Ariel, 25 anni •
An Icelandic proverb says:
«It is better to suffer in the name of truth than being rewarded for lying.»
Sbuffo.
Ridere di me è purtroppo una reazione che tendo ad avere spesso. Mi chiedo perché la nostra generazione senta la necessità di doversi sminuire d'istinto, a priori.
E' così impossible io possa aver fatto qualcosa di buono nel Torneo? Del resto era già da considerarsi encomiabile avessi partecipato e segnato qualche goal, considerando la mia inesperienza.
«Caposcuola Bell, devo per caso fare una ramanzina da adulto consapevole e responsabile sul non sminuire i propri sforzi?»
Mi nascondo dietro un umorismo scontato e di circostanza. Quella sì che è una convenzione sociale che so usare.
Una voce dal fondo della mia mente mi ricorda, però, come io non sia lì per parlare delle mie esperienze e del mio vissuto, ma del mio ospite.
"Sempre se riesco ad essere credibile come adulto."
Mi lancio un'altra frecciatina, un monito per la mia mancanza di filtri e quella leggerezza che da anni mi viene sempre criticata, specialmente in un contesto lavorativo.
Sospiro. E' un suono leggero che sfugge alle mie labbra, incontrollato come la nota melanconica che affiora nel mio sguardo.
E' così difficile stare al mondo, quando ci si sente sempre così fuori luogo.
Eppure, eccomi qui, a dover ascoltare la vita di qualcuno, pronta a dover fare domande e scavare - con discrezione, dove possibile - nel privato di chi evidentemente tiene alla propria intimità.
«Caffè per due sia, allora.»
Scivolo oltre la scrivania, tornando con un leggero tonfo dei tacchi bassi con i piedi per terra.
Passo le mani fra i capelli biondi, pettinando oltre le spalle le ciocche più lunghe, prima di muovermi verso uno dei mobili agli angoli della stanza.
Anche camminare è qualcosa a cui devo fare attenzione.
Quando non ci penso a volte mi soffermo troppo sulle punte, o ondeggio seguendo suoni e melodie che si ripetono nella mia testa; nei momenti più ispirati, posso anche finire col perdermi nel mio flusso di coscienza e cominciare a ballare a occhi chiusi, a tempo del ritmo delle mie parole.
Ora, invece, mi ripeto passo dopo passo le istruzioni per apparire più normale, più adatta alle aspettative e pretese di chi parla.
Non ci riesco troppo bene: camminare con passo militare con le mani raccolte dietro la schiena è un esempio di serietà e compostezza che si addice a personaggi ben distanti da me, ma si apprezza il tentativo.
Mi piego sulle ginocchia, chinandomi verso gli sportelli più bassi.
Il tintinnio vetroso accompagna l'estrazione di una french press in metallo, legno e vetro e di un vasetto opaco dentro cui è possibile intravedere del caffè macinato.
Proprio mentre mi accingo a versare un paio di cucchiai al fondo della caffettiera, nuovamente appostata dietro la mia scrivania, le parole di Aion mi raggiungono improvvise.
Mi irrigidisco. E' inevitabile. Vorrei così tanto saper dissimulare bene tutto quello che sento e penso, ma ci sono certi argomenti che finiscono puntualmente col porre fine ad ogni resistenza.
Jolene White è uno di questi.
Rimango con il misurino sospeso a mezz'aria per qualche secondo, mentre lo sguardo vaga dalle mie mani al divano su cui il mio ospite ha preso posto.
Lo sguardo di Aion lo cerco timidamente, ma anche con sospetto. Improvvisamente sono sulla difensiva, sono circospetta.
Perché chiedere di Jolene? E' solo sorpresa di vederla lì, incorniciata nel suo ufficio? O la domanda nasconde altro?
Per un attimo mi chiedo che foto sia nello specifico quella a cui fa riferimento: ne ho scattate così tante della strega che sul momento, nel sottile panico che comincia a farsi spazio nella mia mente, faccio fatica a mettere a fuoco il tutto.
Così, dopo qualche secondo di ritardo, il mio sguardo trova finalmente la cornice giusta.
Forse sono fortunata e la mia potrebbe sembrare solo confusione, forse Jolene White non è speciale abbastanza per Ariel Vinstav da ricordare con precisione fosse lì, fra i fogli di giornale.
Per la barba di Merlino quanto sarebbe stato sbagliato pensarlo.
«Ah sì!»
Eppure, fingo. Fingo stupore, fingo di aver capito solo ora a cosa Aion faccia riferimento.
Sorrido. E' un'espressione che manca di genuinità al principio, ma che si riscalda di affetto e contentezza quando gli occhi si soffermano sul volto di Jolene.
Per un attimo riesco a ripercorrere il ricordo di quella giornata di Novembre, a risentire il calore delle sue labbra contro le mie, il retrogusto salato delle lacrime che ne rigavano le lacrime, la stretta delle mie dita contro i suoi fianchi e ...
Scuoto leggermente la testa, tornando con lo sguardo sulla caffettiera, cercando di nascondere le gote improvvisamente rosse.
«Se alzi lo sguardo e guardi lo scaffale dei registri, in alto a sinistra»
Quindi ovviamente dissimulo cambiando argomento.
Non lo guardo nemmeno in volto il caposcuola, no, è meglio lasciare che sia lui a venire costretto a portare l'attenzione altrove, mentre io mi concentro su attività mondane come quelle di riscaldare l'acqua in una caraffa di ceramica.
Impugno la mia bacchetta, riposta in un poggio apposito sulla scrivania, subito di fianco al calamaio.
Disegno a mezz'aria una S rovesciata, puntando poi con il catalizzatore il piedistallo di pietra e metallo e i cristalli di zeolite al suo interno.
"Lacarnum Inflamare"
«C'è una foto di due bambini sporchi di terra e con una faccia da beoti: siamo io e il tuo professore di Cura delle Creature Magiche a sette anni.»
Sorrido, divertita e incuriosita dal vedere la reazione a quella piccola rivelazione.
Una parte di me mi riprende e mi dice che è da codardi usare amicizie d'infanzia per evitare di parlare del suo rapporto con Jolene.
Se esiste un premio per deflettere sulla propria vita sentimentale, io merito una candidatura.
«Vedi, per quanto cerchi di evitare di mettere il naso fra gli affari di Hogwarts. Hogwarts finisce sempre col tornare alla mia porta in qualche modo.»
Prendo due tazze pulite. Sono in gres semplice grigio, puntellate qua e là da residui più scuri di argilla. Non sono per nulla perfette nelle dimensioni, ma anzi, è facile notare come alcune zone siano leggermente incurvate per una pressione eccessiva delle dita sul tornio.
«Le politiche britanniche sono particolarmente diverse da quelle che ho conosciuto in Francia e Islanda, anche e soprattutto riguardo l'approccio all'educazione: venite messi in competizione dentro dei sistemi a punti e divisioni di dormitorio, venite inseriti in attività extracurriculari che rischiano a volte di scadere in scontri oltre le pedane dei duelli che voi abbiate dodici o diciassette anni, equamente.»
La mia vena polemica ha colto la pluffa al balzo ed è tornata a farsi sentire.
Le frecciatine al sistema sono dovute e volute: mi permettono di aprire le danze all'intervista anche in un ambito informale come quello attuale, ma danno anche la spinta al mio ospite per reagire e darmi modo di capire chi è Aion, adesso, dopo aver avuto un'adolescenza di travagliati successi accademici in un contesto magico così aggressivo.
«Latte? Zucchero?»
Aggrotto la fronte quando lo sguardo sembra notare un dettaglio oltre lo schienale e la testa del suo ospite.
«Lord non sibilare dietro le orecchie degli ospiti, è scortese.»
La mia voce si acciglia, si fa più seria e detta fra noi, diventa la scimmiottatura di quella di mia madre ogni qual volta faccio qualcosa che la indispone.
«E' timido, ma curioso. Ti assicuro, però, che non fa male ad una mosca.»
Lo indico pure il mio famiglio, qualora non fosse evidente sia lì, con la testa e il corpo protesi verso l'alto, poco oltre il bordo del vetro incantato del suo terrario.
La lingua esce e rientra ripetutamente dal muso triangolare, saggiando l'aria e cercando di comprendere dove nello spazio sia collegato il nuovo arrivato.
E' un'immagine dolce, per me, ma sono consapevole come in pochi siano entusiasti di scoprire di avere un pitone alle proprie spalle.
«No, cioè. Alle mosche fa male, ma sei troppo grande per fargli venire fame. Lord, farðu, per carità.» Scuoto la mano che impugna la bacchetta, soffiando un imperativo in islandese che per abitudine porta l'animale a ritirarsi lentamente, nascondendo la testa.
La bacchetta fa sempre il suo sporco lavoro.