Inciampavano sulle parole come equilibristi distratti, incapaci di vedere il punto in cui la fune si sarebbe fatta inevitabilmente più sottile. Avrebbero compromesso ogni cosa, lo sapevano perfettamente pur cercando di restare nella neutralità di una conversazione futile e divertente. Il futuro sembrava così sopravvalutato, ormai. Che importava chi sarebbero diventati da lì ai prossimi cinque anni se la vera domanda era: avrebbero ripreso entrambi a respirare nei successivi cinque secondi?
La mano appoggiata al petto di lui era simbolo di un gesto antico tra loro, qualcosa di abitudinario che la memoria tattile non avrebbe mai scordato; il tessuto liscio del colletto della camicia, il maglione ruvido dai ricami semplici e ordinati, la sensazione vibrante del suo respiro nel palmo della mano. La loro relazione era passata direttamente attraverso quelle dita, tra intrecci e uno sfiorarsi continuo - in biblioteca nelle ore di studio, in giardino all’ombra di una quercia ad osservare il paesaggio, magari accoccolati tra le grosse radici nodose - alla ricerca di un contatto che, poi, avevano perso. Avevano affrontato il silenzio e la separazione, lo aveva visto rinascere e cambiare. Lo aveva osservato invaghirsi di qualcuno con un passato e un presente meno gravosi dei suoi. Eppure era il respiro, adesso, a mancare. Era quello di Mike e, per una forma di simbiosi dura a morire, anche il suo.
Gli aveva sorriso spontaneamente e aveva giocato con lui come avevano fatto centinaia di volte. I suoi modi seriosi, da piccolo lord a volte, contro il suo essere irriverente e sarcastica. Il suo cinismo, però, si perdeva nel colore caldo dei suoi occhi, con quelle pagliuzze piccolissime più chiare a richiamare l’attenzione come lucciole in un prato al crepuscolo.
Conosceva quello sguardo, il calore che infondeva, e sapeva di non potervi indugiare.
Lo aveva lasciato andare.
E una parte di lei continuava a restare.
«
Non faccio più promesse… lo sai.» glielo sussurrò, incapace di trovare la voce quand’anche l’ossigeno pareva sparire a fronte dell’inevitabile. Provò anche a mantenere una parvenza di ironia, per mascherare il tumulto di quei ricordi che non accennavano ad andare via. Più li scacciava, più la sua mente ne proiettava in sequenza infinita. Di quei momenti, in fin dei conti, ne avevano vissuti tanti, quasi a perderne il conto.
Così non si scostò minimamente nello scoprire il volto ora serio di Mike più vicino al suo. Se chiudeva gli occhi e provava a pensarci, erano stati tanto vicini da sfiorarsi in almeno altre mille occasioni; e nessuna le sembrava pericolosa quanto quel frangente. Il respiro caldo sulla pelle, l’incertezza nel tocco delle sue dita tra i capelli. La stretta al cuore nel sapere che se avesse dato seguito a quanto stava per accadere tutto sarebbe stato inutile.
Tutto.
Eppure non si muoveva, perché lui era…
Mike. Erano cresciuti, lo avevano capito, e nei suoi gesti non c’era più l’imbarazzo di un ragazzo altresì timido.
Al diavolo O’Hara e i suoi sguardi impertinenti o quelli rimasti nella piccola radura.
Accolse il modo in cui le scrutava il volto con, finalmente, l’accettazione che se questo era ciò che doveva essere… allora andava bene. Non rispondere di se stessa era diventato un modus operandi che, piano piano, cominciava a soppiantare la convinzione e la pacatezza delle sue mosse. Se doveva essere, sarebbe stato. Non valeva la pena di crocifiggersi per qualcosa che sapeva sarebbe rimasto sempre lì, con lei.
Una carezza, le labbra che si sfiorano e…
Lynch.Il terremoto dai capelli vermigli era solitamente accolto con favore e gioia, con la consapevolezza che presto o tardi avrebbe combinato una delle sue marachelle, manipolando la serata a suon di sciocchezze. In quel momento, però, avrebbe voluto strangolarla.
Costrinse la mente a fare retromarcia, ai pochi istanti prima che Eloise spezzasse il giogo della calamita invisibile tra lei e Mike: il fruscìo dell’ultima parola, il suo nome, pronunciato e sospeso nell’aria. Si era scostato agilmente, senza recidere immediatamente il contatto tra le sue dita e i capelli di lei, sciolti sulle spalle. Poi, anche quel contatto svanì.
Scoccò ad Eloise uno sguardo truce, un mix tra l’accondiscendenza materna che sovente le riservava - specialmente di fronte alle scemenze che non risparmiava a nessuno -, il fastidio di essere stata interrotta e… la gratitudine. Quest’ultima era la meno evidente, ma a lungo andare forse sarebbe stata la versione ufficiale: si vedeva, qualche giorno più tardi, a prenderla da parte e a ringraziarla per il tempestivo - non richiesto - soccorso. Non le avrebbe accennato a niente di più e sapeva anche che quella conversazione non sarebbe mai avvenuta. Doveva sperare che quanto accaduto pochi secondi prima non avesse intaccato quell’equilibrio precario tra lei e il Caposcuola, costituito con fatica e speranza di rinascere… in un’altra forma. Non poteva proprio cominciare a chiedersi che cosa lui volesse dirle - o fare - dopo aver pronunciato il suo nome. Erano mesi,
anni, che quella voce non la chiamava a quel modo, un misto di dolcezza, desiderio e... rinuncia.
No, non poteva pensarci.
C’era poi
l’altra situazione. Quella che viveva a chilometri di distanza e si macchiava le dita d’inchiostro per vivere. Quella che incalzava l'oscurità latente dentro di lei e la spingeva a crescere; quella a cui doveva rinunciare per la sanità mentale a discapito di un sentimento che ancora non aveva capito del tutto.
Il suo sguardo incontrò quello di Mike, senza nemmeno aver capito la sua domanda. Nella sua testa frullava l'immagine di lei e Lucas, soli nel suo salotto, e ora che guardava Mike... c'era l'illusione che ogni tessera potesse tornare al proprio posto, come per magia. C'era mancato davvero così poco...
A che cosa stava pensando? Che cosa stava facendo?
Piombò nella consapevolezza col freddo del tardo pomeriggio scozzese e capì di aver fatto il passo più lungo della gamba. Si era illusa di poter gestire due vite in una, di essere capace di questo e molto di più. E Mike. Non voleva deluderlo ancora.
«
No… non…» cercò allora in Eloise la risposta, ma quella stava già indietreggiando una seconda volta, col suo ghignetto a fior di labbra.
«
Ho bisogno… ho bisogno di prendere un po' d'aria.» finse maldestramente un colpetto di tosse e fece per voltarsi, cercando con gli occhi uno spazio aperto meno carico di emozioni e sensazioni. Dove non ci fosse pericolo di cadere in tentazione, qualunque essa fosse.
Di una cosa, però, era sicura: ovunque andasse non sapeva perché dovesse sempre ritornare al punto di partenza. Un continuo ritorno, una corsa senza fine. Mai un attimo di riposo, perché in fondo pensava di non meritarlo. Sapeva, in parte, di raccontarsi solamente bugie: tornava perché, altrimenti, non avrebbe saputo dove andare.