Fatico a riposare e ogni mattina è sempre la stessa storia: apro gli occhi e la prima cosa che vedo sono le cortine color senape drappeggiate al baldacchino; i suoni che odo sono il respiro regolare delle compagne della mia camerata, ancora immerse in un sonno quieto, e il fruscio di lenzuola e coperte attorcigliate alle gambe. C’è silenzio in realtà, eppure non mi sembra che sia davvero quiete quella che mi avvolge.
Penso già a quello che dovrò affrontare durante la giornata, ai mille imprevisti e a tutte le cose che potrebbero andare storte; le percepisco come un peso sullo stomaco e sul cuore. Faccio fatica a respirare.
lo so che, in fondo, non esistono giornate perfette: mi trovo in una scuola popolata da adolescenti incapaci di gestire emozioni e rifiuti di ogni sorta, dove la soddisfazione di uno corrisponde alla mordente gelosia di un altro. Io questi problemi non li ho. Finora mi sono tenuta lontana dalle idiozie tipiche della mia età, sono accademicamente abbastanza brava da non attirare l’attenzione sulle attività extracurricolari che svolgo: ronde, riunioni del Comitato e le riunioni dell’Esercito. Nulla dovrebbe tangermi. Ogni cosa dovrebbe essere sotto il
mio controllo. Ciononostante, sono qui distesa immobile sul letto, e mi sembra che la stanza stia girando intorno a me come se fossi su una giostra ed io non potessi fermarla.
In realtà il mondo - e la camerata - sono ferme e lo sono anche io.
Fisicamente, emotivamente, metaforicamente.
Inspiro a fondo e subito dopo rilascio l’aria incamerata. Vorrei riuscire a smetterla di pensare troppo e di attribuirmi colpe che non ho, ma non ci riesco. Il peso che mi porto addosso e che non riesco nemmeno a definire è talmente grande che non riesco a disfarmene; la sua entità mi affligge e mi mozza il respiro, chiudo gli occhi e, dopo qualche istante, sospiro.
Quando mi decido a sfiorare il pavimento di assi coi piedi nudi lo faccio abbozzando un sorriso finto - persino troppo - in risposta ai saluti assonnati delle mie compagne. Le osservo raccogliere l’uniforme, l’accappatoio e gli asciugamani, le seguo con lo sguardo mentre si avviano ai bagni per prepararsi in fretta e furia. Fingo di fare lo stesso, ma in realtà aspetto con ansia il momento in cui sarò da sola. Di nuovo. Questi sono i momenti in cui riesco a controllare me stessa, non del tutto ma sicuramente meglio di quanto potrei fare in presenza d’altri.
Mi lascio cadere all’indietro, le braccia distese lungo i fianchi e torno a vedere il baldacchino sopra di me. Mi accorgo per la prima volta di un’incisione sul legno, una specie di graffito minuscolo, proprio nell’angolo dove la tenda giallognola è fissata al supporto. La curiosità di sempre mi spingerebbe ad avvicinarmi per scrutare i dettagli di quell’opera d’arte, ma c’è qualcos’altro che mi trattiene e mi convince a restare lì inerme. Se potessi, passerei l’intera giornata avvolta da quelle coperte, senza curarmi del mondo all’esterno, delle lezioni e di tutti i miei compiti. Che cosa potrebbe mai accadere se lasciassi le cose così come stanno, senza intervenire nelle beghe giornaliere, senza frequentare una lezione o due. Se ne accorgerebbe qualcuno?
Importerebbe a qualcuno?
Ho passato i miei anni migliori qui ad Hogwarts a preoccuparmi di problemi che, con la scuola, non c'entrano nulla e sono stata sollevata dal mio fardello nello spazio di pochi istanti da chi, in verità, avrebbe dovuto sapere che cosa fare fin dal principio. Mi sento defraudata di uno scopo, anche se ne ho molti altri a ben pensare, ma non mi basta. Quello era il mio vero fine, il mezzo attraverso il quale avrei saputo dimostrare alla mia famiglia che sono in grado di essere responsabile e affidabile abbastanza per i loro standard. Adesso, invece, non sono niente.
Non sono niente per nessuno, me ne sono resa conto dopo che la reazione della Wagner in Sala Grande ha sminuito il mio operato: l’ordine di un Caposcuola sminuito da un gesto semplice e poche parole. Come se quello che dico non valesse nulla.
Non sono nemmeno più di riferimento per chi, con me, trascorreva il suo tempo libero: Nieve non mi guarda più in faccia, io non riesco a degnarla di uno sguardo per paura di scoppiare.
Mi asciugo in fretta una lacrima, proprio quando il cigolio di una porta mi spinge a nascondere quello che provo. Non posso permettermi di essere fragile. Non di fronte a chi si aspetta da me forza, intraprendenza e determinazione. Dovrei essere un punto fermo per chi cammina trascinando i piedi oltre la soglia della stanza in cui mi trovo… ma chi si occupa di me quando nessuno è lì a guardare?
Dismetto il pensiero così com’è arrivato cominciando a intrecciare i capelli.
Ogni giorno la stessa storia.
Quando varco la soglia della Sala Grande per la colazione mi infastidisce la cacofonia di suoni, voci e rumori di stoviglie, ma anche quella sensazione se ne va in fretta, sostituita - neanche a dirlo - da un mutismo interrotto solamente dai saluti calorosi di chi, tra poco, mi siederà accanto e a cui rispondo con una cortesia di rito, ma che non sento venire da dentro. Penso di non essere abbastanza brava a fingere, ma se nessuno mi chiede come sto, forse, significa che sto facendo un buon lavoro. Certo, potrebbe anche significare l’esatto contrario: forse non chiedono perché non gli interessa affatto saperlo e credo sia questa la verità.
Espiro e scelgo un posto vuoto, dando le spalle alla tavolata di Corvonero e - quindi - a Grifondoro.
Camille mi è sempre stata vicina durante i pasti, ma oggi me la ritrovo gomito a gomito e la sua esuberanza mi spinge a prendere le distanze da lei, come se mi disturbasse l’idea di essere contaminata da tanta energia. Mi verso un tazza di tè bollente, aggiungo le mie solite due zollette e una goccia di latte. Lei mi parla della serata conviviale che stiamo pianificando per Halloween, ma io non la sto nemmeno ascoltando. Irrispettoso da parte mia, ma… non mi interessa. In questo momento mi sento estranea perfino al mio stesso corpo, come se fossi imprigionata al suo interno e le azioni che compio non fossero dettate dai miei pensieri, bensì dalla volontà estranea del guscio che ospito. All’improvviso, qualcosa attira la mia attenzione e sento il bisogno di uscire da quell’isolamento forzato. Alzo lo sguardo sulla tavolata, stranita e inebetita da questa sensazione nuova di non appartenere a nessun posto, e mi spiazza ritrovare - vicino all’ingresso - la figura di Eloise in compagnia di Tony e Nieve. La Rigos è in piedi alle spalle di Tony, ridacchia per qualcosa che si sono appena detti, e saluta con quel suo nuovo modo ammiccante i miei compagni. “Nuovo” non è l’aggettivo esatto. Ha sempre avuto quello sguardo capace di attirare i sorrisi altrui, quella malizia nemmeno troppo celata che ti costringe a chiederti se, nelle sue parole, non stia nascondendo qualche altro significato. Non voglio starle accanto, eppure, in quegli sguardi complici con Eloise e Tony, Nieve rievoca lo spettro dei nostri, di tutte quelle volte in cui abbiamo borbottato qualcosa che solo noi potevamo capire e che, se scoperte, ci suscitava ilarità. Riporto velocemente lo sguardo sul mio toast e stringo le labbra. Mi manca, ma non so che cosa fare con lei. So che è andato tutto in fumo, che in qualche modo ha trasferito i suoi problemi su di me e io su di lei. La nostra non è più amicizia.
Sento il nodo alla gola tornare, proprio come quel mattino in cui i gufi hanno deciso di mescolare la posta, e le lacrime tentano di forzare una via d’uscita. Di nuovo. Questa sarebbe la seconda volta oggi.
Nel tentativo di reprimere le mie emozioni mi va di traverso il tè ed inizio a tossire rumorosamente, mentre gli occhi si inumidiscono per lo sforzo di riguadagnare ossigeno; la paura di soffocare spalanca le porte alle palpitazioni nel petto che, non mi ero resa ancora conto, avevo già. Deglutisco e mi accorgo che adesso la sensazione di soffocamento non è data da un liquido, ma qualcos’altro.
Porto una mano al colletto della camicia e con le dita tremanti cerco di allentare il nodo della cravatta, senza riuscirci. E’ allora che Camille si volta di nuovo verso di me con l’espressione preoccupata. Probabilmente pensa che restare senza di me sia la fine del mondo, ma vorrei rassicurarla dicendole che probabilmente tutti starebbero meglio. Certo, glielo direi se solo riuscissi a parlare e a pensare. Di nuovo la stanza sembra vorticare intorno a me e non riesco a fermarla, né riesco ad arrestare la corsa del cuore che sembra volermi uscire dal petto.
«
Thalia? Va tutto bene?»
Non rispondo, perché so - riprendendo leggermente fiato, ma non abbastanza per riuscire a formulare un suono di senso compiuto - che non sta parlando del tremore delle mie mani o del sudore freddo che mi imperla la fronte. Non sta parlando nemmeno della sensazione di formicolio che risale dalle dita alle spalle, si insinua ovunque nel mio corpo fino a raggiungermi cuore e polmoni: il primo non smette di battere, i secondi si sentono stretti in una morsa feroce, pizzicano e dolgono come se gli mancasse ancora l’aria. Eppure so anche che potrei respirare tranquillamente se solo lo volessi. Lo saprei, anzi, se nel mio cervello non stessi vivendo la paura tremenda che mi provoca la presenza di tante persone intorno. Mi sento osservata, forse perché lo sono e tutti si aspettano che risponda a parole alla domanda che mi è stata posta, ma non ce la faccio e mi irrigidisco. L’unica reazione che riesco ad avere è quella di lasciare tutto così com’è sulla tavola - il toast da finire, la marmellata ancora da spalmare, e il té fumante - e di avviarmi verso l’uscita, provando ad avere un contegno dignitoso anche se, lo giuro, sento che potrei implodere. E allora comincio a correre. Non ho stretto abbastanza l’elastico che mi trattiene i capelli in una treccia lungo la schiena e li sento scivolare sulle spalle, sobbalzo dopo sobbalzo, mentre supero la porta e mi fiondo nei sotterranei. Non faccio molta strada prima di fermarmi, stringendo la camicetta all’altezza del cuore con una mano e sfiorando il collo con l’altra. Chiudo gli occhi, mi accascio sul pavimento in tutta la mia rigidità e solo dopo minuti interminabili riesco finalmente a riaprire le palpebre.
Ho paura. Per la prima volta in vita mia ho paura perché non ho idea di che cosa mi stia accadendo. Non riesco a pensarci, non voglio parlarne. Non voglio essere guardata. Troppi occhi, troppe opinioni e spiegazioni che forse non avrebbero alcun senso. Delle frasi fatte non me ne farei niente. Vorrei capire il perché delle cose - ho sempre voluto farlo -, ma adesso ho un rifiuto.
Mi crogiolo nella sensazione meravigliosa che il silenzio riesce a darmi, il freddo e la solidità della pietra dietro e sotto di me come unico sostegno necessario. La beatitudine che mi avvolge quando, finalmente, il cuore smette di martellare impetuoso e irregolare contro le costole e il respiro che torna a farsi regolare.
Rimango immobile, accartocciata su me stessa come una foglia secca, cingendomi le ginocchia con le braccia. Fa freddo qui, ma questo mi aiuta a non alzarmi. Se resto qui non può succedere nulla. Penso alle persone che incontrerei andando a lezione e di nuovo mi assale quella stretta allo stomaco che non se ne andrebbe più se indugiassi ancora su questo binario. Realizzare di essere tanto fragile mi fa tornare indietro al punto da cui sono partita, quando il problema era fuori da queste mura e qui - almeno - mi sentivo sicura e adesso, invece, non lo sono più. Avrei bisogno di parlarne con qualcuno, ma come scegliere la persona giusta? Nessuno potrebbe capire davvero quello che sento, che quello che penso non è una sciocchezza da minimizzare con un gesto della mano o una risatina divertita. Devo fare tante cose - mi direbbero - e questo, stare seduta qui nella penombra e al freddo, non mi sarà d’aiuto.
Vorrei alzarmi, ci provo, ma mi manca la forza. Mi sento sfibrata da me stessa e non so come aggiustarmi o come sia finita in questa situazione. Mi sembra, semplicemente, di essermi svegliata una mattina e di essermi trovata così. Ed è pensandoci che gli occhi si velano di lacrime e singhiozzando mi rendo conto di emettere suoni patetici a cui non sono abituata e che detesto.
Io mi detesto.
All’improvviso, delle voci allegre riecheggiano nel corridoio ed è la paura di essere vista - o l’ultimo briciolo di amor proprio rimasto - che mi spinge a tornare in piedi, senza smettere di piangere, e di correre via - ancora e ancora - per rinchiudermi nell’unico posto dove nessuno verrà a disturbarmi. Per quanto assurdo possa sembrare, trovo maggior conforto nelle quattro mura che costituiscono la Sala Comune, nelle coperte del mio letto e nel placido vuoto che mi accoglie ogni volta che riesco, finalmente sola, a smettere di pensare.
Rannicchiandomi su me stessa mi dico che potrei parlarne con qualcuno, ma ci ripenso perché il timore di essere creduta qualcosa che non sono è più forte del bisogno di uscire da questa condizione.