Promemoria per il futuro: non accettare più passaggi da passaporte altrui. Soprattutto se a prepararle è qualcuno di visceralmente incapace come Ben Hamad jr, cadetto della mia stessa Accademia e figlio del vice rettore.
"Suvvia Alistair non fare capricci, accetta il passaggio. Non vorrai far tardi al colloquio, no?"
E tu vorresti aver propeso per l'eleganza di un ritardo ben giustificato, alla sconcertante realizzazione di aver fatto un viaggio attraverso una brutta brocca di peltro a 1400 giri in dieci secondi, solo per fallire con tanta plateale ostinazione.
Mi appoggio al muro di mattoni vicino al quale mi ritrovo d'improvviso, prima di vomitare in un cassonetto vicino. Fortunatamente ero digiuna, ma confido comunque che nessuno abbia notato il mio arrivo, e il mio ancor meno elegante gesto, al limite mi accontento di passare per una donna che ha alzato il gomito più del solito, alle undici del mattino. Le gambe mi tremano ancora, ma ringrazio gli alti stivali stringati perché mi concedono la sensazione di essere ancora composta tutta d'un unico pezzo. Sistemo i risvolti delle tasche della giacca, che nel trambusto si sono sollevate, e mi accingo a lasciare il vicolo con quel briciolo di ingenua speranza che mi è rimasta. Un cartello di direzione mi indica
[Brixton Hill ➔].
La voglia di spezzarmi in una rischiosa smaterializzazione intercontinentale quasi mi esalta, al pensiero delle mie mani che si stringono sulla trachea di quell'imbecille raccomandato. Stringo i pugni e tengo a freno il sinistro perchè non sferri un colpo sul muro di mattoni. Respira mi dico, hai tempo per una smaterializzazione precisa, conosci questa città, resta concentrata, il Ministero non è poi lontanissi(missim)mo. Il colloquio è alle ore 11:30. Alzo lo sguardo per controllare l'orologio posto sopra una fermata dei bus. Segna le 8:03.
Venti minuti più tardi mi ritrovo davanti l'entrata a doppio battente di un grande stabile. Abbasso gli occhi per controllare se il nome dell'insegna corrisponda con quello riportato nella lettera che ho ricevuto da Niah qualche mese prima. Atelier delle Modernerie, un nome...atipico, come il suo padrone.
Ma che alternative ho per impegnare quelle tre ore di fuso orario dimenticato?
Omicidio, socialmente non gradito.
Cordiali visite, socialmente gradito. Mi ripeto, cercando di placare i nervi irritati. Non sono lì per del sano shopping terapeutico, ma per incontrare una vecchia amica che non vedo da tanto. Troppo. Mi tremano un po' le ciglia mentre osservo l'entrata con la lettera stretta ancora tra le dita. Sono cambiate tante cose in tre anni, di sicuro lo siamo noi, ed anche il rapporto che tanto ostinatamente ci siamo impegnate a tener vivo per corrispondenza. Solo che non ho ancora capito quanto.
Sistemo il foulard scivolato leggermente sotto il bavero, spolvero il giubbotto da residui desertici e ravvivo i capelli sfuggiti allo chignon. Ripongo la lettera nella tracolla e con tre passi decisi mi avvicino alla porta, che con delicatezza apro, infilandomi dentro di essa con il riguardo di un ospite inatteso.
«
È permesso? » chiedo più per abitudine, come se ci fosse un solo venditore che trovasse sgarbato l'accesso di un potenziale cliente. Ma quel luogo inaspettato che mi ritrovo davanti non ha per nulla l'aspetto di un negozio tradizionale, giostre di luci balenano in ogni dove e per un attimo fatico a collocarmi nella realtà.
È lo strano incontro tra un lunapark, un negozio di balocchi e una fabbrica di zucchero filato. Il che sul principio mi spinge quasi fuori dall'uscio, come forza repulsiva. Una volta poi che i bagliori diventano più tenui sulle mie retine, inizio a definire i contorni dell'ambiente, nel quale continuo comunque a sentirmi smarrita.
«
Alistine? Breendbergh? »
Mi sovviene il dubbio che il negozio sia ancora chiuso, considerata l'ora e il fatto che non ci siano nei paraggi bambini esagitati che corrono con un bastoncino di zucchero su per il naso. Tornando verso la porta sollevo il cartello Open/Close che penzola sul vetro, per controllare.
Sembrerebbe legale la mia intrusione, per cui decido di addentrarmi verso il centro del negozio, camminando col mio solito passo silenzioso. Non voglio battere le suole degli stivali solo per annunciarmi, per cui proseguo di teca in teca cercando di capire cosa venda esattamente il mio vecchio concasato. Oltre ovviamente ai sogni olografici.
Arriccio il naso osservando diversi articoli, dei quali fatico a definirne una reale e pratica utilità. Alcuni sembrano perlopiù giocattoli, incantati certo, ma carini per una cesta in vimini. Ma non dubito che molte persone avranno fatto la fila, e spesso anche azzuffa, pur di accaparrarsene l'ultimo disponibile. Poi qualcosa rapisce il mio sguardo, e mentre attendo che qualcuno di conosciuto spunti per togliermi da quell'impasse, decido che forse un po' di shopping terapeutico non sarà male.