Nessun colpo, nessun dolore. Un intervento esterno che non avevo calcolato, in mia difesa stavolta.
Il sollievo arriva come un temporale, riversando gocce panciute sulle mie membra scosse. Un attimo dopo, l’umido della paura si insinua nelle mie ossa e, a contatto con l’adrenalina, mi fa trasalire. Uno scontro di forze opposte fa eco al fragore circostante. Solo allora, l’istinto trapassa il velo dell’ottundimento e si fa reazione.
Scatto a sedere come una molla, gli occhi alla ricerca della prossima minaccia. È con sorpresa che, invece, individuo la figura del mio difensore: Horus Sekhmeth —
di nuovo. Porto una mano alla testa, aggrotto le sopracciglia, batto le palpebre, poi torno con lo sguardo al rosso dei suoi capelli e al suono perentorio della sua voce. Siamo in tre, ora, a giacere sul pavimento e il mio aggressore ha perso la ferocia di pochi istanti prima.
Mezza sega, riesco a pensare con innata sfacciataggine dopo tutto quello che ho fatto, come se mi fossi aspettata di vederlo battersi per darmene almeno altri quattro di pugni.
«…ci penserà chi di dovere a punirla.»Le parole di Horus mi strappano un sorriso, ma me ne pento subito perché la ferita sul labbro non valuta altrettanto divertente la situazione. Io, di contro, ho la sensazione che ci siano molte cose da considerare e altre da evidenziare.
Non mi stupisce che nessuno della scuola sia intervenuto in mia difesa, ad esempio, a partire da Prefetti e Caposcuola. Megan Haven dev’essere stata troppo impegnata a farsi infilare la lingua in bocca da Shaw per rendersi conto dell’accaduto e Shaw… Be’, immagino che i pantaloni gli siano diventati improvvisamente stretti! Mike Minotaus è lo stesso che non ha mai saputo stare accanto a Thalia e che le palle deve averle cedute a un’Associazione per Veterani Amanti delle Gobbiglie.
Getto uno sguardo vago sulla folla.
Ipocriti, accuso loro e la pretesa autorità che si portano appuntata al petto, scintillante nelle loro spille.
Per non dimenticare Casey e i Grifondoro, la famiglia che nessuno può disunire. La stessa che ha continuato a inviare regali di compleanno a tutti i concasati fuorché a me, giusto? Quella guidata moralmente dall’eroe di altri tempi Oliver Brior, che se ne sta seduto a conversare con amabilità tra i divani senza degnarmi di un briciolo della sua attenzione? Oh, ma quasi dimenticavo! Lui ha ceduto il ruolo a Casey Bell. Se n’è lavato le mani delle responsabilità, quindi anche delle persone. O, forse, solo di
me —che gli faccio comodo giusto per riempire un posto nella sua decadente squadra di Quidditch. E che fine ha fatto l’attuale leader dei coraggiosissimi e lealissimi Grifondoro, tutto protezione e testosterone a inizio serata? Avrà trovato qualcun’altra a cui sperare di aprire le gambe o sarà lui a punirmi?
Biascico una risata che si confonde con un mugugno di dolore, mentre Sekhmeth si avvicina e mi prende il viso con gentilezza per osservare i danni che l’aggressione ha causato.
«Non riesco più a usare la magia, idiota» ribatto alla sua reprimenda, incapace di trattenermi. So che è ingeneroso da parte mia considerato ciò che ha appena fatto e l’aiuto che mi ha fornito al Ministero, solo
dopo essere rinsavito dal desiderio di uccidermi. Batto le palpebre, le iridi perlacee ora fisse sui suoi lineamenti e sulle perturbazioni che minacciano di devastare il terreno dei suoi sentimenti.
«Stai bene?» chiedo senza volerlo; cioè, senza averne il controllo.
Maledetto Whiskey, m’incazzo con me stessa, del tutto inconsapevole dei reali effetti del drink e della mia innocenza rispetto al crimine che penso di aver commesso.
Perché non dovevo —né
volevo. Perché, se anche avesse dei problemi, non sarebbero affari miei. Perché non sarà l’ennesimo ballo in cui illudermi che saremo amici nei saecula saeculorum. Perché siamo cresciuti e quelle persone non esistono più.
Afferro la mano che mi sta porgendo con una rapidità che vuole solo distogliere l’attenzione dalla mia domanda e dal suo significato. L’intenzione è di lasciarla non appena mi sarò mostrata alla platea in tutto il mio splendore. Dunque, mi reggo a lui e a uno sgabello per alzarmi —per fargli capire che so cavarmela da sola… la maggior parte delle volte.
Sto per borbottare qualcosa: un ringraziamento forse, un altro insulto celato dietro un tentativo di sembrare vagamente riconoscente, una rassicurazione circa il fatto che la mia voglia di abbracciarlo non abbia un cazzo di senso e io debba andare subito in infermeria a farmi aprire il cranio per riassestarne i meccanismi.
Mi rendo presto conto che non avrebbe senso.
Gli occhi di Horus sono altrove,
lui è altrove. Seguo istintivamente la direzione del suo sguardo e trovo la figura longilinea di Emily Rose, incantevole nel suo vestito d’oro e frange. Dal baule dei ricordi, riemerge la proiezione di uno scenario simile vissuto in un ballo differente, solo che allora tenevo Horus stretto per il bavero di una giacca di pelle e adesso ho perso l’aria smargiassa al puzzo di gasolina.
Il baluginio di una realizzazione passa nei miei di occhi, che sono sempre stata immune ai pettegolezzi come forma di ribellione per averne subìto le conseguenze: era lei la ragazza che, secondo le voci di corridoio, Horus avrebbe tradito con me anni fa nel famoso stanzino delle scope.
Era perché quel che vedo non ha le sembianze di un amore nel fiore dei suoi anni. A confermarmelo sono le parole di lei.
La Nieve del passato, messa di fronte alla certezza di essere la parte più debole del triangolo, sarebbe fuggita. Con la stessa capacità di trasformazione dell’acqua, si sarebbe fatta liquida e sarebbe scomparsa dalla scena —infantile, imbarazzata, infastidita da se stessa.
La Nieve di oggi è una creatura diversa con un bagaglio di esperienze che guardano alla vita in modo diverso. E sa di dovere non uno ma ben due favori a Horus Sekhmeth, per quanto le dolga ammetterlo. Infinitamente. O, meglio, uno e mezzo.
Per questo, in un gesto che ho già compiuto con inverosimile naturalezza, allungo il braccio e gli prendo il mento con la mano. Le dita sono fredde a contatto con la pelle del volto di lui, con la barba morbida. Imprimo una pressione decisa, prepotente finché non lo costringo a guardarmi.
Non dico nulla all’inizio. Lascio che i secondi trascorrano, granelli pesanti sul fondo della clessidra. Infine, glielo concedo:
«Prego».
Non sono sicura di avergli fatto un favore.
Non sono certa di non essermene assicurata l’odio.
Una foto a rovescio degli anni ’20, dove il bravo ragazzo è lo scugnizzo e la criminale la giovane in abito da sera.
All the flowers grew back as thorns