The truth of a story lies in the details.

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view post Posted on 30/10/2023, 22:02
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You can take the darkness out of the man, but you can't force him to step into the light.

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TW: gli argomenti trattati riguardano la sfera psicologica del PG e la sua sensazione di disagio interiore.




I Won't Say A Word

Fatico a riposare e ogni mattina è sempre la stessa storia: apro gli occhi e la prima cosa che vedo sono le cortine color senape drappeggiate al baldacchino; i suoni che odo sono il respiro regolare delle compagne della mia camerata, ancora immerse in un sonno quieto, e il fruscio di lenzuola e coperte attorcigliate alle gambe. C’è silenzio in realtà, eppure non mi sembra che sia davvero quiete quella che mi avvolge.
Penso già a quello che dovrò affrontare durante la giornata, ai mille imprevisti e a tutte le cose che potrebbero andare storte; le percepisco come un peso sullo stomaco e sul cuore. Faccio fatica a respirare.
lo so che, in fondo, non esistono giornate perfette: mi trovo in una scuola popolata da adolescenti incapaci di gestire emozioni e rifiuti di ogni sorta, dove la soddisfazione di uno corrisponde alla mordente gelosia di un altro. Io questi problemi non li ho. Finora mi sono tenuta lontana dalle idiozie tipiche della mia età, sono accademicamente abbastanza brava da non attirare l’attenzione sulle attività extracurricolari che svolgo: ronde, riunioni del Comitato e le riunioni dell’Esercito. Nulla dovrebbe tangermi. Ogni cosa dovrebbe essere sotto il mio controllo. Ciononostante, sono qui distesa immobile sul letto, e mi sembra che la stanza stia girando intorno a me come se fossi su una giostra ed io non potessi fermarla.
In realtà il mondo - e la camerata - sono ferme e lo sono anche io.
Fisicamente, emotivamente, metaforicamente.
Inspiro a fondo e subito dopo rilascio l’aria incamerata. Vorrei riuscire a smetterla di pensare troppo e di attribuirmi colpe che non ho, ma non ci riesco. Il peso che mi porto addosso e che non riesco nemmeno a definire è talmente grande che non riesco a disfarmene; la sua entità mi affligge e mi mozza il respiro, chiudo gli occhi e, dopo qualche istante, sospiro.

Quando mi decido a sfiorare il pavimento di assi coi piedi nudi lo faccio abbozzando un sorriso finto - persino troppo - in risposta ai saluti assonnati delle mie compagne. Le osservo raccogliere l’uniforme, l’accappatoio e gli asciugamani, le seguo con lo sguardo mentre si avviano ai bagni per prepararsi in fretta e furia. Fingo di fare lo stesso, ma in realtà aspetto con ansia il momento in cui sarò da sola. Di nuovo. Questi sono i momenti in cui riesco a controllare me stessa, non del tutto ma sicuramente meglio di quanto potrei fare in presenza d’altri.
Mi lascio cadere all’indietro, le braccia distese lungo i fianchi e torno a vedere il baldacchino sopra di me. Mi accorgo per la prima volta di un’incisione sul legno, una specie di graffito minuscolo, proprio nell’angolo dove la tenda giallognola è fissata al supporto. La curiosità di sempre mi spingerebbe ad avvicinarmi per scrutare i dettagli di quell’opera d’arte, ma c’è qualcos’altro che mi trattiene e mi convince a restare lì inerme. Se potessi, passerei l’intera giornata avvolta da quelle coperte, senza curarmi del mondo all’esterno, delle lezioni e di tutti i miei compiti. Che cosa potrebbe mai accadere se lasciassi le cose così come stanno, senza intervenire nelle beghe giornaliere, senza frequentare una lezione o due. Se ne accorgerebbe qualcuno? Importerebbe a qualcuno?
Ho passato i miei anni migliori qui ad Hogwarts a preoccuparmi di problemi che, con la scuola, non c'entrano nulla e sono stata sollevata dal mio fardello nello spazio di pochi istanti da chi, in verità, avrebbe dovuto sapere che cosa fare fin dal principio. Mi sento defraudata di uno scopo, anche se ne ho molti altri a ben pensare, ma non mi basta. Quello era il mio vero fine, il mezzo attraverso il quale avrei saputo dimostrare alla mia famiglia che sono in grado di essere responsabile e affidabile abbastanza per i loro standard. Adesso, invece, non sono niente.
Non sono niente per nessuno, me ne sono resa conto dopo che la reazione della Wagner in Sala Grande ha sminuito il mio operato: l’ordine di un Caposcuola sminuito da un gesto semplice e poche parole. Come se quello che dico non valesse nulla.
Non sono nemmeno più di riferimento per chi, con me, trascorreva il suo tempo libero: Nieve non mi guarda più in faccia, io non riesco a degnarla di uno sguardo per paura di scoppiare.
Mi asciugo in fretta una lacrima, proprio quando il cigolio di una porta mi spinge a nascondere quello che provo. Non posso permettermi di essere fragile. Non di fronte a chi si aspetta da me forza, intraprendenza e determinazione. Dovrei essere un punto fermo per chi cammina trascinando i piedi oltre la soglia della stanza in cui mi trovo… ma chi si occupa di me quando nessuno è lì a guardare?
Dismetto il pensiero così com’è arrivato cominciando a intrecciare i capelli.
Ogni giorno la stessa storia.

Quando varco la soglia della Sala Grande per la colazione mi infastidisce la cacofonia di suoni, voci e rumori di stoviglie, ma anche quella sensazione se ne va in fretta, sostituita - neanche a dirlo - da un mutismo interrotto solamente dai saluti calorosi di chi, tra poco, mi siederà accanto e a cui rispondo con una cortesia di rito, ma che non sento venire da dentro. Penso di non essere abbastanza brava a fingere, ma se nessuno mi chiede come sto, forse, significa che sto facendo un buon lavoro. Certo, potrebbe anche significare l’esatto contrario: forse non chiedono perché non gli interessa affatto saperlo e credo sia questa la verità.
Espiro e scelgo un posto vuoto, dando le spalle alla tavolata di Corvonero e - quindi - a Grifondoro.
Camille mi è sempre stata vicina durante i pasti, ma oggi me la ritrovo gomito a gomito e la sua esuberanza mi spinge a prendere le distanze da lei, come se mi disturbasse l’idea di essere contaminata da tanta energia. Mi verso un tazza di tè bollente, aggiungo le mie solite due zollette e una goccia di latte. Lei mi parla della serata conviviale che stiamo pianificando per Halloween, ma io non la sto nemmeno ascoltando. Irrispettoso da parte mia, ma… non mi interessa. In questo momento mi sento estranea perfino al mio stesso corpo, come se fossi imprigionata al suo interno e le azioni che compio non fossero dettate dai miei pensieri, bensì dalla volontà estranea del guscio che ospito. All’improvviso, qualcosa attira la mia attenzione e sento il bisogno di uscire da quell’isolamento forzato. Alzo lo sguardo sulla tavolata, stranita e inebetita da questa sensazione nuova di non appartenere a nessun posto, e mi spiazza ritrovare - vicino all’ingresso - la figura di Eloise in compagnia di Tony e Nieve. La Rigos è in piedi alle spalle di Tony, ridacchia per qualcosa che si sono appena detti, e saluta con quel suo nuovo modo ammiccante i miei compagni. “Nuovo” non è l’aggettivo esatto. Ha sempre avuto quello sguardo capace di attirare i sorrisi altrui, quella malizia nemmeno troppo celata che ti costringe a chiederti se, nelle sue parole, non stia nascondendo qualche altro significato. Non voglio starle accanto, eppure, in quegli sguardi complici con Eloise e Tony, Nieve rievoca lo spettro dei nostri, di tutte quelle volte in cui abbiamo borbottato qualcosa che solo noi potevamo capire e che, se scoperte, ci suscitava ilarità. Riporto velocemente lo sguardo sul mio toast e stringo le labbra. Mi manca, ma non so che cosa fare con lei. So che è andato tutto in fumo, che in qualche modo ha trasferito i suoi problemi su di me e io su di lei. La nostra non è più amicizia.
Sento il nodo alla gola tornare, proprio come quel mattino in cui i gufi hanno deciso di mescolare la posta, e le lacrime tentano di forzare una via d’uscita. Di nuovo. Questa sarebbe la seconda volta oggi.
Nel tentativo di reprimere le mie emozioni mi va di traverso il tè ed inizio a tossire rumorosamente, mentre gli occhi si inumidiscono per lo sforzo di riguadagnare ossigeno; la paura di soffocare spalanca le porte alle palpitazioni nel petto che, non mi ero resa ancora conto, avevo già. Deglutisco e mi accorgo che adesso la sensazione di soffocamento non è data da un liquido, ma qualcos’altro.
Porto una mano al colletto della camicia e con le dita tremanti cerco di allentare il nodo della cravatta, senza riuscirci. E’ allora che Camille si volta di nuovo verso di me con l’espressione preoccupata. Probabilmente pensa che restare senza di me sia la fine del mondo, ma vorrei rassicurarla dicendole che probabilmente tutti starebbero meglio. Certo, glielo direi se solo riuscissi a parlare e a pensare. Di nuovo la stanza sembra vorticare intorno a me e non riesco a fermarla, né riesco ad arrestare la corsa del cuore che sembra volermi uscire dal petto.
«Thalia? Va tutto bene?»
Non rispondo, perché so - riprendendo leggermente fiato, ma non abbastanza per riuscire a formulare un suono di senso compiuto - che non sta parlando del tremore delle mie mani o del sudore freddo che mi imperla la fronte. Non sta parlando nemmeno della sensazione di formicolio che risale dalle dita alle spalle, si insinua ovunque nel mio corpo fino a raggiungermi cuore e polmoni: il primo non smette di battere, i secondi si sentono stretti in una morsa feroce, pizzicano e dolgono come se gli mancasse ancora l’aria. Eppure so anche che potrei respirare tranquillamente se solo lo volessi. Lo saprei, anzi, se nel mio cervello non stessi vivendo la paura tremenda che mi provoca la presenza di tante persone intorno. Mi sento osservata, forse perché lo sono e tutti si aspettano che risponda a parole alla domanda che mi è stata posta, ma non ce la faccio e mi irrigidisco. L’unica reazione che riesco ad avere è quella di lasciare tutto così com’è sulla tavola - il toast da finire, la marmellata ancora da spalmare, e il té fumante - e di avviarmi verso l’uscita, provando ad avere un contegno dignitoso anche se, lo giuro, sento che potrei implodere. E allora comincio a correre. Non ho stretto abbastanza l’elastico che mi trattiene i capelli in una treccia lungo la schiena e li sento scivolare sulle spalle, sobbalzo dopo sobbalzo, mentre supero la porta e mi fiondo nei sotterranei. Non faccio molta strada prima di fermarmi, stringendo la camicetta all’altezza del cuore con una mano e sfiorando il collo con l’altra. Chiudo gli occhi, mi accascio sul pavimento in tutta la mia rigidità e solo dopo minuti interminabili riesco finalmente a riaprire le palpebre.
Ho paura. Per la prima volta in vita mia ho paura perché non ho idea di che cosa mi stia accadendo. Non riesco a pensarci, non voglio parlarne. Non voglio essere guardata. Troppi occhi, troppe opinioni e spiegazioni che forse non avrebbero alcun senso. Delle frasi fatte non me ne farei niente. Vorrei capire il perché delle cose - ho sempre voluto farlo -, ma adesso ho un rifiuto.
Mi crogiolo nella sensazione meravigliosa che il silenzio riesce a darmi, il freddo e la solidità della pietra dietro e sotto di me come unico sostegno necessario. La beatitudine che mi avvolge quando, finalmente, il cuore smette di martellare impetuoso e irregolare contro le costole e il respiro che torna a farsi regolare.
Rimango immobile, accartocciata su me stessa come una foglia secca, cingendomi le ginocchia con le braccia. Fa freddo qui, ma questo mi aiuta a non alzarmi. Se resto qui non può succedere nulla. Penso alle persone che incontrerei andando a lezione e di nuovo mi assale quella stretta allo stomaco che non se ne andrebbe più se indugiassi ancora su questo binario. Realizzare di essere tanto fragile mi fa tornare indietro al punto da cui sono partita, quando il problema era fuori da queste mura e qui - almeno - mi sentivo sicura e adesso, invece, non lo sono più. Avrei bisogno di parlarne con qualcuno, ma come scegliere la persona giusta? Nessuno potrebbe capire davvero quello che sento, che quello che penso non è una sciocchezza da minimizzare con un gesto della mano o una risatina divertita. Devo fare tante cose - mi direbbero - e questo, stare seduta qui nella penombra e al freddo, non mi sarà d’aiuto.
Vorrei alzarmi, ci provo, ma mi manca la forza. Mi sento sfibrata da me stessa e non so come aggiustarmi o come sia finita in questa situazione. Mi sembra, semplicemente, di essermi svegliata una mattina e di essermi trovata così. Ed è pensandoci che gli occhi si velano di lacrime e singhiozzando mi rendo conto di emettere suoni patetici a cui non sono abituata e che detesto. Io mi detesto.
All’improvviso, delle voci allegre riecheggiano nel corridoio ed è la paura di essere vista - o l’ultimo briciolo di amor proprio rimasto - che mi spinge a tornare in piedi, senza smettere di piangere, e di correre via - ancora e ancora - per rinchiudermi nell’unico posto dove nessuno verrà a disturbarmi. Per quanto assurdo possa sembrare, trovo maggior conforto nelle quattro mura che costituiscono la Sala Comune, nelle coperte del mio letto e nel placido vuoto che mi accoglie ogni volta che riesco, finalmente sola, a smettere di pensare.
Rannicchiandomi su me stessa mi dico che potrei parlarne con qualcuno, ma ci ripenso perché il timore di essere creduta qualcosa che non sono è più forte del bisogno di uscire da questa condizione.

La menzione a PG e Png è stata concordata con i rispettivi player.

Partecipa al Concorso a Tema - Ottobre 2023





© Thalia | harrypotter.it

 
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view post Posted on 29/4/2024, 20:27
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You running blind
Following your feet to try and outrun your fate.
[...]
What if I only ever took what's mine?


Ci incontriamo in un pub a St. Ives, uno di quelli affacciati sulla strada che dà sulla spiaggia principale del paese. In lontananza, sul promontorio a picco sul mare, l'ombra scura della Cappella incombe sui marosi che si abbattono sui frangiflutti del porto e sugli scogli. Il cielo grigio suggerisce un temporale imminente e il vento fa vibrare i vetri delle finestre. Eppure, all’interno del locale regna un’aura serena e conviviale tra gli abitanti del posto: vengono servite birre e piatti caldi, senza lesinare sulle quantità. I profumi che mi avvolgono sono diversi e mi sento, tra questi ed il tepore della sala, come un gatto acciambellato sulla poltrona preferita. Nulla può tangermi, in questo momento e di questo posto mi piace anche questo: la generosità delle persone e la chiara accettazione del diverso, del nuovo. Sono già un habitué dei piccoli negozi sulla via principale e, anche se qualcuno ci ha provato a chiedermi chi sia e da dove venga - o che cosa ci faccia a St. Ives di tutti i posti possibili - , sono riuscita a mantenere un profilo abbastanza basso: la proprietaria dell’emporio sa che ho acquistato il “cottage del pescatore” e ha naturalmente sparso la voce, ma non è ancora riuscita a carpire la mia origine precisa e soprattutto che cosa faccia nella vita. Credo che mentire a queste persone sia lo scotto da pagare per aver scelto un rifugio di quiete nel bel mezzo del nulla - e della Cornovaglia -, ma mi inventerò qualcosa affinché la questione sia ridotta all’osso. Non voglio passare la mia vita a mentire a degli sconosciuti.
«Spero tu abbia ordinato, ho una fame da lupo!»
Drake si scrolla di dosso gli abiti fradici e mi saluta con un gran sorriso: deduco che le cose a Londra stiano andando bene se è così bendisposto. L'ultima volta che l'ho visto non mi sembrava così raggiante, ma forse ero troppo concentrata su me stessa per accorgermi di chi mi stesse intorno.
Gli faccio cenno di accomodarsi e lo accolgo come in qualsiasi altra occasione: una punta di sarcasmo, uno sguardo un po’ sornione e via con lo show in cui fingo di detestarlo come quando eravamo ragazzini.
«Si può sapere dove sei stato? Sembri un cane bagn-- e non riesco a terminare la frase, perché folletto dispettoso qual è decide bene di passare le dita tra i capelli corvini e schizzare di goccioline d’acqua lo spazio e le persone intorno a noi, dopodiché si alza, individua il bagno e si lancia in quella direzione senza dire una parola. Ovviamente mi scuso per aver portato a cena un soggetto simile e, dopo che l'imbarazzo ha lasciato il posto all’autocommiserazione, per ammazzare il tempo richiamo la cameriera e faccio l’ordinazione.

Tre quarti d’ora più tardi, nel bel mezzo della nostra cena, Drake smette di raccontare della sua ultima causa e di come il suo avversario fosse un pallone gonfiato; forse si è reso conto che non lo sto seguendo più di tanto.
«Non credevo avresti preso casa in un posto così.»
Alzo gli occhi dalla mia zuppa di pesce e mi limito a far spallucce: so che cosa sta per chiedermi, non serve essere una Legilimens per capirlo.
«Intendo dire… credevo che dopo gli esami avresti cercato lavoro al Ministero.» continua «Il Ministero è a Londra.»
«Grazie per avermelo ricordato, genio.» gli sorrido forzatamente, preparandomi a ciò che sta per arrivare. Sento che comincerà dicendo che sono troppo giovane per chiudermi in una casupola sulla scogliera, che non avrò mai una vita sociale qui e che il lavoro mi costringerà a trasferirmi in città, confermandomi di aver buttato al vento denaro e tempo per una ristrutturazione che non serve.
«Non dirmi che rinunci al Wizengamot.» sbotta alla fine, gettando il tovagliolo sul tavolo come se fosse uno straccio qualunque nella più completa indignazione.
«Non ho rinunciato a niente. Prima devo diplomarmi.»
«E vivrai in quel cottage lassù? Da sola? Cosa farai? La strega del paese?» e abbassando la voce «Qui non c’è gente come noi.»
«Questo non puoi saperlo. E comunque questo è il posto in cui ho scelto di vivere e il camino è collegato con la Metropolvere. Ho fatto richiesta quando ho ufficializzato l’acquisto.»
Mi infastidisce che pensi che non sia pronta a sobbarcarmi il peso della scelta che ho fatto e così lo guardo storto per un attimo.
«Jean.»
All’uso del nomignolo assegnatomi durante l'infanzia poso anche il cucchiaio. Sa quanto detesti la storpiatura del mio secondo nome, eppure si ostina ad usarmi questa violenza solo per indispettirmi. E ci riesce, questa è la cosa divertente.
«Non sono venuto fin qui per mangiare salsicce e uova, bere birra scadente e passare una serata con te.»
«Ma davvero?»
«No, aspetta, è uscita male. Quello che voglio dire…» e deglutisce a fatica il boccone che a momenti lo soffoca «…sai quanto mi piaccia passare il tempo insieme, ma…»
Mi fa cenno con l’indice alzato di aspettare un minuto, mentre ingolla due o tre sorsi di birra dal sapore discutibile. Drake è sempre stato più raffinato di così: vino, cene nei ristoranti migliori, abiti di sartoria per il mondo comune e per quello magico; il suo stesso appartamento è un’ode al lusso e ai soldi ben guadagnati. Chissà come deve sentirsi denigrato a cenare qui stasera. Con me.
«Connor.»
Stavolta il boccone va di traverso a me.
Non vedo mio nonno da quella sera, da quando gli ho detto tutto ciò che sapevo di Cordelia e mi ha intimato gentilmente di farmi da parte. L’ho tempestato di lettere da allora, ma le sue risposte sono sempre state evasive, ad eccezione dell’ultima in cui aggiungeva che presto ci sarebbero state novità e ne avremmo parlato. Credevo che la conversazione sarebbe stata tra noi, ma a quanto pare mi sbagliavo di grosso.
«Mi ha chiesto di dirti un paio di cose che riguardano quello che vi siete detti…»
«…l’ultima volta.» termino per lui.
Drake annuisce e si china a prelevare qualcosa dalla busta portadocumenti da cui non si separa mai. «Ecco. E’ solo una copia. L’originale è conservato in un luogo sicuro e comunque questa la distruggeremo come si deve dopo che ne avrai preso atto.»
Metto da parte la mia zuppa, la fame è svanita completamente. Penso alle variabili possibili, a ciò che mio nonno potrebbe aver scoperto in questi mesi. E se Cordelia fosse sparita? Se avesse rinunciato? Che cosa trama mio nonno, mentre io fingo di condurre un'esistenza quasi normale?
«Non è il mio settore, non proprio, ma come Avvomago sono vincolato dal segreto professionale. Perciò non dirò una parola di quello che ci diremo stasera. Per Connor sono solo un portavoce e niente più. I suoi consiglieri sono altri.»
Sembra deluso di aver dovuto fare questa precisazione, quindi mi limito ad annuire e apro la busta che mi porge. E’ pesante, di pergamena costosa e riconosco il marchio impresso sulla ceralacca grigioperla: Moran. Mi tremano le mani e non so neanche il perché.
Mi sono sviscerata l'anima in questi anni, ma in questo momento percepisco il vuoto allo stomaco tipico della paura.
All’inizio leggo con frenesia la lettera, ogni parola mi sembra sconosciuta e incomprensibile; sono costretta a rileggere le stesse frasi più e più volte prima di comprenderne il reale significato.
«Non ci credo.»
Drake non sa davvero nulla, glielo leggo nell’espressione curiosa dello sguardo e nel tentativo maldestro di sbirciare il contenuto della missiva.
Dopo la terza lettura consecutiva mi rassegno a piegare il foglio, riponendolo nella busta e consegnando il tutto al mio ospite.
«Leggi e dimmi che ne pensi. Può davvero farlo? Può davvero lasciare il Maniero a me?»
Trascorrono rapidi istanti di silenzio prima che uno dei due dica qualcosa, minuti in cui trattengo il fiato e osservo Drake torturandomi le mani.
«Secondo le mie informazioni si può disporre dei propri beni nella libertà più assoluta, a patto che vengano considerati i parenti più prossimi e che il bene appartenga effettivamente all’interessato. Però…» ci pensa ancora un po’, dopodiché giunge alla conclusione «Deve aver pensato che nessuno dei suoi figli fosse degno abbastanza se ha saltato per intero una generazione.»
Mi lascio andare completamente sullo schienale e guardo fisso davanti a me. Ripeto a memoria le parole scritte di pugno da mio nonno e mi rendo conto del peso che portano: alla sua morte, ogni bene mobile e immobile sarà destinato solo ed esclusivamente a me, così che ne sia la custode. Perché io? Perché non papà? Non so nulla di leggi magiche né di successioni, dannazione. Vorrei contestare questa decisione, ma la verità è che credo di sapere quale sia la ragione dietro una scelta tanto particolare.
«Non è una preferenza, Drake. E’ una strategia.»
«Che vuoi dire?»
Cordelia sta facendo il possibile per portare avanti la sua vendetta: finora non ha mai davvero colpito nessuno di noi, ma quello che ha fatto a Primrose è stato il primo passo; confondere le sue tracce, fingere la sua morte e soprattutto giurare di non lasciare mai che il Maniero, la sua eredità, finisca nelle mani del primogenito maschio. Porto una mano alle labbra nel momento della realizzazione.
Mio padre è il terzogenito, ma l’unico maschio senza eredi di questo sesso. Nel suo ragionare, Connor ha trovato l’appiglio, forse, per salvare papà e tutti gli altri. Io sono quell’appiglio.
«Ci sono cose che non posso spiegarti qui.» dico, alzandomi «Andiamo al cottage.»

Non posso raccontare tutto a Drake, benché il suo supporto sia stato fondamentale per me nell’ultimo anno e mezzo. E’ il migliore amico di Desmond e se la manovra di mio nonno serve davvero a qualcosa, allora meno sa e meglio è; tuttavia, è necessario che gli dia un messaggio da riferire.
«C’è una piccola faida in famiglia, storia vecchia. E questo…» agito la lettera «Risolve parzialmente il problema.»
Il punto è che non so se sono degna di questo compito. Ho mentito, giurato il falso e tradito la fiducia di molti da quando tutta questa storia è cominciata, ma non conosco ancora l’estensione della mia colpa. Mi sembra impossibile meritare un simile onore ed onere, tanto più che mi sento insicura oggi più che mai. Cerco di spiegare a Drake quello che mi passa per la testa, le paure folli e le più stupide incertezze; lui sorride, abbarbicato sul bancone della cucina.
«Non credo sia solo una questione di faida famigliare. Connor ha sempre avuto un debole per te. Sei la sua erede di fatto, adesso, ma lo sei sempre stata. Ti ha insegnato cose che non ha nemmeno nominato a Des o agli altri. Sei identica a lui, possibile che non te ne accorga?»
«Non è assolutamente vero.»
«Sei una Legilimens proprio come lui e sei pure brava come Occlumante. Ragioni come lui, tant’è che hai capito il suo piano, sembra, senza troppi problemi. Ti considera una sua pari da quella sera! Sei la sua erede di nome e di fatto.» ripete accalorato.
Mi sono sempre chiesta chi fossi e quale direzione avessi preso, ad un certo punto. Volevo essere una persona affidabile, pronta e disponibile per chi ne avesse bisogno e con sani principi. Mi sono ritrovata ad essere molto diversa da quella versione di me stessa e mi sono chiesta spesso, ultimamente, se non fosse davvero questo che ero destinata ad essere. Mi sono domandata anche che cosa sarebbe rimasto di me se fossi scomparsa all’improvviso: non sono sicura di meritare la fiducia di mio nonno in questa storia, non dopo quello che ho fatto a Primrose, ma lui deve pensare che sia così. Altrimenti avrebbe affidato la questione a qualcun altro. Bastava scegliere zia Sheila o Ellen.
Ma poi toccherebbe a Des o ai gemelli. rifletto.
Ovviamente la decisione del nonno ha senso. Probabilmente avrebbe agito così molto prima se solo avesse saputo fin dall'inizio il rischio che stavamo correndo. Ammetto di non essere pronta a quello che verrà, ma ho capito una cosa nel corso del tempo: Cordelia mi ha sempre lasciato una traccia da seguire, volente o nolente, senza mai farmi del male… e questo è ciò che conta.
Continuo a fissare la calligrafia di mio nonno, sperando almeno in parte di aver preso la decisione giusta. Dalla bacchetta evoco una fiammella flebile, ma capace di incenerire la copia del testamento morale di Connor Finn Moran e, implicitamente, il mio.
«Digli che accetto.»


Concorso a Tema: Aprile 2024

 
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16 replies since 15/10/2018, 22:21   774 views
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