Roadgame., » Nieve Rigos

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tell me again, why do we stay
Un peso si solleva dal mio petto quando interrompi il contatto tra le nostre mani e una prima forma di distanza torna a germogliare nello spazio che ci separa. Allora il cielo recupera la sua sconfinatezza, le nuvole l’impalpabiltà dei sogni a occhi aperti e il suo blu diventa il colore per la tela di un pittore dal talento insaziabile.
Finalmente respiro.
So quello che ho detto. Ho promesso di stare al tuo fianco e, giuro, lo farei e lo farò fintantoché non avrò la certezza di saperti al sicuro. I voti, insegna la Chiesa, non s’infrangono e io ho creduto troppo alla religione per poterle mancare di rispetto. E mi preoccupo per te —ora che ti ho visto così fragile di fronte alle tue paure — in una maniera che non riesco a controllare.
Non credo che tu abbia bisogno di protezione, non della mia almeno. Se Eugene fosse stato reale, la mia bacchetta non avrebbe emesso neppure una stilla di magia e i miei tentativi di prevaricarlo fisicamente sarebbero stati fermati presto. Non la pratico da parecchio, certo, ma la mia memoria ha incamerato la lista degli incantesimi appresi abbastanza bene da sapere che ne sarebbero bastati un paio, neppure troppo potenti, per mettermi al tappeto. E allora di te cosa ne sarebbe stato?
No, non voglio (né posso) proteggerti. Voglio soltanto vederti —forse illudermi?— oltrepassare la soglia di un luogo dove so che potrai recuperare le forze e tornare a scaricare altra gente come barili di birra. Una consolazione per me, nient’altro.

Inspiro profondamente e assaporo il senso di leggerezza venuto con il parziale recupero dei nostri ruoli. Tu stai ricominciando a raccoglierti in te stesso, imprecazioni comprese. Io lascio che il terrore di un eccessivo contatto diventi di nuovo distanza, libertà da ogni legame. Poi parli e rovini tutto.
“Lo sapevo che eri ancora lì sotto quella corazza da dura.”
Perché, Horus, perché? Perché non hai lasciato che fosse il silenzio a dare dignità a quanto accaduto? Perché hai sentito il bisogno di parlare e di dire la cosa sbagliata nel momento sbagliato? Se avessi deciso di prendermi a pugni il cranio per farmi dimenticare quanto visto e vendicarti della mia cocciutaggine, avrebbe fatto meno male, cazzo.
Il peso piomba di nuovo sul mio petto, mozzandomi il respiro, e il cuore accelera il suo moto. Un’ondata di calore, seguita da innumerevoli altre, travolge le mie emozioni. La sento sconquassarmi il petto, risalire lungo le braccia, stringermi le spalle, afferrarmi la gola. Un attacco di panico per un attacco d’ansia: è così che pareggi i conti?
Percepisco la dolcezza nel tuo tono di voce e ne comprendo le implicazioni. Ricordo cosa mi hai detto in prossimità del guardrail. Tutto quello che hai fatto è dipeso dalla convinzione che ci fosse la tua amica sotto la scorza che non riconosci. Nonostante ti abbia detto che non esiste, tu non mi hai creduta e con il favore del Cielo sei riuscito a dimostrare di avere ragione, forse. Ma questa Nieve —la Nieve delle tue invocazioni, la Nieve che si è presa cura di te— non può vivere nel presente perché il dolore la divorerebbe. La nuova Nieve è la versione che è dovuta venirle in soccorso per assicurarne la sopravvivenza.
È solo che tu non sai e chiami, chiami, chiami senza riflettere su quali conseguenze possano avere i tuoi gesti.
Mi metto a sedere. Il cuore mi martella nel petto, così forte che non sento il soffio del vento; che non mi accorgo della zolla di terra che si alza e crolla di nuovo sull’erba, seguita da alcune altre tutto intorno a noi. La mia magia è di nuovo fuori controllo e tu mi stai porgendo la bacchetta per essere curato. Io, di contro, mi alzo in piedi a stento —vuoi perché la mano destra fa ancora male, vuoi perché il ritmo cardiaco concentra l’afflusso di sangue in luoghi diversi dalle estremità del corpo, rendendomi le gambe molli— e chino il capo per guardarti.
Sei più sicuro di te adesso, ma non puoi cancellare i segni che l’episodio ti ha lasciato addosso, fuori ma anche dentro. A dirlo sono soprattutto i tuoi occhi, dietro i quali si nascondono profondi abissi. Mentre ti scruto e rimango in silenzio, torreggiando su di te, non posso fare a meno di domandarmi a quando risalgano queste ferite; se io ti abbia già conosciuto con un mondo interiore così tormentato o se i travagli siano subentrati dopo; o magari l’una e l’altra. Mi rendo conto, senza amarezza o giudizio, che non siamo mai stati davvero amici anche se di questa parola facciamo largamente uso: io per incolparti, tu per reclamare un rapporto che vorresti sopravvivesse al tempo. Lo vorrei anch’io. Ma cosa abbiamo saputo di noi? Cosa sai tu di me e io di te? Quanto dice del nostro legame il fatto che oggi sia il momento di più grande intimità emotiva mai condiviso?
Faccio segno di no con la testa, ancor prima di accorgermi che l’ambiente ha reagito alle mie emozioni. Nella mente, risuona il dubbio di averti accusato di un crimine che non è mai stato tale perché il fatto non sussiste.
«Mi piacerebbe riuscirci, ma rischierei solo di farti male» dico, ma non sono sicura di aver parlato a un tono udibile perché il tuonare sordo del cuore nelle orecchie mi impedisce di distinguere i battiti dalle parole.
Calmati, imploro. Calmati.
Oggi il sole tramonterà, questo incontro terminerà e il fantasma di quanto è accaduto lo intrappolerò nell’ennesimo baule. Troverò qualcun altro che mi aiuti con la magia e a te consentirò di onorare i tuoi sentimenti —“Mi hai stancato, Rigos”. Non avremo più motivo di vederci e la mia vita proseguirà come un tempo. Un attimo di quiete non cancella la tempesta né tutto quello che ci siamo detti e fatti a partire dall’incontro al Ministero.
«È meglio che ti curi qualcuno che non sia io» continuo e il discorsetto interiore deve aver funzionato, perché riesco a sentirmi stavolta e la mia voce è pacifica.
Non lo dico con vittimismo. Non desidero neppure sbarazzarmi di te. Potrai non ricollegare la mia reazione a quello che hai detto e immaginare che sia solo lo stress di utilizzare nuovamente la magia ad aver causato il dissesto circostante —sì, adesso me ne sono accorta—, ma converrai con me che esporre una ferita alle mani di una persona che è appena andata in overload non sia una buona idea. Mi colpisce, però, che tu creda così tanto in me... o che sia tanto sconsiderato, delle due l’una. Non sono sicura di aver specificato da quanto tempo non utilizzo una bacchetta ed è questo a renderlo un grande salto nel vuoto, il tuo. Non mi aspettavo lo avresti fatto, non dopo la strigliata e tutto quello che mi hai rivelato di pensare di me.
Forse è per questo motivo che trattengo l'impulso di scappare in direzione della moto, dove potrei coprirmi il viso con il casco. Per questo e per la promessa che ti ho fatto; per il bisogno viscerale di saperti al stare bene. Allungo il braccio nella tua direzione, il sinistro stavolta. «Ti aiuto ad alzarti!»
Mi chino in avanti per dare seguito alle mie parole, i capelli lunghe tende di seta ai lati del viso.
Le zolle, intanto, hanno smesso di ribollire. La mia bacchetta è ancora nella tua mano.

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Edited by ~ Nieve Rigos - 7/7/2023, 13:58
 
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È impossibile non notare le zolle d’erba che, animate da una mano invisibile, si alzano dal terreno. Non posso fare a meno di osservarle con interesse, con lo stesso zelo di uno studioso. Ho visto qualcosa di simile in uno dei miei viaggi, ma non era una persona a generare il dissestamento, ma una pietra posta come totem a protezione di uno ziggurat.
Sposto lo sguardo su Nieve e la mia espressione incuriosita scivola via. Un sospiro si impiglia nella mia gola: avrei dovuto immaginarlo. Sei una codarda Nieve Rigos: vorrei dirglielo, ma non posso. Non sono arrivato a questo livello di bastardaggine. Non dopo quello che ha fatto per me e che, in realtà, avrei voluto non avesse mai fatto. Un moto di rabbia risale nuovamente nel mio stomaco ma non ce l’ho con lei. Ce l’ho con… con lui. E con me stesso. Stringo la mano libera e afferro dei ciuffi d’erba con tale forza da ficcarmi della terra sotto le unghie.
Calmati mi impongo e mi concentro su Nieve.
Lo vedo che tentenna, lo vedo nei suoi occhi innaturali che qualcosa non va.
Perché la tua Magia si è attivata così? Per la mia semplice richiesta? O perché ti ho inequivocabilmente ricordato che ho ragione?
Lo so che è così, lo so che ti ho colta in fallo, Nieve. Tiro le labbra e abbasso il braccio, la punta della bacchetta ancora fra le mie dita. La faccio rotolare fra indice e medio e la guardo, ma la mia attenzione va alle mie mani, piene di graffi. So che il mio viso deve essere altrettanto rovinato, altrettanto sporco, ma non ho intenzione di farmi curare, non oggi. Il brivido di ciò che ho rivisto mi scorre ancora lungo la schiena e si insinua fra le vertebre come un disco di ghiaccio. Non ce la faccio.
La mano che mi viene tesa mi sorprende e il tempo si ferma, come quando si rovescia una clessidra su un piano.
Avrei tante opzioni: schiaffeggiarla e alzarmi da solo. Stringerla e dimenticare che tutto questo sia successo. Stringerla e tirare Nieve verso di me e, contrariamente a tutto ciò che ci siamo detti fino ad oggi, stringere anche lei fra le braccia, come feci a quel ballo che, paradossalmente, aveva proprio a che fare con la strada e le moto. Le avevo promesso che ci sarei stato. Non l’ho fatto né per lei, né per nessun altro, penso duramente. E non me ne pento. Non chiederò scusa, come feci quella sera. Se lo facessi, renderei vano tutto quanto.
Invece ciò che faccio, mentre la vedo tendersi con i capelli che le scendono giù come schiuma di mare, è ficcarle nella mano la bacchetta.
La fisso negli occhi, nuovamente acciaio nella neve, ostinatamente freddi.
« Perché mi hai chiesto di aiutarti se non vuoi darmi retta? »
Il mio tono non è inquinato da alcuna accusa, ma non posso fare a meno di chiederglielo.
L’ostilità, la sfiducia, quella stupida testardaggine a voler fare tutto da sola: non posso chiederle di provare per me ciò che ci siamo promessi tempo addietro, ma allora perché? Me lo sono chiesto tante, troppe volte in questi giorni e proprio come le ho confessato poco fa, ho creduto che forse c’era ancora lei in qualche modo a chiedermi aiuto.
Mi rialzo da solo con un gemito, proprio come un vecchio decrepito. Mi tocco nuovamente il viso: il sangue si è asciugato, ma è appiccicoso e sento il bisogno fisiologico di buttarmi sotto una doccia e lavarmi con acqua così bollente da sfiorare le temperature dell’inferno di Seth. Mi passo una mano fra i capelli, distogliendo lo sguardo da lei.
Sono già pronto all’ennesima sfuriata.
« Se facessi da solo, probabilmente mi caverei un occhio. E tanto, peggio di così… » Le dico, non senza una punta di imbarazzo. Poi, a rinforzare il discorso, mi strofino col dorso della mano la faccia, cercando —invano— di togliere il grosso di terra e sangue. Ecco, ora sembro un ragazzino. Che excursus veloce che ho fatto. E a tal proposito, contro ogni proposito le afferro il polso piccino, come quello di una bambola e la guido fino a puntarmi la bacchetta al collo. Non ho la minima intenzione di morire per qualche exploit involontario, ma se prima ho pensato di incanalare la sua Magia nella paura, ora mi rendo conto che potrebbe essere un’azione positiva a far riemergere almeno in minima parte quella Nieve che la Magia, invece, sapeva usarla benissimo.
« Medeor Vulneratio. Mundo Vulnus. » Glieli ricordo, elencandoli uno ad uno.
« Fallo. » Non la sto implorando, ma non la sto nemmeno obbligando.
« Se fallisci, sono un pessimo insegnante e preparerai questo campo per qualche contadino Babbano. Se riesci ma mi fai saltare la testa… » Trattengo un brivido. « Almeno assicurati che venga cremato con la faccia pulita, grazie. » Non dovrei ridere, ma per celare la paura, invece, mi lascio sfuggire una curva leggera all’angolo delle labbra.
Certo, penso, Nieve deve detestare proprio tanto i miei sorrisi: succede sempre qualcosa, quando me ne scappa uno.

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Edited by Horus Sekhmeth - 14/7/2023, 13:51
 
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Dio, Horus! Qual è il tuo problema? Perché non riesci ad accettare un no come risposta?
Ti guardo con le sopracciglia aggrottate, ma più che ostilità è esasperazione quella provo e da qualche parte sul mio volto dev’essersi dipinta una sua sfumatura leggera. Vorrei gettare il capo all’indietro e grugnire come si fa quando di pazienza non ne hai più e l’io infantile prevale sulla te adulta. Tuttavia, non posso permettermi la libertà di essere me stessa. Non di fronte a te, almeno. Vedresti nella mia reazione l’opportunità per attaccarmi come hai già fatto. Mi copriresti di biasimo, dandomi della bambina viziata. Mi riserveresti lo stesso sguardo duro che non hai mancato di rivolgermi anche adesso.
Mi scappa una smorfia sarcastica, mentre ti guardo. Non mi stupisce che tu sia abituato a dominare, ora che ci penso. Mi torna in mente il ballo di Natale e l’immagine sottomessa di Emily Rose al centro del bar che aspetta una tua mossa, immobile. È rimasta lì per te, in una preghiera silente, nella speranza che colmassi la distanza che vi separava. Pur nel tormento, eri tu a condurre i giochi —lei, la marionetta nelle tue mani di puparo.
Ma hai ragione, stavolta. Sono stata io a chiederti aiuto per recuperare il controllo sulla magia e, per quanto discutibili siano i tuoi metodi, mi stai offrendo l’occasione di provare. A stupirmi è la tua ostinazione a offrirti come cavia. So che conosci le probabilità di un fallimento e le possibili conseguenze. Hai sentito e visto cos’è accaduto al Ministero. Hai assistito agli exploit che mi vedono protagonista quando le emozioni mi prevaricano. Allora perché mettere la tua vita nelle mie mani e non aspettare di tornare a casa? Potresti rivolgerti a un Medimago, a un amico esperto in incantesimi curativi, a chiunque che non sia io. Perché non farmi iniziare con un cazzo di Flipendo?
Inspiro e scuoto il capo, incapace di nascondere la mia contrarietà, ma non proferisco verbo. Sono stanca della tua cocciutaggine, dei tuoi modi di merda. Sono stanca di te.
«Vai! Se ci tieni così tanto…» dico, secca, liberando il polso dalla tua presa.
Indietreggio di un passo, una maschera impenetrabile sul viso candido. In realtà, vorrei sbottare e dirti che non sai cosa sia la gratitudine; che non ti meriti l’apprensione e la cura che ho dimostrato nei tuoi confronti e che, se dovesse andar male, te lo meriteresti. Fanculo i “non ti lascio solo” da cogliona quale sono! Non imparo mai.
Non ho bisogno di ripassare gli incantesimi. Che tu ci creda o meno, sei fortunato perché ho sempre avuto una naturale predisposizione per la magia curativa. Fortunato è forse un parolone, ma tra tutte le alternative che avresti potuto propormi forse questa è la meno peggio. O almeno è quello che mi auguro per non dover convivere con il rimorso di averti sulla coscienza.
Stringo la presa sulla bacchetta. È strano, quasi innaturale, tenerla in mano dopo tanto tempo. La osservo con curiosità —un’estensione dell’arto amputata della quale non ho sentito la mancanza. Levo il braccio, incapace di determinare se sarò in grado di evocare il potere che mi rende una strega e di incanalarlo affinché si esprima attraverso il legnetto che tengo tra le dita e non attraverso l’ambiente che mi circonda.
Chiudo gli occhi dopo aver rivolto la punta del tiglio argentato in direzione del tuo viso. Non voglio guardare né te né l’esito del mio tentativo.
Mundo Vulnus, mi dico, per disinfettare la ferita. Tracciare una X con attenzione sulla pronuncia. Il polso si muove, fluido; la mente pronuncia la formula e raccoglie l’intenzione di eliminare ogni traccia di sporco.
Avrei potuto fare lo stesso con te, Roth? Se fossi intervenuta per tempo, avrei potuto lavare via il lordume che infettava il tuo cuore prima che l’infezione si diffondesse e fosse troppo tardi?
Il pensiero mi coglie impreparata. Uno spasmo ai muscoli della fronte, la pelle che si arriccia. I battiti aumentano.
Medeor Vulneratio per curare le ferite. Apro gli occhi per studiarti. Le lesioni deturpano le linee perfette degli zigomi, della fronte, del naso, perfino il taglio definito della barba. Un cerchio in senso orario, dal basso verso l’alto, il polso morbido. La formula sulle labbra della mente.
Sarei stata in grado di curare le tue, Roth? Sarebbe bastato il mio amore per colmare il vuoto da cui si generava la malinconia nei tuoi occhi? Ti avrei fatta ridere, sarei rimasta con te. Avrei abbandonato ogni cosa per rimanere al tuo fianco. Avrei dimenticato chiunque per te. Cambiato vita, identità, personalità. Ma ti ho respinta, sono sparita, ti ho ripagata con l’odio. Cos’ho fatto, cos’ho fatto, cos’ho fatto…
Vedo gli sfregi sulla tua pelle guarire, Horus, ma lo sforzo che mi hai chiesto ha un costo perché, come sempre, non valuti i risvolti di un’azione. Tu insisti e basta. Non so se lo fai con tutti o se io sono l’unica privilegiata a subire questo trattamento. Sappi che, oggi, il tuo pretendere giudicante ha innescato un meccanismo che non mi sarei meritata di affrontare.
Le piaghe che squarciano la mia anima tornano a sanguinare e una crepitio sinistro mi porta lontano dal prato dissestato ai margini dell’autostrada babbana. Il mio sguardo si perde in un dedalo di colpe fagocitanti. Abbasso il braccio, che si fa pesante. Lascio cadere la bacchetta. N-Non…
Scatto in direzione del guardrail. Corro via. Un dolore lancinante al cuoio capelluto è la punizione per i miei misfatti. Cos’ho fatto, cos’ho fatto, cos’ho fatto… Lacrime amare si assiepano sotto le palpebre semichiuse. Mani invisibili scuotono il capo, tirando le ciocche come fossero redini. Alle mie spalle, i capelli crescono —un velo argenteo che sfiora gli steli d’erba e fa presto a trasformarsi nello strascico di una sposa.
Scavalco il guardrail, poi mi accartoccio sulle ginocchia. Porto le mani alla testa. Le dita premono come alla ricerca di un tasto che fermi il processo; l’attivazione della matamorfomagia. Ma i pensieri volano e i miei occhi vedono il cadavere freddo di Roth steso nell’ingresso di Villa dei Gigli. Dopo quanto tempo l’hanno trovata? Quanto dev’essersi sentita sola? Cos’ho fatto, cos’ho fatto, cos’ho fatto…
Mi scappa un urlo di dolore. I miei capelli sono ovunque. Centinaia di mani giocano a filare —l’antica tecnica della torsione della fune— e io non so fermarli. Vorrei dire loro di smetterla, che il dolore è insopportabile, che hanno abbastanza materiale per tessere tutto ciò che vogliono, che avrei voluto esserci per Roth, che non sapevo, che se potessi tornerei indietro, che vorrei scambiare la mia vita con la sua.
Devo andare via. Non voglio che lui veda, che capisca. La mano corre al cimelio della famiglia Morgenstern che ho ereditato con la villa, un ciondolo a forma di giglio che porto sempre al collo.
«Tilly, ti prego» supplico, invocando la mia elfa.
E lei risponde con la prontezza che le riconosco, venendo in mio soccorso. Non devo parlare perché sa. Mi ha già vista in condizioni peggiori. Mi ha protetta, rimessa in sesto, recuperata. È il mio angelo custode.
Si guarda intorno. Ti individua e socchiude i grandi occhi nocciola. Devi essere tu il nemico, decreta, pronta ad attaccarti.
«Andiamo via» la imploro.
Non voglio restare un minuto di più. Non voglio… Voglio solo che smetta di fare male. Allungo la mano e prendo la sua, così piccola e delicata.
Non c’è nessun congedo tra me e te, Horus. Non ne abbiamo bisogno.

Uno schiocco determina la mia uscita di scena.
La bacchetta rimane, dimentica, tra i fili d’erba. Quando me ne renderò conto, manderò Tilly a recuperarla.

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Edited by ~ Nieve Rigos - 16/7/2023, 18:03
 
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Non ho bisogno di toccarmi o guardarmi in viso per capire che ha funzionato.
Non ho abbandonato il tuo sguardo mentre tu chiudevi gli occhi; io ho tenuto aperti i miei e se tu non avessi serrato le palpebre, non avresti visto quella durezza che ti ho sempre riservato da quando le nostre strade si sono incrociate di nuovo. Non avresti nemmeno visto apprensione per l’esito. Avresti notato fiducia perché se ho volontariamente deciso di fornirti l’arma necessaria per sfogarti su di me, è quello che ho visto e sentito quand’ero sdraiato su quel prato, alle carezze e alla voce accorata che mi hai rivolto a darmi la certezza che non mi avresti fatto male. Non volontariamente, almeno, come il taglio sul labbro conferma.
Ti ho vista, Nieve, così come tu hai visto la mia più grande debolezza.
Il pizzicore sulla pelle, il rimarginarsi della cute lesa: mi fanno sospirare ma non di sollievo, come potresti immaginare. Sono felice di ciò che hai fatto, ma non te lo dico. O almeno, non me ne dai il tempo.
Sono io ad aggrottare le sopracciglia stavolta e le mie labbra si schiudono.
« Ehi… » Piego la testa di lato e allungo una mano: stavolta sono io a prenderti il mento. Ma tu sfuggi la mia presa, scatti su e io non faccio in tempo a trattenerti.
Mi rialzo prontamente, balzando in piedi come se qualcosa mi avesse punto. Non capisco, davvero non capisco: non solo non hai risposto alla mia domanda –perché hai scelto me per aiutarti se mi odi così? Perché cazzo avevi quello sguardo mentre mi rassicuravi?– ma non gioisci nemmeno della tua riuscita. Da quanto non utilizzavi la Magia? È un traguardo: piccolo, ma diamine, reagire così… non me lo aspettavo.
« Nieve! » Ti chiamo, ma la voce si disperde man a mano che ti avvicini all’autostrada. Nella mia ottusità non capisco cosa ti spinge a scappare così: per un primo momento, quando ho scorto il luccichio delle lacrime –le stesse che ho visto bagnare la tua vista al Ministero– ho pensato fossi commossa per la tua riuscita.
Ora che stai scappando comincio a dubitare della mia deduzione. Anzi, ne sono sicuro.
Mi trattengo solo un attimo e fermo la mia corsa, sgranando gli occhi mentre assisto ad un fenomeno che riconduco solo alla tua Magia incontrollata. Spalanco la bocca mentre i tuoi capelli si allungano, formano un mantello d’algida bellezza, una tavolozza così abbacinante da sfiorare ogni sfumatura del cielo plumbeo sopra di noi. Non c’è sole a farli rilucere, ma la loro impalpabilità mi spinge a frenarmi, mi lascia senza parole.
Sono bellissimi.
È la prima, stupida cosa che mi viene da dire, ma quando ti ricoprono come un velo di boccioli di cotone, riprendo a correre. Non sono preparato a ciò che accade, ancora una volta mi stupisci. Uno schiocco secco e vedo comparire un’Elfa.
Per Iside, Nieve, un Elfo Domestico in mezzo ad una piazzola di sosta: se qualcuno la vedesse, anche solo rallentando, rischieresti che si consumasse un incidente. Ci fissiamo e i suoi occhi nocciola mi scrutano, lasciandomi percepire l’ostilità dietro quel rugoso viso. Capisco cosa sta per succedere e mi trattengo di nuovo a pochi passi, quando avevo quasi colmato la nostra distanza. Le scarpe calpestano il terreno nel brusco arresto, piegano una minuscola margherita sotto la suola.
« Sei una codarda, Nieve Rigos. » Questa volta non mi importa se mi senti o se ancora una volta il rombo delle macchine mi sovrasta. Il mio sguardo sulla tua schiena di Veela si indurisce e serro la mascella quando scompari in un altro, rumoroso schiocco di Smaterializzazione.
Rimango come un coglione a fissare il punto dove eri fino a pochi secondi fa, le braccia lungo i fianchi. Non so quanto tempo passo in quest’immobilità, scandagliando nella mente tutto ciò che è successo finora, cercando di capire come diamine siamo arrivati fin qui.
Capisco che non mi importa della tua promessa di non andare da nessuna parte: so che non la manterrai come io non ho mantenuto le mie.
Ma questo no. Questo no, Rigos, non me lo dovevi fare.
Ti ho mostrato la mia fragilità, ho stretto la tua mano e mi sono aggrappato alla tua voce; ho persino resistito alla tentazione di cancellare dalla tua memoria ciò a cui hai assistito. E tu?
« MERDA. » Ringhio con rabbia mentre l’imprecazione scivola in un grido colmo di frustrazione, facendomi stringere i pugni tanto forte da farmi male. Faccio dietro-front con i denti che stridono per l’ira, dando ostinatamente le spalle al guardrail. La debolezza della Runa, quella da cui mi hai protetto, comincia a farsi sentire e mi avvio debolmente a raccogliere la giacca che devo aver scagliato nel raptus del panico. Nonostante la spossatezza faccia tremare le mie mani, serro le dita sulla pelle scura dell’indumento, percependo tra la stoffa la mia bacchetta.
Lo sapevo, penso in preda alla furia: avrei dovuto Obliviarla, avrei dovuto cancellare ogni minima traccia dalla sua cazzo di testa. Ma mentre mi infilo rabbiosamente la giacca e torno alla moto, una parte di me scandaglia la vera intenzione dietro quel gesto che ho trattenuto: il primo motore di quella decisione è la vergogna. La vergogna di essere diventato preda e non più predatore, di aver permesso a quei ricordi di emergere a galla dal pozzo in cui li avevo confinati; ma anche, e faccio fatica io stesso a crederlo, di essermi giocato l’unica possibilità che avevo per aiutare Nieve. Ho parzialmente fallito e anche se mi piaceva quel gioco del rimpallo di favori, so che in fondo volevo farlo davvero. Volevo davvero aiutarla, nonostante tutto. È ciò che ho fatto anche al Ministero, quando avrei dovuto lasciarla all’Antimago e a quell’idiota del suo Avvomago, quando mi ha tagliato la gamba con così tanta ferocia da arrivare all’osso, quando mi ha costretto ad andare al San Mungo, smuovendo quegli stessi perturbanti ricordi che oggi hanno trovato sfogo.
Volevo davvero aiutarla, al di là dei miei metodi duri ed opinabili.

È quando lo stivale colpisce qualcosa e per poco la schiaccia che per un momento mi dimentico dei miei ragionamenti e mi chino a prendere la bacchetta di Nieve. Ne osservo le venature sul legno, la raffinata impugnatura. Sono tentato di scagliarla lontano fra i cespugli di oleandro che decorano, con scarso successo, questo misero spiazzo di prato nel tentativo di rendere meno squallido il paesaggio dell’autostrada.
Mentre la scruto, però, cambio idea.
Non dovevi farmi questo.
Il pensiero ritorna con prepotenza mentre mi ficco la bacchetta nell’altra tasca della giacca e raggiungo la moto, dove faccio Evanescere il suo casco che ancora poggia sulla sella.

Quando prendo l’uscita per Bath, dopo una corsa in cui ho dato fondo a tutta la potenza della V7, lasciando che il suo rombo e quello del vento mi assordassero, la rabbia è ancora lì, in fondo allo stomaco. Ho cercato di sfogarla con la velocità e credevo, ingenuamente, di esserci riuscito.
Ho deciso di proseguire, di andare a trovare mia madre dove fingere calma è ciò che mi riesce meglio.
E quando finalmente raggiungo le strade a me familiari, volto per un attimo lo sguardo verso i morbidi monti della campagna inglese che mi ha cresciuto.
Mi soffermo e rallento guardando la cima di quello più piccolo: le margherite ne vestono l’intera superficie, tingendo l’intera collina di bianco, come se fosse coperta da uno spesso strato di neve.
Distolgo lo sguardo con rinnovata ira e prendo velocità, lasciandomela alle spalle.

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Edited by Horus Sekhmeth - 17/7/2023, 13:19
 
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