Ritidoma, Privata

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view post Posted on 15/6/2023, 21:34
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You can take the darkness out of the man, but you can't force him to step into the light.

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Non mi reco spesso nelle cucine, l’odore del cibo dopo un pasto mi dà alla nausea e se rischio di entrare prima di dirigermi in Sala Grande l’unico risultato che ottengo è quello di venir assalita benevolmente da un gruppo coeso e frizzante di Elfi Domestici, che vorrebbero rendermi felice facendomi ingrassare. Quando riesco ad intrufolarmi nei locali dove la magia culinaria si esprime alla massima potenza, però, lo faccio con la più totale e genuina amabilità; non solo apprezzo il loro operato - ovviamente -, ma provo quantomeno a non intralciare il loro lavoro, unica ragion d’essere di queste creature. Se non fosse per il privilegio di poter accedere a quel santuario di operosità - diritto guadagnato col sudore della fronte e qualche morso da un Limone Zannuto - non varcherei la soglia nemmeno per sogno.
Ammetto di essere un tantino ipocrita nel farmi avanti anche questa sera: so bene quante faccende abbiano da sbrigare gli Elfi, quanto fastidio potrei causare e la ragione per la quale li disturbo non è poi molto differente da quella che mi spinge a sorridere cortese ogni volta che rifiuto una leccornia offerta.
Tilly è un’Elfa Domestica che ormai conosce il mio viso e mi accoglie con un sorriso timido e l’aria un po’ trasognata; una volta mi ha confessato, mentre mi consegnava un sacchetto contenente la ragione della mia venuta, che le piaceva il mio profumo: un lievissima fragranza a base di lavanda. Le avevo promesso di portarle una boccetta di quell'estratto, causandole l’istinto naturale a rifiutare con sussiego, ma alla fine ero riuscita a darle quanto stabilito in cambio di ciò che avrei trafugato.
Le mie visite erano abituali: ogni settimana, un giorno sempre diverso dall’altro - per necessità più che per vera pianificazione - uscivo dalla Sala Comune poco distante da lì per dirigermi alle cucine subito dopo aver spedito a dormire i ragazzini del primo anno. Lasciavo a Camille Donovan il compito di monitorare la situazione e mi curavo della scaletta delle ronde, per non privarla del piacere di avventurarsi in compagnia di un altro Prefetto all’emozionante e abituale ronda serale.
Dopo aver placato l’anima degli Elfi Domestici, accettando solo qualche volta il dono di un muffin glassato o di un cioccolatino, mi recavo là dove il mio cuore - o forse il senso di colpa - mi spingevano da quasi un anno.
Attraversavo i corridoi nei sotterranei stringendo la refurtiva al petto, come se proteggessi un inestimabile tesoro, mi avventuravo presto nella Sala d’Ingresso e, poi, all’esterno.

Questa è una sera di inverno, tipica del febbraio scozzese, e non mi premuro di coprirmi maggiormente spalle e collo col mantello. Il freddo mi sembra di averlo dentro, mentre mi attraversa le carni e permea nelle ossa. Non voglio scadere nella boria di chi si creda invincibile - so bene che la pena per un’impudenza come questa sarà un maledetto raffreddore -, ma sento il bisogno di vivere tutto all’estremo, come se questa fosse la mia ultima notte sulla terra. In un certo senso, ogni giorno dopo quanto ho vissuto nei vicoli di Hogsmeade mi ricorda quanto le apparenze possano ingannare e quanto sia prezioso ogni singolo istante. Forse sembrerà stupido capirlo alla mia età, ma prima - prima di Carter - davo per scontate tante, forse troppe, cose. L’aria fredda che respiro mi congela naso e gola, fino a raffreddare i polmoni; il freddo che sento lo paragono a quello del corpo dell’uomo che ho visto morire, mentre si accasciava al suolo come un burattino a cui abbiano tranciato i fili che lo sorreggevano. Avrei voluto provare a captare il battito cardiaco premendo le dita sul polso, ma sapevo ancor prima di pensarlo che sarebbe stato stupido. Dannatamente stupido.
Scuoto il capo mentre mi faccio strada tra l’erba congelata e il rumore sordo dei miei passi sul terreno duro mi accompagna fino a che non varco, solo liminarmente, la soglia della Foresta Proibita.
Tra quei cespugli e quegli abeti altissimi si celano creature misteriose, segreti impronunciabili e la notte più cupa. Mi servo di un incantesimo per vedere al buio, per non inciampare sui sassi nascosti o sulle radici nodose di quegli alberi ultrasecolari. Rompermi l’osso del collo in quel preciso momento non mi entusiasma affatto, quasi quanto l’idea di far ciò che devo e tornare al mio dormitorio, infilare un pigiama di flanella e coricarmi come se non attendessi altro che il mattino.
Procedo in quella zona d’ombra sapendo quanto rischio, nonostante la spilla che indosso sul bavero del mantello. Non sono propriamente di turno, ma potrei facilmente trovare una scusa per esserlo: non sono diventata Caposcuola per questo, ma non trarre beneficio dalla mia posizione sarebbe uno spreco. Inoltre, non ho intenzione di avventurarmi troppo oltre, ma voglio seguire il sentiero che conduce ai recinti che ospitano le creature oggetto di studio nel corso a loro dedicato. Sono già accudite da personale specializzato, ovviamente, ma quelle che cerco io sono più schive e non sempre si lasciano guardare. La magia che li anima non lo consente.
Penso spesso a quella loro stranezza - che per loro, poi, è la norma - e alla possibilità di vivere invisibili, passandoci accanto quando non ce ne accorgiamo. Esistenze che vivono parallele e non si scontrano mai con la nostra, eppure vivono e respirano, si nutrono ed esistono con la stessa inerzia degli uomini.
E’ per questo che ammiro i Thestral. Non si tratta soltanto della loro forma sinistra e al contempo aggraziata, ma apprezzo anche la loro indole introversa, cupa certamente, ma anche schiva al punto tale da essere talvolta inavvicinabili. C’è un piccolo branco che la notte - forse per paura di ciò che si cela nell’intrico più profondo della boscaglia - si riunisce nei pressi del recinto dedicato agli Unicorni. Entro il confine di legno si trovano due esemplari, accovacciati accanto alla mangiatoia e all’abbeveratorio colmo d’acqua fredda; il manto bianco non risplende - la Luna è nella sua fase d’ombra -, ma è opalescente al punto giusto da far spiccare quello nero dei tre esemplari liberi.
Non ho fatto in tempo a constatare se vi siano foglie o rametti che possano tradire la mia presenza che subito tutti e cinque si voltano a guardarmi. Il loro sguardo mi penetra e pare leggermi dentro: probabilmente si stanno chiedendo chi io sia, che cosa voglia da loro e se le mie intenzioni siano benevole. Non vale con loro il sorriso rassicurante rivolto a Tilly meno di mezz’ora fa: li sento annusare l’aria, sospirare quasi e tornare alle loro faccende, raspando il terreno con le zampe ossute.
Mi aggiro lontana da loro, poso il mio fagotto a terra e ne estraggo degli involti intrisi di macchie: il sangue della carne si è rappreso sulla trama del tessuto e l’odore che emana è tremendo. Mentre dispongo i miei doni tra gli steli d’erba alta, schiacciandoli, mi copro il viso con la manica e nascondo parte del volto nell’incavo tra gomito e avambraccio. Tre passi indietro - o forse sei - mi liberano di quella protezione e mi accingo a issarmi sulla staccionata, per osservarli tutti, uno ad uno, mentre combattono l’istinto di preservazione verso un elemento esterno ed ignoto e si lasciano cadere alla tentazione della carne. Solo quando il più coraggioso dei Thestral annusa e muove col muso un pezzo di carne mi concedo il lusso di coprirmi meglio. L’unico dettaglio che possa tradire la mia identità sono i capelli che, nonostante l’oscurità, mantengono la vivacità del loro colore e la spilla al bavero, che non nascondo.
E’ così che la pace mi sorprende, calando su di me come una carezza, e ascolto in silenzio i versi compiaciuti di quelle Creature così affini a me, così significative, da non rendermi conto che - in quell’angolo di mondo - né io né quelle Creature siamo davvero sole. E’ con la coda dell’occhio che scorgo una figura farsi strada piano piano, incerta giustamente su chi sia presente in quel luogo. E, come una bolla di sapone troppo grande, la mia pace esplode e si tramuta in niente. Il groppo alla gola mi serra le vie respiratorie al punto che temo di soffocare, ma so che non succederà. So che chi mi sta di fronte - a debita distanza - sta provando le stesse emozioni che provo io.


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view post Posted on 24/6/2023, 13:28
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Nieve Rigos | 18 yo | Mourning

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Alberi. Una distesa infinita di alberi si svolta davanti ai miei occhi. Nella fitta oscurità della Foresta Proibita, ogni cosa assume volume e ampiezza. Se anche la boscaglia fosse l’orticello di una nonnetta, lo vedrei grande come il ventre di un mostro famelico per la magia di cui sembrano imbevute le pareti invisibili della sua sacralità.
Non ho certezza di quanto tempo abbia passato camminando tra i suoi sentieri intricati. Non sono nemmeno sicura che siano sentieri, che non li abbia inventati pur di mettere distanza tra me e le ombre che mi inseguono la notte, trasformando i miei sogni in attimi di orrore. Desidero soltanto che la sensazione di pesantezza dell’ultimo incubo scivoli via.
Il ricordo del sudore freddo sulla pelle del collo e su quella tiepida delle fronte si abbatte come un maroso sui resti di me. La sottile peluria alla base della nuca reagisce al gelo di febbraio, mentre sotto la suola delle scarpe scricchiolano i cristalli di neve.
Ho sognato di uccidere Astaroth a mani nude. Di chinarmi su di lei e stringerle le mani al collo, forte e a lungo. L’ho sentita spasimare sotto di me, inarcarsi a mano a mano che i respiri divenivano rantoli e le labbra si tingevano di un blu delicato. Ricordo i suoi occhi liquidi guardarmi con la malinconia di sempre, ora bagnati dalle lacrime della morte imminente —forse della paura?, non posso fare a meno di domandarmi. Non ho smesso neppure quando i sussulti si sono fatti più violenti e distanziati per avvisarmi quanto vicine fossimo alla fine. Troppo arrabbiata per provare una sola stilla di pietà.
Avvolgo le braccia attorno al busto e mi fermo, il capo chino e gli occhi fissi sulla neve. Sospiro. Una nuvola di vapore bacia la mia bocca, prima di lasciarmi come un amante frettoloso pronto a tornare dalla moglie. Non sto bene. Il pensiero di ciò che ho fatto, nella vita più che nel sogno, mi perseguita. Se non l’avessi abbandonata, se non le avessi detto che l’odiavo, se le fossi rimasta accanto, se se se… Serro le palpebre così forte che il buio sembra inghiottirmi e batto ripetutamente il piede destro sui cristalli per rabbia, frustrazione, strazio.
Apro gli occhi e mi guardo intorno alla ricerca di qualcosa che non troverò mai perché non esiste —una leva per riavvolgere il nastro del tempo.
“Più oscurità” chiede una voce dentro di me. “Andiamo dove c’è più oscurità” insiste e indica la zona dove l’intrico degli alberi cela segreti che, una volta conosciuti, non ammettono ritorno.
Mi concedo un attimo di riposo contro la corteccia di un albero, il respiro corto. Un peso si deposita sul petto, rendendomi impossibile inspirare con naturalezza. Un’angoscia vile gioca a rincorrersi tra le coste, poi inizia a calciare il cuore così forte da lasciarmi senza fiato. Porto la mano al petto, certa che qualcosa stia cedendo al mio interno e che nessuno riuscirà a trovare il mio corpo se non i predatori che vorranno saziare la loro fame sulla poca carne che ricopre le mie ossa. Ondate di calore risalgono su fino al volto. La terra sembra scivolare via sotto i miei piedi. Guardo in alto verso il cielo, sperando di trovare conforto nell’immensità del suo velluto, ma mi aspettano soltanto le fronde della foresta
a chiudere ogni possibilità di fuga.

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Non mi rendo conto di avere un attacco di panico. Non riesco a pensare, non con il cuore che batte nelle orecchie e l’ossigeno che circola a malapena dai polmoni al cervello. Così, illogicamente, comincio a correre alla ricerca di sollievo —o di salvezza, magari. Non compio che pochi metri prima di fermarmi.
Mi stringo a un albero, disperata. Non capisco cosa stia succedendo. D’un tratto, il pensiero che la morte sia venuta a prendermi e che il sogno fosse una premonizione della mia sorte mi paralizza. Serro così forte la presa attorno alla circonferenza dell’arbusto che la pelle delle mani comincia a sentire la pressione di ogni scanalatura del legno.
Do un colpo alla corteccia con la fronte nell’unica soluzione che conosca per placare il caos mentale ed emotivo; per costringermi a non riflettere sulla possibilità che tutto questo stia accadendo davvero. E continuo perché un accenno di attenuazione è quel che basta per consacrare le mie scelte. Ad ogni percossa perdo lucidità, ma sfuma anche il terrore. Una sensazione di calore scivola piano sul mio viso, percorrendo il profilo del naso, poi le labbra, infine il mento. Quando mi fermo —carne contro ritidoma—, sto respirando affannosamente eppure… respiro.
Sono ancora viva.
Mi allontano a passi incerti dall’amico silenzioso che ha accolto il mio abbraccio senza chiedere spiegazioni, senza esprimere giudizi. Oscillo pericolosamente per un paio di metri finché non recupero una parziale lucidità. È allora che oltrepasso l’ultima fila di alberi e raggiungo quasi inconsapevolmente la radura dove sono custoditi gli esemplari di creature magiche affidati alla cura di Hogwarts.
La notte è gentile qui, dove gli alberi non disegnano strani volti con i loro rami e la nebbia non addensa l’aria, insinuandosi tra i pensieri. Su nel cielo, come tante lucciole vestite a festa, le stelle guidano i viaggiatori.
Io non mi avvicino mai a quest’area della foresta, non soltanto per evitare di essere scoperta ma soprattutto perché l’idea della cattività mi repelle.
Istintivamente raggiungo il recinto dei Thestral, piano, lontana dal desiderio di toccarli per conoscerne la natura. Comprendo la loro diffidenza, nata dalla coscienza di una diversità capace di generare odio. Il mio passato è costellato di ricordi di violenza venuti da gesti di gentilezza simulata al solo scopo di farmi avvicinare. Inclino le labbra in una smorfia carica di disgusto e furia.
È la vista di un cucciolo di Thestral a scacciare via i fantasmi che amareggiano la mia anima in un modo che mi era estraneo fino a questo momento. Sorrido per la prima volta stasera. Il ricordo della notte che ho avvicinato uno di loro solletica le corde tese della mia memoria e realizzo che, non fosse stato per lui, probabilmente non sarei qui.

È per puro caso che mi guardo intorno e la vedo.
Non lei. Non qui., tuona una voce dentro di me, ma è così distante che fatico a comprendere i suoi perché.

Sobbalzo quando la lingua di un Thestral adulto mi sfiora la fronte per leccare via il sangue. Lo vedo fare lo stesso e allontanarsi, spaventato. Sfioro un punto appena sopra le sopracciglia prima di guardare i polpastrelli.
Oh!, esclamo con la voce di un infante alla vista della macchia rutilante che imbratta la pelle delle dita. Capisco…
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Edited by ~ Nieve Rigos - 24/6/2023, 18:26
 
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view post Posted on 1/7/2023, 17:10
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Non riesco a muovermi, eppure abbarbicata come sono a questa staccionata solida sarebbe semplice allungare le gambe, darmi una spinta con le braccia e tornare a toccare la terra fredda d’inverno. Il mio respiro condensato è l’unica prova che sono viva e sto assistendo ad un incontro al quale non sono pronta.
Ci siamo viste, ignorate - ci abbiamo provato e, forse, solo lei è riuscita a far finta di nulla - e siamo passate all’impegno successivo. Ho tentato di tutto per non darmi spazio e tempo di sperare in un secondo incontro, visto che il primo e il solo dopo il suo ritorno si era rivelato tanto diverso da come me lo ero immaginato. Con Nieve non puoi mai essere pronto a che cosa succederà, a che cosa dirà quella sua boccaccia impertinente o che cosa spieranno quegli occhi che, un tempo, erano vivi di un colore smeraldino tempestato d’oro. Men che meno so che cosa aspettarmi adesso che è così evidentemente cambiata. Ora più che mai sono sicura di non sapere chi sia l’anima dentro quel corpo a cui ho voluto un bene estremo, quasi innaturale per essere estraneo al mio sangue.
Vorrei dire qualcosa comunque, farle capire che sono ancora qui se lo vuole, che non deve andare via per forza. Questa volta potrebbe restare. I Thestral sembrano averla accettata, dopo un primo momento di paura, e questo mi dice molto più di quanto vorrei sapere.

Stringo le mani sull’asse che sostiene il mio peso e, sfiorandone la superficie, subito mi ritraggo di scatto al primo sintomo di fastidio e dolore: una smorfia mi deforma l’espressione in viso, quindi distolgo lo sguardo da lei soltanto per un momento, mentre mi rendo conto della scheggia conficcata nell’indice della mia mano. E’ un dolore pulsante, lieve e costante, che mi riapre una ferita vecchia, ma non così tanto come vorrei. Le grida di quel giorno d’estate mi tormentano e mi tormenta anche il fatto che io sia qui con lei, ma mi senta terribilmente sola.
Il frammento di legno è lungo almeno mezzo centimetro, quindi forse potrei estrarlo senza spezzarlo; improvvisamente il mio cervello si concentra sul problema più impellente, dando spazio all’istinto naturale di sopravvivenza. L'infezione che potrebbe generarsi da questa lesione non è così grave, ma non mi servono altra sporcizia e marciume con cui fare i conti. Cerco di afferrare il corpo estraneo con la punta delle dita, ma la parte esposta all’aria è fragile e si piega tra i miei polpastrelli.

Ho affrontato cose peggiori di questa e non riesco a disfarmi di una scheggia.
Questo pensiero mi tormenta, mi fa inviperire perfino. Non saper affrontare qualsiasi cosa è il mio incubo peggiore, eppure sarebbe la cosa più normale; nonostante questo, dalla mia attenzione scompaiono i Thestral e gli Unicorni alle mie spalle, il fruscio del vento freddo e la sensazione d’essere osservata. Decido di scendere dal mio trespolo, di esporre le dita al riverbero naturale della neve; poi mi viene un’idea e sebbene non sia proprio sicura di quel che sto facendo, uso la neve per anestetizzare quel briciolo di dolore che accompagna i miei gesti. Accucciata come solo ai piedi del recinto, mi concedo il lusso di guardare nuovamente nella sua direzione e la vedo meglio di quanto non avessi potuto fare prima. Lo sguardo inebetito e la fronte screziata di sangue rappreso: so che è sangue non certo per merito della mia vista, quanto più per il comportamento del Thestral che ora le sta di fronte. L’istinto mi spingerebbe a chiederle che cosa sia accaduto, ma l’orgoglio me lo impedisce. Sono delusa per come sono andate le cose, per le sue risposte e le mie accuse, per le sue colpe e perfino per le mie; sono anche arrabbiata, però, perché pensavo di non dover più fingere con nessuno di essere chi non sono davvero. Con lei la percentuale di verità aveva azzerato quella della menzogna e pensavo ne valesse la pena. Il nostro ultimo incontro mi aveva dimostrato il contrario.
La sensazione di bruciore sulla pelle mi costringe ancora una volta a distogliere sguardo e pensieri da lei; mentre ritraggo la mano e osservo il polpastrello umido, mi accorgo che quella semplice mossa ha risolto i miei problemi: la scheggia è sparita, scivolata dal suo appiglio con uno stratagemma del tutto improvvisato. Gli angoli delle labbra si curvano verso l’alto in un sorrisetto soddisfatto, ma dentro di me so che questo significa che non ho più scuse adesso.
Dovrei affrontarla o fingere che le sue ultime parole abbiano un senso? Come faccio a lasciarla andare?
La guardo e la vedo più fragile che mai, incapace di rendersi conto di quanto sarebbe importante, invece, concedersi un’opportunità per sistemare le cose. Posso aver detto delle assurdità, dato fiato a parole talmente stupide da cozzare col buon senso e la maturità che la mia età dovrebbe garantirmi, e invece… restiamo così. Separate di giorno e di notte, all’ombra di alberi secolari, sotto lo sguardo vigile di creature straordinarie.
Non so che cosa dirle e non sono sicura che lei voglia sentirmi parlare. Non so se le manco come lei manca a me, ma so che la sua assenza mi brucia ancora dentro; so che la colazione in Sala Grande non è più la stessa, perché lei non rinnega più il suo tavolo per sedersi al mio; so che è tutto cambiato perché lei ha lasciato che andasse così. E adesso, per tante ragioni, vedo la morte con occhi diversi e so, lo percepisco nel gelo che sento penetrarmi le ossa, che sto guardando il fantasma in carne ed ossa di chi non c’è più. Mi illudo che lei sia ancora lì da qualche parte, ma non ho dimenticato quello che mi ha detto: non esiste più e devo farmene una ragione.

Raccolgo i miei stracci inzaccherati con tutta l’intenzione di andarmene, ma il cucciolo di Thestral ci ha infilato il muso alla ricerca di altro cibo che però non c’è. Mi strappa un sorriso e, mentre mi avvicino con cautela, allungo la mano per fargli sentire il mio odore; non ho cattive intenzioni e il suo respiro caldo sul palmo della mano mi induce a credere che lui o lei lo sappia. Sono trascorse settimane dalla mia prima visita, ma questo cucciolo è venuto al mondo da troppo poco per sapere chi io sia e perché venga qui a cercare silenzio. Cerco di darmi pace per quanto ho visto in quel vicolo, ma non riesco a farlo fino in fondo. Così mi limito a sperare che il tempo lenisca questa e altre ferite, sperando che il conforto prima o poi si palesi dinanzi a me come un miraggio destinato - contro ogni logica - a materializzarsi.

Quando le mie dita alla fine sfiorano il manto liscio della creatura, so che lei mi sta guardando e so, lo sento, che deve aver capito di non essere l'unica persona al mondo ad aver visto cambiare le cose dinanzi ai propri occhi all'improvviso. Mi illudo che succeda qualcosa adesso, ma sono pronta a congedarmi se ciò non dovesse avvenire. In fondo, partenze e ritorni sono all'ordine del giorno e che sia oggi o domani non ha importanza: mi interessa soltanto sapere se lei avrà il coraggio di farsi avanti. Prima o poi.


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view post Posted on 10/7/2023, 14:44
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Nieve Rigos | 18 yo | Mourning

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Poco alla volta, recupero coscienza. È il freddo implacabile della sera con il suo silenzio a riabilitarmi. Ma non di certo ai tuoi occhi.
È difficile guardarti e non pensare a quello che siamo diventate —un dipinto soffocato dalle muffe ormai irrecuperabile. Potrei dire che ti ho dimenticata, che i mesi trascorsi dal mio ritorno abbiano consolidato un’abitudine alla tua assenza. Eppure lo sanno anche i bambini che delle persone care non ci si dimentica. Un orfano vorrà sempre conoscere la madre che l’ha abbandonato; un orfano che non sia io, che di madre ne ho avuto solo una e non mi ha lasciata per sua volontà.
Guardo la radura. Ho ricordi nitidi legati a questo posto. Hanno il sapore del vino elfico e della bocca famelica di Lucien Cravenmore, la potenza delle ali di un Thestral —il mio. È un altro dei segreti che Hogwarts serberà per me, un’altra delle regole che ho spudoratamente infranto in spregio al rigore accademico, alla spilla che un tempo ho vestito, alla studentessa laboriosa che ho finto di essere.
Poi guardo te e un ennesimo arcano si disvela ai miei occhi chiari: adesso li vedi anche tu. Passano vite tra l’istante in cui realizzo cos’ho scorto e la decisione che ne consegue. Vite vissute, vite a me estranee, vite di colori densi come il fango nelle paludi. E io le osservo senza riuscire a placare il flusso, assimilando il messaggio dietro i pittogrammi e le diapositive.
Hai visto la Morte.

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Muovo un passo nella tua direzione, presto colta da una vertigine. Avrei dovuto essere più clemente con me stessa e guardare al freddo della neve per placare il mio malessere, non alla corteccia di un albero con i suoi intagli.
Continuo ad avanzare, imperterrita. Allargo le braccia quando è la sola spiaggia che mi rimanga per non perdere l’equilibrio —la neve, dal canto suo, non mi aiuta nel proposito di restare salda sulle gambe—, gli occhi puntati sull’obiettivo.
Non sto riflettendo e, in effetti, verrebbe da chiedersi se io lo faccia mai. Non so cosa dirò, se parlerò, se sarò dura come a settembre. La sola cosa di cui io abbia la certezza è che non sono capace di indifferenza, non con te e non di fronte a questo.
Poso lo sguardo sul cucciolo. Ha arretrato non appena ha ritenuto che fossi troppo vicina. Ho rovinato il vostro momento? Avresti preferito che stessi indietro, tenendo fede alla mia ultima parola? Potresti rinfacciarmelo e io non ti biasimerei. Ma il piccolo ritorna. Io, del resto, sono rimasta a distanza di sicurezza per non allarmare lui. Per non allarmare te.
«Sono belli, non è vero?»
Respiro. Il freddo mi dà solidità. Mi ricorda da dove provengo. Se gli odori non fossero troppo familiari e profondamente legati all’esperienza scolastica, potrei immaginare di essere tornata in Islanda. Un’altra vacanza insieme, lontano da tutto, là dove puoi sentire una goccia d’acqua farsi ghiaccio.
Verresti con me? Anzi, saresti venuta? È doloroso conoscere la risposta e sapere di aver rovinato —di essere costretta a farlo— ogni cosa.
«Mi dispiace.»
La mia voce è tenue, trasportata dal vento tagliente sotto le sembianze di nuvola. Il calore delle mie labbra le ha dato vita e il contrasto con il freddo forma. Due parole a cavallo dell’aria per raggiungerti al di là del pavimento di neve.

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La sento muovere i primi passi, grazie allo scricchiolio che origina dai suoi affondi nella neve. Dapprima non capisco se si stia avvicinando o solo tentando di circumnavigare lo spazio che mi circonda per tornare alla scuola e al riposo che non farà visita a nessuna di noi.
Mi aspetto che se ne vada sfiorandomi come il fantasma che è diventata in questi mesi, quando perfino gli scontri aerei del Crownspoon ci hanno costrette a sfidarci in un elemento che, almeno per quanto mi riguarda, non ci mostra affinità. Ricordo di aver pensato molto a quella partita, prima che la mia squadra escludesse la sua dalla finale, e rimembro abbastanza bene il modo in cui non ci siamo guardate dopo che ho stretto il Boccino tra le dita. Mi sono chiesta che cosa abbia provato lei, perché volevo sapere - in minima parte - se anche lei aveva pensato per un attimo a quello che stavo pensando io. Al netto della baldoria lecita, mi sarebbe piaciuto rivedere con lei ogni manovra, commentare le mie scelte azzardate o le sue. Sapevo allora, come lo so adesso, che quello e molti altri momenti non esisteranno più. E allora mi chiudo in me stessa ancor di più, perché mi chiedo che cosa abbia sbagliato questa volta e perché debba essere così difficile restare nell'orbita di qualcuno senza inventare inutili menzogne o servirsi di sciocche omissioni. Mi domando se sia io il problema, il modo in cui mi hanno cresciuta, la responsabilità che sento addosso come una seconda pelle e la convinzione idiota di sapere sempre che cosa fare e come farlo. Pensavo, all'inizio dell'anno, che lei sarebbe tornata e mi avrebbe raccontato ogni cosa e la delusione era stata grande, certo, ma non enorme. Sapevo a settembre e lo so adesso, dopo cinque mesi, che lei è ancora lì da qualche parte e che questo incontro, molto più di altri, le farà capire che non è l'unica ad aver subito qualcosa che la mente razionale non può processare come dovrebbe. Non siamo perfette, né io né lei, eppure mi aspetto delle scuse per quel modo di agire e parlare, come se fosse lei a dover decidere di me. Di noi.

La neve non scricchiola più sotto i suoi piedi e allora sollevo il capo, ma lo sguardo rimane sul cucciolo che si è ritratto per paura. Vorrei dirle qualcosa, ma non ci riesco. Le parole si sono impigliate tra le corde vocali e temo che accennare un suono possa distorcere la quiete che si è creata in quel margine di mondo.
Fletto le dita con delicatezza, affinché il piccino torni a me, e quello per tutta risposta emette un verso che non riesco a decifrare, ma che forse dopotutto mostra soltanto diffidenza. Lascio che il dorso della mia mano sfiori la neve, il freddo penetra fin nelle ossa e anestetizza l'epidermide bagnandola. Quando odo la sua voce, alla fine, il respiro si blocca così come hanno fatto le parole e deglutisco a fatica per la commozione che provo. Una parte di me vorrebbe aggredirla per l'impressione di essere presa in giro a quel modo: dopo mesi di silenzi e sguardi disinteressati è così che scegli di approcciarmi? Non sarà un commento del genere a scalfire il mio orgoglio, ma diamine… come vorrei che tutto tornasse come un tempo! Tu ed io a commentare il mondo che ci circonda, a fingere di saperne sempre una più degli altri finendo per sorprenderci di quanto siamo sciocche.
Mi manchi e non so come dirtelo.

«Vero.» due sillabe che riescono a eludere il mio scarso autocontrollo. Le emozioni più disparate mi stanno sopraffacendo e non so come dar loro voce affinché l'alluvione di sentimenti che sto provando si arresti. Vorrei dirti che non sono arrabbiata, ma lo sono; vorrei farti sapere che mi manchi, ma l'orgoglio me lo impedisce; vorrei renderti partecipe di quanto mi senta stupida, ma so che lo sai e qualcosa mi dice che è la stessa cosa che senti tu. E tutto questo mi porta a voler gridare, a maledire il giorno in cui non sono venuta a cercarti a Londra, chiedendo e pretendendo di entrare in casa dei tuoi genitori per vederti. Vorrei non aver bruciato le lettere che ti ho scritto e Grimilde ha restituito per farti sapere come mi sono sentita a perderti giorno dopo giorno senza sapere perché. E credimi, se ti rendessi conto di quanto sciocca sembri tu a voler fare conversazione spicciola in questo modo, una parte di te - quella che rispetto ancora - si odierebbe.
Poi, dopo un silenzio strano e innaturale, ti sento dire le parole che ho desiderato udire per tanti mesi e mi chiedo se tu dia loro il significato che vorrei gli dessi e io gli sto attribuendo.
Ti dispiace, Nieve? Di che cosa? Di essere stata una stronza egoista? Di aver calpestato la nostra amicizia e aver cercato di ammazzarti nei modi più disparati senza darmi spiegazioni? Di che cosa ti dispiace, esattamente?
Guardo il cucciolo con intensità e questo si ritrae, correndo dalla madre - o dal padre, non riesco a stabilirlo da qui - ed è allora che ti guardo; quando la mia attenzione non può rivolgersi altrove forse capisco che cosa vuoi dire.
Ti dispiace che io veda quello che vedi tu.
In qualche modo riesco a leggerti dentro come facevo un tempo, ma non sono sicura di quello che vedo in superficie. Andare in profondità come sai potrei fare non mi interessa. Ti rispetto ancora troppo per farti questo torto.
«Anche a me, credimi.»
Fingo di stare al tuo gioco e di riferirmi alla Morte che ha bussato alla mia porta, ma le mie parole celano altri significati. Vorrei che avessimo entrambe il coraggio che serve per spazzare via il passato, ma - forse - nessuna di noi ha questa forza.


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Ci sono cose che non dico, spiegazioni che non do e che forse meriteresti. Il mio dispiacere è come un regalo di compleanno senza biglietto d’auguri o come un mazzo di fiori che il mittente decida di non firmare. Rimane qui, sospeso tra di noi e nel silenzio mistico della foresta, portando con sé tutti e nessuno dei significati che vorremmo dargli.
Di cosa dovrei scusarmi? Di essere scomparsa e di non averti resa partecipe della mia vita negli ultimi due anni, penserai. Se ti conosco bene come un tempo, so che desidereresti sentirmi dire che ho sbagliato a escluderti senza darti la possibilità di scegliere. Chiamami egoista, Thalia, ma non mi pento di quel che ho fatto perché trascinarti con me nel delirio che è stata la mia esistenza avrebbe consumato anche te, che non avresti saputo trattenere il bisogno di prenderti cura di me.
O, forse, dovrei scusarmi di aver sofferto così tanto per la morte di Astaroth al punto da mettere in discussione il senso della mia stessa vita? Non posso darti neanche questo, né te lo darò mai. Ho amato Astaroth in un modo che le parole non hanno l’abilità di descrivere e la devastazione che la sua assenza ha lasciato dentro di me non è destinata alla comprensione. Mi sarei aspettata di sbagliarmi, tuttavia, almeno con la mia migliore amica —proprio tu, che mi hai trovata in una pozza di lacrime nell’Ufficio Vuoto quando era stato solo un litigio a separarmi da lei, cosa ti aspettavi che accadesse con la sua morte?—, ma mi sono illusa. E in questo caso dovresti essere tu a fare un passo indietro.
Ciò che mi dispiace davvero è non essere stata presente tutte le volte che hai avuto bisogno di me; sapere che la mia mancanza, oltre ad averti protetta, dev’essere stata anche un peso. Non conosco la ragione che ti permette ora di vedere i Thestral, ma avrei voluto starti accanto, stringerti e dirti che avremmo risolto tutto insieme; che non ti avrei lasciata sola a trasportare quel peso. E sarei stata lì ad ogni angolo, alla fine di ogni lezione, in Sala Grande, in giardino, dovunque fino al punto da farmi odiare e costringerti a cacciarmi via. In realtà, so che non sarebbe successo perché, oltre il caos che mi scolpisce, raramente conosco l’invadenza; ma mi fa sorridere l’idea che avrei potuto esasperarti.

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«Come stai?» dico, lasciando cadere le implicazioni del nostro dispiacere giacché temo le conseguenze di esplorare quel terreno.
Te l’hanno chiesto? Qualcuno sa cosa ti è accaduto, qualcuno che ti ama? Si prendono cura di te, vedendo oltre la maschera di indipendenza che sei bravissima a sfoggiare da prima che ci conoscessimo?
So di non essere la persona più qualificata per fare questa domanda, che non mi devi nulla e men che meno un racconto sugli eventi che ti hanno portato davanti a un cucciolo di Thestral. In realtà, non mi devi neppure una risposta sul tuo stato emotivo e psicologico. Non riuscirei ad andare avanti senza avertelo chiesto, però, e lo sai. O, magari, non sei più sicura di conoscermi e ti sorprende che io non sia fuggita via dopo averti vista.
Una parte di me avrebbe voluto, lo confesso, la stessa che porta ancora il ricordo delle mie mani strette al collo di Astaroth. Non voglio diventare per te ciò sono stata per lei e Ỳma, che è poi la ragione per cui mi costringo a una solitudine insopportabile. Un’altra, la stessa che ricorda ancora cosa significhi amare (amare te), non può farlo. Non può lasciarti indietro come si fa con un calzino bucato che non si voglia più rammendare.

Apro la bocca per dire qualcos’altro, poi mi fermo.
Non è tempo. Non è modo.
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Vorrei che fossi più sincera con me, Nieve. Vorrei credere che la domanda che mi poni sia davvero mossa da un interesse ben lontano dalla circostanza. Forse, pensavi che la Morte fosse un nemico destinato a fronteggiare solo te. La verità è che non esiste solo la dipartita fisica di una persona, ma anche quella spirituale e tu ed io ne siamo la prova vivente.
Che ossimoro! Essere capaci entrambe di muoverci nello spazio e nel presente pur avendo smesso di esistere così come sapevamo fare! Tu ed io ne abbiamo viste troppe - insieme o separate che fossimo - per prenderci in giro in questa maniera ed è questa consapevolezza che mi spinge ad affrontarti alla pari e non più china nella neve gelida.
Ho perso la sensibilità di una mano a contatto con essa, ma questo non mi impedisce di percepire chiaramente lo sconforto che spegne ogni mia intenzione. A che scopo dirti come mi sento? Non capiresti - forse non vorresti farlo - e se anche comprendessi le ragioni del mio essere ad oggi, comunque non potrei dirti nulla di più di quanto tu possa aver letto su un giornale o udito tra i corridoi del castello. Non sei capace, non più, di essere la mia metà ed il mio sostegno morale. Nemmeno Mike potrebbe e con lui parlo ogni singolo giorno!

Come sto, davvero te lo chiedi?
Ti guardo negli occhi vitrei e mi chiedo ancora che cosa sia accaduto per ridurti così, ma la verità è che per quanto voglia saperlo tu non vorrai raccontarmelo. E qui finisce ogni proposito e ogni buon senso, perché a certe domande - semplicemente - non si può rispondere.
Il silenzio che ci avvolge ci isola dai rumori di sottofondo di una natura che - per quanto sembri immobile - in realtà incede nel suo ciclo vitale; siamo sospese lì, nella staticità di corpo e voce, e ti starai chiedendo perché non parlo e non esprimo ciò che sento. Te lo meriti, almeno in parte, di languire come ho fatto io per mesi e mesi. Quanto uccide il silenzio, Nieve? E quanto ferisce questo mio sguardo vuoto, che ti esamina, ma è un po’ come se non ti vedesse veramente? Vorrei riderti in faccia, ma non ci riesco. Eppure te lo sei guadagnata.
«Sola.»
Ti sputo in faccia la verità, alla fine, perché almeno una di noi ha vinto il premio per la sincerità assoluta. E sì, sono ancora in grado di fingere che tutto vada splendidamente anche senza che tu te ne accorga o sappia che sto mentendo, perfino a me stessa. Sono stanca, Nieve, di essere spettatore inerme del presente che scorre a rallentatore davanti ai miei occhi e sapere che, mentre tutti vanno avanti, io rimango indietro. Persino tu hai trovato un modo - discutibilissimo - di proseguire con la tua vita. Solo io non ci riesco.
Capisco, mentre il significato dell’unica parola che pronuncio ti sfiora, ti brucia e penetra nella tua persona, che stai cercando un modo per fuggire. Forse non sai nemmeno tu di voler scappare da questo, da me, ma lo so io. Io che nonostante tutto continuo a sapere chi sei sotto la superficie che vuoi mostrare. In un certo senso non vedo l’ora che, come un serpente, muti la pelle e cambi aspetto ancora e ancora. Tu sei capace di farlo, ma io no. Non riesco a nascondermi quanto vorrei prenderti a schiaffi e, allo stesso tempo, abbracciarti con forza. Sei capace di suscitare in me emozioni distanti tra loro, ma egualmente forti. L’hai sempre fatto e continuerai su questa strada.

Ti lascio un po’ di intimità, volgendo lo sguardo ai Thestral davanti a noi, affinché tu possa digerire la notizia che ti ho dato come solo tu sai fare: so che sei informata della mia vita e ti sembrerà impossibile che io affermi con schiettezza e amarezza insieme questa verità sconcertante. Mike non ti è mai piaciuto veramente, me lo dicesti tra le righe - e nemmeno troppo, a dire il vero - durante il nostro ultimo viaggio insieme a Londra, sull’Hogwarts Express, dunque ti sorprenderà che io sia tornata da lui (o lui da me, non fa differenza, in realtà). E non ti stupirà nemmeno sapere che ho continuato a portare avanti i miei numerosi impegni. Ti chiederai allora come faccia a sentirmi sola quando sono circondata da persone e battaglie diverse ogni giorno; la risposta non posso fornirtela e tu non puoi cercarla.
Quindi, perché stiamo parlando di questo?
Porgimi le domande che vuoi farmi, ne vedevo una a fior di labbra proprio poco fa, e abbi coraggio per una volta in vita tua di affrontare quello che pensi di non sapere come gestire. Una volta sapevi come prendermi, puoi farlo ancora.
Hai una possibilità, proprio qui ed ora, quindi coglila senza preoccuparti di che cosa succederà dopo.
Né tu né io sappiamo che cosa ci riserva il futuro, quindi se vuoi sbilanciarti fallo adesso che nessuno - a parte me - può vederti davvero per ciò che sei, qualunque cosa tu sia adesso e che sarai tra un istante. Quando ti ho conosciuta ho scelto di accettare la tua personalità e il tuo passato - le poche briciole che hai lasciato per me, in verità - e non ti ho mai nascosto nulla (o quasi) di me. La differenza tra i miei segreti e i tuoi, Nieve, è che sei io parlassi di quello che mi è successo davvero un incantesimo mi sfigurerebbe il volto; i tuoi segreti, invece, diventerebbero i miei e basta. E’ sempre stato così. Vorrei soltanto potertelo dire con chiarezza, ma non posso. L’unico diritto che hai, ora, è quello di cercare di capire e di pormi delle domande. La scelta sulla risposta spetta solo a me.


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Hai caricato il colpo, dopo avermi privato del costato, e l’hai assestato ai danni del mio cuore nudo, indifeso. Vorrei credere che non ci fosse premeditazione, ma mentirei a me stessa e stasera ho deciso di evitare. Posso sviare, sterzare, saltare a piè pari e omettere, ma imbottirmi di bugie non avrebbe senso. Non l’ho fatto nemmeno a Settembre quando il nostro incontro si è trasformato nell’eventualità peggiore che potessi mai preventivare. Il risultato l’ho raggiunto, certo, ma il come mi ha trafitta.
Sospiro —la versione socialmente accettabile di un mugugno. Non che con te serva dissimulare. Sono sicura che capiresti anche questa versione di me, pur avendo mancato di rispetto al mio dolore. Mi domando se tu te ne sia resa conto, presa com’eri dalla necessità di far valere le tue ragioni; se nei giorni o nei mesi a seguire hai pensato a cos’abbia significato per me rivelarti della morte di Astaroth e trovare un muro di rabbia ad accogliermi. Avrei ceduto —avrei mandato al diavolo tutti i miei propositi di isolamento— se tu fossi stata lì per me. Perché tu sei tu. Noi siamo noi. O, meglio, lo eravamo.
«Sola?» ti faccio eco con una domanda, nascondendo lo scetticismo dietro l’impassibilità.
Sola, penso mentre con la mente ripercorro le volte in cui ti ho vista insieme ad altri: Mike il giorno del ballo di Natale, Camille più o meno sempre tra i corridoi, i tuoi compagni di squadra nel periodo del quidditch. Sei sempre circondata da persone che ti stimano, che ti vogliono bene, che ti amano. Mi rifiuto di credere che non provi nulla per loro perché, se è vero che tu conosci me, lo è anche il contrario.
Allora mi domando di quale solitudine parli, a quale emozione fai appello. È un’accusa nei miei confronti? Ti riferisci al vuoto che ho lasciato io e che ancora mi ostino a non colmare? Dimmelo. Dimmelo e basta. Non lasciare che le implicazioni fluttuino nel vuoto. Oppure…

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Ti guardo. Ti guardo e schiudo la bocca, inspirando l’aria senza lo scopo di trattenerla a lungo. La libero, convinta adesso che possa esserci un’altra ragione dietro le tue risposte stentate. Non era previsto che ci incontrassimo stanotte ed è trascorso così tanto tempo dall’ultima volta che ci siamo parlate da non poter dare per scontato che tu mi voglia qui. Forse, avresti preferito che rimanessi distante, a ridosso del recinto, o che tornassi nel folto della foresta e sparissi alla tua vista come un’apparizione della cui veridicità non si abbia certezza.
Sospiro e volgo lo sguardo in direzione delle creature e dei recinti che le ospitano. Non so più se voglio restare, Thalia. Non so più se ho qualcosa da dire, né se mi aspetti davvero una risposta. Avrebbe senso che me ne dessi una? E io sarei pronta ad accoglierla?
Ripenso al plico di lettere che hai buttato nel fuoco, quelle delle quali non mi parlerai mai; le stesse che acuirebbero il mio odio verso Grimilde per non avermi lasciato scegliere. Eccezion fatta per le prime, non tutte hanno raggiunto Villa dei Gigli. Le nostre possibilità hanno fatto la stessa fine, mi dico. Si sono accartocciate non sotto il calore del fuoco, ma sotto il soffio potente del tempo. Siamo volate via, strappate a metà dal silenzio.

Mi rendo conto, per la prima volta da quando ti ho conosciuta, che non ci sono parole pronte a risalire la gola, bisognose di uscire fuori per farsi capire.
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Mentre ripeti le mie parole, nonostante voglia solo allontanarmi da te - perché quello che provo mi sta strappando qualcosa dentro - sorrido.
E’ una smorfia carica di amarezza, poiché mi rendo conto che stai sfidando la mia tempra in questo preciso istante così come hai sempre fatto. Mi punzecchi, anche se non apertamente, e so che lo fai perché ti sembra impossibile che io possa essere ciò che ho affermato.

«Si è soli anche in mezzo a tanta gente, Nì.» rispondo semplicemente, mutando l’espressione del volto con un’immediatezza disarmante. Sul viso ho dipinta la durezza degli ultimi due anni, un regalo del tempo e delle circostanze, di quello che mi è successo proprio quando tu non c’eri. E come ti posso spiegare che dalla crisalide non è uscita una splendida farfalla variopinta, ma un’orribile falena? Ed è proprio con queste ultime sembianze che mi sono avvicinata alla luce, bruciandomi le fragili ali.
«Ho fatto delle scelte sbagliate…» continuo e mi fermo, perché vorrei tenerti il muso e non ci riesco; perché sento il bisogno di spiegarti quello che sono adesso e perché ho fatto quello che ho fatto.
«...e ne sto pagando le conseguenze.»
Parlo di Primrose, di Mike e di Lucas, ma anche di te. Della nostra amicizia per cui forse entrambre non abbiamo lottato abbastanza. Perché in fondo bastava accontentarti, quella sera di settembre, e darti lo spazio che pensavi di meritare. Eppure, sono diventata una cinica egoista buona a niente se non a rovinare l’esistenza propria e altrui. Vorrei dirti che lo sai pure tu che non posso sempre essere il cerotto che protegge la ferita fresca; devo concedermi, anche se non vorrei, l’onere di soffrire a mia volta senza che qualcuno possa fare per me quello che ho sempre cercato di fare per te.
Quanto mi è stato difficile non venire in tuo soccorso al ballo di fine anno, quando qualcuno ti ha per l’ennesima volta insultata o offesa; mi si è stretto lo stomaco all’idea che potessi passare un guaio, ma mi sono costretta a silenziare ogni percezione negativa pur di non darti modo di influire ancora sulla mia vita. Meno male che c’era Horus, quella sera, e ti ha impedito di farti giustizia da sola.
E ancora, avrei voluto dirti che quel Boccino tra le dita lo avrei dato a te se, almeno questo, fosse bastato a farti felice. Te lo avrei ceduto se non sapessi che avresti odiato il gesto in sé e per sé. Le cose te le guadagni sudando, anche se qualche volta preferiresti evitarlo. E allora i pensieri tacciono, fingo di dimentare quanto sto per dirti e faccio dietro front. Ancora.
«Non mi va di parlarne.» dico alla fine e mento spudoratamente.
Forse pronuncio la menzogna nel tentativo di capire se tu, più di altri, saprai nonostante tutto riconoscere la bugia che mi affiora alle labbra. Voglio che tu lo faccia, scoprirmi intendo, affinché tu possa riversare su di me tutte le emozioni che ti sei imposta di non mostarmi quella sera. Perché sei arrabbiata con me tanto quanto io lo sono con te. Perché la nostalgia che proviamo è la stessa. E perché siamo due complete imbecilli.

Stringo la tela imbrattata di sangue tra le mani, la ritorco su se stessa con estrema lentezza. Ogni giro della tela è una frase che non ti dico perché ho paura di farti scappare via. E così, quando il silenzio da parte tua mi diventa insostenibile faccio per voltarmi. Ti guardo per quella che penso sia l’ultima volta, almeno per oggi, e sospiro incerta. Dovrei dirti qualcosa, un saluto quantomeno, ma in quali termini posso esprimermi? Ci si vede in giro? A domani?
No, nessuna frase del genere fa al caso nostro. Mi lasci fare qualche passo prima che l’ultima stretta allo stomaco mi urti così profondamente da lasciarmi senza fiato. Certi fastidi non li posso tollerare.
«Non ho mai capito il vostro rapporto e forse per questo non riesco a capire il tuo dolore.» sputo la verità così come l’ho pensata due secondi fa, il tempo di fare l’ennesimo passo affondando nella neve ghiacciata. Per certi versi ho odiato Astaroth con la stessa intensità con la quale tu l'hai amata; ero e sono gelosa di lei, del suo ricordo, dell'impronta che ti ha lasciato addosso. E capisco che non posso competere con un defunto. Non ne vale la pena.
Mi arrendo, vorrei urlarlo, ma non ha senso forse perché anche il mio orgoglio merita rispetto. Però l'ammissione c'è e arriveranno anche le scuse, se sarai abbastanza brava da coglierne il significato.
«Mi dispiace.»
Lo dico in un soffio, facendoti la grazia di rivolgerti tutta la mia persona e non soltanto uno sguardo in tralice. Non ti offro il fianco perché tu possa inveire contro di me ferendomi ancora di più, ma tutta la mia persona. Colpisci senza pietà, Nieve. Sfidami, se l'idea di aggrada, gridami contro che sono una stupida e che ho perso il diritto di esserti amica cinque mesi fa. Dimmelo che è tardi, tanto già lo so.
In realtà, mi sto scusando per tante cose, a te la scelta sulla variante che preferisci e di cui hai bisogno.


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Mi chiami “Nì” e i granelli di sabbia nella clessidra arrestano il loro collasso. Il tempo si ferma e, con esso, anche il mio cuore per un istante o due. Un suono stridulo avvolge il nastro dell’amore che ci ha legate e mi ricorda cosa siamo state davvero —il calore che ho provato quando mi sono accorta che fosse diventato un soprannome, il tuo per me. Vedo anche cosa ne è stato di me, il giorno che tra le braccia di nonna Lucrezia i miei occhi hanno perso colore e il mio urlo di dolore ha squarciato i cieli sopra Villa dei Gigli. Poi la catatonia, i mesi di convalescenza, le droghe, il sesso, la nuova me.
Tornare al presente è complesso. Seguo la tua voce e la mia espressione tradisce il dispiacere che provo per non esserci stata. Non mi frega un cazzo della durezza che ostenti. Questa pantomima non funziona con me.
«Cos’è successo?» sbotto allora, incapace di trattenermi e incurante delle tue ritrosie. Non ho hai rispettato argini e confini, regole e imposizioni. Per diversa che sia rispetto a prima, questo aspetto non è cambiato. «Dimmelo» insisto.
Ma tu sei troppo impegnata a strizzare un cencio imbrattato di sangue per curarti delle mie domande. Mi chiedo se tu stia immaginando che quel pezzo di stoffa sia io per farmi provare quella sofferenza, la stessa che hai dovuto attraversare tu —“Sola”.

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Muovi qualche passo lontano da me e trattengo il fiato. È finita, penso con incredulità, istupidita. Non capisco perché mi sorprenda. Me lo ero detta —te lo avevo detto— a settembre con un’insistenza meschina. Cos’è cambiato da allora? Un Nì ha rivoltato le carte e anche il tavolo?
Le frasi che pronunci mi annichiliscono. Il mondo prende a roteare attorno a me e non mi accorgo di aver istintivamente mosso mezzo passo indietro e portato la mano destra al petto, depositandola dove ha sede il cuore. La bocca è schiusa, gli occhi increduli. Stai parlando di lei… Tu.
«Io…» balbetto, impreparata.
Io non so cosa dire. Non so cosa dire perché sarebbe impossibile spiegare la natura del rapporto tra me e Astaroth. Anche se volessi, non troverei le parole per descriverlo né la forza per non accartocciarmi su me stessa nel tentativo. Invero, tutto quello che riesco a fare è chinare il capo per evitare che tu mi veda. Che tu scorga le lacrime che si sono radunate sul ciglio degli occhi e che adesso cadono a precipizio sulla neve gelata, là dove pochi minuti fa c’era il mio piede.
Avrei preferito che non ti scusassi, che rimanesse la rabbia a separarci, che il tuo rancore nei miei confronti continuasse a crescere e che io potessi nascondermi dietro il mio. Il ponte creato da quel “mi dispiace” n-non…
Nascondo il viso dietro le mani, poi copro la bocca. Trattenere i singhiozzi, la disperazione che mi porto dentro è come chiedere a un vulcano di non eruttare. Eppure non posso farti assistere a uno dei miei crolli, non puoi vedere quanto io sia spezzata. Se capissi, so che ti avvicineresti. Se lo facessi, so che non riuscirei a respingerti.
Pensa al ballo di Natale. Pensa alle ingiurie degli studenti, mi ripeto per concentrarmi su altro da Roth. Pensa al Thestral che hai salvato, al sesso con Cravenmore, alle avventure al Black Skull.
Sono io a darti il fianco. Mi contorco come posso per evitare che tu veda il bagnato sul mio viso. «Dispiace anche a me» ribatto, dopo essermi schiarita la voce arrochita dal pianto. «Per non esserci stata quando avevi bisogno. Per averti lasciata sola». Inspiro. Espiro. «Ma non potevo e non posso metterti in pericolo, te l’ho già detto. Almeno così sei al sicuro. Sei viva».

Se solo potessi sentire la desolazione urlare come un fantasma nel petto il desiderio di riaverti nella mia vita...
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Cerco di trattenere la verità di quanto mi è accaduto da quando sei andata via e le sento tutte, quelle parole maledette, premere sulle labbra che serro con decisione. Puoi vederla nettamente la lotta che si sta svolgendo dentro di me, perché piano piano il mio sguardo si distanzia dal tuo, come se stessi rivivendo tutto per l’ennesima volta; la donna che compare all’improvviso, il lampo di luce e il tonfo di un corpo morto. Tremo e non è certo a causa della temperatura.
Non posso raccontarti niente e come posso spiegarti tutto quello che mi scorre dentro?
Dovrei dirti che ho conosciuto un ragazzo più grande, che mi ha prima ingannata per avvicinarsi a me e solo poi a gettato la maschera; che il tempo trascorso con lui ha risvegliato qualcosa in me che credevo non esistesse e quel qualcosa ha trovato il modo di farmi agire nel peggiore dei modi verso il mio stesso sangue. E poi, Carter.
No, sono io che non ti posso trascinare nel gorgo nel quale sto annegando, quel mulinello che è la disperazione e la paura insieme di non sapermi controllare.
«Ho rischiato la vita molto di più da quando te ne sei andata.» ti concedo questa mezza verità - che poi è la sua essenza fondamentale - e torno a guardarti. Potevo morire la sera in cui ho affrontato Lucas, dopo la sua confessione. Poteva succedermi qualsiasi cosa dopo aver estorto memorie proibite dalla mente di Primrose. Il mio cadavere, se non fossi stata scaltra abbastanza, poteva giacere accanto a quello del Guardiacaccia.
«Non so che immagine tu abbia di me, ma qualsiasi cosa pensi di conoscere… dimenticala.» trattengo il fiato, perché la voglia di spaventarti col racconto delle mie azioni è così forte che nemmeno tu potresti resistere e continuare a volermi bene. Perché lo so - ora lo vedo - non si è spento l’affetto che ci univa. Te lo leggo nel tremore del corpo, nel silenzio che ti avvolge e nello sguardo in bilico tra dolore e amara accettazione di quello che siamo diventate. Alla fine, scelgo di terrorizzarti, o quanto meno vorrei provarci. E’ un modo per farti comprendere chi hai di fronte, ma allo stesso tempo è il mio bisogno egoista di far uscire tutto quello che mi son tenuta dentro per due maledettissimi anni.
«Potevo uccidere una persona. Ci sono arrivata così vicino, Nì… e non volevo farlo, te lo giuro, ma… dovevo sapere.»
Mi rendo conto che queste parole sono una doccia fredda per te, che non puoi e forse non vuoi capire la gravità di quanto vado dicendo. Tu non mi conosci sotto questo aspetto: io non mi lascio sopraffare dagli eventi, li affronto di petto e sono pronta a farmi male, se necessario. Questa è la grande differenza tra noi. Peccato che per raggiungere i miei obiettivi sia stata disposta a varcare la soglia della legittimità delle mie azioni.
«I pericoli che mi minacciano sono talmente grandi che ho scelto di non giudicarmi. Ho torturato una persona con la Legilimanzia, l’ho fatto e non ne vado fiera. Sono stata terribile e ho rischiato tutto quello che ho e che sono, ma… non me ne pento. Ho saputo quello che dovevo sapere e sono pronta a quello che succederà.»
Ho parlato in fretta, un fiume in piena e completamente fuori controllo: lo sguardo non è più quello sofferente di chi sia pronto a ricevere il colpo di grazia, bensì quello di chi sia colpito da capo a piedi da una scarica di adrenalina pura. Senza rendermene conto mi sono avvicinata a te e ho il terrore - e la speranza insieme - che tu ti ritragga. Nel non riconoscermi, forse, sta la chiave del nostro nuovo rapporto.
«E posso vederli» con un cenno del capo indico i Thestral alle tue spalle «Perché ho visto morire un uomo senza poter fare niente.»
Sbatto le palpebre velocemente, ricacciando indietro le lacrime e la visione della morte di Carter che mi perseguita. Sudore freddo mi imperla la fronte, ma non me ne curo, e il mio respiro è affannoso come dopo una lunga corsa.
Mi sembra di essere impazzita all’improvviso, di non aver più consapevolezza di chi io sia e di dove mi trovi. Mi guardo attorno disperata e mi rendo conto, grazie a un barlume effimero di lucidità, che non sono mai stata davvero bene. Non ho mai superato tutti i traumi vissuti in quest’ultimo lungo intervallo di tempo. La mia vita si divide in due grandi periodi: il primo era finito il giorno in cui te ne sei andata, ma non è colpa tua - non direttamente - se ho fatto della mia vita il disastro che è oggi; il secondo è ancora in corso e non ho idea di quanto impiegherò a superarlo.
«Nelle mie lettere non c’era scritto niente di tutto questo. Ed è meglio che tu non le abbia lette. Ti saresti sorbita soltanto un mucchio di frottole assurde.» dico alla fine, espirando l’aria che ho trattenuto negli ultimi istanti.
Ti guardo e vorrei sapere cosa pensi, se stai pensando - in verità - o se stai subendo la mia ansia scambiandola per collera. Taci e non capisco se lo fai per mancanza di argomenti o se, dopotutto, hai un’idea ma non sai come esprimerla.
«Credi ancora che non riesca a reggere il casino che sei diventata?»


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Mi volto quando inizi a parlare e nelle tue frasi mi specchio. Le direi anch’io, forse le ho già pronunciate. Anzi, sono sicura di averlo fatto e che tu ne sia stata la destinataria. So con altrettanta certezza che mi stai parlando senza averne coscienza, mossa dal timore che vedo salire sulla superficie dei tuoi occhi a me così familiari. Perché non ci sono stata per te? Perché ho dato per scontato che avresti avuto qualcuno al tuo fianco?
La foresta ci avvolge e le creature proteggono i nostri segreti senza giudizio. A crepitare, però, non è soltanto la neve. Sono i miei propositi di solitudine forzata e di lontananza imposta a buire —soprattutto da te, che amo come la famiglia della quale ho sempre ricercato l’appartenenza. Scricchiolano anche le tue di intenzioni: non avevi previsto di confidarmi tutto, non è così? Di vuotare il sacco e mettermi nelle condizioni di prendere una scelta.
Oh, Thal! Ti guardo e mi si spezza il cuore. Ti guardo e tutto ciò che desidero è farti scudo con il mio corpo, qualunque sia la minaccia che grava su di te. Ti guardo e penso che nulla è cambiato e nulla potrebbe mai cambiare l’affetto che ci lega. Io non amo transitoriamente e una parte di te lo sa. Quella seppellita sotto gli spessi strati di traumi e paura riconoscerebbe sul mio viso e nei piccoli movimenti del mio corpo verso il tuo l’impossibilità di un esito diverso da quello che ci ha sempre condotte l’una accanto all’altra. Il tuo viso, però, porta con sé lo spavento del rifiuto e dell’abbandono, i soli sentimenti ai quali io ti abbia sempre creduto estranea. Chi ti ha fatto questo?

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Allungo la mano e la deposito sulla tua guancia. Hai la pelle calda, di pesca, mentre le mie dita portano il freddo dell’inverno. Ti accarezzo con tenerezza, trattenendo a stento il tuffo al cuore che toccarti mi provoca. Sembrano passate ere dall’ultima volta che siamo state vicine e io sono così disabituata all’intimità emotiva che qualcosa nella dinamica mi disturba. Per viscerale che sia l’attaccamento a te, amica mia, la randagia che è riemersa dalla boscaglia del mio io ti rifugge. Mi chiede di andare via, interrompere il contatto. Si agita e soffia, selvatica.
«Ehi!» La mia voce è soffice come la ricordi e il mio sguardo non tradisce nessuna titubanza. Se mi chiedessi di nascondere un cadavere, per te lo farei. «Ehi, Thal! Non mi fai paura» ti dico.
So che è questo che temi. Lo farei anch’io. Lo faccio anch’io. Vorrei fare un paragone per tranquillizzarti, facendo notare che le tue azioni sono determinate da agenti esterni mentre io sono una cazzo di maledizione ambulante. Ma non è questo il punto.
Ritiro la mano. Il contatto è divenuto insopportabile. Una tensione solida come il legno dei platani della foresta si è diffusa lungo tutto il braccio, fino a prendere possesso della spalla. Il desiderio di compiere un passo indietro è tale che resistere sfibra il tessuto della mia forza di volontà. Non voglio, però, che le mie parole vengano smentite da un gesto che non capiresti.
«Chi o cosa ti minaccia? Puoi dirmelo?» domando con la stessa intimità di un tempo. Siamo solo più adulte, più consapevoli di come funziona il mondo e dei suoi pericoli. «Ma, soprattutto, come stai adesso?»
Te l’hai mai chiesto nessuno, Thal, in questi due anni?.
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view post Posted on 4/8/2023, 13:36
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Mi doni la tua comprensione e non so che farmene, almeno all’inizio.
Non so esattamente che cosa sperassi di ottenere raccontandoti pezzi di verità sparse. Forse, desideravo solamente vedere la tua reazione e capire se, in fondo a tutte quelle bugie che ti - e ci - racconti su chi siamo diventate, c’è ancora un briciolo del sentimento che ci ha legate.
Proprio quando penso non ci sia speranza, né per me né per te, ti avvicini e finalmente ti vedo per come mi sei sempre apparsa: fragile, questo sempre, ma ammantata da una sicurezza che ostenti e non t’appartiene. E’ lo sguardo che mi colpisce, prima della sorpresa nel percepire al tatto il palmo sulla guancia; nonostante l’iride non sia più la stessa, il messaggio che mi trasmetti con quegli occhi simil-vitrei mi ricorda chi sei. Mi riporta indietro ai giorni in cui ti raccontavo di me e Mike, della mia difficoltà ad affrontare i piccoli ostacoli della vita quotidiana. Ci leggo l’affetto e la forza che ti imponi per restare dove sei, qui ed ora, e non c’è né arroganza né rabbia nei tratti del tuo viso. Non sei nemmeno schiva, non ci provi neanche, e non vuoi fingere che non t’importi. Perché, alla fine, ho ottenuto la tua attenzione, facendoti capire che davvero quando te ne sei andata ho perso il baricentro e il mio equilibrio.
«Lo so.» ti rispondo flebilmente e la voce mi trema per un attimo, carica dell’angoscia del pensiero che mi ha attraversato la mente. Hai più paura di te stessa che di me.
Vorrei dirti che ti ho capita, come ho sempre fatto, ma forse - avvolte dalla foresta, guardate a vista dai Thestral - siamo costrette a fingere che non sia così. E allora perché mi sfiori e mi illudi che possiamo tornare a com’eravamo un tempo?
L’istinto mi fa muovere prima che possa arrestare il pensiero che mi spinge e, quando ritrai la mano bruscamente, ti afferro il polso con decisione, ma senza farti male. Non voglio che mi lasci soltanto le parole di conforto che pensi di dovermi. Non voglio il tuo senso di colpa, né la tua commiserazione. Ti dirò tutto, Nieve, ma devi restare con me.
«Io…» biascico, seguendo con lo sguardo il contatto della mia mano col tuo polso sottile. Potrebbe spezzarsi nella mia mano e non saprei nemmeno che cosa fare se ciò accadesse. Mi credi fragile come cristallo, adesso, ma la verità è che quello che mi è accaduto mi ha traumatizzata e fortificata allo stesso tempo; la mia carne, le mie ossa e la mia tempra non sono mai state tanto adamantine come in questo momento. Soffro, devo soffrire, perché ciò che mi attende non si augura al peggior nemico, ma so di poterne uscire; sarò coperta di lividi dentro e fuori, ma ti accorgerai che nella mia fragilità ho trovato la forza ed il potere di rinascere.
Ora ho capito perché mi sono confessata a te: volevo capissi, assorbendo la mia energia e la mia convinzione, che anche tu puoi rinascere senza distruggerti. Non so se condividerai il mio pensiero, ma questa è la mia missione. Perciò, se devo raccontarti tutto, lo farò. Lo farò per te.
«Credi nel destino, Nì? Perché se lo credi, allora il mio e quello dei miei cari è già scritto.»
Mi fermo, quasi a voler cogliere il momento esatto in cui ciò che sto dicendo ti colpirà a fondo, senza pietà; attendo che la deflagrazione silenziosa delle tue emozioni si espanda nell’aria e si palesi nei tuoi occhi, facendoti schiudere le labbra in un’espressione sorpresa e confusa insieme. Quando ciò avverrà, mi sentirai continuare la mia storia.
«Io mi sto facendo questo. Non ero sicura fosse così, ma… io sono la causa di tutto. Ho dato retta ad una Profezia fatta su misura per me e da allora… semplicemente mi sono tenuta tutto dentro, arrovellandomi su che cosa fosse più giusto fare. Credo… credo di dover porre fine a una storia antica come il nome che porto ed è a causa di quel nome che mi sto immolando ad azioni sconsiderate.»
Ora che ho la tua attenzione, ti posso lasciare andare. Le mie dita rilasciano il polso freddo, ma il mio sguardo non si separa dal tuo. «Ho torturato una donna anziana e fragile, una parente lontana in verità, ma era la sola a potermi dare le risposte di cui avevo bisogno. Mi sono resa conto in quel momento che sono cambiata. Non avrei mai usato la Legilimanzia per carpire informazioni…» abbasso il capo, adesso, e ti guardo in tralice certa che sia commiserazione e pena quella che provi «Non con la forza, comunque.»
Sono cambiata, questa è la verità, e forse allontanarti da me ha avuto questo effetto collaterale. Potresti pensarlo, io potrei dartene la colpa.
La verità è che sono dove dovrei essere. Sono chi sono e nemmeno tu puoi cambiarmi.
«Ho scoperto il mio vero volto, Nì, e per quanto inorridisca al pensiero, quello che vedo non mi turba.»
So che essere capace di superare i confini dovrebbe essere considerata avanguardia, ma quanto della mia solerzia nel volermi sempre porre in prima fila si tramuterà in stupidità? Vorrei me lo dicessi tu, tu che dicevi di conoscermi e affermi di non temermi.
«Mi sono perdonata per quello che ho fatto.» ammetto alla fine «E se servisse lo rifarei. Eppure, odio immensamente chi mi ha forzato la mano minacciando di portarmi via tutto. Quindi, quando mi chiedi come sto la risposta non è una né è scontata.»
Sono arrabbiata e spaventata, ma tu questo lo sai senza che io te lo dica.


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view post Posted on 4/8/2023, 15:00
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i've lost every battle
Non puoi saperlo e a tratti è strano che me ne stia accorgendo solo adesso, ma aggiungi dettagli al tuo racconto e improvvisamente mi blocco. Lo hai già detto poco fa, un istante prima che ti rassicurassi e mi avvicinassi a te. La mia mente deve essersi rifiutata di registrare l’informazione, eppure tu me la riproponi senza risparmiarti nessuna colpa e senza rinnegare nulla di quel che hai fatto; e io mi sento morire.
Tu hai fatto quello che Grimilde ha fatto a me. Hai giocato con la mente di un’altra persona, in piena arbitrarietà. Non puoi dirmi che il fine vale il mezzo. Non hai il diritto di nasconderti dietro la scusa di un bene (o di un male) superiore. Hai usato la forza su una donna anziana, perdio! Hai rovistato, carpito, violato. Con quale titolo, dimmi. Quale pretesa può davvero giustificare le tue azioni?
La gamba destra muove un passo indietro e nei miei occhi si dipinge un’espressione di paura, quando capisco di cosa sei in grado. Non ne so quanto vorrei, ma le tue parole sono state sufficienti a descrivere un quadro di terrore. Potresti farlo anche a me. E allora cosa mi dice che non ti spingeresti al punto da rimuovere Roth dai miei pensieri o da modificare le memorie che mi legano a lei, riducendola a un affetto di poco conto. Faresti presto ad appellarti al desiderio di proteggermi, all’amore che provi nei miei confronti, al bisogno di riportare gioia e leggerezza nella mia vita.
Ma cosa cazzo ne sapete voi di quello che voglio? Qualcuno me l’ha mai chiesto?

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now i don't know what to exist for
Ti spingo indietro con entrambe le mani, il mio volto trasfigurato dalla rabbia. In realtà non è te che sto spingendo via ma Grimilde. Le tempie bruciano, i capelli si tendono, un baluginìo di cristallo minaccia le mie iridi. Sento il riverbero del tuo racconto nelle orecchie. Mi hai parlato di una profezia, di storie antiche, di destino; lo hai fatto con tutto il turbamento che svelarmi un mistero tanto grande ha richiesto. Tutto ciò che riesco a visualizzare, però, sono i sorrisi falsi di Grimilde imboccarmi a forza un finto tonico per lo stress; i miei inspiegabili vuoti di memoria —quelli di cui ti parlavo, ricordi?; e l’immagine di te china su una versione tremante di Ỳma mentre le rubi i ricordi.
«Non ti permetterò di farlo!»
La mia voce risuona nello spazio in cui ci troviamo, egualmente spaventata e risoluta. Se mai sono stata un animale con le spalle al muro e porto i segni di quell’esperienza, ricordo ancora come ci si batte. Conduco i miei occhi nei tuoi senza sapere che già questo ti darebbe un appiglio per fare il tuo ingresso nel mio mondo di pensieri, laddove lo desiderassi.
«Non giocherete più con la mia mente!»
Indietreggio, lo sguardo velato. Non sono più qui, con te, a Hogwarts. Sono di nuovo a Villa dei Gigli, ferma a due anni fa, quando tutto mi è stato portato via; compreso un pezzo di me stessa. Non perdonerò mai quella violazione. Di notte, ogni tanto, riesco quasi a sentire il tocco di lunghe dita ossute allungarsi nello spazio sottile tra pelle e cranio, pronte ad affondare nella calotta per rubare quanto mi appartiene. E quelle carezze… Dio, quelle carezze sono capaci di farmi impazzire!
Tengo il braccio steso tra noi due come a frapporre una barriera fisica. Non puoi sapere che non riesco ad emettere nemmeno un fiato di magia dalla mia cazzo di bacchetta e forse è un bene lasciarti credere che potrei schiantarti, se solo provassi a leggermi la mente. Il tremore che scuote la mia mano, però, mi tradisce. Non significa che non ti attaccherei. Una bestia può avere paura e sapersi comunque difendere all’occorrenza.
«Non dovevi farmi questo, Grimilde» ti accuso.
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Edited by ~ Nieve Rigos - 4/8/2023, 16:26
 
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view post Posted on 4/8/2023, 17:02
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Non mi rendo conto di cosa sta accadendo finché non ti odo pronunciare quel nome. Non capisco perché mi attacchi, perché insinui che ti potrei fare del male quando ciò che cerco è soltanto di riaverti nella mia vita. Quasi mi rifiuto di credere che quella puntata al mio petto sia la bacchetta che ti ho praticamente insegnato ad usare al meglio durante il Barnabus.

Non ti riconosco, Nieve, ed è giusto che sia così. Perché non ho compreso la totalità del trauma che ti ha colpita e le conseguenze di quello che ti è stato fatto. Non avevo idea che confessando i miei peccati avrei scatenato una simile reazione in te, sbloccandoti e convincendoti a rivelarmi - senza volerlo - una parte di ciò che ti è accaduto.
E’ nell’incredulità più estrema, espressa a dovere dai lineamenti inebetiti del mio viso, che mi immobilizzo e capisco di non dover fiatare. Ogni mio minimo movimento, ogni singolo singulto o parola potrebbero scatenare la rabbia che vedo affluire sul tuo viso altrimenti cereo; i tuoi occhi sembrano generare saette mentre mi scruti con furore, le tue parole sono veleno che sputi senza vergogna. Non è me che stai odiando, non è di me che hai paura. L’ho capito solo alla fine di quella che credevo fosse una rabbia immotivata, ma che - al contrario - ha radici profonde.
Per certi versi mi ricordi i draghi che ho visitato alla riserva naturale in Galles o l’Ippogrifo riottoso alle lezioni di Cura. Abbasso lo sguardo, a differenza di come si dovrebbe fare con bestie simili, perché ho capito dove sta il problema.
Ti spaventano i miei occhi, lo strumento di terrore che ti è stato fatale per mano di chi, invece, doveva proteggerti.
Mi dispiace tanto, Nieve. Hai assaggiato la medicina più amara, quella del tradimento di una persona amata e l’hai enfatizzato non col miele - Astaroth non poteva più esserti d’aiuto -, ma con il fiele. Il mio racconto, invece di avvicinarci, ci ha separate. Proprio come temevo fin dall’inizio.
Ti scorgo di sottecchi, mentre ti trema la mano e so che la Nieve che ho lasciato a King’s Cross due anni fa - in eventi come questo - non avrebbe esitato a colpirmi. Uno Schiantesimo sarebbe stata una giusta punizione per quello che ti ho detto, per ciò che ho fatto a Primrose. E ancora non sarebbe abbastanza.
Mi sovrasti con l’emozione che ti colora il viso e infervora lo sguardo, con quell’altezza di poco superiore alla mia. Sei magra, certo, ma sei forte di quella paura animale che ti fa duplicare la forza in un nonnulla. Se anche riuscissi a braccarti fisicamente, dibattendoci nella neve come lottatrici inesperte, mi sovrasteresti.
Eppure devo provare a farti tornare in te, soprattutto dopo aver udito il nome di Grimilde affiorarti alle labbra.

Capisco che qualcosa in te è cambiato, che il trauma ti ha mutata a livello profondo e non soltanto umanamente. Forse, ho capito perché - di tutte le minacce che mi stai implicitamente facendo - la più efficace è l’unica che ti sfugge.
Non ti parlo e ad un tuo passo indietro faccio corrispondere un mio movimento in avanti, più lesto di quanto tu possa aspettarti. Non so se troverò resistenza da parte tua, ma questa nostra querelle disturba i Thestral che fuggono nella Foresta Proibita per non tornare. Il loro allontanamento è uno scalpiccio di zoccoli attutito dalla neve, ovattato dal ghiaccio sul terreno, ma è marginale rispetto a te. Tu hai la mia completa attenzione e l’hai sempre avuta.
Dimentico di essere munita io stessa di una bacchetta, non voglio usarla - non contro di te - , e mi scopro capace di gettare a terra ciò che ho tra le mani per essere libera di stringerti il polso armato, facendo sì che la tua bacchetta mi punti esattamente al cuore. Se ho ragione non accadrà proprio niente, se ho torto… beh. Sarò stata una completa idiota per l’ennesima volta in vita mia.
«Fallo.» ti sfido, perché senza un input so che non ti sbloccherai mai. «Fallo.» ripeto e cerco di cogliere in te la rabbia che farà scaturire tutto quello che tiene sopito dentro di te, per paura che esca e possa ferire qualcuno che ami. So che mi credi un mostro, forse lo sono, ma… non ho tempo di scoprirlo adesso. Tu sei più importante. Lo stato in cui ti trovi mi impone il rischio.
Stringo le dita sul tuo polso, percepisco ossa e tendini tesi sotto le dita e rafforzo la presa con l’altra mano, avvolgendola attorno alla tua. In me c’è la stessa forza della disperazione che anima te, ma voglio sovrastarti e lo farò.
Gli esiti di questo scontro potrebbero essere due: ti convincerai che non sono chi credi io sia, lascerai andare la bacchetta e mi abbandonerai nell’incredulità; oppure, nella peggiore delle ipotesi, mi lascerai inerme nella neve candida, col netto contrasto dei miei capelli rossi su di un manto bianco.


© Thalia | harrypotter.it

 
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