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| tell me again, why do we stay Dio, Horus! Qual è il tuo problema? Perché non riesci ad accettare un no come risposta? Ti guardo con le sopracciglia aggrottate, ma più che ostilità è esasperazione quella provo e da qualche parte sul mio volto dev’essersi dipinta una sua sfumatura leggera. Vorrei gettare il capo all’indietro e grugnire come si fa quando di pazienza non ne hai più e l’io infantile prevale sulla te adulta. Tuttavia, non posso permettermi la libertà di essere me stessa. Non di fronte a te, almeno. Vedresti nella mia reazione l’opportunità per attaccarmi come hai già fatto. Mi copriresti di biasimo, dandomi della bambina viziata. Mi riserveresti lo stesso sguardo duro che non hai mancato di rivolgermi anche adesso. Mi scappa una smorfia sarcastica, mentre ti guardo. Non mi stupisce che tu sia abituato a dominare, ora che ci penso. Mi torna in mente il ballo di Natale e l’immagine sottomessa di Emily Rose al centro del bar che aspetta una tua mossa, immobile. È rimasta lì per te, in una preghiera silente, nella speranza che colmassi la distanza che vi separava. Pur nel tormento, eri tu a condurre i giochi —lei, la marionetta nelle tue mani di puparo. Ma hai ragione, stavolta. Sono stata io a chiederti aiuto per recuperare il controllo sulla magia e, per quanto discutibili siano i tuoi metodi, mi stai offrendo l’occasione di provare. A stupirmi è la tua ostinazione a offrirti come cavia. So che conosci le probabilità di un fallimento e le possibili conseguenze. Hai sentito e visto cos’è accaduto al Ministero. Hai assistito agli exploit che mi vedono protagonista quando le emozioni mi prevaricano. Allora perché mettere la tua vita nelle mie mani e non aspettare di tornare a casa? Potresti rivolgerti a un Medimago, a un amico esperto in incantesimi curativi, a chiunque che non sia io. Perché non farmi iniziare con un cazzo di Flipendo? Inspiro e scuoto il capo, incapace di nascondere la mia contrarietà, ma non proferisco verbo. Sono stanca della tua cocciutaggine, dei tuoi modi di merda. Sono stanca di te. «Vai! Se ci tieni così tanto…» dico, secca, liberando il polso dalla tua presa. Indietreggio di un passo, una maschera impenetrabile sul viso candido. In realtà, vorrei sbottare e dirti che non sai cosa sia la gratitudine; che non ti meriti l’apprensione e la cura che ho dimostrato nei tuoi confronti e che, se dovesse andar male, te lo meriteresti. Fanculo i “non ti lascio solo” da cogliona quale sono! Non imparo mai. Non ho bisogno di ripassare gli incantesimi. Che tu ci creda o meno, sei fortunato perché ho sempre avuto una naturale predisposizione per la magia curativa. Fortunato è forse un parolone, ma tra tutte le alternative che avresti potuto propormi forse questa è la meno peggio. O almeno è quello che mi auguro per non dover convivere con il rimorso di averti sulla coscienza. Stringo la presa sulla bacchetta. È strano, quasi innaturale, tenerla in mano dopo tanto tempo. La osservo con curiosità —un’estensione dell’arto amputata della quale non ho sentito la mancanza. Levo il braccio, incapace di determinare se sarò in grado di evocare il potere che mi rende una strega e di incanalarlo affinché si esprima attraverso il legnetto che tengo tra le dita e non attraverso l’ambiente che mi circonda. Chiudo gli occhi dopo aver rivolto la punta del tiglio argentato in direzione del tuo viso. Non voglio guardare né te né l’esito del mio tentativo. Mundo Vulnus, mi dico, per disinfettare la ferita. Tracciare una X con attenzione sulla pronuncia. Il polso si muove, fluido; la mente pronuncia la formula e raccoglie l’intenzione di eliminare ogni traccia di sporco. Avrei potuto fare lo stesso con te, Roth? Se fossi intervenuta per tempo, avrei potuto lavare via il lordume che infettava il tuo cuore prima che l’infezione si diffondesse e fosse troppo tardi? Il pensiero mi coglie impreparata. Uno spasmo ai muscoli della fronte, la pelle che si arriccia. I battiti aumentano. Medeor Vulneratio per curare le ferite. Apro gli occhi per studiarti. Le lesioni deturpano le linee perfette degli zigomi, della fronte, del naso, perfino il taglio definito della barba. Un cerchio in senso orario, dal basso verso l’alto, il polso morbido. La formula sulle labbra della mente. Sarei stata in grado di curare le tue, Roth? Sarebbe bastato il mio amore per colmare il vuoto da cui si generava la malinconia nei tuoi occhi? Ti avrei fatta ridere, sarei rimasta con te. Avrei abbandonato ogni cosa per rimanere al tuo fianco. Avrei dimenticato chiunque per te. Cambiato vita, identità, personalità. Ma ti ho respinta, sono sparita, ti ho ripagata con l’odio. Cos’ho fatto, cos’ho fatto, cos’ho fatto… Vedo gli sfregi sulla tua pelle guarire, Horus, ma lo sforzo che mi hai chiesto ha un costo perché, come sempre, non valuti i risvolti di un’azione. Tu insisti e basta. Non so se lo fai con tutti o se io sono l’unica privilegiata a subire questo trattamento. Sappi che, oggi, il tuo pretendere giudicante ha innescato un meccanismo che non mi sarei meritata di affrontare. Le piaghe che squarciano la mia anima tornano a sanguinare e una crepitio sinistro mi porta lontano dal prato dissestato ai margini dell’autostrada babbana. Il mio sguardo si perde in un dedalo di colpe fagocitanti. Abbasso il braccio, che si fa pesante. Lascio cadere la bacchetta. N-Non… Scatto in direzione del guardrail. Corro via. Un dolore lancinante al cuoio capelluto è la punizione per i miei misfatti. Cos’ho fatto, cos’ho fatto, cos’ho fatto… Lacrime amare si assiepano sotto le palpebre semichiuse. Mani invisibili scuotono il capo, tirando le ciocche come fossero redini. Alle mie spalle, i capelli crescono —un velo argenteo che sfiora gli steli d’erba e fa presto a trasformarsi nello strascico di una sposa. Scavalco il guardrail, poi mi accartoccio sulle ginocchia. Porto le mani alla testa. Le dita premono come alla ricerca di un tasto che fermi il processo; l’attivazione della matamorfomagia. Ma i pensieri volano e i miei occhi vedono il cadavere freddo di Roth steso nell’ingresso di Villa dei Gigli. Dopo quanto tempo l’hanno trovata? Quanto dev’essersi sentita sola? Cos’ho fatto, cos’ho fatto, cos’ho fatto… Mi scappa un urlo di dolore. I miei capelli sono ovunque. Centinaia di mani giocano a filare —l’antica tecnica della torsione della fune— e io non so fermarli. Vorrei dire loro di smetterla, che il dolore è insopportabile, che hanno abbastanza materiale per tessere tutto ciò che vogliono, che avrei voluto esserci per Roth, che non sapevo, che se potessi tornerei indietro, che vorrei scambiare la mia vita con la sua. Devo andare via. Non voglio che lui veda, che capisca. La mano corre al cimelio della famiglia Morgenstern che ho ereditato con la villa, un ciondolo a forma di giglio che porto sempre al collo. «Tilly, ti prego» supplico, invocando la mia elfa. E lei risponde con la prontezza che le riconosco, venendo in mio soccorso. Non devo parlare perché sa. Mi ha già vista in condizioni peggiori. Mi ha protetta, rimessa in sesto, recuperata. È il mio angelo custode. Si guarda intorno. Ti individua e socchiude i grandi occhi nocciola. Devi essere tu il nemico, decreta, pronta ad attaccarti. «Andiamo via» la imploro. Non voglio restare un minuto di più. Non voglio… Voglio solo che smetta di fare male. Allungo la mano e prendo la sua, così piccola e delicata. Non c’è nessun congedo tra me e te, Horus. Non ne abbiamo bisogno.
Uno schiocco determina la mia uscita di scena. La bacchetta rimane, dimentica, tra i fili d’erba. Quando me ne renderò conto, manderò Tilly a recuperarla. | |
Edited by ~ Nieve Rigos - 16/7/2023, 18:03
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