teddy bear, one shot

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view post Posted on 9/10/2021, 22:26
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Open road, no one stopped you from trying
To lose your load, to find your silver lining

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«C'è una valigia con un orsacchiotto. Proprio così, con un orsacchiotto. La cerniera principale è semiaperta e lascia intravedere un paio di orecchiette lunghe, una testolina bella grossa e una zampa incastrata a metà tra quelli che di primo acchito sembrerebbero vestiti – tutto, nel pupazzetto, è di tessuto. Involontariamente, più per curiosità che per altro, ho allungato una mano fino a sfiorarne la zampa. Quando il carrello delle bevande è arrivato nel mio vagone, però, sono scattato sull'attenti – quasi come se potessi ricevere una lettera del Wizengamot per aver carezzato un orsacchiotto di tela. Alla fine siamo rimasti soli. La valigia, l'orsetto ed io. Appare così buffa, se ci pensi. Mi chiedo se vi possa essere altro, al suo interno: scorgo un paio di vestiti, una manica è attorcigliata alle orecchie del peluche; forse è un abitino elegante, forse è una bambola ancora più grande... la valigia dei misteri, perché no. Non posso fare a meno di chiedermi a chi appartenesse. Forse uno dei passeggeri più distratti, forse quella vecchia strega che ha lasciato lo scompartimento una fermata precedente – aveva una pelliccetta sulle spalle che avrebbe fatto inorridire il nostro Guardiacaccia, credimi. Ho solo sperato che non fosse di una creatura in carne ed ossa, anche se tutti quei peli... avevano uno strano odore. Ed ecco una folle, forse anche macabra riflessione: e se la valigia abbandonata nascondesse un orso vero e proprio? Uno di quelli piccoli, magari tranquillamente trasfigurati. Un giorno, sai, il porcospino di Timothy è stato trasformato in un portaspilli per errore, quanta differenza potrebbe esserci con un orso mutato in un pupazzetto?» – Mi sporgo avanti, è più forte di me; è una curiosità famelica, questa. Lentamente, attento ad eventuali passanti fuori dal vagone, mi avvicino alla valigia sulle postazioni libere che ho di fronte. Zac, un contatto leggerissimo: tiro forte la zampetta dell'orso, quella che spunta dalla cerniera; l'attimo seguente il pupazzetto è tra le mie mani, nulla di particolare. Lo giro una, due, tre volte: è un orsacchiotto, l'unica nota di spicco è la targhetta che veste al collo peloso. C'è un nome, è inciso sull'oro placcato. Leggo in fretta, torno a sistemare il pupazzetto in valigia: subito dopo siedo di nuovo dove dovuto. Posto numero sette, vagone numero tre. Questo è il mio biglietto, è al sicuro nella tasca della giacca di pelle che indosso; lo sfioro così, di nuovo, un po' per caso. Come ad essere sicuro del viaggio, ad essere sicuro di partire. Ho atteso così a lungo. Nella mia carrozza non c'è nessuno, è il vantaggio che non credevo di desiderare. I cuscini sono abbastanza scomodi, lo schienale non è affatto bello imbottito come avrei sperato, perfino il vetro dei finestrini è incrostato dalla polvere e da foglie autunnali, nulla di paragonabile all'Espresso di Hogwarts. Ad ogni modo, sono da solo. Sedutomi di nuovo, prendo il diario che ho sistemato proprio accanto: intingo la piuma rossiccia, la mia piuma preferita; è stato un regalo della Professoressa McLinder e da allora è sempre con me, tutto quanto sia di importante viene scritto con quella piuma. Questa, mi dico, è la piuma della gloria. – «Falso allarme, ho appena controllato. Non è un orso vero, dovrò farmene una ragione. Non trovo segni di trasfigurazione, il mistero diventa più fitto. Forse prima di me, in questo vagone, c'era un bambino. Proprio così, come scrivevo prima. Un bambino mi sembra la spiegazione più plausibile; forse ha lasciato il suo bagaglio, forse era troppo assonnato per il viaggio che aveva compiuto; forse è un omaggio che ha voluto fare ad altri passeggeri. Come a dire... è tuo, è tutto tuo. Il mio orsacchiotto di stoffa è tuo, da oggi è tutto tuo. Sai, ho un orsacchiotto anche io. Ce l'ho ancora, curiosamente non è quello che avevo da piccolo, quello si chiamava Ted. Quale grande, grandissima fantasia. Ted, il teddy-bear del piccolo Oliver. Con il mio amico del cuore, Loras, trascorrevo ore e ore – talvolta per tutta la notte – ad immaginare le avventure di Ted. Ci dicevamo che non appena addormentati, Ted e Did (l'orsacchiotto di Loras) sgattaiolavano via dai nostri letti, arrampicandosi sulle coperte come veri e propri eroi d'altri mondi. Guadagnavano in quel modo la via di fuga, pronti per i pericoli che il mondo aveva in serbo per loro. Un mattino, lo ricordo ancora come se fosse stato ieri, io e Loras trovammo i nostri orsacchiotti fuori dalla mia stanza – eravamo compagni per la pelle, capitava spesso che stessimo insieme, tra l'altro eravamo anche vicini di casa. I nostri orsacchiotti erano stati feriti, "mortalmente feriti" gridava Loras. Per Merlino, come gridava! Eravamo così dannatamente convinti che fosse stato un assalto durante una delle avventure di Ted e Did. L'uno non aveva una zampetta, l'altro aveva perso un orecchio – alla fine i miei sistemarono tutto con un colpo di bacchetta, ma lo spavento aveva lasciato il segno. Era stato il nostro Crup di famiglia, era un cucciolo a quel tempo: ancora mi chiedo però come abbia fatto a saltare sui letti, catturare gli orsacchiotti e strapparne alcune pezzetti di stoffa, senza che né io né Loras ne avessimo sentore.» – Loras. Il tuo nome è nostalgia. Mi fa paura, a distanza di anni, provare ancora sentimenti tanto forti nei tuoi confronti. Devo fermarmi, non posso più continuare a scrivere. La piuma che stringo tra indice e pollice è vinta dallo stesso tremore della mia mano, è un tremore che arriva lungo la pelle, che pone in fibrillazione perfino il mio cuore. Loras... Loras, amico mio, baratterei ogni orsacchiotto del mondo per averti di nuovo con me. Mi chiedo perché, dopo tanto tempo, tu abbia ancora un impatto simile su di me, sulla mia vita. Eravamo piccoli, eravamo così piccoli. Dovrei aver superato la tua assenza, dovrei averlo fatto. E allora, amico mio, perché sei qui? Perché sei in questo vagone? Perché, Loras. Perché ti vedo in ogni orsacchiotto di tela? Dalla piuma sospesa scivola una goccia d'inchiostro, bagna la pagina di diario. Somiglia ad una lacrima. Una lacrima nera, una lacrima oscura – è così strano vederla duplicarsi, trovarsi come copia sul secondo diario accanto a me, sulla postazione vuota accanto alla mia. Un diario aperto, una pagina fitta fitta delle stesse parole che ho appena scritto sul primo diario; neanche il sortilegio comunicante, sulla carta, cela la tristezza di una goccia d'inchiostro appena caduta. Sei in quella goccia, Loras. Così come lo sei tu, Casey. – «Da quel giorno, sai, non abbiamo più voluto con noi i nostri orsacchiotti. Ci avevano ripetuto una e più volte che la colpa fosse stata del nostro maldestro Crup, ma per noi era più facile pensare che fosse stata una lotta all'ultimo bottone tra Ted e Did. Eravamo proprio convinti che i nostri orsacchiotti, vuoi per un motivo vuoi per un altro, si fossero sfidati tra loro. Eravamo pur sempre bambini, gli stessi che immaginavano avventure sensazionali per i loro orsetti di peluche. Il mio, sai, è ancora in un baule in soffitta, di tanto in tanto quando ho occasione di tornare a casa e di perdermi tra i ricordi, è il primo che caccio via dalla polvere e dagli altri oggetti. Un orsetto di stoffa è una testimonianza, lo è a tutti gli effetti – della propria infanzia, della propria spensieratezza, in generale della felicità delle piccole cose. Quando ho scritto di avere ancora un orsacchiotto, infatti, non mi riferivo a Ted. Non è lui, mi riferivo a Greg. Lui è il mio orsacchiotto del cuore, lo è da alcuni anni – non volermene, Ted, prometto di non dimenticarti mai! Greg è un orsetto che mi è stato regalato ad Hogwarts. Un mattino, al risveglio in dormitorio, trovo questa scatola di cartone – priva di carta regalo, soltanto di cartone, non c'era neanche un fiocco né un bigliettino. All'inizio avevo creduto fosse una consegna sbagliata da parte di qualche gufo postino: sai, capita spesso, forse uno dei miei concasati attendeva qualcosa. Ho chiesto però a tutti. Timothy, Elliott, Penny, Brian, Fred, tutti. Non era di nessuno e non sapevano cosa potesse esserci dentro. Nella certezza allora che fosse qualcosa proprio per me, l'ho scartato come un dono natalizio in anticipo. L'avrai capito...» – Chiudo gli occhi. Il cuore vibra di una sensazione dolce, presago di quanto la memoria stia portando in risalto. Un momento, quello, che non posso mai dimenticare; la semplicità di una sorpresa che cattura un sorriso anche oggi, a distanza di tanti anni. Lascio che la mano si riposi un po' dalla scrittura, la boccetta d'inchiostro è ben tappata accanto a me. Il diario sulle mie ginocchia si fa carico di ricordi semplici, ma così preziosi. E lo stesso, in copia, compie il secondo diario in pelle. Sembra fuori dall'ordinario questa magia, è puro incanto. Soffio sulle pagine del mio diario, ha una calendula come segnalibro; se non fosse per quel segno distintivo, non potrei distinguerlo dall'altro diario. Un'occhiata alla valigia di fronte, ancora da sola. Così sola, mi dico, da fare tenerezza. – «...era un orsacchiotto, proprio così. Nella scatola misteriosa, senza mittente, c'era un orsacchiotto di stoffa. Molto semplice, privo di alcuna magia in sé, altro non era che un orsetto, uno di quelli da bambini. Non c'era alcuna targhetta, non come questo qui nella valigia nel mio treno. Neanche un bigliettino, non uno straccio di pergamena. Credevo potesse essere un errore, forse anche uno scherzo, e a quel tempo ero certo che l'orsacchiotto potesse contenere una brutta fattura. Tra i Grifondoro non era poi chissà quale novità. Ma stretto tra le zampette, un po' come un tesoro, il pupazzetto aveva un biscotto friabile. E sullo stesso, a lettere tremolanti, quasi come se fosse stato scritto da un cuoco poco avvezzo, c'era una frase. Congratulazioni, Oliver. Niente di più, soltanto quella frase. Congratulazioni, le -i tutte con una scaglia di cioccolato come puntini. Poi Oliver, il mio nome. Congratulazioni, Oliver. Quella settimana, sai, ero stato nominato Caposcuola Grifondoro. C'era chi mi aveva regalato torte, abiti nuovi, calamai e piume nuove di zecca; c'era chi mi aveva spedito lettere colme d'affetto, Timothy mi aveva addirittura lasciato una polaroid magica sul comodino: io, lui e Fred al Ballo di fine anno, lo scorso Natale; aveva aggiunto a colpi di bacchetta un paio di corone reali sulle nostre teste, è una fotografia così bizzarra, devo mostrartela prima o poi.» – Bussano alla porta dello scompartimento. Sovrappensiero com'ero, ne sono tanto sorpreso da saltare sul posto: la piuma tratteggia involontariamente una mezza riga sulla pagina del diario, è una linea che dovrò cambiare in un cuore o in un disegno di lato. Al di là delle porte, ad ogni modo, c'è un bambino. Poggia entrambe le mani sul vetro, mi osserva come se fossi uno spettro. Cosa c'è, chiedo tacitamente. Non apro bocca, è soltanto un cenno che faccio con la testa. Il bambino, per tutta risposta, spiaccica la faccia sul vetro, e il suo naso diventa una patata rosea. Anche se mi ha spaventato, un attimo prima, non posso fare a meno di sorridere; è una scena così buffa che mi scioglie in gentilezza. Credo sia bello. Credo sia bello ritrovare me stesso nelle semplici reazioni di una volta; così indico lo scompartimento con la piuma, un giro intorno, a domandare indirettamente se il bambino debba entrare in carrozza. Forse vuole sedersi, forse ha un biglietto anche lui per quei posti. Stranamente mi accorgo di non esserne dispiaciuto: anche se dovrò interrompere la scrittura dei diari, la presenza di un altro passeggero mi farà da compagnia. Silenziosa o meno, sarà comunque compagnia. Sono stato così tanto da solo, in questo tempo. Il bambino indica invece la valigia ed è allora che capisco. La valigia è sua! Lo chiedo ad alta voce, per esserne sicuro. E lui, le guance attaccatissime al vetro, fa di sì con la testolina. Lo invito ad entrare, un cenno della mano destra, la piuma che lancia goccioline d'inchiostro dalla punta acuminata. Il bambino scoppia a ridere – i tuoi genitori non scrivono con le piume, vorrei chiedergli. Scappa via, correndo, non prima di aver gridato ai quattro venti di tornare "presto presto prestissimo" per recuperare la sua valigia. Di nuovo da solo, agisco d'impulso. Poggio la piuma sul diario, poggio il diario sull'altro diario. Libero, recupero la bacchetta magica, mi avvicino alla valigia sulla fila di sedili di fronte; dalla cerniera semiaperta recupero di nuovo l'orsacchiotto, l'attimo dopo l'Incantesimo Geminio evoca la copia esatta del pupazzetto. Sistemo tutto, tornando alla mia postazione con l'orsacchiotto che ho duplicato. Ora è mio, ora è anche mio... – «Oh no. Oh no no no. Ricordi la valigia abbandonata nello scompartimento? La valigia con l'orsacchiotto che spuntava dalla cerniera. Era di un bambino su questo treno, è arrivato poco fa per prenderla e poi è andato via. Proprio così, è arrivato, è andato via, è tornato di nuovo. Ma è tornato quando... quando ho preso il suo orsacchiotto. Aveva una faccia, quel bambino. Ho avuto timore che potesse fatturarmi lì su due piedi, la magia infantile non è affatto da sottovalutare. Aveva uno sguardo così minaccioso, come a chiedermi per quale dannata ragione avessi preso il suo orsacchiotto dalla sua valigia. Ma questa è una storia un po' più lunga, e che ci crederai o meno, è anche colpa tua. Perché? Dammi cinque minuti e sarà chiaro. Tornando alla scatola anonima con l'orsetto di stoffa e il biscotto con scritto "Congratulazioni, Oliver", quello è stato un dono inaspettato che ho ricevuto la settimana della mia nomina a Caposcuola. Ho pensato fosse una scelta curiosa, quella di regalare un orsetto di peluche ad un Caposcuola. Ma l'ho trovato anche molto bello, come a dire... Sei un pezzo grosso, Oliver, ma non dimenticare di divertirti. Un monito a cercare la semplicità delle cose, un monito ad essere almeno un po' spensierato. Per me, sai, è stato un gesto prezioso. Come a dire di non dimenticare di essere lo stesso ragazzo che, da bambino, inventava avventure mozzafiato per il suo orsacchiotto. Non ho mai saputo da parte di chi fosse quel regalo, neanche la Signora Grassa – che ha occhi dappertutto, al Castello – ne sapeva qualcosa. Un orsacchiotto per un Caposcuola. Mi piace pensare sia stato un dono simbolico, e nel tempo ho avuto presentimento che fosse stata opera di Penny. Nonostante la sua verve così scherzosa, è un buon amico, e in quell'orsetto io ci vedo tanta storia. Un orsetto, sai... un orsetto è una testimonianza. Di semplicità, soprattutto. Come l'invito a non dimenticare la parte più giocosa, la parte più spensierata della vita. Come l'invito a divertirsi, a non dimenticare la propria storia (non soltanto la propria infanzia, è più un discorso a tutto tondo). Un orsetto è anche amicizia, forse soprattutto amicizia. Suggella un patto fin dai primi anni, è l'immagine per eccellenza di amicizia. Un orsetto è un guardiano: contro i pericoli della notte, contro i pericoli del buio. Un orsetto, sai, è una guida: è lì, sul comodino, sul proprio letto, in un baule, non importa; è sempre lì, lo sarà sempre, a ricordare le cose belle. E a ricordare che comunque vada, lui ci sarà. Perché è un amico di vecchia data, e anche se da lontano, abbandonato in un armadio, perfino in una valigia su un treno, lui ci sarà, lui continuerà a proteggerti. Allora, Casey, mi piace pensare che questa possa essere una tradizione. Una tradizione nuova, tutta nuova, che inizia con me e con una scatola di cartone e continua, continua per davvero con te – in una scatola colorata di rosso e di oro, in fiori dolcissimi, in un diario che è a sua volta testimonianza. Di un'amicizia, di un legame così profondo, di un affetto che non ha tempo. Perché se leggi queste parole, Casey, è opera di un sortilegio prezioso: quello che scrivo sul mio diario, infatti, appare sul tuo. Sono oggetti rari, ne ho soltanto una copia e sì, Casey. Sì, voglio che questo diario sia tuo. Voglio che tu mi scriva, e non per consigli, per domande, per dubbi – non ne avrai bisogno, sarai un'ottima Caposcuola. Voglio che tu mi scriva di te, dei tuoi successi, dei tuoi ricordi. Quando ne avrai voglia, così come ho fatto anch'io, così come farò anche io. E quando la tua piuma traccerà parola sulle pagine del diario, le pagine del mio sveleranno tutto. Un po' come se avessimo un segreto fatto di carta, di inchiostro e di magia. Mi piace pensare che in questo mio dono di congratulazioni vi sia molto di più. Una tradizione, una tradizione che inizia con noi. Un orsetto di stoffa, uno per te. Un guardiano, un amico – così com'è stato per me anni fa, così lo è oggi per te. Che sia per te la ricerca della semplicità delle cose.

Perché lì c'è bellezza. In un orsetto di stoffa – sì, l'ho rubato dalla valigia sul treno; ma no, sia chiaro, l'ho duplicato per magia, il bambino mi ha solo colto sul momento. Un paio di Cioccorane ed è stato contento di andare via. Volevo che ne avessi uno anche tu, volevo che fosse lì con te.

Perché lì, di nuovo, c'è bellezza.
E tu, Casey Bell, sei infinita bellezza.

Ti voglio bene,
Oliver»

L'ultima goccia d'inchiostro. Lascio che le pagine assorbano la magia comunicante, tutto appare sull'altro diario. Sistemo ogni cosa nella valigia che è con me. Prima di chiuderne la cerniera, però, scavo fino in fondo per recuperare qualcosa che desidero per davvero. Una zampetta, poi un'altra, un orecchio, alla fine è lì con me. Greg, il mio orsetto. Quanto posso sembrare buffo, mi chiedo, ad avere un orsetto stretto al petto.


«Tu, invece? Avresti tutte le potenzialità per riuscirci, io tiferei per te.»
Si interruppe. «Non solo perché sei Grifondoro, ma perché sei Casey.»
Seguimi



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Nella scatola consegnata nell'Ufficio dei Caposcuola il giorno dopo la tua nomina:
Orsacchiotto di stoffa
Fiori – dai colori del rosso e dell'oro
Diario del Cuore – coppia di diari in similpelle marroni, un incantesimo ne permette la lettura solo ai due proprietari (agli occhi degli altri le pagine mostreranno disegni di fiori e cuori); qualsiasi cosa venga scritta in un diario verrà automaticamente trasferita nell'altro, permettendo la comunicazione tra le due persone.

Words of Magic • Categoria Miscellanea n.7
Usa una canzone o una poesia come base del tuo scritto,
seguendone il significato, il ritmo o le emozioni che esse ti trasmettono.


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We are all immortal until proven otherwise

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Every breaking wave on the shore
Tells the next one there'll be one more

Song
«Fino al giorno in cui mi hanno consegnato la lettera di Hogwarts io non ho mai posseduto niente. Prima indossavo degli abiti non miei, smessi, mi coricavo su un cuscino e in mezzo a delle lenzuola che avrebbero ospitato la mia persona finché non avrei varcato per sempre la soglia dell'orfanotrofio. I giocattoli erano condivisi, e se sentivo la fremente e angosciosa necessità di avere un giocattolo, una bambola, un orsacchiotto tutto mio dovevo nasconderlo come farebbe un ladro appropriandomene in maniera del tutto illecita.
Le suore lo ribadivano, che l'unico dono che noi avevamo ricevuto era quel tetto sopra la testa, la chiesa, i pasti e quegli oggetti da condividere. Volevo provare gratitudine ma non ci riuscivo, volevo non desiderare altro ma mi era impossibile.
Come se un'entità a me sconosciuta avesse accolto le mie preghiere - io non credo in Dio, non riesco a sopportare il minimo riferimento alla fede in generale - arrivò la Lettera. Quella lettera mi salvò la vita e segnò la mia indipendenza.
Una delle prime cose che ho voluto possedere era un animale da compagnia. Ho comprato Julius Marvin al Serraglio Stregato come se potessi comprare un amico, e di fatto, non appena salì con me sull'Espresso per Hogwarts, sentii finalmente quell'opprimente senso di solitudine abbandonarmi per un po'. Poi è venuta la divisa, poi i calderoni e infine la bacchetta. Un'alleata che tutt'oggi fatico a comprendere nei suoi capricci ma di cui non potrò mai fare a meno.
So che dire di "possedere" un animale da compagnia, come di qualsiasi altra cosa o essere, sia brutto. Al giorno d'oggi mi viene da grattarmi la pelle e strapparla quando nomino questo concetto nella mia testa, come al fine di redarguirmi dal continuare ad interiorizzarlo. Eppure non è semplice.
Possedere, mio, tuo, io, tu. Sono limiti che ho sempre sentito la necessità di impormi, e difendere a spada tratta quel che permane nel mio territorio mi è da sempre venuto naturale. Per un sentimento di orgoglio, per un bisogno atavico di appartenenza che mai l'esterno è riuscito a soddisfare.
Dopo la bacchetta è venuta la casata, anche se a tal punto accanto ad "io possiedo" si è posizionato l'"io sono".
Io sono Grifondoro. Io sono Casey Bell, una persona dotata di poteri magici. Sono passati mesi prima che io ci credessi davvero, anni prima di capacitarmi che tutto non fosse solo la menzogna di un sogno creativo e che presto mi avrebbe colto il mattino con le sue verità asfissianti. Ma sono ancora qui - forse ancora dormo - e vi siete manifestati voi. Tu, con la tua radiosa persona che mi hai infuso il coraggio di fare i primi passi in questo nuovo mondo, Caleb, che mi ha permesso di non congelare l'infanzia su una mensola con gli altri ricordi, Nieve, tanto piena di ogni cosa che la mia coscienza non aveva mai sondato da lasciare un vuoto enorme quando se n'è andata dal catello. E poi Vivienne, Alice, Emma e tutti gli altri che, nonostante il mio carattere fin troppo cupo, solitario e ambiguamente mal predisposto alla comunità, si sono sempre messi in mezzo fra me e i miei malesseri per non lasciarmi mai annegare del tutto.
E detto ciò mi rendo conto di non aver mai fatto caso a niente fino ad ora. Questa spilla che tu mi passi mi stravolge completamente il pensiero. Mi stravolge ogni credenza sui miei desideri.
Io non posso possedere tutto questo. Io non sono niente. Sono solo una persona in balia degli eventi e vedere che gli eventi sono giunti fino a questo punto mi paralizza dal terrore.
Io non possiedo un gatto, non posso possedere un essere vivente, così come non posso possedere degli amici, che vanno e vengono, si avvicinano e si allontanano; non posso possedere una bacchetta perché è lei che mi ha scelto e naviga con me in questa avventura rispondendo alle mie emozioni come farebbe una qualsiasi persona. Io non sono Grifondoro. Sull'araldo che compare sulla mia divisa c'è un leone ma affermare ciò è una pretesa fin troppo grande. Non potrò mai e poi mai incarnare del tutto i valori di Godric, così come nessun altro. Siamo sfaccettati, e le mie sfaccettature mi portano ben lontano dall'essere un Grifondoro.
Dopo alcuni anni, dopo aver esperito alcune forme di magia a me prima ignote, la mia mente mi ha imposto di porre il dubbio persino sulla mia identità. Siamo sicuri che io sia Casey? Che sia una persona che possiede la magia?»
Sto per bucare la carta e me ne accorgo solo ora. Tale è la forza che imprimo sulla punta della piuma che rischia di spezzarsi o di sprofondare fra gli strati di fogli. Mi fermo, poso la piuma e apro e chiudo la mano per liberarla dalla tensione fino ad ora accumulata.
Ho trovato il diario, i fiori e l'orso una volta entrata in questo ufficio. Quando ho aperto la copertina e ho sfogliato il diario ho pensato ad una pura dedica. Solo alla fine, leggendo le parole di Oliver, ho capito che si trattava di qualcosa di molto di più.
Si è attivato qualcosa in me, frenesia pari allo scorrere di un fiume. Oliver, per quanto mi è stato lontano fino a quel momento ora lo sentivo vicino più che mai. Fa questo effetto avere un foglio di carta in mano? Avere la certezza che leggerà i miei discorsi senza che mi guardi negli occhi? Perché ho molto da dire. Tanto che un diario non basterà.

«Il sogno sembra sia finito, Oliver. Si è trasformato in un incubo. Come un'onda mi travolge e continuerà a farlo perché il mare non s'arresterà mai. E quelle che mi imprigionano sono le profondità di un oceano oscuro. Ho capito solo di recente che io e te abbiamo qualcosa di terribilmente contorto in comune, e penso che tu lo abbia capito prima di me o che forse tu ne abbia avuto presagio.
E' stato l'Amuleto di Ecate, poi l'Arcano delle Stelle. Continuai a ripetermi che fossero solo doni, ma il cervello mi si divise di fronte al bivio fra il considerarlo un tuo ammiccamento alla realtà o una manovra del Caos - o, come altri preferiscono chiamarlo, il Fato.
Non ho mai desiderato capire qualcosa così tanto. Capirla e possederla in tutto e per tutto, controllarla e e zittirla per dormire la notte sogni sereni e fidarmi di quel che vedono i miei occhi. Perché se è davvero così, se viviamo le stesse cose, Oliver, allora tu potresti capirmi e dirmi che vedi anche tu uomini e donne estranei al reale ma palpabili per i tuoi sensi. Io gli parlo, compiamo discorsi completi ma poi si polverizzano di fronte agli sguardi sgomenti dei concasati che mi hanno osservato per tutto il tempo discutere da sola. Ancora, anche tu ti lasci attraversare, sottomesso al desiderio di non so chi e non so cosa, da scenari a te estranei? Spero tu abbia conferma di ciò di cui io parlo dal libro che dovrebbe averti raggiunto con Marcabrù, ovunque tu sia in questo momento.
E' come una lingua. Un idioma che si avvale di simboli personali. Questa cosa mi conosce fin dentro, fin troppo bene per sbagliare. Si avvale dei miei concetti, delle mie associazioni, per comunicarmi cose prive di senso che io mai e poi mai potrei gestire. Mi avverte, ma mi lascia lì ad aspettare col respiro sospeso coinvolgendomi per diletto.
Sfugge alla mia logica, tutto. Ogni sua parola fatta di simboli, ogni premonizione. Sono sconnesse dalla realtà ma poi si manifestano e non hanno il minimo peso scientifico. Questa cosa mi terrorizza.
E' questa cosa che possiede me, in tutto e per tutto. Io non possiedo più niente. Io non sono più niente.

Ma ho questo orsacchiotto. Per carità, non lo posseggo, non potrei mai come null'altro. Mi strappa un sorriso quando lo vedo e mi fa di nuovo sentire parte di qualcosa di grande. Ma apparterrà a qualcun altro dopo di me, in un altro orsacchiotto, dandogli le stesse sensazioni. Quando avrò bisogno di consiglio lui di sicuro mi riporterà alla realtà e mi farà comprendere cosa incarna, quali doveri lo avvolgono - lui che rappresenta questa staffetta che mi porgi. Spero di non avere le mani di burro.»

Un mal di testa lancinante mi ha colto progressivamente sforzando il mio pensiero su di lui. E' un vuoto che divora parte dei miei neuroni fino a farmi pulsare le tempie. So che c'è un pezzo che manca, che giace in fondo al mio baule, e vorrei lasciarlo lì. E' l'unico modo che ho per continuare a scrivere su questo diario, per continuare a parlare con lui. Per continuare a credere di non star per morire spezzata da forze ignote.
Forse un giorno gli chiederò perdono, ma per ora non mi ricordo nemmeno per cosa.



Casey regala ad Oliver: L'arte divinatoria di Delfi, di Dinari Amilia. +1PM.
Per chi affrontasse questa lettura senza conoscere gli antefatti, Casey ha rinchiuso un ricordo con l'aiuto di Megan dentro un ciondolo. Questo ricordo è su Oliver e sulla Profezia del Ballo delle Rose e delle Spine. Lui è stato travolto dalla potenza di tale profezia fino al ritrovarsi a un passo dalla morte. Casey, che condivide con lui la veggenza, ha provato un profondo terrore allora e per tutti i giorni a venire a causa della paura di dover affrontare una sorte simile e di non poter avere il pieno controllo su se stessa. La sua più grande fobia è l'ignoto, dunque tutto ciò che le sfugge, che non conosce, che non possiede per intero. E' riuscita a riavvicinarsi all'amico solo dopo aver depositato il ricordo in fondo al suo baule e al posto di esso ora nella sua testa vi è solo un vuoto.
 
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view post Posted on 22/1/2022, 13:59
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I'm prepared to look you in the eye
Look me in the eye / And if you see familiarity
Then celebrate the contradiction / Help me when I fall to

lQ6MirP
JRYeTQZ
«C'è un orsacchiotto di stoffa, è circondato da utensili da cucina – pentole, posate, bicchieri di vetro, tazzine da caffè, e tanto, tanto altro ancora. Una teiera è incastrata tra un mestolo e un portatovaglioli, sembra quasi infastidita a sua volta dal disordine intorno: gorgheggia nell'acqua in ebollizione, trasporta in alto buffetti di vapore, è una cantilena che sfuma in sottofondo rassicurante insieme alla voce di Celestina Warbeck, da una radiolina color giallo limone proprio accanto i fornelli. Somiglia ad uno spazio ristretto, forse una stanzetta più che una cucina vera. Ci sono perfino scatoloni nei paraggi, alcuni sullo stesso tavolo, altri sulle sedie, altri ancora negli angoli più disparati – qualcuno è aperto, tanto da svelarne il contenuto: stelle di carta, pupazzetti di neve, rametti di cespuglio farfallino, ghirlande di smeraldo con bacche più rosse dei rubini, e numerose lucette colorate. Sono tutte decorazioni natalizie, molte già sospese a mezz'aria per adagiarsi a colpi di bacchetta su un abete, uno dei più piccolini in circolazione – è un alberello davvero buffo, capovolto a testa in giù proprio sulla mensola delle spezie, facendosi largo tra boccette di zucchero, di zenzero, di cannella. Celestina Warbeck canta di un calderone pieno di forte amor bollente, è una melodia che bussa dolcemente alle porte di casa di maghi, streghe e bambini, di tutti noi. Nella stanzetta incasinatissima, tra l'altro, c'è addirittura un calderone, un po' per coincidenza; è il centro di una fiaba, è il punto che tutti osservano: la teiera scoppiettante dai ricami d'oro, l'orsacchiotto con gli occhietti di bottone, il bambino con un barattolino di miele stretto stretto tra le mani. Guardano tutti verso la stessa direzione, come perduti nell'incanto del momento – il calderone dipinge un arcobaleno, catturando nelle volute i riflessi argentei di cucchiai, coltelli e forchette; realizza forme che ricordano giganti eterei, pronti a tendersi le mani gli uni con gli altri, così danzano in cerchio. Creature d'aria, sono bellissime.» – Incendio. Carta che sfrigola, il crepitìo del fuoco che si avvinghia famelico lungo i bordi, l'olezzo di bruciato che pizzica le narici; è uno sguardo assente quello che offusca il mio volto, è lo sguardo spento di chi trattiene la diffidenza e ne veste ogni corazza. Dietro di me è una schiera di dormienti, concasati che s'imbattono nei sussurri delle fiamme, nel pericoloso tepore che divampa a pochi metri: sogni che si sgretolano in incubi, e tutto quello che resta loro è l'illusione d'essere tuttora al sicuro. Dentro di me è una guerra in corso, è il cuore in tumulto, è il capriccio dell'animo profondo – perché, ti chiedo. Soltanto questo, nulla di più. Perché, ti chiedo. Stringo la bocca in una smorfia non appena il fuoco divora le prime pagine, dovrei discostarmene prima che diventi troppo tardi, prima che ustioni la pelle: è un passato che si stringe convulsamente al momento, è la ferita che fatica a rimarginarsi per davvero. Sei tu, quella ferita. Sei anche tu, mi dico. In qualche modo che non avrei mai voluto scoprire, sei anche tu in quella ferita. Assume il peso di una cantilena, il brivido del corpo che reagisce nervoso: le fiammelle avanzano, è l'ascesa luminosa e distruttiva. Sorge un pensiero, ed è ridicolo: la luce è ombra, è fuoco che mai mi abbandona. Mi chiedo se anche tu, così vicina a me, possa averne sentore. Mi interrogo, mi interrogo giorno e notte: perché, ti grido. Perché, perché, perché. Le parole che hai scritto sul nostro diario hanno aperto una voragine, in me. Dapprima hanno portato via un sospiro, quasi un singulto: mi dicevo... è la persona che cercavo, è la persona che mi ha trovato. E germogliava la speranza che a lungo avevo rinnegato per me, la stessa che mi aveva ripudiato. E la tragedia, e la morte, e l'assenza... tessono punti lungo il mio corpo, sono presenze che non vanno mai via. Perché, ti chiedo. Perché mi hai rinnegato, perché anche tu, tu che avresti potuto capire, tu che avresti potuto capire me. Perché, ti bisbiglio. La voce è flebile, oramai è assente. Nell'egoismo dettato dalla rabbia, nell'atipica espressione che macchia tutto di me, c'è un'unica consolazione. Forse... anzi, di certo sbagliata. Mi crogiolo all'idea che anche tu possa viverne fuoco, che anche tu possa sentire la scottante rivelazione che mi ha accompagnato fino ad oggi, in questi mesi in cui non sono stato io, in questi mesi in cui avremmo potuto essere noi. Mi crogiolo all'idea che anche il tuo diario, come il mio, stia bruciando. Che si consumi, allora. Che si consumi fino all'ultima pagina. Perché, mi chiedo. Perché anche tu. – «C'è un bambino con un barattolo di miele, lo stringe tra le dita come tesoro d'altri mondi. Mio, dice. È mio, mamma. Perché c'è una donna ai fornelli, è lei a guidare ogni borbottio del calderone, è lei quella che tutti noi stiamo vedendo. Ed è bellissima, è eterna. Ha i capelli raccolti di lato, ha un elastico dalla forma di una farfalla a trattenerne delicatamente onde color nocciola. Veste un abito di fiori d'estate, petali coloratissimi intrecciati a foglie di smeraldo; ha una margherita, una vera, lungo una sfuggente ciocca di capelli, ed è... è incantevole, lo è davvero. Mamma, chiama il bambino. Lei non risponde, lei sorride soltanto, e in quel sorriso c'è affetto. Canticchia dolcemente in compagnia di Celestina, si volge verso il piccolo al tavolo in un passo di danza, e un altro, e un altro. Ha strisce di cioccolato, di miele e di farina lungo il volto, lungo le braccia, lungo le mani, e allegramente solleva il bambino e lo stringe al proprio petto. Quando lo lascia andare è come se lo stesse lanciando in volo, come un saltello verso il soffitto. Con il barattolino avvinghiato alle mani, il piccoletto si ritrova sospeso a mezz'aria – per qualche istante in più del normale, qualche istante che gli strappa un gridolino squillante. Quante api frizzole hai mangiato, chiede la mamma. E lui ride, ride così tanto, ride con le guance paffute e la bocca sporca di miele. L'orsacchiotto che è riuscito ad acciuffare prima, allora, osserva tutto come spettatore a sua volta. Ha il pelo completamente macchiato di miele, le mani del bambino sono appiccicose. Conserva qualche ape frizzola per Álvaro, mi niño. È una carezza, è una melodia che la sua lingua d'origine fa brillare tutto intorno. E il bimbo si arresta, un po' come colto di sorpresa: quando discende in volo fino alle braccia della mamma, sembra quasi... imbarazzato, come ad aver dimenticato qualcosa. Come ad aver dimenticato qualcuno». – C'è profumo di miele, di biscotti fatti in casa, di marzapane, sostituiscono le note di bruciato di un diario che adesso stringo al petto. Sussurro parole dolci, parole di dolore, gli chiedo di perdonarmi... chiedo a te di perdonarmi. Ho spento il fuoco prima che invadesse il resto delle pagine, è una linea che ha coinvolto fortunatamente soltanto le ultime, soltanto il fondo. La copertina è leggermente annerita, nulla però è stato distrutto, nulla che fosse già stato scritto. Ho incendiato il futuro, vorrei dirti. Quello che non è stato ancora segnato, quello che non è ancora arrivato. Ho incendiato il tempo, è una scelta che mi lascia una sensazione che non comprendo pienamente. Perché, ripeto. E questa volta è dolce, la mia voce è dolce. Perché, perché anche tu. Non ho scritto per mesi sul nostro diario, non ho voluto: le tue parole hanno aperto una voragine, è quello che ho già detto ed è quello che continuamente mi affonda. Penso che tu lo abbia capito prima di me, mi hai svelato. O forse che tu ne abbia avuto presagio. E quella scelta, quell'ultima scelta, è stata come una tempesta. Ho creduto a lungo potesse essere egoismo, il mio – l'idea di voler essere l'unico, l'idea di voler essere il privilegiato, pur nella condanna della mia eredità. Sapevo però di non esserlo, perché mia nonna è l'altro esempio che porto nella mia vita. Ma credevo... credevo di essere l'unico, ingenuamente lo credevo. Ed è vero, è vero: sei nel mio tempo, nel passato, nel presente, e pensavo forse nel futuro. Perché, mi chiedo. Ho creduto a lungo fosse indifferenza, invece ho capito. Alla fine, quando ho appiccato fuoco al diario, ho capito davvero. Perché, ti chiedo. Perché non sei stata con me, quando ne ho avuto bisogno. Se potevi capire, se potevi capire quello che nessun altro avrebbe mai potuto, allora... perché, perché non ci sei stata. La solitudine della mia degenza, per mesi, lunghi mesi, è tornata d'impatto. Nel letto d'Infermeria, nel letto del San Mungo, con medimaghi come spettri ad inseguire ogni mio tremito, ad assumere che ogni mia parola fosse una nuova, profetica minaccia. Ad aver paura di me, quando io stesso avevo paura di me. Perché, allora. Se tu sei come me, se tu sei nel mio tempo, perché non c'eri. Non era egoismo, il mio. Era dolore. Infinito, profondo dolore: l'abbandono è vivido, per chi come noi. E lo è in ogni momento, lo è sempre. – «Álvaro, sillaba il bambino. E quel bambino sono io. Stringo Ted, l'orsacchiotto, e lo trascino con me mentre gattono avanti, sempre avanti, fin quando raggiungo le scale della nostra casa. Celestina mi insegue, la voce è dolce, promette l'affetto più bollente di un calderone. E io... e io non posso aver dimenticato lui, non posso, non a Natale. Quando a fatica mi arrampico oltre i gradini, mio padre scende fino a trovarmi. Sorride, mi solleva al volo, mi porta in braccio sulle sue spalle fino al piano superiore. C'è una porta sottile, è di legno, è quella che conduce alla nostra soffitta. Ci gioco con i miei cugini, nei momenti in cui posso essere bambino anch'io. Oltre quell'ingresso c'è ogni mia memoria: fotografie in cornice, quadretti dipinti negli anni, giocattoli che mi hanno accompagnato fino a quel giorno. Mio padre mi lascia scivolare fino alla porta, poi va via. Sa che quello sia un momento solo per me, solo per noi. Álvaro mi aspetta, è così... brutto, ha occhietti sporgenti, un corpetto smilzo e un paio di orecchie più lunghe. Ed io rido, rido felice: perché Álvaro ha un cappello di natale che gli calza ben oltre la fronte, ha un pigiama con renne e stelle filanti, e un paio di pantofole azzurre molto alte che però non nascondono per bene le gambette tozze e i piedi piatti. Álvaroo, chiamo. Dolce, così dolce: mi hanno detto che il suo nome significhi "colui che tutto protegge", e in effetti Álvaro è un Guardiano. Un po' come Ted, il mio orsacchiotto. Solo che Ted protegge i miei sogni, Álvaro invece protegge la mia casa, la mia famiglia, tutti noi. Nonostante sia buffissimo, per me è come un amico, un amico che ama la soffitta, gli spazi angusti, le travi di legno sulle quali può arrampicarsi. Quando mi vede, Álvaro spicca un balzo fino ad investirmi, ha un profumo che ricorda il muschio, la terra, forse la polvere, è l'odore delle cose antiche, è l'odore dei ricordi nei cassetti. Mi stringe maldestramente in quello che somiglia ad un abbraccio, le lunghe mani a cingermi le spalle e a scuotermi, scuotermi fortemente. Sei qui, sembra mugugnare, è una lingua che sembra solo gemiti. Ma capisco, e rido ancora. Gli offro Ted, il mio orsacchiotto, e Álvaro lo sistema sulla testa accanto al cappello. Poi cade via, e rido ancora. Gli offro il mio barattolino di miele, e Álvaro lo stappa goffamente per poi infilarci tutto il muso per gustarne ogni dolcezza. E rido, rido ancora, rido fino a cadere a terra. Siamo tutti sporchi di miele, è Natale. Ed è una tradizione, è Álvaro, è Ted, è mia mamma ai fornelli, è mio padre che mi prende sulle braccia. E poi, d'improvviso, tutto cambia». – È la Vigilia di Natale, è notte fonda. Nel turbinio di cristalli di ghiaccio tutto intorno c'è il canto lontano di Celestina alla radio, c'è il profumo di frittelle al miele, c'è lo scoppiettio dei calderoni accesi per tutto il giorno; forse, mi dico, sono frammenti. Quando mi materializzo di fronte la staccionata in legno così tanto familiare, non c'è altro che un pupazzo di neve – sembra osservarmi, rotola la testa per la magia cui è avvinto. Non dice una parola, non mi accoglie. Forse, mi accorgo a pensare con tristezza, non sa chi io sia per davvero. Quella è casa mia, vorrei dirgli. E distruggerlo, spezzarlo, scioglierlo con lo stesso fuoco che ha scottato la mia mano, lì dove ora c'è un cerotto come promemoria. Non posso trattenermi molto, il viaggio che mi ha condotto a Cork è stato lunghissimo e sono stanco, sono così stanco. Potrei crollare da un momento all'altro, lo so bene. Allora avanzo, avanzo soltanto di un passo. Non posso entrare, non più. Quella non è casa mia, oramai non sono il benvenuto. Stringo le mani sulla staccionata, al chiarore delle stelle e delle scintillanti decorazioni lungo il giardino scopro che la vernice sia stata scrostata in alcuni punti, e penso... penso di voler tornare da mio padre e chiedergli di dipingere tutto insieme, di nuovo, come una volta. Alla fine tremo, tremo nel cappotto così pesante che scivola fino ai piedi. E tremo di paura, di nostalgia, di dolore. Non c'è miele, non c'è musica, non c'è altro per questo Natale, non è più lo stesso. Volgo lo sguardo in alto, verso il piano superiore di una casa che mi ha accolto, che custodisce tutte le mie memorie d'infanzia. E fischio, un suono squillante, l'unico nel silenzio della notte. Attendo, tremo, tremo completamente. Alla finestra della soffitta, appena visibile nelle file di lucine sospese accanto, appare una figura così bizzarra, così tozza... somiglia ad un bambino che si affaccia al vetro, che vi sporge il volto per cercare renne, slitte, regali di sogni. Invece è lui, lo so subito. Álvaro è alla finestra e mi guarda, è incuriosito, ma mi riconosce. Batte contro la superficie, un ticchettio greve che rimbomba ovunque, e rido, rido per la prima volta da mesi. Álvaro scappa via, si perde nelle ombre della soffitta, e so già che stia correndo a svegliare tutti. Le luci si accendono, la casa è in fermento. Sento voci che mi mancano, voci che mi tormentano da tempo. Cosa c'è, Álvaro. Cosa c'è, chi c'è. Passi affrettati, altre luci, Fate danzanti che si svegliano dal dormiveglia lungo foglie di quercia, e lui, Caramello, il Crup che corre fino alla porta. Abbaia una, due, tre volte. E lei, c'è lei. Ed è bellissima, è eterna. Bambino mio, sussurra. E di me, oltre la staccionata, non resta che il turbinio di cristalli di ghiaccio. – «E poi, d'improvviso, tutto cambia. C'è una stanzetta spoglia, ha pareti di pietra grigia; sembrerebbe un ambiente piuttosto spento, se non fosse per poche decorazioni natalizie: stelle, renne e piccoli ometti vestiti di rosso, si circondano ad un intreccio di vischio e bacche innevate, l'unica ghirlanda sospesa in volo per magia. C'è un tavolo rettangolare, è al centro esatto della stanza, è sufficientemente lungo per accogliere una, due, almeno dieci sedie, alcune sfuggono nelle ombre della notte. C'è luce, è flebile. Soltanto candele a mezz'aria, c'è una figura che ne scova altre da un cassetto e a colpetti di bacchetta ne accende la fiammella. Lentamente brilla colore, nuovo colore, ed è rosso, è giallo, è azzurro, nei riflessi di pentole, piatte e bicchieri che già sono sistemati ai vari posti del tavolo. C'è un calderone gorgogliante proprio accanto ad una statuetta di leone, le cui zampe di bronzo artigliano un mestolo in attesa di servire il delizioso contenuto che vi si nasconde. Forse una zuppa, forse un arrosto, forse una fonduta di formaggio, non saprei dirlo. Ha un profumo di spezie, che ricorda casa. Qualcuno bussa alla porta, è una porta in legno, è semplice. Quando si apre, cigola fino a svelare i primi arrivati: spettri d'assenza, illusioni prive di contorni veri e propri. Potrebbe essere chiunque, forse nessuno. Si sente profumo di miele, di frittelle dolci. C'è un camino sulla sinistra, più che altro una pentola a mo' di brace: svela tizzoni ardenti, fogli di giornale, rametti di legno, e c'è un... un orco, a tutti gli effetti un orco, che ne mestola cenere e fiammelle con le lunghe braccia che si ritrova. Ha occhietti sporgenti, denti aguzzi che articola in un sorrisetto quando solleva lo sguardo, chiamato da qualcuno. Ha un cappello natalizio, ha un panciotto sul quale pende un orologio da taschino, che ticchetta, ticchetta un'ora, un minuto, un secondo. E quando tutto sfuma in modo astratto, c'è una voce, c'è la tua voce. Buon Natale, dici. E tutto cambia, e tutto si ferma, e tutto continua». – C'è una civetta delle nevi che bussa alla tua finestra, è un becco tanto insistente da svegliare molte studentesse. Qualcuno cerca di fare in fretta, prima che l'allocco tormenti l'intera Torre Grifondoro. E la riconoscono, la riconoscono tutti. È la civetta di Oliver. E lei, un po' vanesia, spicca infine il volo verso il tuo letto, il tuo comodino. Così vi lascia un dono di carta azzurra, è solo una piccola scatola. Scappa via, la civetta, prima che qualcuno le lanci un sortilegio contro. Nel regalo c'è un barattolo di miele, è di vetro, reca il sigillo di un'ape di ceralacca color blu: è il miele dolce-lacrima, è una parte che lascio anche a te. C'è un foglietto, soltanto un foglietto. Mostra la dicitura "Ghoul, ritirare al Serraglio Stregato", e subito dietro una frase enigmatica per tutti, e non per te. "Leggi il diario, Oliver". Nulla di più, forse... forse tutto. Chi ti regalerebbe mai un orco per Natale? – «Non ho avuto il coraggio di scriverti per mesi, per tutti questi mesi fin da quando ho letto le tue parole. Vorrei dirti che mi abbiano commosso, vorrei dirti che mi abbiano fatto pensare molto; parole che lasciano il segno, che hanno raggiunto il mio cuore fin nel profondo. Vorrei dirti tante, tante altre cose, vorrei trattenermi con te fino al sorgere del sole, e vedere un giorno nuovo, e un altro, un altro ancora. Ho creduto a lungo di essere rimasto da solo, di non aver nessuno accanto. E a lungo ho provato rabbia, più rabbia di quanta credessi di averne. Dici di non essere niente, e come potresti? Come potresti essere niente, quando invece sei tutto? Sei in ogni tempo, sei in ogni momento. Ed è vero, io ho avuto un'infanzia felice, ma tu... noi possiamo avere un futuro felice. Allora è velatamente che ti rispondo, e lo faccio a modo mio. E allora ti regalo un orco, un ghoul. C'è incanto in una creatura come questa, perché è un guardiano molto più affidabile, è un amico. Perché sei il mio Secret Santa, perché l'avrei considerato comunque. E anche qui, in questa scelta, ci trovo più di una coincidenza. E allora ti regalo un orco e un barattolo di miele, ti regalo una memoria che non ha tempo, ti regalo il mio tempo. Forse, mi dico, ti regalo un tempo che sarà anche nostro. Volti spezzati, vite recise prima che vi giunga la fine, siamo questo. C'è bellezza nella tragedia, c'è vita infinita. Dici di non essere niente, ma sei tutto. Sei memoria, Casey Bell. Ed è questo il dono che faccio ad entrambi.»

Chiudo il diario, gocce d'inchiostro che leggerà.
C'è un legame, c'è una promessa.
Nei miei pensieri si manifesta l'Arcano delle Stelle.
E sfavilla nei tizzoni che un ghoul mestola, mestola sempre.
C'è bellezza nel divenire.
Secret Santa • Grifondoro
Nel pacchetto troverai:
Barattolo di miele – direttamente dal box miele dolce-lacrima, è un miele dal tipico colore blu zaffiro e dal gusto unico, che permette di levitare brevemente di pochi centimetri da terra e di vivere la più dolce malinconia, tingendo la bocca di blu per circa dieci minuti; Oliver ne ha diviso una parte per lui e una per Casey.
Ghoul – certificato d'acquisto, ritiro al Serraglio Stregato (x). Non pericolosissimo, è un viscido orco coi denti sporgenti; in genere abita solai, soffitte e granai di case di maghi e si nutre di ragni e falene: a volte lancia in giro oggetti e geme, al massimo se avvicinato ringhia in maniera preoccupante. Vietato ad Hogwarts.

La verità è che ci sia parte di me, in tutto questo.
Sei memoria anche per me.
 
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view post Posted on 17/11/2022, 14:53
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We are all immortal until proven otherwise

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My past is an armor I cannot take off,
no matter how many times you tell me the war is over.

17/11
Ti scrivo sempre quando sto male, e questo mi fa stare ancora più male perché vorrei che non fosse così. Vorrei essere lì con te adesso, piuttosto che scriverti da una camera a un'altra, e chiederti come stai, cosa stai facendo, cosa governa la tua vita adesso.
Sto scrivendo su questo diario bruciato premendo le pagine contro le cosce, perché sono rannicchiato dentro il letto, con le tende chiuse, origliando parti di discorsi sconnessi fra le mie compagne di stanza.
Questo è il tipo di vita che faccio. Mi nascondo e origlio discussioni con la speranza che non parlino di me, di quel mostro che vive dentro Casey. Perché è questo che mi sento, è questo quello che ho sempre percepito a sprazzi sino ad ora: che sono un mostro. E niente può cambiarlo.
Sto sempre in silenzio, lo so. Quando ci siete voi, che popolate la sala comune con i vostri sorrisi e condividete le cose che qualsiasi ragazzo della nostra età condivide, io sto in disparte, vi guardo, sorrido un po' e tento di trattenere su il sorriso finché riesco, tento di esprimermi, di dire anche io qualcosa, di rivelarvi quello che mi passa per la testa se non di crollare a piangere in mezzo a voi e di cercare il vostro conforto, ma non ci riesco. Non faccio altro che spingermi verso di voi ma poi una mano invisibile mi riporta indietro e mi dico che in realtà tutto questo non vale la pena di essere detto, che non è importante, che posso passarci sopra e che posso farlo da solo. Giusto perché voi siete così felici e perfetti, e vi potrei solo essere d'intralcio. Potrei accattivarmi i vostri giudizi, farmi fraintendere per l'irrazionalità delle mie emozioni e dei miei pensieri e allontanarvi più di quanto già non sia.

Ferma la pena. Durante la stesura delle ultime frasi sentì le palpebre contorcersi alla comparsa di alcune lacrime che presero a scorrere, moltiplicandosi, una dietro l'altra. La gola si gonfiò di un respiro mancato e dovette abbandonare la penna sulle coperte per spingersi il dorso della mano contro la bocca.
Non doveva farlo sentire. Non doveva emettere un fiato, nessun rumore. Nessuno avrebbe dovuto aprire quelle tende per capire cosa stesse facendo, né tentare di risollevargli l'umore interrogandolo e incoraggiandolo.
Quello era il suo dolore, e lui voleva sguazzarci dentro, forse perché era una delle cose più sicure su cui potesse far conto nella vita.
Riprese a scrivere dopo cinque minuti, assicuratosi di potercela fare senza dar spettacolo.


In effetti, Oliver, io lo so. Tu mi odi. Perché non dovrebbe essere così? No, non dirmi di no. Almeno un po' tu mi odi. Come tutti in fondo in questa scuola, ognuno per un motivo diverso. Ma mi è sempre più importato il tuo di odio, infatti sono qui a scriverti nello stesso momento in cui sto di merda e mi sento l'odio di tutti addosso per assicurarmi che almeno tu non mi odi poi così tanto. Che quel punto di non ritorno con te almeno non sia stato raggiunto.
In effetti io non ci sono mai, sono sempre via da quando tu sei stato male. Non mi sono preso cura di te come gli altri, sono fuggito via per la paura. Facciamo finta di niente durante gli allenamenti, durante la scuola, in sala comune, e penso che ad entrambi una voce sottile dentro la nostra testa dica che è preferibile così.
Ho messo le mie debolezze davanti a te e ancora lo faccio, e vorrei davvero dirti che ti amo, che sei mio amico, ma sento nel profondo di non meritarmelo perché continuo a non esserci e a non chiederti come stai e, non solo, i miei pensieri continuano a tormentarmi e a impormi a tratti di ribellarmi contro di te, di voi, a tratti di lasciar perdere. Perché se davvero fossi tuo amico e ti volessi questo bene mi comporterei in maniera totalmente diversa.
Invece io sono qui, e ti ho tolto anche Sirius. Li ascolti, no? È colpa mia a quanto pare. Ma non è tanto quello, è perché l'ho quasi ucciso e perché lui ha quasi ucciso me.
Sono sempre stato qui in attesa del tuo giudizio su di me, sono sempre venuto a ricercarlo. Il fatto, Oliver, è che io ora non so più dove andare. Anche se ho qualcosa, poche cose ma importanti, in mano, non so più dove andare. Perché non ce la faccio. Non riesco ad alzarmi da questo maledetto letto, non riesco proprio a muovermi.

Si sentì svuotato. Dopo un'ora e mezza andò a dormire con un po' più di serenità in corpo dopo lo sfogo. Per tutta la notte non sognò altro che di camminare per le strade di Londra in cerca di qualcosa di sconosciuto che gli mancava, gli mancava molto, finché alzando gli occhi non trovò scritto accanto ad un portone nero: Fleetwood Street n. 9.

 
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view post Posted on 13/1/2023, 18:41
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Finally you and I will build a home
What shall we do with our time?

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Oggi, Casey, il mondo si spegne.
È un velo d'ombra, intessuto all'ultimo singhiozzo di stelle – la notte indugia dolcemente, riempie la stanza in cui mi trovo. Buio, buio, buio. Mi scontro con l'agonia degli spettri, il loro incedere sempre più asfissiante, sempre più vicino. Sussurrano segreti che forse, con più attenzione, avrei modo d'interpretare. La bocca è secca, si inaridisce perfino il respiro: il petto, disfatto, s'alza e s'abbassa lentamente, e il timore d'essere alla fine del tempo è l'ennesima, futile conseguenza di una vita che mi pedina. Una vita, questa vita, che mi si allontana.
Casey, Casey, Casey. Il tuo nome sfida le porte d'averno, strappa l'intimo sortilegio d'averti accanto. Allora affiancami, ti prego. Stenditi qui, al mi fianco. Chiudiamo gli occhi, Casey. E guardiamo, insieme, il mondo spegnersi in ogni tempo – oggi, domani... ieri.
Siamo già oltre, noi due. Oltre il possibile, oltre il sereno: è un cielo che cicatrizza sé stesso, racchiude una tempesta che mai s'acquieta. Com'è strano, allora, cancellarmi. Disperdermi, annullarmi, consumarmi. Com'è strano perdermi continuamente. Il volto trattiene un'apatia che sferza l'impronta del sorriso ch'è stato. Non sento dolore, non sento nulla. Le mani, imbrattate di sangue, strofinano il vetro di uno specchio comunicante – chiunque vi sia dall'altra parte s'imbatte nell'assenza di luce. Questi occhi, tumefatti dal tempo, si impegnano futilmente nei dettagli che mi circondando. Conto le crepe del muro, in questa stanza che abita il mio odio, che veste il diniego di una felicità che avrei potuto ricercare e che, invece, ho mandato via. È una bettola, il luogo in cui mi trovo. Poche monete per affittarla per una notte – un letto profanato dalle tarme, una mobilia scheggiata in più punti. Ad ora, tuttavia, non saprei aggiungere altro: dove sono, quale città, quale tempo. Sento un tintinnio come di campane, in lontananza forse c'è una chiesa in festa; o forse è una bambina con una fata da compagnia; o forse è qualcuno che rientra in camera; forse sei tu.
La mente è altrove, violata dai Dormienti. Casey, tuCasey.
Colore, che tutto travolge: è un riflesso che contrasta questo simulacro d'ombre. Gocce vermiglie, somiglianti al sangue delle mie mani, diluiscono il dominio oscuro. Alla finestra s'avvinghiano le tempere vivaci – rosso, arancio, dorato. M'infastidiscono, brillando sulle palpebre già serrate. M'infastidiscono, infastidiscono ogni parte di me. Mi giro in questo letto, ricerco il Nulla. Queste luci, invece, imperversano in una cascata che non lascia possibilità, e odio tutto, tutto di questo. Casey, chiudi le tende.
Casey, Casey, Casey. Chiudi – le – tende.
Arcani Maggiori, sul letto, incorniciano il mio corpo. Sono sparpagliati da ore qui con me, privi d'ordine: i bordi di rame delle carte, oramai malefiche, custodiscono il tremendo caleidoscopio oltre la finestra. Chiamano me, le Stelle, il Matto, l'Appeso. Chiamano me, che porto – adesso – il tuo nome. Casey, leggi per me questo tempo che ti ha ferito. Accogli l'appello d'Oltre, è un miraggio che ci accomuna. Le mani, frenetiche, sollevano le coperte – arcani, tarocchi, scintille. Mi avvolge un tappeto di luce e di tempo, comincio a catturare nuovamente i suoni vicini. Hanno il tremito dei tamburi, è una processione di colpi continui: oltre la finestra, infatti, il mondo si accende di vita. I fuochi d'artificio sfilano in alto, draghi di cartapesta trasfigurati in costellazioni in fiamme. I maghi, felici, festeggiano il nuovo anno.
Io, invece, ne festeggio la fine.

Avrei potuto trovarmi ovunque – e sempre.
In un passo, soltanto un passo d'eclissi, avrei potuto essere altrove. Incendiare la notte con te, Penny, oltre l'albero di glicine in fiore: il tuo invito è sul letto, accanto alla Luna. Strappato da cima a fondo, come una creatura eternamente ferita: è carta che resta, che resiste alle intemperie di una perfidia che mi governa... come mai, mai prima. Avrei potuto costruire pupazzi di neve con te, Camille. Insieme, in una tradizione che mai si disperde. Avrei potuto essere da te, Emma. Accettare, finalmente, l'invito dei manicaretti di zio Cam. Avrei saputo divertirvi, avrei saputo divertirmi – è un'immagine che mi devasta nel profondo, perché porta con sé il rimorso di quanto mai accaduto. Avrei potuto, avrei potuto. Avrei voluto.
Avrei potuto essere con te, Mary. Oltre la porta di smeraldo, avrei bussato una, due, tre, infinite volte – ti avrei regalato il tempo, ogni mio tempo.
E stringerti, stringerti al petto. Soggiogare le ombre, avrei potuto.
Il tempo, il tempo. Mi ha portato via tutto, anche me stesso. Mi destabilizza, questo grido che trascina il tuo nome. Avrei potuto essere a Casa, tornare dopo così tanto come se nulla fosse mai cambiato. La verità, però, è greve: dov'è casa, Oliver?
Avrei voluto te, Sirius. Il tuo ufficio, oramai vuoto, è stato l'ultimo luogo che ho visitato prima di lasciare il Castello. Non ho valigie, con me. Non ho nulla, non ho neanche più me. Mi resta il sangue, sulle mani. Il sangue, il segreto ultimo – Casey, tu sei sangue. Avrei voluto trovarti, trascorrere il presente con te. Ingannarci, insieme, d'averne occasione... nel paradosso di un futuro che è già dietro l'angolo, per noi. Forse è questo, che mi ha spinto lontano in un villaggio di cui ho dimenticato il nome. L'inconsapevolezza, purtroppo, di non sapere dove – da chi – andare.
Cassandra ti cerca, nel volo purpureo. Impiegherà giorni per arrivare da te, piccola com'è. Stringe un pacchetto, l'unico dono che ho portato con me. Mi piace pensare che vi sia un messaggio, che tu possa apprezzarlo tanto quanto me. Non è nulla, Casey. Eppure... è tutto, per noi. Un batuffolo di carta pergamena, priva d'ogni colore e di dedica: dov'è, mi chiedo, l'eleganza cui mai ho rinunciato? Nella semplicità che lo descrive, il pacchetto nasconde una statuetta di legno: è intagliata a mano, così mi ha detto la strega al mercatino natalizio. Ho deciso di crederle, e d'altronde... cosa importa. È un orsacchiotto, le zampe che tentennano sulla scia di un incantesimo leggiadro. Avanza, indietreggia, si lascia scivolare goffamente: alle orecchie, più lunghe, è incastrato un anello di graphorn. Dicono che offra resistenza alla magia d'assalto, la verità è che sia un artefatto d'argento meraviglioso. Per di più, e vorrei dirtelo, è un anello che ho comprato in coppia: uno per me, uno per te. Mi riporta ad una casa che non conosco e che, lo sai, ho comunque visitato. Mi riporta ai riflessi d'avorio, di fiamme e di tizzoni di un braciere che un ghoul mescola, mescola sempre.
Cassandra è in volo, e forse ti ha raggiunto. Per Natale, per Capodanno, non ne ho più idea. Non c'è biglietto, nel pacchettino. Ti offro un orso intagliato in legno, e ti offro pensieri che non ho forza di tracciare. Questo diario, tra le mani, brilla dei fuochi d'artificio che già s'affievoliscono: la notte torna, torna per me. Piego l'indice sulla pagina vuota, dopo le tue preziose parole: è un'impronta di sangue, quella che lascio sulla carta. E mi dispiace, davvero. Perché oggi, Casey, non riesco a parlare neanche con me.

Chiudi le tende.
E lasciami tra le ombre.
Nel pacchetto troverai:
Anello Graphorn (+2 PC) – creatura estremamente resistente alla magia; l'anello è realizzato con un tentacolo, immerso nell'argento liquido e lasciato asciugare nella forma finale. Con lo stesso vi è una statuetta di orso intagliato in legno e appena animato magicamente. Né biglietto né carta regalo, il dono è recapitato dal Fwooper.
 
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view post Posted on 12/9/2023, 12:23
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YamQbyi
August, 9th
C'è una stridente, infida apatia che scuote i miei giorni, ultimamente. Ho gli occhi volti al soffitto, assuefatti al buio. Indovino ombre, trappole di memoria e di malinconia, finché il sonno divora l'ultimo battito di palpebre: sono perennemente stanco, benché stia trascorrendo molte, moltissime ore a riposo. Può essere un campo di girasoli, un fazzoletto di terra perduto all'orizzonte, una spiaggia. Sono costantemente in volo, affatto indulgente verso il sacrificio dell'Alato. Forse, un po' egoista, mi dico che Ira — il Cavallo — non voglia altro, che vada bene perfino per lei quest'incessante fuga verso l'indefinito. Dopo anni di prigionia, ha fame di libertà, di vento, di confini inesplorati. E io, misericordioso, le lascio fare. Lascio che sia l'Alato a guidarmi, il più delle volte. Ovunque Ira voglia andare, a me sta bene. Credo che siamo diventati tutt'uno, io e lei. L'uomo che rinnega la terra, e l'Alato che lo trascina via. Non c'è approdo, per me. Ho fatto il giro del mondo — un mondo intimo, che ricorda un cerchio ristretto. Ho incontrato gli spettri del passato, ma da lontano. Non so bene quanto altro tempo mi tratterrò qui, non so bene dove mi porterà questo viaggio. Eppure, ho bisogno di perdermi. — Svegliati. Il respiro è sottile, quasi un rantolo; non ricordo dove sia, in quale stanza d'albergo o in quale angolo di foresta. Se non fosse per Ira, che mi circonda con le sue ali, mi sentirei in un limbo, completamente in disordine. Ho ceduto al sonno, di nuovo, io che non ho mai dormito; il Diario che stringo al petto non è scivolato via, un punto fisso in una cornice in movimento. Non si può dire lo stesso della boccetta d'inchiostro, che si è capovolta e ha bagnato le mie braccia scoperte. Ho una tela di parole incomplete, sulla pelle. Vi intingo la piuma, l'unica che ho con me: una goccia nera brillante che punge perfino la carne, tingendosi di rosso. Ti scrivo in inchiostro e in sangue, com'è sempre stato tra noi. Mi chiedo se le pagine stregate del Diario siano in grado di sopportarlo.
Si dice che l'amore sia l'unica forza in grado di ingabbiare il cuore. Divorarlo, consumarlo, piegarlo ad una ferocia che nessun'altra magia potrà veramente eguagliare. Il mio, per te, è un affetto che non ha tempo, e che il tempo non ha saputo mitigare né coltivare adeguatamente. Il mio è un amore violento, che pretende e che strappa; guardarti in lontananza, voler accostarmi a te e seguire il tuo passo. Tu, che forse avresti potuto comprendermi più di tanti. Non credo d'aver più avuto modo di sentirti, quest'Estate. Dopo la gita all'Isola di Skye, avrei immaginato di trascorrere giorni e notte con te, insieme: elaborare un piano, trovare una soluzione. Per te, per me, per Nieve. Il mondo, tuttavia, gira, gira continuamente.
Ho perduto tanto, Cas. E ho perduto tanti. Forse è per questo che il mio tempo sia fermo, che il futuro mi si nasconda in brividi. Cosa accadrà, per me, è un mistero; ho necessità, però, di scoprirlo. Potrei cambiare idea da un momento all'altro, potrei rinnegare ogni singola parola. Potrei incendiare questa carta come ho già fatto, darla in pasto alle ceneri. Ma tu, Cas. Tu sei parte di me. Benché a lungo abbia pensato d'esserti lontano, sai. Questo è un viaggio che devo compiere, non so bene dove, non so bene perché. Se c'è una persona che potrà scoprirlo, sei tu. Allora, Cas. Allora interroga il tempo, parla, parla al futuro. Se c'è un rifugio anche per me, guidami. Allunga la mano, Cas. E lascia che io l'accolga. — Oggi ho incontrato Les. Forse è l'unica persona con cui ho dialogato, la mia stessa voce mi è apparsa come un grido di caverna, una bestia che finalmente prende parola. Siamo stati poco, insieme. Il tempo, per l'amicizia, è sempre fugace. Gli ho chiesto soltanto di affidarti un dono, di trovarti, di consegnarti tutto. Les mi ha guardato un po' titubante, un po' indeciso. Oli, fratello. Stai bene? E io gli ho sorriso, cos'altro avrei potuto fare. Mi ha inseguito per tutto il volo, prima che l'Alato mi portasse via. — Porto con me il Diario, però. Non ci sarò, sull'Espresso di Hogwarts. Ma tu, Cas. Guarda il profilo delle montagne per me, divertiti, emozionati come quand'eravamo per la prima volta sul treno, ad arrivare al Castello di Hogwarts. Diventa il tempo, Cas. Mi piace immaginare d'essere con te. A presto, Cas. Buon compleanno. — Les ti porterà una borsa a tracolla, il giorno del tuo compleanno o poco dopo. Non importa quando, mi fido di lui. Dentro c'è il mio libro di Divinazione, terzo anno, con tanti appunti e segreti scritti a margine. Troverai un orsacchiotto, stregato dalla Maledizione Geminio: uno, due, tre, ti si duplicherà ad ogni contatto, finché la magia potrà permetterlo. Finché, mi dico, io sarò vicino.

«Geminio.»
La magia si riversa sull'orsacchiotto, lo maledice.
E gli offre un amico, e un altro, e un altro.
 
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