icatrici pallide, così numerose, scalfiscono la pelle. Rigano memorie sbiadite, nella venatura diafana di sangue e di carne, di malinconia e tormento costante. Il cuore, in questo scrigno divelto, muta in pietra – il tradimento coinvolge l'ultimo battito, lo arresta definitivamente. Colpa mia, colpa soltanto mia, che costringe la vita a spegnersi. Il rimorso è infido, è il cruccio che accomuna il passo dei giorni restanti. Nel battito di palpebre che cercano il buio, nell'apatia che cuce la bocca, nell'attesa del cambiamento irreversibile – dove sei, ho chiesto al silenzio.
Dove sei.Il riflesso che mi appartiene, da allora, è vetro spezzato. Appare una geometria confusa, di punti e cardini eternamente graffiati: il profilo del volto è offuscato, il bagliore degli occhi è consunto dall'incedere d'ombra, e le gote ridenti si mostrano esangui. Sono un'altra persona, oramai più vicino ad un'esistenza spettrale. Il tuo distacco mi ha stravolto, vorrei allora affibbiarti ogni responsabilità, accusarti per tutto quello che ci è accaduto. Mi concedo l'assoluzione che non merito, pur di trarre sollievo dall'assenza che mi pedina; perché la verità è pericolosa, e
tu, tu lo hai scoperto in prima linea, nell'ultima
danza.
Il cunicolo che vi cattura è tana oscura. Né luce né sospiro di fiamma allietano l'ingresso, a sottintendere l'avvertimento di essere dove non dovreste. Qualcosa vi ha guidato nel corridoio: la minaccia zampillata dalla bocca del Custode, il ritmo di una clava, ma soprattutto l'incubo peggiore del vostro animo. Nulla vi ha sospinto indietro, nulla vi ha fermato – il confine tra coraggio e spavalderia è sottile, il buio che vi attanaglia strettamente potrebbe trascinare dubbi concreti. C'è altro, tuttavia, che vi attende alla fine della storia. Il lampo di luce giunge in appello al tuo incantesimo, Camille.
Ricorda il turbinio di una e più candele, l'illusione di essere sotto il cielo stregato della Sala Grande – si adagia nel tremito delle vostre palpebre, avvinte dal contrasto. Vi basta un battito per affinare la strada, il fascio luminoso vi conferma di essere in un passaggio segreto, di pietra e di ragnatele calanti. Sulle vostre teste, appena in alto, si insinua un reticolo profondo, di piaghe aperte sulla pietra – è come una grata, forse una tubatura. Oltre i frammenti della lanterna, la via risulta libera, affatto breve. La luce, infatti, si disperde verso la fine scostante – dove conduce?
Tornare indietro non è più un'opzione: la scala è scomparsa, la botola è assente, ritrovare la pietra d'accesso risulterebbe un'impresa. Attingete al coraggio, vorrei dirvi. La mia voce è il refolo di vento gelido, che spira intorno, che striscia sulla pelle. Per un attimo, allora, sembra che torniate preda del mulinello d'acqua. Già nei movimenti d'esordio, tuttavia, diventa nitida l'impossibilità di risalire in piedi. Il soffitto è troppo basso, occorre procedere carponi. Lo squittio di un topolino, poco avanti, vi chiama rapidamente. Striscia via, zampettando allo spavento della luce. Man mano che avanzate, allora, i suoni aumentano – la clava sinistra, la melodia classica.
È una combinazione atipica, l'uno in sobbalzo, l'altro in armonia. Comincia presto ad insinuarsi lungo la pietra, già più tremante: la musica è vicinissima, rievoca il sospiro di violini, pianoforte e lira. Né parole né canto, è una sinfonia che porta lontano. Potrebbe giungere dall'Auditorium, ma è un luogo troppo distante dai Sotterranei. Si alterna, curiosamente, allo scricchiolio di oggetti battenti – forse sulla pietra, forse sul legno. La clava, ora, è il collegamento più rapido. Di certo è un tonfo assordante, che spezza l'incantesimo musicale.
«Fai il bravo, è una giravolta.» C'è qualcuno, con voi. La frase spira così com'è arrivata, sfumando via nelle restanti vibrazioni sonore. Proviene dalla pietra, è una voce profonda e gentile. Il cunicolo s'interrompe proprio di fronte, curvandosi sulla destra – la luce, ad un tratto, non vi è più necessaria; c'è un'atmosfera soffusa, più calda e più nitida, che giunge dalla stessa direzione. Vi accorgete presto, infatti, che il passaggio stia terminando: si spalanca in un'apertura circolare, sufficientemente larga per inoltrarvisi attraverso. Lo scorcio che si staglia allo sguardo dell'una e dell'altra, allora, è una visione che lascerebbe chiunque con il fiato sospeso. Somiglia ad un'autentica stanzetta, una parete di tufo; si cattura la presenza di un lampadario a gocce che brilla dolcemente, un comodino di legno al muro sul quale si distingue un grammofono – è da quest'ultimo, infatti, che si diffonde il motivetto musicale.
Non si nota altro, non da lontano: più vi avvicinate, più i dettagli si affinano, e scoprite presto come il corridoio scivoli in apertura sulla cameretta. C'è qualcuno, però. Si percepiscono passi, sorrisetti e parole – una figura sbuca al centro della visuale, scomparendo di lato in un battito di ciglia. E torna, e nuovamente s'eclissa, come presenza eterea. Finché si cristallizza, ignaro d'essere in compagnia: veste un abito color dell'inchiostro, in drappeggi argentei di semplici bottoni; ha il volto limpido di chi comprende e vive gioiosamente, il sorriso trapunto sulla bocca e il cipiglio misterioso di chi appare divertito. Si svela come un ragazzo, pochi metri vi separano da lui. Compie una giravolta, una soltanto. La musica guida i suoi passi danzanti, è un corpo che trabocca d'equilibrio e talento. Cattura lo sguardo, nell'impronta d'incanto che lo porta da un lato all'altro della stanza. Stringe qualcosa tra le braccia, somiglia ad un fagotto, forse una borsa. Ma c'è un ritmo più severo, un colpo ripetuto di clava. Ne attira altri in successione, finché il ragazzo si ferma.
«Non è difficile, provate insieme» dice.
«Uno, due tre... Croisée.» Una giravolta, un incrocio leggiadro di gambe. Occupa la visuale, finché si allontana. Al suo posto, al centro dello scorcio soffuso, il fagotto sembra animarsi di vita propria: è tozzo, così basso, con la pelle color della palude. Orecchie grandi, denti sporgenti, stringe una clava tra le mani. Batte un colpo sul pavimento, piegando le gambe in una folle imitazione del passo di danza del ragazzo. Casca a terra, subito accerchiato da uno, due, tre altri piccoletti come lui.
Non è possibile. Sono di carne, non di stoffa.
Sono vivi.Ed io, lontano, chiamo il tuo nome.
Barnaba,
che insegna i Troll a danzare.