Nieve Rigos | 18 yo | Mourning
Alberi. Una distesa infinita di alberi si svolta davanti ai miei occhi. Nella fitta oscurità della Foresta Proibita, ogni cosa assume volume e ampiezza. Se anche la boscaglia fosse l’orticello di una nonnetta, lo vedrei grande come il ventre di un mostro famelico per la magia di cui sembrano imbevute le pareti invisibili della sua sacralità.
Non ho certezza di quanto tempo abbia passato camminando tra i suoi sentieri intricati. Non sono nemmeno sicura che siano sentieri, che non li abbia inventati pur di mettere distanza tra me e le ombre che mi inseguono la notte, trasformando i miei sogni in attimi di orrore. Desidero soltanto che la sensazione di pesantezza dell’ultimo incubo scivoli via.
Il ricordo del sudore freddo sulla pelle del collo e su quella tiepida delle fronte si abbatte come un maroso sui resti di me. La sottile peluria alla base della nuca reagisce al gelo di febbraio, mentre sotto la suola delle scarpe scricchiolano i cristalli di neve.
Ho sognato di uccidere Astaroth a mani nude. Di chinarmi su di lei e stringerle le mani al collo, forte e a lungo. L’ho sentita spasimare sotto di me, inarcarsi a mano a mano che i respiri divenivano rantoli e le labbra si tingevano di un blu delicato. Ricordo i suoi occhi liquidi guardarmi con la malinconia di sempre, ora bagnati dalle lacrime della morte imminente —forse della paura?, non posso fare a meno di domandarmi. Non ho smesso neppure quando i sussulti si sono fatti più violenti e distanziati per avvisarmi quanto vicine fossimo alla fine. Troppo arrabbiata per provare una sola stilla di pietà.
Avvolgo le braccia attorno al busto e mi fermo, il capo chino e gli occhi fissi sulla neve. Sospiro. Una nuvola di vapore bacia la mia bocca, prima di lasciarmi come un amante frettoloso pronto a tornare dalla moglie. Non sto bene. Il pensiero di ciò che ho fatto, nella vita più che nel sogno, mi perseguita. Se non l’avessi abbandonata, se non le avessi detto che l’odiavo, se le fossi rimasta accanto, se se se… Serro le palpebre così forte che il buio sembra inghiottirmi e batto ripetutamente il piede destro sui cristalli per rabbia, frustrazione, strazio.
Apro gli occhi e mi guardo intorno alla ricerca di qualcosa che non troverò mai perché non esiste —una leva per riavvolgere il nastro del tempo.
“Più oscurità” chiede una voce dentro di me.
“Andiamo dove c’è più oscurità” insiste e indica la zona dove l’intrico degli alberi cela segreti che, una volta conosciuti, non ammettono ritorno.
Mi concedo un attimo di riposo contro la corteccia di un albero, il respiro corto. Un peso si deposita sul petto, rendendomi impossibile inspirare con naturalezza. Un’angoscia vile gioca a rincorrersi tra le coste, poi inizia a calciare il cuore così forte da lasciarmi senza fiato. Porto la mano al petto, certa che qualcosa stia cedendo al mio interno e che nessuno riuscirà a trovare il mio corpo se non i predatori che vorranno saziare la loro fame sulla poca carne che ricopre le mie ossa. Ondate di calore risalgono su fino al volto. La terra sembra scivolare via sotto i miei piedi. Guardo in alto verso il cielo, sperando di trovare conforto nell’immensità del suo velluto, ma mi aspettano soltanto le fronde della foresta
a chiudere ogni possibilità di fuga.
now i don't know what to exist for
Non mi rendo conto di avere un attacco di panico. Non riesco a pensare, non con il cuore che batte nelle orecchie e l’ossigeno che circola a malapena dai polmoni al cervello. Così, illogicamente, comincio a correre alla ricerca di sollievo —o di salvezza, magari. Non compio che pochi metri prima di fermarmi.
Mi stringo a un albero, disperata. Non capisco cosa stia succedendo. D’un tratto, il pensiero che la morte sia venuta a prendermi e che il sogno fosse una premonizione della mia sorte mi paralizza. Serro così forte la presa attorno alla circonferenza dell’arbusto che la pelle delle mani comincia a sentire la pressione di ogni scanalatura del legno.
Do un colpo alla corteccia con la fronte nell’unica soluzione che conosca per placare il caos mentale ed emotivo; per costringermi a non riflettere sulla possibilità che tutto questo stia accadendo davvero. E continuo perché un accenno di attenuazione è quel che basta per consacrare le mie scelte. Ad ogni percossa perdo lucidità, ma sfuma anche il terrore. Una sensazione di calore scivola piano sul mio viso, percorrendo il profilo del naso, poi le labbra, infine il mento. Quando mi fermo —carne contro ritidoma—, sto respirando affannosamente eppure… respiro.
Sono ancora
viva.
Mi allontano a passi incerti dall’amico silenzioso che ha accolto il mio abbraccio senza chiedere spiegazioni, senza esprimere giudizi. Oscillo pericolosamente per un paio di metri finché non recupero una parziale lucidità. È allora che oltrepasso l’ultima fila di alberi e raggiungo quasi inconsapevolmente la radura dove sono custoditi gli esemplari di creature magiche affidati alla cura di Hogwarts.
La notte è gentile qui, dove gli alberi non disegnano strani volti con i loro rami e la nebbia non addensa l’aria, insinuandosi tra i pensieri. Su nel cielo, come tante lucciole vestite a festa, le stelle guidano i viaggiatori.
Io non mi avvicino mai a quest’area della foresta, non soltanto per evitare di essere scoperta ma soprattutto perché l’idea della cattività mi repelle.
Istintivamente raggiungo il recinto dei Thestral, piano, lontana dal desiderio di toccarli per conoscerne la natura. Comprendo la loro diffidenza, nata dalla coscienza di una diversità capace di generare odio. Il mio passato è costellato di ricordi di violenza venuti da gesti di gentilezza simulata al solo scopo di farmi avvicinare. Inclino le labbra in una smorfia carica di disgusto e furia.
È la vista di un cucciolo di Thestral a scacciare via i fantasmi che amareggiano la mia anima in un modo che mi era estraneo fino a questo momento. Sorrido per la prima volta stasera. Il ricordo della notte che ho avvicinato uno di loro solletica le corde tese della mia memoria e realizzo che, non fosse stato per lui, probabilmente non sarei qui.
È per puro caso che mi guardo intorno e
la vedo.
Non lei. Non qui., tuona una voce dentro di me, ma è così distante che fatico a comprendere i suoi perché.
Sobbalzo quando la lingua di un Thestral adulto mi sfiora la fronte per leccare via il sangue. Lo vedo fare lo stesso e allontanarsi, spaventato. Sfioro un punto appena sopra le sopracciglia prima di guardare i polpastrelli.
Oh!, esclamo con la voce di un infante alla vista della macchia rutilante che imbratta la pelle delle dita.
Capisco…
Show me the places where the others gave you scars