basso il fuoco che ti sputa addosso.
Non guardare,
anche le stelle non cadono se non le vedi.
Alla fine quel che resta, quando la morte ci taglia la gola, è solo il nero.



Dorian chiuse gli occhi.
Buio dietro le palpebre, merletti di cupa organza davanti alla luna.
Cornici di tenebra immortalarono la risposta ad un eterno dubbio fotografato in seppia.
Quel moccioso era l’appuntamento.
L’aveva capito dal modo in cui Emma aveva sorriso. Gli era bastato un unico, singolo, istante.
Meritava di morire.
E invece, la testa di Philip venne scaldata dal tepore di un’eterea guancia, piuma posata tra i suoi riccioli morbidi.
Beato lo accarezzò, la pelle di luna baciata dalla gemella di cera. Scese con la mano sulle clavicole sporgenti, risalì sul grazioso bouquet di riccioli.
«Era te che incontrava, allora» sospirò sovrappensiero.

L’odio concede salvezza alle anime, ma infila un ago di piombo nelle loro tenebre e ne cuce le ali bianche. Sintesi di farfalle albine, volo spiccato verso la grazia, divengono ragni mostruosi, repleti di veleno.
Nel momento in cui Reeve lo chiamò a sé, si chinò un’ultima volta per affondare il viso nei capelli del ragazzino, posandogli un casto bacio sulla pelle morbida del collo – le labbra calde ed umide, impregnate di morte.
Non si scompose, ad udire la sua domanda, ma fu come se d’improvviso qualcuno lo avesse afferrato per i capelli e gli avesse sbattuto furiosamente la testa su delle pietre, facendone zampillare fuori la materia celebrale.
Soffrì, vedendola, e ricordando perse un altro pezzo del cuore.

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Il letto era ampio: sfatto. Le lenzuola bianche sbuffi di nuvole e la luce dell’alba, rosea, le lambiva illuminandone le volute scomposte. Tra di esse, il corpo sinuoso e svestito di Emma si muoveva appena e il materasso cigolava, impercettibile quanto il fremito delle sue ciglia tremule. La cercò, nell’angolo di letto tra sé e il muro bianco.
La trovò.
Nel languore del primo mattino, dalla penombra che inondava la stanza, Dorian la ammirava con gli occhi ancora velati dal sonno, del tutto perso nella contemplazione: le sopracciglia distese in un’espressione indifesa, la piccola bocca rossa per i baci, le palpebre chiuse come mani giunte in preghiera.
Le accarezzò il fianco scoperto: la sua pelle era neve fresca in una mattinata di fine inverno. Affondò il naso nei suoi capelli spettinati, inspirando l’odore dolce del sapone misto a quello più acre del sesso.

«Naturalmente» rispose atono e ascoltò in silenzio.
In quel momento Midnight apprese come tra dolore e piacere ben presto si dissolvessero i confini labili della perversione e realizzò quanto il sesso non fosse altro che un gioco sapiente in cui il predatore somministrava alla vittima un godimento controllato, pronto ad inalare l’odore muschiato del coito e il profumo – ancor più eccitante – della sottomissione dell'amante che si consegnava al controllo dell’altro.
Non esisteva reciprocità, non esisteva passione, non esisteva sentimento.
C’era spazio solo per il potere: il potere sul prossimo, il potere sul mondo.
Smise di fare l’amore e imparò ad essere spietato.
Un monarca con le sue puttane.

«Ne vuoi ancora?»
«Sì, ti prego».


Imparò a godere. Godere e fottere chi disprezzava. Pensando a sé. Soltanto a se stesso.
Che allievo meraviglioso!
Si leccava le labbra e spingeva.
Spingeva facendo gemere la sua vittima più forte, oltraggiando il suo corpo, imbrattando la sua anima, virgineo sacrificio al dio dell’Ego.

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Di colpo, i suoi occhi si tramutarono in mani, innumerevoli, sporche mani che tenevano fermo il corpo tremante di Philip: salde, viziose, corrotte, leccavano la pelle vellutata e chiara, beandosi della sua morbidezza, violandone il lindore. Si stringevano impietose, arpionandosi alle sue esili braccia, al collo niveo, agli occhi arrossati: lo sfavillio rossastro del fuoco si riflesse fugace nelle orbite di Dorian, vuote e nere come le tenebre.

…Allora raccontami una di quelle fiabe che mi piacciono tanto, raccontami cosa ti confidava!

Non c’era più alcuna passione in lui, nessuna bellezza nelle spire diaboliche dei suoi occhi. La sua anima era dura e fredda come un sepolcro. Su di un altare, l’aveva ormai sacrificata all’Inferno.

Calò la bacchetta che trapassò l’aria diretta alla tempia sinistra della vittima.
Un’ombra gli oscurò il viso.
«Legilimens!»
Un ordine.

E’ il potere ciò che vuoi, non è vero, Dorian? E allora adesso godi. Godi e calpesta il mondo.

Verrà il giorno in cui
sfiderai il Maestro
e lo sconfiggerai.
Fino ad allora continua a spingere.
A profanare.
A godere.

Ad odiare.



Code ©HORUS
Disclaimer: la quest è retrodatata. Angst, gotico, horror.
Lettura fortemente sconsigliata a cuori sensibili.


Vige, naturalmente, il solito condizionale!
 
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view post Posted on 14/10/2019, 21:37
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Il Fato

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SYnIZ93
“ N e p h i l i m „

Gli arredi bordeaux della Sala Comune di Grifondoro assunsero tonalità aranciate.
Il fuoco, vivo nel camino, illuminava due figure accostate.
Emma e Philip, accovacciati tra il divano e la poltrona, erano da soli nel cuore della notte.
Una lacrima cadde dagli occhi chiarissimi del bambino, che il pianto aveva cerchiato di lilla.
Una carezza gentile la raccolse, stemperando l’amaro della mortificazione.
Quella sera, divennero amici.


Avidamente, le mani di Dorian afferrarono il lembo di un ennesimo ricordo senza che gli fosse dato di svelare di più. Di Emma, ebbe occasione di scorgere il profilo delicato delle dita e il tepore della sua essenza, così come l’aveva conosciuto per la prima volta Philip.
Sperimentò, tuttavia, un altro aspetto della Legilimanzia — l'intimità emotiva.
Per tutto il tempo che la sua mente riuscì a tenersi avvinghiata all’episodio, ebbe il privilegio di percepire le emozioni del giovane con un’intensità insperata. Il bruciore della vergogna, la morsa della paura, l’intossicante allungamento della delusione stilettarono il Caposcuola uno alla volta, imprecisamente. Imparò, perciò, cosa si provasse a non essere sé stesso; a vivere l’esistenza dalla posizione di un fanciulletto miserevole, del quale ci si dimenticava un istante dopo aver distolto lo sguardo; ad affogare nel bacino di un’autocommiserazione indotta dalle circostanze e impossibile da vincere. Era complesso essere Philip Doe in modi diversi da com’era complesso esistere nelle vesti di Dorian Hades Midnight, ma per ciò solo non meno doloroso.
Com’era accaduto a lui, Emma aveva fatto la differenza anche per un altro.
Il tocco del sollievo lo raggiunse poco alla volta, rendendogli per vie traverse il piacere di trascorrere il tempo in compagnia della ragazza che aveva amato. Nella tepidezza di un gesto fugace e nel ristoro che aveva fornito a Philip, Dorian poté riconoscere una parte di ciò che Emma aveva portato nella sua vita.
Poi, quei pochi brandelli d’immagine sfuggirono alla sua presa e l’incanto finì.

«Così, da bravo!» Edward raggiunse Philip e si chinò su di lui con aria paterna. «Ti stai comportando benissimo, ragazzo. Sono molto fiero di te!» Quello lo squadrò con espressione smarrita e altrettanto confusamente gli sorrise, compiaciuto di sé stesso — sulla pelle, bruciava ancora il segno dei baci che non aveva fatto nulla per scansare. «Qualche altro tentativo e avrai perfettamente adempiuto al tuo compito per stasera. Non trovi che sia un collaboratore insostituibile, Dorian?» Scambiò con Midnight un sguardo infernale. «Diamogli qualche attimo per ricomporsi.»

Un altro cenno del capo annunciò al Caposcuola la necessità di seguire il Maestro. Com’era accaduto poc’anzi, il passeggio fu presto accompagnato dalle chiacchiere. A Edward piaceva giocare la parte che si era attribuito nella loro pantomima, almeno quanto adorava mettere in pratica gli insegnamenti del caro, meraviglioso, impareggiabile, defunto amico. Prima di proferire parola, si attardò un istante a rispolverare il pensiero del valzer che aveva danzato con la dama immaginaria, nell'attesa che Dorian bussasse all’uscio; dunque annuì: Jeremiah sarebbe stato fiero del modo in cui l’aveva trattata, soggiogata, illusa, infine negletta.
Si compiacque nel pensare che, nonostante gli anni, non avesse perso un solo colpo.

«Non è abbastanza,» sentenziò, lapidario. «Quello che stai facendo non è abbastanza,» ripeté, stavolta più preciso nel formulare l'accusa. «I risultati non sono all’altezza delle aspettative che mi ero fatto — la voce aveva mutuato i toni della contrarietà, ma l’espressione era rimasta studiatamente riflessiva — e non penso dipenda da una mancanza di capacità.»

Il colloquio che stavano intrattenendo era frutto di un calcolo meticoloso, al quale aveva dedicato ogni sua attenzione nella preparazione dell'incontro in atto. Sopra ogni cosa, era frutto dell’impellente bisogno di dissacrazione al quale Reeve soleva accompagnarsi da sempre.
Aveva finto di non desiderare altro da Dorian che vederlo piroettare qui e lì al ritmo delle sue indicazioni; aveva finto di non immaginarsi alcuna resistenza da parte della persona che aveva di fronte; soprattutto, aveva finto di non capire.
S’arrestò, gli occhi come folgori alla ricerca dell’ambra.

«Guardami!»

Era tempo che la sgualdrina si piegasse davanti a lui ancora una volta.


Immagino ti sia chiaro cosa implichi la richiesta finale di Reeve: se Dorian dovesse sollevare lo sguardo, Edward userebbe la Legilimanzia su di lui.
A tal proposito, voglio dirti che sei libero di scegliere come meglio credi. Ti è data la libertà di accondiscendere e ti è data la libertà di rifiutare, a seconda di ciò che trovi sia più coerente per il tuo personaggio e, soprattutto, per il suo background. È mio dovere informarti, però, che la tua decisione avrà delle conseguenze sullo svolgimento della trama. Quindi, quella che ti sto dando non è una possibilità di scelta come un'altra, ininfluente ai fini del prosieguo del percorso. Reeve reagirà diversamente in base a quello che farà Dorian.

Nel caso in cui dovessi optare per alzare lo sguardo e sottoporre Dorian allo scrutinio mentale di Edward, ti dico sin d'ora cos'è che mi aspetto: voglio tre episodi che coinvolgano Emma e Dorian, due dei quali possono anche essere accennati in forma sommaria e riguardare interazioni di poco conto (una battuta tra i corridoi, uno sguardo in Sala Grande o a lezione, uno scambio qualsiasi). Uno, però, voglio che sia nodale nella relazione Emma-Dorian, soprattutto per quanto riguarda l'emotività del tuo PG, e che venga trattato per esteso e con una certa dovizia di particolari. In ossequio all'indole del Maestro che ho tratteggiato finora, capirai anche il perché — Reeve non va mai per il sottile.

Per chiarimento o altro, rimango sempre disponibile via MP.


Edited by Master Adepto - 14/10/2019, 22:52
 
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