| I'm prepared to look you in the eye Look me in the eye / And if you see familiarity Then celebrate the contradiction / Help me when I fall to «C'è un orsacchiotto di stoffa, è circondato da utensili da cucina – pentole, posate, bicchieri di vetro, tazzine da caffè, e tanto, tanto altro ancora. Una teiera è incastrata tra un mestolo e un portatovaglioli, sembra quasi infastidita a sua volta dal disordine intorno: gorgheggia nell'acqua in ebollizione, trasporta in alto buffetti di vapore, è una cantilena che sfuma in sottofondo rassicurante insieme alla voce di Celestina Warbeck, da una radiolina color giallo limone proprio accanto i fornelli. Somiglia ad uno spazio ristretto, forse una stanzetta più che una cucina vera. Ci sono perfino scatoloni nei paraggi, alcuni sullo stesso tavolo, altri sulle sedie, altri ancora negli angoli più disparati – qualcuno è aperto, tanto da svelarne il contenuto: stelle di carta, pupazzetti di neve, rametti di cespuglio farfallino, ghirlande di smeraldo con bacche più rosse dei rubini, e numerose lucette colorate. Sono tutte decorazioni natalizie, molte già sospese a mezz'aria per adagiarsi a colpi di bacchetta su un abete, uno dei più piccolini in circolazione – è un alberello davvero buffo, capovolto a testa in giù proprio sulla mensola delle spezie, facendosi largo tra boccette di zucchero, di zenzero, di cannella. Celestina Warbeck canta di un calderone pieno di forte amor bollente, è una melodia che bussa dolcemente alle porte di casa di maghi, streghe e bambini, di tutti noi. Nella stanzetta incasinatissima, tra l'altro, c'è addirittura un calderone, un po' per coincidenza; è il centro di una fiaba, è il punto che tutti osservano: la teiera scoppiettante dai ricami d'oro, l'orsacchiotto con gli occhietti di bottone, il bambino con un barattolino di miele stretto stretto tra le mani. Guardano tutti verso la stessa direzione, come perduti nell'incanto del momento – il calderone dipinge un arcobaleno, catturando nelle volute i riflessi argentei di cucchiai, coltelli e forchette; realizza forme che ricordano giganti eterei, pronti a tendersi le mani gli uni con gli altri, così danzano in cerchio. Creature d'aria, sono bellissime.» – Incendio. Carta che sfrigola, il crepitìo del fuoco che si avvinghia famelico lungo i bordi, l'olezzo di bruciato che pizzica le narici; è uno sguardo assente quello che offusca il mio volto, è lo sguardo spento di chi trattiene la diffidenza e ne veste ogni corazza. Dietro di me è una schiera di dormienti, concasati che s'imbattono nei sussurri delle fiamme, nel pericoloso tepore che divampa a pochi metri: sogni che si sgretolano in incubi, e tutto quello che resta loro è l'illusione d'essere tuttora al sicuro. Dentro di me è una guerra in corso, è il cuore in tumulto, è il capriccio dell'animo profondo – perché, ti chiedo. Soltanto questo, nulla di più. Perché, ti chiedo. Stringo la bocca in una smorfia non appena il fuoco divora le prime pagine, dovrei discostarmene prima che diventi troppo tardi, prima che ustioni la pelle: è un passato che si stringe convulsamente al momento, è la ferita che fatica a rimarginarsi per davvero. Sei tu, quella ferita. Sei anche tu, mi dico. In qualche modo che non avrei mai voluto scoprire, sei anche tu in quella ferita. Assume il peso di una cantilena, il brivido del corpo che reagisce nervoso: le fiammelle avanzano, è l'ascesa luminosa e distruttiva. Sorge un pensiero, ed è ridicolo: la luce è ombra, è fuoco che mai mi abbandona. Mi chiedo se anche tu, così vicina a me, possa averne sentore. Mi interrogo, mi interrogo giorno e notte: perché, ti grido. Perché, perché, perché. Le parole che hai scritto sul nostro diario hanno aperto una voragine, in me. Dapprima hanno portato via un sospiro, quasi un singulto: mi dicevo... è la persona che cercavo, è la persona che mi ha trovato. E germogliava la speranza che a lungo avevo rinnegato per me, la stessa che mi aveva ripudiato. E la tragedia, e la morte, e l'assenza... tessono punti lungo il mio corpo, sono presenze che non vanno mai via. Perché, ti chiedo. Perché mi hai rinnegato, perché anche tu, tu che avresti potuto capire, tu che avresti potuto capire me. Perché, ti bisbiglio. La voce è flebile, oramai è assente. Nell'egoismo dettato dalla rabbia, nell'atipica espressione che macchia tutto di me, c'è un'unica consolazione. Forse... anzi, di certo sbagliata. Mi crogiolo all'idea che anche tu possa viverne fuoco, che anche tu possa sentire la scottante rivelazione che mi ha accompagnato fino ad oggi, in questi mesi in cui non sono stato io, in questi mesi in cui avremmo potuto essere noi. Mi crogiolo all'idea che anche il tuo diario, come il mio, stia bruciando. Che si consumi, allora. Che si consumi fino all'ultima pagina. Perché, mi chiedo. Perché anche tu. – «C'è un bambino con un barattolo di miele, lo stringe tra le dita come tesoro d'altri mondi. Mio, dice. È mio, mamma. Perché c'è una donna ai fornelli, è lei a guidare ogni borbottio del calderone, è lei quella che tutti noi stiamo vedendo. Ed è bellissima, è eterna. Ha i capelli raccolti di lato, ha un elastico dalla forma di una farfalla a trattenerne delicatamente onde color nocciola. Veste un abito di fiori d'estate, petali coloratissimi intrecciati a foglie di smeraldo; ha una margherita, una vera, lungo una sfuggente ciocca di capelli, ed è... è incantevole, lo è davvero. Mamma, chiama il bambino. Lei non risponde, lei sorride soltanto, e in quel sorriso c'è affetto. Canticchia dolcemente in compagnia di Celestina, si volge verso il piccolo al tavolo in un passo di danza, e un altro, e un altro. Ha strisce di cioccolato, di miele e di farina lungo il volto, lungo le braccia, lungo le mani, e allegramente solleva il bambino e lo stringe al proprio petto. Quando lo lascia andare è come se lo stesse lanciando in volo, come un saltello verso il soffitto. Con il barattolino avvinghiato alle mani, il piccoletto si ritrova sospeso a mezz'aria – per qualche istante in più del normale, qualche istante che gli strappa un gridolino squillante. Quante api frizzole hai mangiato, chiede la mamma. E lui ride, ride così tanto, ride con le guance paffute e la bocca sporca di miele. L'orsacchiotto che è riuscito ad acciuffare prima, allora, osserva tutto come spettatore a sua volta. Ha il pelo completamente macchiato di miele, le mani del bambino sono appiccicose. Conserva qualche ape frizzola per Álvaro, mi niño. È una carezza, è una melodia che la sua lingua d'origine fa brillare tutto intorno. E il bimbo si arresta, un po' come colto di sorpresa: quando discende in volo fino alle braccia della mamma, sembra quasi... imbarazzato, come ad aver dimenticato qualcosa. Come ad aver dimenticato qualcuno». – C'è profumo di miele, di biscotti fatti in casa, di marzapane, sostituiscono le note di bruciato di un diario che adesso stringo al petto. Sussurro parole dolci, parole di dolore, gli chiedo di perdonarmi... chiedo a te di perdonarmi. Ho spento il fuoco prima che invadesse il resto delle pagine, è una linea che ha coinvolto fortunatamente soltanto le ultime, soltanto il fondo. La copertina è leggermente annerita, nulla però è stato distrutto, nulla che fosse già stato scritto. Ho incendiato il futuro, vorrei dirti. Quello che non è stato ancora segnato, quello che non è ancora arrivato. Ho incendiato il tempo, è una scelta che mi lascia una sensazione che non comprendo pienamente. Perché, ripeto. E questa volta è dolce, la mia voce è dolce. Perché, perché anche tu. Non ho scritto per mesi sul nostro diario, non ho voluto: le tue parole hanno aperto una voragine, è quello che ho già detto ed è quello che continuamente mi affonda. Penso che tu lo abbia capito prima di me, mi hai svelato. O forse che tu ne abbia avuto presagio. E quella scelta, quell'ultima scelta, è stata come una tempesta. Ho creduto a lungo potesse essere egoismo, il mio – l'idea di voler essere l'unico, l'idea di voler essere il privilegiato, pur nella condanna della mia eredità. Sapevo però di non esserlo, perché mia nonna è l'altro esempio che porto nella mia vita. Ma credevo... credevo di essere l'unico, ingenuamente lo credevo. Ed è vero, è vero: sei nel mio tempo, nel passato, nel presente, e pensavo forse nel futuro. Perché, mi chiedo. Ho creduto a lungo fosse indifferenza, invece ho capito. Alla fine, quando ho appiccato fuoco al diario, ho capito davvero. Perché, ti chiedo. Perché non sei stata con me, quando ne ho avuto bisogno. Se potevi capire, se potevi capire quello che nessun altro avrebbe mai potuto, allora... perché, perché non ci sei stata. La solitudine della mia degenza, per mesi, lunghi mesi, è tornata d'impatto. Nel letto d'Infermeria, nel letto del San Mungo, con medimaghi come spettri ad inseguire ogni mio tremito, ad assumere che ogni mia parola fosse una nuova, profetica minaccia. Ad aver paura di me, quando io stesso avevo paura di me. Perché, allora. Se tu sei come me, se tu sei nel mio tempo, perché non c'eri. Non era egoismo, il mio. Era dolore. Infinito, profondo dolore: l'abbandono è vivido, per chi come noi. E lo è in ogni momento, lo è sempre. – «Álvaro, sillaba il bambino. E quel bambino sono io. Stringo Ted, l'orsacchiotto, e lo trascino con me mentre gattono avanti, sempre avanti, fin quando raggiungo le scale della nostra casa. Celestina mi insegue, la voce è dolce, promette l'affetto più bollente di un calderone. E io... e io non posso aver dimenticato lui, non posso, non a Natale. Quando a fatica mi arrampico oltre i gradini, mio padre scende fino a trovarmi. Sorride, mi solleva al volo, mi porta in braccio sulle sue spalle fino al piano superiore. C'è una porta sottile, è di legno, è quella che conduce alla nostra soffitta. Ci gioco con i miei cugini, nei momenti in cui posso essere bambino anch'io. Oltre quell'ingresso c'è ogni mia memoria: fotografie in cornice, quadretti dipinti negli anni, giocattoli che mi hanno accompagnato fino a quel giorno. Mio padre mi lascia scivolare fino alla porta, poi va via. Sa che quello sia un momento solo per me, solo per noi. Álvaro mi aspetta, è così... brutto, ha occhietti sporgenti, un corpetto smilzo e un paio di orecchie più lunghe. Ed io rido, rido felice: perché Álvaro ha un cappello di natale che gli calza ben oltre la fronte, ha un pigiama con renne e stelle filanti, e un paio di pantofole azzurre molto alte che però non nascondono per bene le gambette tozze e i piedi piatti. Álvaroo, chiamo. Dolce, così dolce: mi hanno detto che il suo nome significhi "colui che tutto protegge", e in effetti Álvaro è un Guardiano. Un po' come Ted, il mio orsacchiotto. Solo che Ted protegge i miei sogni, Álvaro invece protegge la mia casa, la mia famiglia, tutti noi. Nonostante sia buffissimo, per me è come un amico, un amico che ama la soffitta, gli spazi angusti, le travi di legno sulle quali può arrampicarsi. Quando mi vede, Álvaro spicca un balzo fino ad investirmi, ha un profumo che ricorda il muschio, la terra, forse la polvere, è l'odore delle cose antiche, è l'odore dei ricordi nei cassetti. Mi stringe maldestramente in quello che somiglia ad un abbraccio, le lunghe mani a cingermi le spalle e a scuotermi, scuotermi fortemente. Sei qui, sembra mugugnare, è una lingua che sembra solo gemiti. Ma capisco, e rido ancora. Gli offro Ted, il mio orsacchiotto, e Álvaro lo sistema sulla testa accanto al cappello. Poi cade via, e rido ancora. Gli offro il mio barattolino di miele, e Álvaro lo stappa goffamente per poi infilarci tutto il muso per gustarne ogni dolcezza. E rido, rido ancora, rido fino a cadere a terra. Siamo tutti sporchi di miele, è Natale. Ed è una tradizione, è Álvaro, è Ted, è mia mamma ai fornelli, è mio padre che mi prende sulle braccia. E poi, d'improvviso, tutto cambia». – È la Vigilia di Natale, è notte fonda. Nel turbinio di cristalli di ghiaccio tutto intorno c'è il canto lontano di Celestina alla radio, c'è il profumo di frittelle al miele, c'è lo scoppiettio dei calderoni accesi per tutto il giorno; forse, mi dico, sono frammenti. Quando mi materializzo di fronte la staccionata in legno così tanto familiare, non c'è altro che un pupazzo di neve – sembra osservarmi, rotola la testa per la magia cui è avvinto. Non dice una parola, non mi accoglie. Forse, mi accorgo a pensare con tristezza, non sa chi io sia per davvero. Quella è casa mia, vorrei dirgli. E distruggerlo, spezzarlo, scioglierlo con lo stesso fuoco che ha scottato la mia mano, lì dove ora c'è un cerotto come promemoria. Non posso trattenermi molto, il viaggio che mi ha condotto a Cork è stato lunghissimo e sono stanco, sono così stanco. Potrei crollare da un momento all'altro, lo so bene. Allora avanzo, avanzo soltanto di un passo. Non posso entrare, non più. Quella non è casa mia, oramai non sono il benvenuto. Stringo le mani sulla staccionata, al chiarore delle stelle e delle scintillanti decorazioni lungo il giardino scopro che la vernice sia stata scrostata in alcuni punti, e penso... penso di voler tornare da mio padre e chiedergli di dipingere tutto insieme, di nuovo, come una volta. Alla fine tremo, tremo nel cappotto così pesante che scivola fino ai piedi. E tremo di paura, di nostalgia, di dolore. Non c'è miele, non c'è musica, non c'è altro per questo Natale, non è più lo stesso. Volgo lo sguardo in alto, verso il piano superiore di una casa che mi ha accolto, che custodisce tutte le mie memorie d'infanzia. E fischio, un suono squillante, l'unico nel silenzio della notte. Attendo, tremo, tremo completamente. Alla finestra della soffitta, appena visibile nelle file di lucine sospese accanto, appare una figura così bizzarra, così tozza... somiglia ad un bambino che si affaccia al vetro, che vi sporge il volto per cercare renne, slitte, regali di sogni. Invece è lui, lo so subito. Álvaro è alla finestra e mi guarda, è incuriosito, ma mi riconosce. Batte contro la superficie, un ticchettio greve che rimbomba ovunque, e rido, rido per la prima volta da mesi. Álvaro scappa via, si perde nelle ombre della soffitta, e so già che stia correndo a svegliare tutti. Le luci si accendono, la casa è in fermento. Sento voci che mi mancano, voci che mi tormentano da tempo. Cosa c'è, Álvaro. Cosa c'è, chi c'è. Passi affrettati, altre luci, Fate danzanti che si svegliano dal dormiveglia lungo foglie di quercia, e lui, Caramello, il Crup che corre fino alla porta. Abbaia una, due, tre volte. E lei, c'è lei. Ed è bellissima, è eterna. Bambino mio, sussurra. E di me, oltre la staccionata, non resta che il turbinio di cristalli di ghiaccio. – «E poi, d'improvviso, tutto cambia. C'è una stanzetta spoglia, ha pareti di pietra grigia; sembrerebbe un ambiente piuttosto spento, se non fosse per poche decorazioni natalizie: stelle, renne e piccoli ometti vestiti di rosso, si circondano ad un intreccio di vischio e bacche innevate, l'unica ghirlanda sospesa in volo per magia. C'è un tavolo rettangolare, è al centro esatto della stanza, è sufficientemente lungo per accogliere una, due, almeno dieci sedie, alcune sfuggono nelle ombre della notte. C'è luce, è flebile. Soltanto candele a mezz'aria, c'è una figura che ne scova altre da un cassetto e a colpetti di bacchetta ne accende la fiammella. Lentamente brilla colore, nuovo colore, ed è rosso, è giallo, è azzurro, nei riflessi di pentole, piatte e bicchieri che già sono sistemati ai vari posti del tavolo. C'è un calderone gorgogliante proprio accanto ad una statuetta di leone, le cui zampe di bronzo artigliano un mestolo in attesa di servire il delizioso contenuto che vi si nasconde. Forse una zuppa, forse un arrosto, forse una fonduta di formaggio, non saprei dirlo. Ha un profumo di spezie, che ricorda casa. Qualcuno bussa alla porta, è una porta in legno, è semplice. Quando si apre, cigola fino a svelare i primi arrivati: spettri d'assenza, illusioni prive di contorni veri e propri. Potrebbe essere chiunque, forse nessuno. Si sente profumo di miele, di frittelle dolci. C'è un camino sulla sinistra, più che altro una pentola a mo' di brace: svela tizzoni ardenti, fogli di giornale, rametti di legno, e c'è un... un orco, a tutti gli effetti un orco, che ne mestola cenere e fiammelle con le lunghe braccia che si ritrova. Ha occhietti sporgenti, denti aguzzi che articola in un sorrisetto quando solleva lo sguardo, chiamato da qualcuno. Ha un cappello natalizio, ha un panciotto sul quale pende un orologio da taschino, che ticchetta, ticchetta un'ora, un minuto, un secondo. E quando tutto sfuma in modo astratto, c'è una voce, c'è la tua voce. Buon Natale, dici. E tutto cambia, e tutto si ferma, e tutto continua». – C'è una civetta delle nevi che bussa alla tua finestra, è un becco tanto insistente da svegliare molte studentesse. Qualcuno cerca di fare in fretta, prima che l'allocco tormenti l'intera Torre Grifondoro. E la riconoscono, la riconoscono tutti. È la civetta di Oliver. E lei, un po' vanesia, spicca infine il volo verso il tuo letto, il tuo comodino. Così vi lascia un dono di carta azzurra, è solo una piccola scatola. Scappa via, la civetta, prima che qualcuno le lanci un sortilegio contro. Nel regalo c'è un barattolo di miele, è di vetro, reca il sigillo di un'ape di ceralacca color blu: è il miele dolce-lacrima, è una parte che lascio anche a te. C'è un foglietto, soltanto un foglietto. Mostra la dicitura "Ghoul, ritirare al Serraglio Stregato", e subito dietro una frase enigmatica per tutti, e non per te. "Leggi il diario, Oliver". Nulla di più, forse... forse tutto. Chi ti regalerebbe mai un orco per Natale? – «Non ho avuto il coraggio di scriverti per mesi, per tutti questi mesi fin da quando ho letto le tue parole. Vorrei dirti che mi abbiano commosso, vorrei dirti che mi abbiano fatto pensare molto; parole che lasciano il segno, che hanno raggiunto il mio cuore fin nel profondo. Vorrei dirti tante, tante altre cose, vorrei trattenermi con te fino al sorgere del sole, e vedere un giorno nuovo, e un altro, un altro ancora. Ho creduto a lungo di essere rimasto da solo, di non aver nessuno accanto. E a lungo ho provato rabbia, più rabbia di quanta credessi di averne. Dici di non essere niente, e come potresti? Come potresti essere niente, quando invece sei tutto? Sei in ogni tempo, sei in ogni momento. Ed è vero, io ho avuto un'infanzia felice, ma tu... noi possiamo avere un futuro felice. Allora è velatamente che ti rispondo, e lo faccio a modo mio. E allora ti regalo un orco, un ghoul. C'è incanto in una creatura come questa, perché è un guardiano molto più affidabile, è un amico. Perché sei il mio Secret Santa, perché l'avrei considerato comunque. E anche qui, in questa scelta, ci trovo più di una coincidenza. E allora ti regalo un orco e un barattolo di miele, ti regalo una memoria che non ha tempo, ti regalo il mio tempo. Forse, mi dico, ti regalo un tempo che sarà anche nostro. Volti spezzati, vite recise prima che vi giunga la fine, siamo questo. C'è bellezza nella tragedia, c'è vita infinita. Dici di non essere niente, ma sei tutto. Sei memoria, Casey Bell. Ed è questo il dono che faccio ad entrambi.» Chiudo il diario, gocce d'inchiostro che leggerà. C'è un legame, c'è una promessa. Nei miei pensieri si manifesta l'Arcano delle Stelle. E sfavilla nei tizzoni che un ghoul mestola, mestola sempre. C'è bellezza nel divenire.Secret Santa • Grifondoro Nel pacchetto troverai: Barattolo di miele – direttamente dal box miele dolce-lacrima, è un miele dal tipico colore blu zaffiro e dal gusto unico, che permette di levitare brevemente di pochi centimetri da terra e di vivere la più dolce malinconia, tingendo la bocca di blu per circa dieci minuti; Oliver ne ha diviso una parte per lui e una per Casey. Ghoul – certificato d'acquisto, ritiro al Serraglio Stregato ( x). Non pericolosissimo, è un viscido orco coi denti sporgenti; in genere abita solai, soffitte e granai di case di maghi e si nutre di ragni e falene: a volte lancia in giro oggetti e geme, al massimo se avvicinato ringhia in maniera preoccupante. Vietato ad Hogwarts. La verità è che ci sia parte di me, in tutto questo. Sei memoria anche per me.
|