Ancora una volta, Horus non è qui. Mi osserva senza capire —senza
guardare. I suoi pensieri sono calamitati verso l’unica persona di cui gli importi nel caos che impera in questo squallido bar improvvisato, dove ci siamo riversati per dimenticare quanto siamo maledettamente infelici.
Sotto i polpastrelli la sua barba è morbida, ma la verità è che non importa più neppure a me. Ho provato a fargli un favore —se fossi onesta con me stessa, direi che ho voluto far
mi un favore—, ma lui ha scelto di non cogliere l’opportunità. A questo punto, delle sue sorti non sono più responsabile e manca poco per pareggiare i conti.
Ecco perché sbuffo quando mi parla. E scuoto la testa pensando a quanto sia coglione con la sua aria da finto saputello, quando possiamo vederlo tutti, qui, prostrato e carponi per la ragazza a pochi metri di distanza dal punto in cui ci troviamo. E sempre per lo stesso motivo ne accompagno il movimento, scrollandomi di dosso la sua mano dal polso con un unico gesto secco che vuole dire tante cose e forse nessuna che abbia davvero un valore. Era così ottuso anche prima, a scuola, o ero io a vederlo migliore? O come tutti si era costruito un ruolo che nel mondo degli adulti non ha retto?
L’intervento di Eloise mi distrae, fornendomi la scusa ultima per prendere la decisione più saggia e risparmiare al mio presunto eroe la mortificazione di una risposta piccata —
“torna a strisciare nella direzione che conosci bene, Horus”—, incapace come sono di gestire i nuovi termini del nostro rapporto, il rancore che emerge a ondate ogni volta che lo vedo e chiunque pretenda di indirizzarmi in qualche modo senza piegarsi al mio volere. Lascio passare lo sguardo dal bicchiere al ghiaccio al volto pieno di lentiggini della Lynch. Un attimo dopo, sto sorridendo e mugugnando.
«Au! Fa male» dico, incapace di tenere le labbra ferme e di non ridere, contagiata da Eloise. Non ci siamo mai concesse un tête-à-tête e forse era giusto così, perché non saprei immaginare momento più appropriato di quello presente.
«Fai pure! Ma, ti prego, smettila di ridere!»Una goccia di sangue sgorga dalla ferita che apre l’epidermide del labbro inferiore, mentre trangugio il bicchiere di whiskey incendiario e le porgo il viso per lasciare che me lo rimetta in sesto. È piacevole sentire la magia agire, placare la pulsazione generale che due pugni ben assestati sono stati in grado di causare sul mio zigomo sinistro e sul sopracciglio poco più in alto. È forse per il senso di sollievo che, presa dall’entusiasmo, le butto le braccia al collo a operazione ultimata, appagando finalmente il bisogno di contatto umano che mi ha divorata da dentro negli ultimi minuti. Le sussurro delle scuse poco convinte e provo a spiegarle che non ho idea del motivo per il quale mi sto comportando in modo così bizzarro. Intanto, continuo a tenerla stretta e a respirare il suo profumo dolce.
«Scusami» ripeto.
«Dev’essere stata la botta in testa» abbozzo, prima di staccarmi da lei e avvicinare i cubetti di ghiaccio alle parti che non ha curato —la ferita alle labbra, ad esempio, sotto mia espressa richiesta.
Mi piace l’idea di portare addosso qualche segno delle battaglie che ho combattuto, le ho detto.
Mi danno un’aria da dura.Sento il sangue pulsare sotto la pelle, chiedere pietà. Trattengo il fiato ed emetto un suono trattenuto a stento, quando il ghiaccio si posa sulla carne, trasmettendomi una sensazione di dolore acuta e ricordandomi di quali crimini io mi sia macchiata stasera. Apro gli occhi in tempo per scorgere il gesto di Horus in direzione di Emily Rose e non so se sia l’effetto del Whisky o dei colpi che ho preso in testa, eppure… noto qualcosa che non avevo visto finora oltre ciascuno dei veli frapposti da una cocciuta razionalità nel valutare le azioni del mio desiderato amico, poi sussurrato amante, adesso nemico-eroe.
Non conosco la dinamica del suo rapporto con la persona che gli indurisce i lineamenti e che tormenta il suo mare di ghiaccio tra le ciglia. Di contro, conosco il pregiudizio e il giudizio —lo stesso che ho involontariamente formulato quando l’ho costretto a guardare altrove, il medesimo che altri hanno emesso su me e Astaroth.
Chiudo gli occhi e l’immagine della mia mentore si materializza con nitidezza al mio cospetto, bellissima nella sua sensualità divorante. Sento anche la voce di Grimilde e scorgo il biasimo negli occhi di Thalia ad ogni mio salto di gioia, a ciascuna mia più piccola menzione, a ognuno dei fiati spesi ad amarLa.
Una goccia d’acqua cola dalla bocca fino al mento, incrociando la scia del sangue venuto giù dal labbro poco prima. E io non riesco ad aprire gli occhi. La musica ed il chiacchiericcio attorno a me perdono consistenza, annullandosi al ricordo della Sua risata. Di riflesso, sorrido anch’io e stavolta ignoro il dolore, la fitta che viene con il tendersi della carne molle, il piccolo fiotto di sangue che imbratta la punta sottile del mio mento chiaro.
Ti capisco, Horus, e mi dispiace averti giudicato. Sono stata anch’io stupida, testarda e cieca, sorda agli ammonimenti della mia stessa coscienza. Distrutta dalle assenze, dalle decisioni sbagliate, a volte da quelle mai prese. Dalle parole degli altri, da quelle della persona che amavo. Straziata dall’incapacità di dire addio, di lasciare alle spalle Lei, noi e la parte di me stessa indissolubilmente legata a quello che siamo state.
Vorrei dirti che, finché hai la possibilità di combattere per voi, dovresti farlo. Io ho iniziato ché le lancette dell’orologio avevano passato la mezzanotte e la carrozza si era trasformata in zucca. E ora vivo con il rimpianto di averLa perduta per sempre. Tuttavia, il tempo è trascorso anche per noi e il solo soldo spendibile per stasera è già caduto dall’albero delle monete d’oro. I miei consigli sarebbero fuori luogo, ogni mio aiuto un anelito al Cielo pronto a disperdersi nell’immensità di una notte di velluto.
Apro gli occhi, le dita intorpidite per il freddo —ora del colore dell’ametista— e gli occhi di neve ancora prigionieri del ricordo di ciò che avrei potuto avere. Di ciò che non avrò mai. Allento involontariamente la presa su quel che rimane del ghiaccio sciolto e rimango in attesa finché non riesco a sentirne l’impatto con il pavimento. Allora, mi volto verso la Lynch, ascoltando le parole lontane di Peverell annunciare la vittoria dei Corvonero.
«Non pensi che dovremmo brindare a un altro anno glorioso per Grifondoro e Tassorosso?» le dico con un sorrisetto a metà tra l’amaro, il rassegnato e il divertito. A fatica, mi metto a sedere su uno sgabello. Ho la testa che scoppia, i pensieri confusi e il cuore che continua a chiedermi dove sia Astaroth —perché non sia venuta alla festa. Alzo una mano in direzione del barista con un gesto grazioso e ordino due drink, chiedendogli di scegliere per noi.
«Ci rimane una speranza con il Quidditch almeno» continuo, ché il cameriere ci ha appena servito due London 21. Alzo il bicchiere nella direzione della mia inattesa soccorritrice, la seconda di questa serata, proponendole un cin.
«Che vinca il migliore!»
All the flowers grew back as thorns