Sabotage

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view post Posted on 29/3/2024, 21:03
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entropia.

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Nieve Rigos
18 anni
Mese di Marzo, IV anno, bocciata dopo due anni di assenza da Hogwarts
Casa dei nonni, Londra


and when I felt like I was an old cardigan under someone's bed

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Strombazza un clacson, forte. È un autobus a due piani, di quelli rossi diventati simbolo del turismo babbano, ad accanirsi. Un motociclista gli ha tagliato la strada con una manovra rischiosa. È tanto, commento tra me e me, che le piccole pedine umane sedute nella zona aperta del veicolo non siano stramazzate sull’asfalto. Il tizio però, reo di aver cagionato un tamponamento a catena, se ne va senza voltarsi indietro. Le sue priorità devono essere altre, a quanto pare, e delle sorti di quei poveri cristi non gliene può fregar di meno.
Tengo lo skyteboard poggiato alla gamba, reggendolo con la punta delle dita. Ho trascorso le ultime ore in un parco della Londra magica a svolazzare di qua e di là con le sopracciglia sempre calate sugli occhi. Non si dimentica un pensiero appiccicoso, non uno di quelli che non vuole essere inghiottito ma che si aggrappa alle pareti della gola e la risale. La schiena sta poggiata contro un edificio dai colori chiari. Non mi dice niente, non mi ricorda niente. Se anche lo facesse, il rimuginio in superficie copre la realizzazione con il suo prepotente ronzio.
Ho un quarto d’ora per decidere. Un fottutissimo quarto quarto d’ora. È il tempo massimo che posso concedermi per andare avanti o farmi indietro, ché mi conosco abbastanza da sapere che la codardia è dietro l’angolo.
Le strade di Londra sono trafficate, quest’oggi. Sarà che è lunedì mattina e la città comincia a svegliarsi dal torpore del weekend; o sarà che nella metropoli la frenesia non muore mai. Mi guardo intorno e mi rispecchio nel caos generale. Non soltanto perché incarno il caos in ogni sua più dicotomica sfumatura, ma anche perché il coacervo di emozioni che graffia contro il mio petto non ha posa. Sta tutto lì, agitato, e rimbalza da una parte all’altra del mio costato. Dice che non sono pronta, dice che è un errore, dice che è giunto il momento da un pezzo e dice che uno slancio di audacia è proprio quello di cui abbiamo bisogno. Solo che vorrei ordinarlo, questo frenetico andirivieni; mettere in fila a due per due le emozioni come si fa con le matricole durante le gite scolastiche. Il problema è che non sono una di quelle docenti dal polso fermo, non se si tratta di sentimenti. La classe mi sfugge di mano e non importa quanto gli intimi la quiete. Quelli, i sentimenti, fanno di testa loro.
Inspiro ed espiro in affanno, a tratti dimentica del meccanismo dell’espansione e della contrazione. Dovrebbe essere semplice, invece incespico e ruzzolo. Che non sia mai stata brava a obbedire si nota dall’incontrollabile frenesia che imperversa dentro di me e che, per coerenza, ha tutte le ragioni di esistere.
Ma cos’è che devo fare? Qual è il mistero che non vi ho ancora svelato? Ho deciso di andare dai nonni. Sì, gli stessi che ho allontanato dalla mia vita con la pretesa di metterli al sicuro come ho fatto con Thalia. Portare avanti con cocciutaggine le mie convinzioni, anche di fronte a una o più smentite, è un’arte in cui eccello. Le conseguenze, è ovvio, le pagano gli altri. Così, ho ferito lei e ho ferito i nonni; e chissà quante altre persone lungo la via. Il prezzo è stato il senso di colpa. Senso di colpa per aver lasciato indietro la mia migliore amica. Senso di colpa per aver fatto altrettanto con due delle colonne portanti della mia vita. Senso di colpa per essermi convinta di aver ragione quando la ragione non c’entrava niente.
«Scusa» prorompo nell’impattare involontariamente con la spalla di un passante, dopo essermi data slancio per abbandonare il sostegno del palazzo.
Deve esserci confusione nei miei occhi e sui miei lineamenti, perché un’espressione curiosa si dipinge sul viso dello sconosciuto, come se il fastidio per la mia disattenzione non escludesse la possibilità di cogliere un indizio sulla persona che ha di fronte — su di me. Non capita spesso, eh. Non tutti i londinesi (o presunti tali) hanno il buon cuore di superare la fase del disturbo e soffermarsi un frammento di secondo a fare sfoggio di un briciolo di umanità. Io, ad esempio, oscillo costantemente da una sponda all’altra. A volte, scandaglio le piccole mutazioni sulla mappa emozionale di chi incontro. Altre, le mie paturnie sono talmente prepotenti che non mi curerei di nessuno, nemmeno della persona moribonda sul ciglio della strada.
Oggi non va così. Oggi il mio bisogno di supporto e rassicurazioni supera l’ostilità superficiale del mio essere umana, naturalmente egoista. Li cerco in chiunque possa darmene un assaggio, affamata come la bambina indigente che sono stata. Lo straniero mi supera poco dopo in silenzio, ovviamente. E io non lo trattengo. Non solo perché non saprei quale motivazione accampare per riuscirci e perché, di fondo, non lo voglio nemmeno. È perché so di doverlo ai nonni, il coraggio di intraprendere questa via senza condividerne il peso. Non voglio tornare da loro per consiglio o volere di un altro. È per questo che non ho parlato della mia decisione né a Thalia né a Isa. L’avrei persa, l’audacia ponderata che mi ha condotta fin qui.
Devo ancora percorrere qualche isolato prima di raggiungere uno dei pochi luoghi che abbia mai considerato un porto sicuro, dopo il trasferimento in Inghilterra. Ho aspettato per il timore di rimanere immobile davanti alla soglia; per evitare che lo sguardo curioso del nonno o quello vispo della nonna incrociassero il mio per caso. Dunque me ne sto qui, rintanata in fondo a una via secondaria alla quale domando riparo. Mi sono detta che mi avrebbe fatto bene fermarmi, che così sarei riuscita a calmare il battito del mio cuore e la fame d’aria dei polmoni. Come potete immaginare, mi sbagliavo. Per ogni secondo di pietra che trascorre, un nuovo livello di inquietudine si innalza là dove vorrei che governasse la calma. Per ogni minuto che ritardo a muovermi ancora, gli scenari creati dalla mia immaginazione si arricchiscono e acquistano pennellate di insuccesso.
Potrebbero respingermi e avrebbero ragione. Potrebbero rifiutare le mie scuse. Potrebbero ricordarmi l’estensione della mia ingratitudine dopo tutto quello che hanno fatto per me. Il punto è che, per paradosso, mi spaventa meno questa ipotesi per averla esplorata un’infinità di volte fino a sentirla familiare — la prospettiva di vedermi chiusa la porta in faccia, intendo. All’impatto emotivo di un sì non sono sicura di essere pronta.
Deve apparire sciocco, dalla vostra prospettiva, prendere atto delle mie tribolazioni. Se con Thalia è andata bene e di questo nuovo risvolto sto facendo tesoro, perché dovrei temere e insieme auspicare un risultato differente con i nonni? Perché non dovrei, anzi, fremere all’idea di tornare nelle loro grazie?
Perché Thalia e i nonni sono persone diverse.
«Ho bisogno del Tuo aiuto» supplico nell’ennesimo sfoggio di contraddizione.
Ho ripetuto con ostinazione di aver rinunciato a Lui in favore della sua nemesi; e di aver sguazzato nel fango maleodorante dell’inferno perfettamente a mio agio. Eppure ritorno; ritorno quando mi sento persa o sola. E, tutte le volte che il mio cammino si diverte a schernirmi, a stento trattengo la spinta che mi ingiunge di oltrepassare il varco di una chiesa e chiederGli perdono.

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Mi avvio. Non so quanta coscienza mi sia rimasta. Sento di vivere uno stato di distacco dal mondo esterno, come se lo sfiorassi senza mai toccarlo davvero. Torno sui miei passi a tre anni di distanza. Ho sbagliato, ora me ne rendo conto. Avrei quantomeno dovuto spiegare loro il perché della mia decisione; permettergli, se non di capire, quantomeno di sapere. Invece, ho agito d’istinto e ho lasciato che a guidarmi fosse l’irrazionalità delle mie paure.
È a questo che penso quando raggiungo la porta turchese, simbolo di un’infanzia rinnovata. Gli strascichi del passato non sono mai stati guardati, lì dentro, con la pretesa di cancellarne l’impronta. Dietro il legno di cielo terso, ho ricevuto comprensione — comprensione e amore. Il cuore accelera le sue pulsazioni; mi riconduce al presente. E nel presente il coraggio mi manca, risucchiato dal vuoto della solitudine che mi è cara. Mi domando se sono pronta. Mi chiedo se ho disposto sul piatto della bilancia ogni possibile ripercussione di questa scelta. Non mi rispondo.
Tre tocchi risuonano nello spazio che mi separa dall’uscio. Le nocche sono fredde, avvertono il dolore del contatto. Perché spezza le catene essere qui. Perché il ricordo della morte di Astaroth si rinnova e divampa nel cranio.
«Benvenut—»
La voce del nonno, abituato ad accogliere gli ospiti con giovialità, chiunque essi siano, si blocca. Scorgo nei suoi occhi in successione sorpresa, dolore, incredulità, commozione. I baffi folti tremano perché sta cercando parole che rimangono sospese, confuse, lettere accavallate senza alcun senso.
«Ciao, nonno!»
Il mio saluto rispecchia l’incertezza del suo. Il rimbombo che sento nelle orecchie intima la fuga. Fa troppo male, troppa paura stare qui. E, improvvisamente, mi dico che non voglio niente da loro, neppure il perdono. Mi sento spaurita, messa alle strette, in balìa di marosi che travolgono il coraggio racimolato per raggiungere la loro soglia.
Solo che l’espressione sul viso del nonno si apre alla dolcezza, come fa il sole quando s’insinua nello spazio tra le nuvole; e il suo sguardo cede terreno all’amore che prova per me, immutato. «Bambina…» sussurra, così piano che penso di averlo immaginato.
«Scusa» dico all’improvviso, facendo seguito al suo richiamo. Abbasso gli occhi, mi soffermo sulla punta arrotondata delle sue scarpe e sui rimasugli di terra di cui è cosparsa la superficie. Con un sorriso, penso alla reazione della nonna quando lo ha visto oltrepassare la porta finestra del giardino, portandosi appresso impronte spesse di fango. «Volevo chiedervi scusa.»
È tutto quello che so dire, d’un tratto piccina nei miei diciotto anni. La persona incurante delle regole, del buoncostume, del rispetto di se stessa che ho incarnato finora, polverizzata sotto la tenerezza dello sguardo di nonno Gaspare. Lo sento sospirare, ma la visiera del cappellino che indosso e lo sguardo risolutamente basso mi impediscono di interpretarne gli umori.
«Tu sei sempre scusata, bambina» odo e torno a incrociare i suoi occhi. Adesso, i miei rispecchiano il trasporto che gli ho negato pochi istanti prima. «Tu sei sempre qui» continua, portandosi la mano al petto. Con l’indice, picchietta sul punto dove sente battere il suo cuore.
Prendo fiato per rispondere. In realtà non so cosa dire. Le sole parole che indugiano sulle mia labbra hanno lo stesso suono di quelle che ho già pronunciato — “Scusa”.
«Gaspare, si può sapere che stai facendo? Chi ha suonato?»
I passi della nonna mi bloccano. D’istinto cerco il viso del nonno. Gli mostro lo spavento e l’agitazione che provo, la sensazione che mi manchi la terra sotto i piedi. Lui fa in tempo a rivolgermi un cenno incoraggiante, che ha il sapore della pace cui ho dato vanamente la caccia in questi ultimi anni. Poi, intravedo la sagoma della nonna dietro la sua spalla. Si porta le mani al viso. Copre la bocca, spalanca gli occhi. Vorrebbe parlare, ma come me non saprebbe cosa dire.
«Ciao, nonna» ripeto, un soffuso rossore sull’incarnato pallido. «Scusa.»
Una lacrima le riga il viso. Si stringe nel cardigan che le ho regalato anni fa, comprandolo con il mio primo stipendio. La sua voce vacilla quando, infine, trova la forza di parlare. «Sei tornata...»
È davvero così? È questo che sto facendo? Non saprei rispondere, nonna. Per una parte di me che lo urla a gran voce ("SÌ"), ce n’è un’altra che strilla il suo contrario; che afferma di essere giunta fin qui solo per porre delle scuse dovute e nient’altro. In effetti, fatico a ricollocare i nonni a Villa dei Gigli o me stessa a casa loro. Proverei la stessa, ambigua sensazione che ti assale quando rivivi un ricordo nel pensatoio: ci sei, ma non ci sei. Sei quella che eri e, insieme, quella che sei diventata.
«Vuoi entrare, bambina?»
Ho sempre saputo di poter contare sulla delicatezza del nonno, sulla sua prontezza emotiva. Credo abbia valutato e compreso il rischio di un’eccessiva dose di entusiasmo da parte di nonna, o addirittura di un passo di troppo nella mia direzione. Muovo il capo da destra a sinistra in segno di diniego. Non sono ancora pronta. Lui annuisce e, imperterrito nella sua dolcezza, mi sorride.
«Regent's Park, magari» bisbiglio. «Un pomeriggio, fra un po’.»
La sua espressione si fa furba, mentre mi regala un occhiolino dei suoi. «Puoi scommetterci!»

you put me on and said I was your favorite
 
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