Acquaviola, Thalia Moran

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view post Posted on 8/11/2023, 17:58
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Perché sono qui?
Una smorfia sarcastica sale fin sulla mia bocca, tagliando il viso impenetrabile e conferendomi l’aria di chi, i guai, proprio non sa smettere di cercarseli. È quello che sto facendo adesso, del resto. Seduta al tavolo dei Tre Manici di Scopa, attendo una delle tante persone che ho ripudiato dopo averle chiesto un’udienza che non merito; dopo averle messo le mani al collo.
Ne hai di faccia tosta, Nieve Rigos.
O magari di scelleratezza e mancanza di rispetto; e, ancora, di strati e strati di menzogne sotto le quali ti cimenti a nascondere le verità più semplici, mascherandole come bambole cui basti cambiare vestito per gradirne di più l’aspetto. Oggi, ad esempio, sono qui per mero interesse personale.
Mi guardo intorno. Il locale è quasi vuoto. Gli studenti non si sono ancora trascinati oltre i confini del castello per dimenticare un’intera giornata di sproloqui e delusioni; o per spettegolare sulle ultime novità che circolano tra i corridoi. Sistemo gli occhiali in un gesto meccanico, ridendo di me. Per assurdo che possa sembrare, questi occhi hanno faticato tra le pagine dei libri di scuola, quest’oggi, e l’astigmatismo è stato impietoso. Li avessi indossati prima, mi rimprovero, mi sarei risparmiata il leggero ma corrosivo mal di testa che mi porto appresso da ore.
Non sono preoccupata per lei.
So che non è vero. Vederla fuggire dalla Sala Grande di gran carriera con la cravatta e la camicia allentate e con l’espressione sconvolta sul viso ha destato il mio allarme — una di quelle sensazioni che non puoi reprime neppure volendolo. Avrei voluto correrle dietro, domandarle cosa fosse accaduto, stringerla finché la paura non fosse ruzzolata malamente via, lontano da lei. Invece, ho taciuto e finto che la conversazione sull’inutilità degli Auror in tempi di crisi fosse ancora di mio interesse — io, che di bene e male non mi sono mai interessata. Se solo fossi riuscita a riportare la mia mente al presente…
È per questo che sono qui, dunque? Per chiederle come sta? A che titolo?
No, nego. Ho solo bisogno di aiuto e lei è la sola persona di cui possa fidarmi; l’unica che possa aiutarmi. È difficile trattenere un sorriso, quando ripenso alla sciocca idea di rivolgermi all’Umanoide per ottenere lo stesso sostegno e al modo in cui si sono evolute le cose tra noi— all’impensabile direzione che abbiamo intrapreso. Poi, m’incupisco. Sono trascorsi mesi da…
La porta si apre e la chincaglieria sospesa a pochi centimetri dal suo zenit tintinna, annunciando l’arrivo di un cliente. Non ho bisogno di sollevare lo sguardo per sapere di chi si tratti, eppure la ricerco per accoglierla. Non ho firmato il mio biglietto; non ce n’era bisogno. Quando raggiungi il livello di intimità che abbiamo condiviso io e Thalia, è tutto scontato. Di lei, conosco la sfumatura di rosso dei capelli — che non potrei mai confondere con quella di nessun altro—, le risate che concede in base alle circostanze, l’espressione concentrata che fa quando studia e quella che fa quando vuole risolvere un problema; l’entità delle sue preoccupazioni in base alle increspature dei suoi occhi. Che Thalia riconosca la mia grafia lo do per pacifico, nonostante si sia assottigliata negli ultimi due anni!
Per essere all’altezza di Roth…
«Ho ordinato un’acquaviola anche per te» esordisco, accennano al bicchiere che svetta, intonso, davanti a me. Alzo la mano in direzione del garzone per dirgli che la persona attesa è arrivata e che può preparare il suo drink. «Così, per rompere il ghiaccio».
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Ordine: due bicchieri di acquaviola. Merci! :zalve:


Edited by ~ Nieve Rigos - 14/11/2023, 20:20
 
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Rigiro tra le dita il suo messaggio duerighista, seduta sul mio letto a baldacchino, pensando e ripensando a che cosa dovrei fare di quell’ordine. Il mio cervello ci si arrovella da stamane, quando un volatile non ben definito ha quasi fatto finire il messaggio nel mio tè aromatizzato al gelsomino. Ho scoperto, tra parentesi, che è l’unica bevanda capace di calmarmi abbastanza per affrontare le lunghe giornate attorniata da persone che non conosco e di cui non voglio sapere nulla.

Inspiro ed espiro più volte, guardo l’orologio da polso e mi alzo. La mia ultima lezione è terminata trenta minuti fa e ci impiegherò lo stesso lasso di tempo per raggiungere i Tre Manici di Scopa. Immediatamente l’idea mi terrorizza.
Mi risiedo e allento il nodo della sciarpa che indosso: basta il pensiero di dovermi muovere dal mio posto sicuro per farmi tornare ansia e panico; come se la vita in sé - ad Hogwarts - non sia già abbastanza pericolosa. Mi concentro sul respiro, mi convinco a fatica che devo rimanere calma e concentrata sull’aria che entra dal naso e mi arriva dritta ai polmoni.
Ripeto il processo ad occhi chiusi, finché - dopo un po’ - non mi convinco ad aprire le palpebre e a prendere una decisione.
Ci voglio andare, se non altro per dirle che non sono il maggiordomo, l’Elfo Domestico o la sguattera di turno, che può chiamare a rapporto quando più le faccia comodo. L’idea di per sé è vera: mi infastidisce che possa disporre del mio tempo come meglio crede, come se le appartenesse. Come se fossi di sua proprietà.

Chi voglio prendere in giro? Ci voglio andare perché sono curiosa di sapere che cosa voglia da me dopo mesi di silenzio e sguardi torvi - per quel poco che ci siamo guardate, tra l’altro.

Vestita col mio cappotto più pesante color senape affronto l’aria fredda dell’inverno incipiente: non è ancora dicembre, ma la temperatura è scesa sensibilmente e una nuvoletta di vapore si origina ogni volta che espiro. Non ho intenzione di correre da lei. Andrò con la mia calma, arrivando quando più sarò comoda. Non voglio che passi il messaggio sbagliato: ultimamente, emettiamo suoni e parole che assumono i significati opposti alle nostre intenzioni. Io, invece, voglio chiarezza.
Mi piacerebbe ritrovare la lucidità anche in me stessa, ogni mattino quando mi alzo e affronto la giornata, ma soprattutto ogni sera quando mi corico e scelgo di congratularmi per aver superato indenne un’altra giornata. Faccio il conto alla rovescia per le vacanze di Natale, se non altro per tornare a stare con la mia famiglia che - dopotutto - è l’unica cosa vera che mi resta nonostante le scivolate e gli errori colossali.

Varco la soglia dei Tre Manici accolta dall’umidità e dal calore del locale, stupendomi di quanto sia vuoto. Mi aspettavo più gente, se non altro per fingere di faticare a trovare il tavolo al quale, il mio sesto senso mi dice, lei già si trova. La vedo e mi irrigidisco, insicura nuovamente sul perché io sia qui. Che cosa voglio davvero?
Per dissimulare la mia angoscia mi avvicino al bancone, appoggio una mano sul legno appiccicoso e faccio per parlare con il cameriere lì dietro. Vorrei dell’acqua, ma - a quanto pare - la mia gola secca non le interessa. Serro le palpebre in una smorfia stizzita, mascherata da un sorrisetto a labbra strette. Ho chiuso le dita a pugno sul bancone e finisco per nasconderle nelle tasche del cappotto.
Vado verso di lei immaginando di finire a fare a pugni con quel suo viso che conosco troppo bene, ma subito me ne pento: io non sono questa cosa rabbiosa che mi lotta dentro. E’ lei ad avermi fatto questo regalo inaspettato e vorrei dirle che non avevo bisogno di essere destabilizzata più di quanto già non fossi.

Mi sfilo il cappotto non appena arrivo al tavolo, la guardo e capisco che - nonostante tutto - riesce ancora a leggermi dentro. Vedrà l’inquietudine che mi sale alle guance privandole del loro colorito roseo, che mi fa tremare la mano che afferra la sedia e mi impone di aggiustare la mia posizione sulla seduta con cenno nervoso. So che mi vedi, Nieve, ma ti vedo anche io.
Hai bisogno di qualcosa. Qualcosa che solo io posso fornirti. Non ho alcuna idea di che cosa questo possa essere, ma te lo dovrai sudare. Con lo sguardo freddo, ora che ho ritrovato il baricentro di me stessa, ti sto dicendo che non sono in vendita e non lo sono mai stata.
Che mi dispiace non esserlo, ma forse non me ne dolgo nemmeno troppo.

«Non sono neanche le sei e già beviamo.» commento freddamente «Fantastico.»

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view post Posted on 14/11/2023, 21:20
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Ghigno. La tua considerazione è asciutta, pungente, intrisa dello stesso brillante sarcasmo che ben si sposa con la tua personalità. Non avrei mai pensato che ci saremmo trovate sedute allo stesso tavolo senza la complicità a farla da padrona. Mi chiedo se tu l’abbia notato, che ho scelto proprio il posto in cui ci siamo incontrate la prima volta per parlare dell’Esercito del Mezzogiorno. Avrei dovuto risparmiarmi questo rimando al passato, ma mi sono d’un tratto riscoperta un’inguaribile nostalgica. Ho come la sensazione che le gambe e le assi di questo mobile emanino la medesima, birbante energia che ci animava allora.
Spodestare un insegnante sgradito. Ambizioso da parte nostra. Eppure, a un certo punto, Dorian Hades Midnight è scomparso nel nulla, probabilmente risucchiato dagli stessi inferi che invoca il suo nome. L’abbiamo — l’ho — presa come una vittoria. Se non il Preside, almeno Dio deve aver dato ascolto alle mie preghiere e ricompensato gli sforzi in cui ci siamo profusi. Sembra una vita fa, adesso che ti guardo attraverso una doppia lente: quella sottile degli occhiali e quella confusa che mi ha portato a respingerti.
«Gli italiani farebbero l’aperitivo a quest’ora, no?» È un rimando alla nostra vita in Toscana, a Lari. Se una cosa abbiamo imparato in quelle settimane, è che per il popolo del Bel Paese una diatriba assume contorni più civili davanti a qualche stuzzichino e a un bicchiere ricolmo. «Non vedo perché non riesumare un’abitudine così carina».
Convenevoli. Siamo davvero giunte a questo, tu e io. Non posso che domandarmi dove stia la responsabilità, oltre l’offesa cui mi aggrappo. A metà, suppongo. Il dolore ha accecato entrambe e ci ha reso impossibile vedere la sofferenza dell’altra. Eppure…
Distolgo lo sguardo, approfittando del bicchiere per bere un sorso di acquaviola. Il sapore è delicato, pizzica appena ai lati della lingua. Il palato lo accoglie con piacere, abituato com’è a soluzioni liquide che, invece, di delicatezza non conoscono il concetto.
Potresti invadere la mia mente con un solo sguardo: ora so fino a che punto è potente la Legilimanzia. Mi sono documentata dopo il nostro incontro, incapace di credere alle azioni di cui ti sei macchiata. Non lo trovi terrificante, apprendere qualcosa in grado di privare le persone della loro intimità? E se facessero lo stesso con te? Rifuggire i tuoi occhi, tuttavia, non è una soluzione destinata a protrarsi, non per il tipo di conversazione che dobbiamo intraprendere. Forse per questo, prendo un altro sorso — più abbondante — dal bicchiere e già valuto di ordinarne un secondo.
«Ho bisogno di aiuto» ti dico senza cerimonie, tornando a fissarti. Non giro intorno agli argomenti, lo sai bene. «Non so più usare la magia, non da quando…» Non voglio ripeterlo. Sarebbe superfluo e doloroso insieme; e sbagliato di fronte a una persona che ha mostrato così poco riguardo per un amore e la sua fine — la fine di una vita. «Perdo il controllo. La bacchetta non risponde e, se lo fa, scotta. Succedono invece cose intorno a me: tremano i candelabri e i vetri delle finestre, le fronde degli alberi, le pareti. Ho rischiato grosso al Ministero della Magia, distruggendo quasi un intero livello».
Tante informazioni per te che, della mia vita, ora non sai nulla. A tratti, mi pare di ricambiare il gesto: il tuo spaccato su un crimine aberrante per il mio su una debolezza che origina dal vuoto. Mi domando, adesso che ti guardo, se possa appagarti conoscere questo dettaglio su di me; sapermi sconfitta da me stessa quando mi atteggio a cavaliere indomito che nessuno può arrestare. In fondo, è piacevole vedere il proprio carnefice — perché è così che mi vedi rispetto al nostro rapporto, no? — in ginocchio prostrarsi per una tregua.
«Sono stata bocciata l’anno scorso per questo motivo… e perché non ho studiato. E sono stata in pericolo senza sapermi difendere. Non voglio che accada più.»
Bello, il racconto, ma non spiega perché ho scelto te né perché dovresti dirmi di sì. In realtà, non so offrirti una ragione per accogliere la mia richiesta, a meno che tu non voglia mettere sul piano della bilancia una controfferta. O trovare una feritoia per quell’affetto che ci ha unite e concedergli di respirare.
«Lo chiedo a te perché sei l’unica di cui mi fidi abbastanza da abbassare le difese… nonostante tutto
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Edited by ~ Nieve Rigos - 15/11/2023, 13:52
 
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Carino non è l’aggettivo che mi viene in mente se ti guardo, né lo sono le nostre vecchie abitudini, e non si tratta nemmeno di identificare - attraverso una parola del genere - il tuo aspetto attuale. Non so se mi inquieta ancora il fatto che le tue iridi siano diverse, se a turbarmi siano i tuoi capelli o l’aspetto ridicolo di quegli occhialini che ti stanno in bilico sul naso. E’ la prima cosa nuova che ho notato di te entrando e la vecchia me avrebbe sicuramente bofonchiato qualcosa di divertente in merito che non fosse in alcun modo offensivo. Ora, qualsiasi cosa io dica - o pensi di dire - porta sempre con sé il pungente desiderio di ferirti come tu hai ferito me. Poi ci penso meglio e mi rendo conto che non hai mai detto niente per allontanarti da me - ad eccezione dell’ultima volta - perché il silenzio ti è bastato per soffocare la nostra amicizia; il colpo di grazia è arrivato dopo, quando mi hai letteralmente messo le mani al collo. Ti guardo, in silenzio, mentre sorseggi il tuo drink dall’aspetto delicato e ti associo mentalmente al predatore che sei: stai giocando con me, lo vedo e lo percepisco nettamente, ma ti lascio fare quello che vuoi; provaci pure ad ammaliarmi con i tuoi giochi di parole, il tuo risvegliare ricordi sopiti e punzecchiare la mia anima. Non hai idea di che cosa voglia dire per me essere qui oggi.
Mi hai fatto affrontare un viaggio più lungo di quello usuale, che dalle aule mi porta al letto e da questo alla Sala Grande per la cena. Mi hai costretta a soffocare la mia paura degli spazi affollati, degli sguardi della gente e di te. Ho paura di te, sì. Lo confesso. E’ una colpa? Mi intimorisce la presa che hai su di me, proprio nel periodo peggiore, e mi rifiuto di ottundere i miei pensieri - già poco razionali - con un drink ingentilito dal colore tenue.
Le mie braccia sono incrociate al petto, con le dita nascoste stringo quel poco maglione che riesco ad afferrare con le estremità e sono rigida, come uno stoccafisso, con il dorso appoggiato allo schienale. Non le vedi le gambe incrociate all’altezza delle caviglie, ma puoi capire che sono nervosa dal sobbalzo ritmico dei miei piedi. Li agito per scaricare la tensione che mi corre da capo a piedi, per non risponderti balbettando - cosa che fortunatamente di solito non faccio; mi fermo solo quando esponi il problema.
Vorrei sorriderti sorniona, perché quello che mi dici oggi non mi giunge nuovo: avevo capito, ero sicura che fossi ridotta a questo. Di certo non immaginavo avresti avuto la faccia tosta di chiedermi aiuto dopo quanto ci siamo fatte e dette.
«Che cosa ti fa credere che io ci riesca?» borbotto, sciogliendo ogni nodo del mio corpo e della mente. E’ inutile che stia qui a fingere che il tuo caso non mi interessi: non sono un Medimago e tu non sei affetta da Vaiolo del Drago, ma la mente mi ha sempre affascinata e quello che faccio - quello che sono - lo devo a questa curiosità morbosa che ho. Non farò finta di essere distante dal tuo problema: nel mio cervello si sono combattute battaglie che solo Merlino sa; ancora oggi mi domando come faccia io stessa a non aver perso di vista la meta o la lucidità.
Mi chino sul tavolo, mantenendo quella posizione di chiusura, e ti lascio comunque intendere che ci sia uno spiraglio per risolvere un problema più grande di entrambe.
«Non è la magia che non funziona.» ti dico, portandomi l’indice alla tempia «E’ ancora lì dove l’hai lasciata, ce l’hai nel sangue, ma devi sistemare il caos che hai lì dentro, prima.»
E questo, mia cara, è l’unico consiglio che riceverai da me per il momento.
Con la mano libera afferro il bicchiere e lo porto alle labbra, ne esamino il contenuto e ne assaggio un sorso. Mi fa schifo, sarò onesta, ma sono ancora troppo sobria per darti corda.

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view post Posted on 17/11/2023, 18:53
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Sei nervosa. Lo sono anch’io. Mi è solo più facile mascherarlo.
Ho iniziato questo strano rituale con le emozioni, da quando la mia vita è drasticamente cambiata. Le provo e le nascondo. Così, il mio cuore è diventato come uno di quei dessert sfogliati che richiedono una lunga lievitazione: tanti strati per ignorare, per sentirmi leggera. È la libertà cui anelo, quella di distaccarmi dal mondo che mi circonda e dalle sue persone — le mie persone. Tu eri una di queste e ho dovuto lasciarti indietro.
So che non dovrei sorridere, eppure le mie labbra si arricciano spontaneamente quanto ti osservo rispondere. La tua mimica è rimasta inalterata, perfino il modo in cui mi parli e tenti di farmi arrivare alle conclusioni che rifuggo. Io il caos, un intruglio mal assortito di ingredienti sbagliati; tu la goccia capace di portare in equilibrio la pozione. Era destino che fossimo amiche, ne sono convinta. Preferisco pensare, però, che ci siamo scelte ogni giorno con piena consapevolezza e con il desiderio di intrecciare le nostre strade, nessuna imposizione dall’Alto.
«Già…» Un’unica parola del peso di un macigno. Forse è per questo che, senza accorgermene, mi abbandono a un sospiro profondo — gli occhi adesso incollati alla superficie consunta del tavolo. «È sempre stato questo il problema».
Pronuncio la frase soprappensiero, colta da un’intuizione che mi spinge a vuotare il bicchiere. Scegliere questo luogo per un incontro non è stata la migliore delle mie trovate. È qui che ho conosciuto Astaroth; è qui che Lei lavorava; è qui che mi ha dato le prime lezioni di seduzione. È qui che ho iniziato ad amarLa. Insieme all’acquaviola, deglutisco il groppone che si è stretto nella mia gola al ricordo di una festa di Halloween, risalente a così tanti anni fa che di essa porto giusto il ricordo delle mie orecchie a punta. Il Suo fantasma aleggia su di me anche quando, come in questo istante, provo a concedermi di più della mera sopravvivenza.
Torno a guardati, lo sguardo chiaro vestito di determinazione. «Tu lo conosci, quel caos» rispondo con voce pacata. «Ci hai avuto a che fare più di chiunque altro — sì, persino di Roth — e sei sempre stata l’unica ad aiutarmi a ricomporlo con la tua logica».
E il tuo affetto, rifletto ma non lo dico.
Il torneo Barnabus Finkley è uno dei tanti esempi che potrei portare. Conservo con malinconia le memorie di quelle settimane trascorse a provare incantesimi, a elaborare strategie, a ipotizzare scenari. In ognuno di quegli episodi, ci sei tu al mio fianco a temperare la vampa con la quale sono nata e che neppure la morte di Roth sembra essere riuscita a spegnere. Picchio ancora duro come un tempo, in senso figurato e letterale, nonostante la mia stazza.
Gli occhi ispezionano il locale. Rimango in attesa per i secondi che bastano a intercettare lo sguardo del garzone. Dunque sollevo il braccio e gli chiedo di portarmi un secondo bicchiere, ignorando lo spettro della mia mentore che aleggia dietro al bancone.
«Non me lo devi, questo è sicuro». Inizio a prendere di petto la questione e sposto l’ago della bilancia verso il suo nocciolo. Io so di cosa ho bisogno e, adesso, lo sai anche tu. Rimane da capire se e come iniziare a parlare delle beghe che renderebbero impossibile un nostro eventuale schieramento sullo stesso lato della scacchiera — ce l’hai ancora quella che ti ho regalato? «E io non voglio convincerti con l’inganno. Non ci riuscirei comunque».
A meno di fingere un ripensamento sulla nostra amicizia per il tempo necessario ad accaparrarmi la tua collaborazione…
Non lo farei mai. È troppo meschino anche per me. Soprattutto, non lo farei a te. Di Nieve Rigos si possono dire tante cose in questo momento, ma non che sia meschina. Un tempo, avremmo detto che non appartiene alla mia natura fingere. Oggi, so bene quante maschere conosce il mio viso; almeno quante le menzogne dietro cui mi sono accucciata per il mio tornaconto. Allora, provvedo a una correzione: Nieve Rigos non è meschina fino a questo punto.
«Tu come stai?»
Le parole sfuggono al mio controllo, sospinte da una preoccupazione impossibile da sopire. Ho notato i ritmici sobbalzi del tuo corpo; vedo le emozioni combattersi oltre le ciglia. Non ti sono indifferente e non sai nasconderlo. E io, che nell’espressione mi professo imperturbabile, mi lascio tradire da una semplice domanda. Potrei ritrattare, ma non è da me svicolare in un vicolo buio come un ratto per sfuggire alle mie responsabilità emotive, non più.
«Ti ho vista in Sala Grande» aggiungo.
Preferiresti che nessuno toccasse l’argomento, io su tutti. E magari mi restituirai un commento al pepe e un ghigno sardonico perché mostrare preoccupazione, dopo tutto quello che ti ho fatto, richiede una bella faccia tosta. Non ho mai negato di averla.
«Ti ho vista anche dopo, se è per questo.»
Mi riferisco al tormento che t’impallidisce le guance, anche se tenti di celarlo dietro la spilla da Caposcuola. Ai piccoli segnali di fuga che sprigionano da te quando ti muovi — ché, quelli, io li conosco bene. Alla tonalità più chiara delle tue labbra giacché il sangue, smosso dal panico, fluisce tutto nel centro del tuo petto, non è così?
Dovrei disprezzarti per esserti tacciata di un crimine eguale, per gravità, a quello messo in atto da Grimilde. Invece, mi accorgo — senza alcuno stupore, in verità — che non è così. Tu non lo intendi, però, oltre le pennellate di neutralità che dominano il mio viso. E a me va bene, perché non c’è altro che desideri di più.
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Per riassumere, ho ordinato in totale 3 Acquaviola. Tutto sul mio conto, obv! :zalve:
 
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TW: accenni allo stato psicolabile di Thalia e una (forse) parolina colorita.


Mi aspetto che tu nasconda le tue ferite come io cerco di fare con le mie: da te ho imparato anche questo, ovvero fingere che niente possa tangermi al punto da farmi male abbastanza perché io lo mostri. La te di qualche tempo fa, di quando tra le neve ci siamo prese - metaforicamente - per i capelli, mi ha impartito un’altra lezione importante: starti lontano è vitale quasi quanto respirare se la mia salute mentale, il cielo non voglia, deve tornare ad essere quella che era. Eppure è proprio per starti lontana che, adesso, mi tremano le mani e sbianco in volto quando ti vedo. Non ce la faccio, hai tirato la corda del mio affetto e della mia pazienza sfilacciandola, fibra dopo fibra, annullando la sua forma e creandone una nuova. Siamo simili, almeno in qualcosa, ma in questo momento della nostra vita credo che siano maggiori le differenze tra noi. Hai acquisito una calma che non ti è congeniale, ma continuo a dimenticare - forse lo faccio di proposito - che Nieve Rigos non è più la ragazzina che correva con le sue gambette magre e pallide tra i vigneti soleggiati. Devo concentrarmi, ora, per associare quel nome al tuo viso e, per certi versi, quello che vedo mi lascia ancora senza parole.
Bevo un altro sorso di Acquaviola e non riesco a trattenere l’espressione schifata che mi sorge spontanea. Non commento i tuoi gusti, non lo facevo prima di tutto questo e non lo farò nemmeno ora, ma ti guardo e scuoto il capo inorridita dal sapore che mi impasta la bocca.
«Adoro il caos.» commento sardonica sapendo bene ciò a cui ti stai riferendo; ti ho vista nei tuoi momenti migliori e in quelli peggiori, ho svelato la tua storia con parsimonia e comprensione, dandoti tempo e spazio per elaborare - in alcune occasioni per la primissima volta - quello che ti era accaduto. Le cicatrici sulla pelle e sul cuore, ad esempio, le ho curate meglio di quanto avrei mai potuto. E nonostante questo mi hai pugnalata alle spalle col silenzio. Mi volto alla ricerca del garzone e seguo il tuo ordine di un nuovo intruglio disgustoso col mio più classico e meno snob.
«Una Burrobirra per me!» e poi, quasi abbia dimenticato che non ci parliamo praticamente più aggiungo «Come accidenti fai a bere questa roba?!»
Sorrido d’istinto, ma me ne pento non appena mi accorgo che la mimica facciale risponde a uno stimolo antico, quello che scaturisce tra due persone che si sono raccontate tutto e saprebbero riconoscersi tra mille. M’incupisco, dunque, e non è perché mi turba l’idea che tu ammetta di essere dominata dal caos o che mi giuri di non mentire; è quello che è appena successo a darmi contezza di quanto sei presente, ancora - troppo -, nella mia quotidianità. E nella mia testa.
«Ti interessa davvero?» te lo chiedo perché non credo del tutto alla tua promessa di non volermi circuire con le menzogne e le inesattezze «Avresti potuto chiedermelo come prima cosa, lo sai?»
Non è più lo stupore a farla da padrone, ma il sangue che fluisce allo stomaco e il calore che si è generato dalla rabbia per essere stata ignorata. Nieve, cara, ti sei sempre messa al primo posto da quando sei tornata e pur non avendoti fatto nulla sono io che ne pago le conseguenze. Se ti interessasse davvero me lo avresti chiesto fin dal mio arrivo e non dopo avermi sciorinato le tue esigenze, come sempre. Non sono tua madre, né la bambinaia né la tuttofare, eppure non fai altro che rivolgerti a me con l’intenzione di guadagnare qualcosa, un terzo elemento che fa di noi un triangolo scomodo in cui stare.
Vorrei dirtene quattro, ma mi blocchi con le battute successive e, quando la mia Burrobirra arriva finalmente al tavolo, non sono certa di sapere come si faccia a parlare, prima ancora di rispondere ad un’affermazione che celi una domanda.
«Non ci provare.» ti dico e mi tiro indietro, proprio come all’inizio di questa conversazione. Ho alzato la voce, una cosa che non avrei mai fatto prima in un luogo pubblico, e me ne rendo conto con la stessa attenzione con cui mi accorgo che ti sto ferendo. Sto mettendo in dubbio il tuo interesse e questo addolora la parte di te che ancora non si è fatta inghiottire dall’egoismo.
«Se questo» e indico con gesti nervosi della mano la mia figura e la tua «fa parte di qualche giochetto stupido per avere quello che vuoi… non ci sto.»
Trattengo il respiro per un secondo, sentendo già montare dentro la paura che mi assale ogni singola mattina. «Non mi sta bene. Mi hai detto che sarei stata meglio senza di te.»
Il battito accelera e la mano sospesa sul tavolo, con l’indice proteso verso di te, inizia a tremare impercettibilmente. Vorrei fermarla, ci provo, ma non ci riesco. Sembra che i miei nervi non riescano a tollerare un terremoto di magnitudo Rigos.
«Non… sto bene.»
Ritiro il braccio e lo nascondo tra le pieghe del mio maglione. Ti accorgerai così che è almeno di una taglia più grande rispetto a tutti gli altri che mi hai vista indossare e allora capirai. Capirai che la mia logica, i miei nervi e il mio autocontrollo sono andati - letteralmente - a fanculo.

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Per Thalia una Burrobirra, da scalare dal mio conto. Thanks! Frufru!
 
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view post Posted on 18/11/2023, 22:36
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«Se l’avessi chiesto prima, sarebbe sembrata una domanda fatta solo per introdurre la questione relativa alla magia. Un mero convenevole.»
Ti correggo e ti smentisco, sfidando il tuo nervosismo e le tue teorie, con la mia logica. Siamo sempre state poli opposti ed eccone l’ennesima dimostrazione. Pensiamo in maniera diversa e arriviamo a conclusioni antipodistiche. Riderei, se una parte di me non avesse accusato il colpo — i dubbi sulla sincerità della mia preoccupazione, la tua nervosa fragilità.
Sembri appesa a un albero, molto in alto, e trattenuta per la collottola da un filo di lana. Ti reggi a stento, adesso, e la maschera di forza che hai fieramente esibito per tanti anni giace, sgretolata, ai tuoi piedi. La vedo, te l’ho detto. Ti vedo e, che ti piaccia o meno, non mollerò l’osso tanto presto.
«Invece, ho voluto togliermi di torno la questione per concentrarmi su ciò che mi importa veramente.»
Mi espongo, a costo di entrare in contraddizione. Che sarà mai una pennellata di incoerenza in più?! Nel farlo, incespico nel livore della tua affermazione. L’ho detto, è vero, che saresti stata meglio senza di me; e ne ero convinta. In parte, lo sono ancora adesso. Eppure, vederti così — tremante, dubbiosa, piccola — mi stravolge e, insieme, capovolge le mie credenze. Neppure troppo tempo fa, l’Umanoide mi ha rinfacciato di essere talmente concentrata sul mio dolore da dare per scontato quello degli altri. Aveva ragione probabilmente, ma non gli darò mai questa soddisfazione. Sempre che…
Batto le palpebre per scacciare il pensiero nefasto originato dalla mia apprensione e torno a concentrarmi su di te. Ebbene, se è vero quel che dice, vale la pena tornare sui miei passi. Non so fino a che punto del sentiero sono disposta a spingermi. Immagino che lo scoprirò in corso d’opera. La vera incognita è: mi crederai?
Non ci conosciamo più, non in questa versione, e pensiamo il peggio l’una dell’altra — tu credendo voglia sfruttarti, dimentica del nostro affetto; io timorosa di saperti capace di violare la mia mente.
Io ti crederei, a parti invertite. No, non sto tentando di rinfacciarti la perplessità con cui mi guardi e giudichi. È solo che non hai mai smesso di mostrarti vittima dell’effetto Rigos. Persino adesso che ostenti la solita prontezza di riflessi e mi opponi una rigidità che merito, i segni della mia presenza lasciano ombre al loro passaggio.
Serro le labbra per dissimulare il dispiacere e, insieme, il sollievo di saperti ancora legata a me. È un bisogno egoistico, smosso dalle correnti di una paura radicata, e me ne assumo la responsabilità. Mi assumo anche la responsabilità del malessere che, infine, confessi. La conferma stritola il mio cuore in una morsa d’acciaio.
«Lo so» commento con una traccia di involontaria spavalderia nella voce. Ti conosco bene, Thal, e potrò non sapere i dettagli della tua storia negli ultimi due anni, ma scorgo in ogni impercettibile mutamento d’espressione la portata del tuo tormento. «Non volevo lasciarti sola» sfiato allora.
Il bianco dei capelli raccoglie i riflessi aranciati della luce flebile del locale. I miei occhi, invece, catturano i tuoi. Regna un’atmosfera accogliente tutto intorno a noi, che esorta all’intimità. È forse questa la ragione per cui apro uno spiraglio nelle mura che ho eretto e lascio passare un soffio di vento.
«E non ho mai voluto farti del male.»
Tu hai chiesto scusa. Ora è tempo che io faccia altrettanto. Non rinnego le ragioni dei miei gesti — sarebbe strano il contrario —, né la fondatezza dei miei timori. Eppure, nel prendere coscienza delle conseguenze di ogni decisione presa, mi pento. È vero: ho scelto anche per te senza averne il diritto. Lamento i torti di Grimilde e, senza accorgermene, faccio lo stesso. Buffo e amaro, trovi anche tu?
«Non avrei dovuto scegliere al posto tuo» ripeto a voce alta. «E non avrei dovuto aggredirti, l’altra volta».
Non è necessario appellarmi al cambiamento intervenuto in me nei due anni trascorsi nell’isolamento forzato. Ho immolato la mia vita al castigo e ho ceduto la mia anima alla perdizione per sopravvivere. Quanto deve averti inorridita scoprire della mia dipendenza! E quanto semplice è stato, invece, per Nieve Rigos abbandonarsi alle sue lusinghe.
«Ho pensato che saresti stata meglio senza di me, che tutti lo sarebbero stati, e ho spento la luce. Se anche avessi voluto riaccenderla — e non sto dicendo che sia così —, non ho più trovato il pulsante».
In realtà, di aggiunte e specifiche dovrei farne. Ad esempio, dovrei dire che ho rifiutato l’aiuto di chi ha provato a rischiarare con la sua fiamma le inespugnabili tenebre alle quali ho aperto le porte del mio io. Mi convinco che non sarebbe rilevante ai fini della conversazione, magari perché mi fa più comodo.
«Cosa c’è che non va?»
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E' tutto sbagliato. Non riesco a sentire la metà delle cose che stai dicendo, perché i suoni intorno a me - la tua voce, i rumori di sottofondo del locale - sono ovattati e sovrastati dal tambureggiare del cuore nelle orecchie. Il sangue pulsa, quasi dolorosamente, nelle mie vene e mi sento rigida, come se una scarica elettrica mi avesse percorsa da capo a piedi, rendendomi prima consapevole di ogni terminazione nervosa e, poi, lasciandomi senza forze. Non riesco a parlare, pensare o respirare. Ti guardo, Nieve, ma non riesco a vederti. Sei seduta di fronte a me e non ti vedo.
E’ come se, all’improvviso, mi fossi estraniata dal mio stesso corpo, da quella fisicità che mi ancora i piedi al pavimento, facendo aderire ogni parte di me al mondo materiale e fossi, semplicemente, altrove. Sono rinchiusa in me stessa con le paure che ho sempre saputo dominare e, adesso, governano i miei gesti. Percepisco la confusione e l’incapacità di sbloccare questa situazione, ma mi sfiora anche la consapevolezza che quello che eravamo, alla fine, non saremo più. Ho capito diverso tempo fa che la versione di me che ti conosceva, amava e proteggeva non esiste più: non è soltanto merito tuo, ma anche mio; forse, dopo secoli, ho compreso che la nostra amicizia era qualcosa di bello che, tuttavia, era destinato a finire nel peggiore dei modi. Resuscitarla ora sarebbe un suicidio del cuore e dell’anima - la mia e la tua - perché non sono convinta esista una dimensione in cui tu ed io potremo tornare ad essere l’una per l’altra ciò che siamo state.
E’ questo filo quasi logico di pensieri che mi aiuta a disgelare la materia che mi compone e lo spasmo delle dita d'una mano ti potrà suggerire che sto tornando alla realtà, che mi sto liberando - solo per un attimo - di quelle ombre che mi offuscano la mente. E’ il pensiero razionale di sapere che cosa sia giusto fare per me stessa, alla fine, che mi fa biascicare una risposta che credo non ti piacerà.
«Tu. Io.» è la risposta alla tua ultima domanda, l’unica tua espressione che sia riuscita a sentire nella mia bolla di paura.
«Ho cercato…» mi trattengo,per paura di dire la cosa sbagliata o, forse, di non sapermi esprimere come dovrei «Ho cercato in tutti i modi di riavere quello che avevamo. Mi hai respinta e ci ho riprovato. Ancora e… ancora.»
Ti guardo e penso a tutte quelle volte in cui mi sono arrovellata, talvolta piangendo, sul perché non volessi il mio aiuto e, dopo il nostro ultimo incontro, ho capito che prendi ciò che vuoi quando credi sia meglio per te; è una forma di egoismo che non avevo mai notato in te e, forse, la morte della Morgenstern ha fatto questo di te: un essere vile ed egoista incapace di chiedere perdono, smanioso solamente di aver tutto ciò che gli è sempre stato negato. Mentre ti guardo scorgo qualcosa nei tuoi occhi quasi vitrei, ma non riesco a dare un nome a ciò che vedo. Forse, non ne ho nemmeno così bisogno.
«Sei riuscita a prosciugare ogni mia buona intenzione. Sto così -» e ti mostro le mani, le dita tremanti «- da quando hai fatto a pugni per una stupida lettera. E io, Nieve, non ce la faccio più.»
Ripensando a quel mattino non riesco a non vedere come il tempo trascorso insieme sia andato in fumo. Come se non fosse mai successo niente. Mi rivedo scavalcare la tavolata imbandita di Tassorosso, piombare sul mio concasato dal naso sanguinante e il tuo sguardo infuocato su di lui. Non mi hai nemmeno vista, non è vero? Non ti sei resa conto di quando, pochi minuti concitati più tardi, qualcosa dentro di me si è spezzato, giusto?
Esiste un modo per nascondere la rabbia e la frustrazione che ricominciano a pervadermi? E’ la stessa sensazione spiacevole che ho provato mettendoti al tappeto qualche mese fa. Non c’è stato calcolo, solo istinto, e mi chiedo se sia questo ad animarti davvero.
«Poi invochi la mia presenza e io come una stupida vengo qui sperando tu sia rinsavita, ci abbia riflettuto, magari… e invece no. Vuoi soltanto qualcos’altro, salvo poi scaricarmi di nuovo.»
Ti guardo, le sopracciglia sollevate a sfidarti a controbattere, a dirmi che mi sbaglio. Eppure lo so che dentro di te non vedi l’ora di dirmi che è vero: non ti servirò più dopo averti aiutata a ristabilire il controllo su te stessa. Dimmelo, forza, non aspetto altro.
«Non sono in vendita, Nieve.» sussurro alla fine, intrecciando le dita in grembo «Vorrei dire che aiutarti non mi costerebbe nulla, ma mentirei.»
Tra l’altro, penso, non ho idea di come aiutarti - qualora lo volessi e potessi - a sistemare il caos che hai nella testa. Forse ti sei sbagliata, forse non ti servo veramente.

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Non mi credi. È questa la realtà dei fatti. E sarà anche difficile digerire il boccone amaro, ma non ho diritto di biasimarti né — in fondo, in fondo — di simulare stupore. Non m’importa nemmeno onestamente, confesso a me stessa, mentre ti osservo servirmi la verità senza un contorno di dissimulazione. Sei ridotta in frammenti e, forse, solo adesso comprendo realmente le mie colpe; il peso di tutto ciò che ho fatto.
Allora, i miei occhi si offuscano e un fiotto di tormento emerge sul mio viso. La bocca è una diagonale che taglia la mia espressione, conferendole una sfumatura esecrabile. Odio me stessa in questo momento. Mi ripugno per non aver compreso prima, per essere andata avanti, imperterrita, a costo della tua anima. Pensavo di proteggerti e, invece, ho sferrato il colpo che ha messo al tappeto la tua resistenza.
«Io ti voglio ancora bene, Thal. Te ne ho sempre voluto, anche quando opponevo il silenzio e il rifiuto ai tuoi tentativi di ritornare da me; di mostrarmi che non era tutto perduto».
La confessione è più accorata di quanto avessi previsto prima di incontrarti. Non avevo intenzione di rivelare i miei sentimenti, non così apertamente, ma più ti sgretoli più il baule in cui ho seppellito la vecchia me trema e sbraita — “Cos’hai fatto, Nieve Rigos?”. Ho lo sguardo basso. Il cuore martella nel petto. Intanto che trovo la forza di ritrovare i tuoi occhi, mi sgomenta l’inatteso palesamento dei miei errori. Non ho riflettuto, non con lucidità, ed ecco al mio cospetto il risultato di una soluzione raffazzonata, cieca. Non guardo mai avanti nel futuro e mi domando troppe poche volte quali effetti provocherò con il mio caos.
Sospiro. «Ho sbagliato. Realizzo solo adesso fino a che punto» ti dico, facendo i conti con le tue accuse. So che non sei in vendita e nemmeno ho pensato di comprarti. Non tu. «Ed è sfrontato da parte mia chiamarti e chiederti aiuto senza prima aver rimediato a ciò che ti ho fatto».
La maledizione. La sento gravare su di me, stringere il mio corpo in un abbraccio freddo, ricordarmi cos’ho già fatto a Ỳma e a Roth. È un colpo all’anima, infine, confrontarmi la realtà: ti ho riservato lo stesso trattamento che ho riservato a Lei. Ho rischiato di ripetermi? Di perderti?
Un’ondata di calore, seguita dal gelo penetrane del terrore, s’infrange su di me e sono costretta a fermarmi; a cercare di ricordare quale sia il meccanismo che sovrintende il respiro. Ti ho quasi uccisa con la pretesa di proteggerti, realizzo. Ho messo a repentaglio la tua salute, la tua vita, con il mio maledetto egoismo.
Lo sguardo saetta in direzione del bancone, velato. Scorgo Roth sorridermi oltre le assi appiccicaticce, armeggiare con bicchieri e bottiglie, fissarmi con mestizia. Un fuoco innaturale giunge a infiammare le mie sinapsi e neppure mi accorgo di non essere più qui, con te, nel locale che ho scelto per ricongiungere il filo della mia esistenza al tuo.
Cos’ho fatto?, rimbomba nella scatola d’ossa che custodisce l’entropico delirio del mio vaneggiare. Cos’ho rischiato di provocare?
Sono ancora nel Tuo ufficio vuoto, seduta sul pavimento a rimpiangere di averTi allontanata. Sono sul selciato che antecede l’ingresso a Villa dei Gigli, riversa tra le braccia di Nonna Lucrezia con la bocca piegata e gli occhi di nuvola. Sono relegata nel letto, immobile, e osservo il soffitto, catatonica. Sono rannicchiata in un vicolo buio di Londra, incapace di raziocinio ora che la Psilocibina inebetisce ogni frammento di me. Ti ho persa per sempre.
Il sospiro che abbandona i miei polmoni, a lungo trattenuto, sibila un canto di morte — la stessa sotto la cui ala continuo a vagabondare. Mi alzo di scatto e corro in direzione della porta d’ingresso. La oltrepasso e cerco il sostegno di una parete. La schiena si curva in avanti, le mani cercano la fermezza delle ginocchia.
Non sono venuta qui per questo. Non sono venuta qui per cedere. Non sono venuta qui per replicare il tuo attacco di panico. Non sono qui, fuori dai Tre Manici di Scopa, a sperare che tu mi veda e ti ammorbidisca.
Cos’ho fatto? Di quale ennesimo crimine ho rischiato di macchiarmi?
Apro la bocca e invoco l’ossigeno di rispondere al richiamo del mio petto — la maledizione sono io.
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Edited by ~ Nieve Rigos - 1/12/2023, 18:17
 
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Sono riuscita in quello che credevo impossibile e, comunque, non sono soddisfatta. Vederti realizzare la verità, sentirla e percepirla sulla pelle e nel cuore, doveva essere per me fonte di giovamento; volevo che capissi e lo hai fatto, ma non ne sono lieta. O meglio, una parte di me lo è, ma l’altra - quella che assiste impotente alla tua frettolosa uscita di scena - resta immobile e rispettosa dello spazio che ti sei voluta prendere.
Di me, Nieve, non hai capito questo: ho vissuto in una famiglia numerosa, so che cosa significhi aver bisogno di respirare aria nuova, la necessità - quasi viscerale - di avere uno spazio che sia solo tuo. Al Maniero trovare quel luogo personale è stato facile, ma dopo il mio trasferimento nel cottage di campagna l’antifona è cambiata e quella musica non mi piaceva affatto. Condividere la camera da letto con la più chiassosa delle mie sorelle è stata un’impresa ed Hogwarts è diventato quello spazio di libertà di cui avevo bisogno. Trovarti e accompagnarsi a te - che sei caos puro sempre e comunque - è stato rigenerante e faticoso insieme, ma non te lo voglio rinfacciare o far sapere in alcuna maniera. Dirtelo minerebbe la tua tranquillità e farebbe vacillare la convinzione che, piano piano, sta prendendo forma nella mia mente.

Osservo lo spazio vuoto che hai lasciato e mi aspetto che prima o poi mi solletichi con insistenza il bisogno di vederti di nuovo, di sapere che stai bene e che, in fondo, il discorso non sia finito. Invece, non sento nulla di tutto questo. Non sono sollevata che tu non ci sia, ma nemmeno sento l’impellenza del desiderio di cercarti. Immagino tu sia ancora qui, anche se non ti vedo, ma sono sicura che ritornerai con i tuoi tempi e i tuoi modi da uragano.
Resto da sola per diversi minuti e in quel tempo mi chiedo se non sia giunta l’ora di concludere il nostro affare. Lascio il pegno per la mia Burrobirra sul tavolo, tra il bicchiere di Acquaviola e il boccale, mi alzo e con calma, che adesso mi appartiene di nuovo, infilo il cappotto.
Sono consapevole dello spazio intorno a me, del mio battito cardiaco regolare e del respiro lento e quieto che lo accompagna. Restare da sola mi ha fatto bene, ma riconosco anche che dirti quello che penso della nostra situazione mi ha aiutata più di quanto pensassi. Soffro di attacchi di panico, questo lo hai capito tu e l’ho sempre saputo anche io, ma sto scoprendo giorno dopo giorno che posso riuscire a controllarmi. Tu non l’hai visto, forse, ma mentre ti alzavi ho cominciato lo strano rituale mentale di contare. Dare una cadenza al mio respiro, al mio cuore impazzito e al tremore delle mani ha fatto sì che tutti i sintomi, con estenuante calma, andassero via via diminuendo. Solo così ho capito che devo tornare ad affrontare le cose di tutti i giorni - te compresa - con la lucidità che mi è sempre appartenuta. Peccato averla perduta all’improvviso, ma la rivoglio. Esigo di tornare ad essere me stessa e tu sei il mezzo attraverso il quale otterrò il mio scopo. Il nostro, dunque, è uno scambio equo: la mia anima per la tua. Non è detto che, nel mezzo, ci sia spazio anche per la ricerca di nuovo equilibrio tra noi. Chi sono io, però, per predire il futuro?

Sollevo il bavero del cappotto per proteggere il collo dall’aria fredda, prendo la tua giacca e me la infilo sotto braccio. Con un cenno e un sorrisetto di cortesia saluto chi dietro al bancone ci ha servite e imbocco la porta. Quando il tintinnio della campanella sulla porta ti annuncia la mia presenza, l’espressione sul mio volto è mesta. In silenzio ti offro il calore della giacca che hai abbandonato sulla sedia e mi affianco a te, davanti alle vetrine appannate del locale, con le mani nascoste nelle tasche profonde.
Guardo il leggero strato di neve ghiacciata, la prima della stagione, e penso a quello che voglio dirti. Non voglio che ci siano fraintendimenti tra noi né illusioni.
«Non so se torneremo ad essere quello che eravamo.» comincio e quasi mi sembra di vederti sussultare «Ma non sono sorda alle tue parole o ai tuoi sentimenti.»
Mio padre mi ha insegnato l’arte del perdono e voglio seguire quel dogma, se posso. Mi è difficile, estremamente, ma ci voglio provare. Solo non voglio darti la soddisfazione di saperlo.
«Tu sei una dei motivi per cui ho questi… attacchi-» mi schiarisco la voce, quasi imbarazzata, e penso che non hai mai saputo stare in silenzio così tanto a lungo come adesso. Devi essere messa davvero male, Nieve.
«- e allo stesso tempo stare insieme potrebbe essere il modo per farmeli passare.»
Adesso so che in qualche modo stai esultando, ma io no. Non sono sicura che la mia teoria sia giusta, che si avvicini - anche solo per un secondo - alla vera e definitiva soluzione dei nostri (del mio) problemi.
«Quindi ho deciso che ti aiuterò a riavere la tua magia.»
Mi aspetto da te una reazione sobria, silenziosa nelle parole quanto esagerata nelle espressioni del tuo volto. So di averti stupita con la mia decisione e, credimi, sono sorpresa anch’io. Avevo deciso di non darti soddisfazione, ma adesso c'è qualcosa in ballo anche per me.

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view post Posted on 1/12/2023, 19:05
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Il promemoria dei miei errori: ecco cosa sei. La ricordella che fuma di rosso a indicarmi quanti passaggi mi sia persa nella prigionia del mio dolore; in quella delle mie paure.
Non mi sorprende la tua confessione. Il tuo viso parla chiaro anche dopo anni di distanza; so interpretarlo, che ti piaccia o no. E le parole che ci siamo urlate addosso, incuranti del timore dei Thestral, non fanno che avallare la mia tesi. Nel flusso della rabbia, abbiamo messo in mostra le nostre fragilità. Perfino adesso che il freddo aspro dei primi fiocchi congela il ricordo della nostra amicizia, non possiamo fare a meno di esporre i segni lasciati dal tormento.
Sono due tipologie di affanno, le nostre. Tu lotti per qualcosa che hai ancora da perdere, per salvarlo; e nel percorso verso la meta sei disposta a fare di tutto, letteralmente. Io, invece, non ho più battaglie da combattere, ché della mia vita ho già distrutto ogni cosa. Ci hanno cambiate, non è così? Delle ragazzine fiduciose che eravamo sono rimaste soltanto le polveri. È ostinarsi a prenderne ogni granello con le mani, combattendo la furia del vento, quello che stiamo facendo adesso?
Il calore del mantello plana sulle mie spalle ricurve, ora che il sibilo dell’annullamento ha deciso di darmi tregua. Ho le vertigini per la fame d’aria, per averla ingollata a boccate troppo grandi — la stessa ingordigia insoddisfatta di quando ero bambina, a ben pensarci. La differenza è che, in passato, era il mio fisico a supplicare la fine degli stenti. Oggi, è quel che rimane del mio spirito a guardarsi intorno alla ricerca di un pasto caldo.
Mi torna in mente Evgeniya. Ne vedo i tarocchi. Percepisco il calore della scodella che ho mandato giù senza curarmi del rischio di un’ustione. Odo lo scoppiettio del fuoco ardere i grossi ciocchi di legno rubati alla foresta. È passato così tanto tempo da quell’incontro ed ero così piccola che mi domando come sia possibile rievocarlo con tanta nitidezza. Forse è il ricordo del pasto migliore che abbia mai consumato a quei tempi, non tanto per il sapore ma per il valore. Evgeniya è stata la sola ad avermi offerto da mangiare senza provare disprezzo per le mie condizioni di selvaggia; senza nascondere dietro quel gesto il desiderio di una raccomandazione agli occhi di Dio. Nessuno mi aveva mai trattata così a parte Ýma.
Tu non sei lei, eppure rimandi lo stesso calore dei suoi occhi scuri. Come lei, riesci a vedermi — il nucleo della mia essenza — in un modo che supera le metamorfosi di cui sono in balìa.
Mi raddrizzo, esausta. L’ovattamento ha ceduto il passo alla ritrovata lucidità; una lucidità timida ma forte quanto basta a restituirmi a me stessa. «Lo so».
E non voglio che succeda, aggiungo mentalmente. Non hai più bisogno di me e questo è sufficiente a proteggerti dalla mia maledizione. Posso esserci e danzare ai margini della tua vita, quanto basta a rendere meno assordante il rimbombo del vuoto che ho lasciato con la mia sparizione. So che il tempo non scorre al rovescio. So anche di giocare una parte nel caos che ti sconquassa per esserti poco congeniale. Tu sei ordine. L’entropia ti è velenosa.
«Come posso essere entrambe le cose?»
Sto puntando i tuoi occhi, sul viso la stessa curiosità di una bambina. Io vivo di nette contrapposizioni: se sei nero, non puoi essere bianco; se sei bianco, non puoi essere nero. Dunque le tue parole non trovano un senso, il filo di Arianna che conduce alla fine del labirinto. E dire che, di quel labirinto, sono il Minotauro.
Sospiro, lasciandoti il tempo di capire se, una risposta, la meriti o meno. Il pensiero va inevitabilmente al Ministero, all’odio che ho urlato a Grimilde e che mi è quasi costato… cosa? La libertà, probabilmente. Un processo, di sicuro. Vorrei sapere cosa tu abbia in mente, come riuscirai a riempire quelle crepe di magia — il reticolo di vene che fa di me una strega. Ma c’è qualcosa che preme contro le labbra e pretende il salto necessario a raggiungerti.
«Grazie…»
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view post Posted on 14/12/2023, 18:20
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Vorrei riuscire ad evitare il tuo sguardo, perché incrociarlo significherebbe darti spazio, ma so che adesso hai bisogno di essere vista quanto io provo la necessità viscerale che tu mi veda; non solo me, ma le mie intenzioni, la persona che sono diventata e che accetti che, per quanto breve o lunga la nostra tregua possa essere, non sono più vicina alla me di un tempo di quanto tu lo sia dalla tua versione passata. Il nostro è un gioco di incastri assai pericoloso, a pensarci bene, ma non voglio nasconderti il metodo che userò per ridarti la magia; se ci riuscirò - e un’emozione nuova e inebriante mi attraversa silenziosamente da capo a piedi ridandomi vita - saprò di aver fatto la mia parte e tu, finalmente, potrai andare per la tua strada con i giusti strumenti.
«Ho smesso di farmi domande su di te da un po’.» replico, restituendoti uno sguardo che non ha ironia. Un tempo queste parole sarebbero suonate canzonatorie, ma ora… ora siamo diverse.
Scuoto il capo al tuo ringraziamento perché penso che accelerare le cose in questo modo sia inutile e un atteggiamento sciocco, oltre che pretestuoso. Non hai idea di come andranno le cose e il solo fatto che stiamo provando a capire che cosa ti è successo non significa che riusciremo a risolvere il problema. Soffro di attacchi di panico, ma non sono diventata stupida all’improvviso e conosco i miei limiti.
«Non abbiamo molto tempo per farti tornare in carreggiata.» dico, stringendomi nelle spalle e guardandomi attorno come se mi aspettassi di essere spiata. Un po’ mi preoccupa, specialmente dopo le nostre scenate in Sala Grande, di essere vista insieme a te; farci vedere insieme equivale a perdonare tutte le tue cadute di stile, le risse pubbliche e i dispetti che fai e non posso proprio permettermelo.
«Devi promettermi di mantenere un profilo basso» annuncio, quasi un modo come un altro per ricattarti e convincerti ad impegnarti seriamente nell’impresa. Ti vedo arricciare il naso, tra l’incredulo e il rassegnato, ma forse me lo sto immaginando «Se ci riesci, ovviamente. E smettila di passare il tempo libero a fumare nei bagni con la Lynch o chiunque altro. E soprattutto… Tony. Non usare niente che passi per le sue mani, per l’amor di Merlino.»
Il fatto che abbia citato due Tassorosso non fa onore alla mia Casa né ai suoi valori, ma non posso passare il mio tempo a requisire sostanze illecite di varia natura. Non sono un Antimago, dopotutto.
«Quella roba ti incasina il cervello e tra l’altro credo che farne uso sia il principio del tuo piccolo problema con la magia.»
Senza accorgermene ho assunto un tono accademico, da vera esperta quasi, ma in realtà non so niente sull’argomento e vorrei non dovermene interessare più di tanto. Mi è bastato il terrorismo psicologico fatto da mia madre per capire che certe cose non dovevano entrare nella mia camera e, per quel che vale, nel mio corpo.
Stringo le labbra pensierosa, cerco di farmi venire in mente altri ammonimenti per la discepola che adesso ho scelto di istruire verso uno stile di vita più sano e, mentre ti guardo, mi odio per averti etichettato così tra me e me. Non ho niente da insegnarti e, probabilmente, sarebbe più giusto il contrario. Hai visto e fatto cose che non mi sono mai passate nemmeno per l’anticamera del cervello e per certi versi hai esperienza in fatto di mondo più di quanto ne possa sperimentare io stessa in tutta la vita. Chiariamoci, non ne sono invidiosa: come direbbe qualcuno, mi accontento della mia casetta modesta in campagna e del mio steccato bianco.
«E prima o poi… dovremo parlare di lei.» Grimilde «Di quello che ti ha fatto. Possibilmente in modo approfondito.» mi imbarazza chiedertelo e temo tu possa cominciare a sudare freddo e a sbraitare, ma conto sulla ritrovata quiete del nostro rapporto affinché tu mantenga una parvenza di calma. Devo ancora abituarmi a quei tuoi occhi così diversi e devo imparare a leggerne le espressioni ora che la sclera e l’iride si confondono tra loro.
«Credi di poterlo fare?»

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Sei la persona giusta. Lo sei sempre stata. Lo dicono i tuoi modi, la tua logica, la tua capacità di pianificare lestamente pur avendo appreso il mio problema nient’altro che pochi minuti fa. Lo sei anche perché sicura. Non sicura di te — su questo, sulla maschera che indossi, avrei molto da ridire. Sei sicura per me.
Io naufrago, costantemente. Solco un mare che mi è ostile, o così credo, solo per scoprire che sono io a rimescolarne le profondità e a provocarne la furia. Rimango al largo, dispersa, senza chiedere aiuto. Sto sul ponte della carcassa di una nave a prendere il sole. Mi ustiono. Perdo conoscenza finché il fresco della sera ridesta la mia coscienza. Allora ti vedo. La tua luce lampeggia piano, ma i suoi raggi non sono tremuli — regnano nella notte. Squarciano le tenebre, mi ricordano che esiste terra, non solo acqua. Così, mossa da una forza che non è la mia ma la tua, afferro le corde, raddrizzo le vele, riprendo il timone. Adesso, ho solo paura di schiantarmi.
Quello che mi chiedi è pericoloso, Thal. L’ordine, la lucidità lo sono; la solidità della terra rispetto al dondolio del mare. E io non sono sicura di ricordare come si faccia a stare in piedi senza assecondare il movimento delle correnti — le mie.
Ti stupiresti nel sapere che ho paura? Non credo. E io non vorrei che lo sapessi, ma il mio viso impallidisce e le pupille prendono spazio, scalzando l’iride. Mi stai chiedendo di tuffarmi, di abbandonare la nave che mi ha fatto da casa per affrontare i marosi del mio dolore.
Non avevo mai pensato che la confusione dovuta agli stupefacenti potesse inebetire, oltre che i ricordi, anche la magia. L’ho sempre data per scontata, a tratti le ho riservato un ruolo marginale nella mia vita. Mi conosci abbastanza da averlo visto: io faccio a pugni, non duello; trascino gli oggetti a furor di braccia, non mi servo della levitazione; prediligo le materie che non richiedono la bacchetta — come Erbologia o Pozioni — alle classi dove le scintille strepitano da una parte all’altra dello spazio. Ho compreso la sua importanza solo quando l’ho perduta. Un cliché, non trovi?
«Posso…» indugio. Non voglio mentirti. Tradirei ancora una volta la memoria di un’amicizia ridotta a spettro. Ma provarci… Oh, Thal, provarci fa paura! «Posso tentare» dico con un filo di voce, gli occhi lontani dai tuoi.
Hogsmeade è silenziosa. Ha perso le sue foglie, tuttavia risorge al primo accenno di risate. Allora, le luci si accendono, le vetrine si ravvivano e il chiasso nei locali le dà nuova vita. Non posso dire lo stesso di me. Il mio villaggio è stato saccheggiato. Rimangono gli scheletri delle abitazioni distrutte e i fumi dei fuochi spenti.
Trasalisco d’un tratto. Non puoi nominarla, non puoi. Grimilde è il sale sulla pelle lesa, la bestemmia in una chiesa. Torno a guardarti, sgomenta. È una vendetta, la tua? Per averti guardata come fossi un mostro quando mi hai rivelato di aver profanato la mente di un’altra. Per aver respinto e soffocato ogni tuo tentativo di tornare da me, di preservare tutto ciò che eravamo.
Ti vedo con gli occhi del presente. Tieni stretta al petto la scacchiera che ti ho regalato a Natale, uno dei tanti simboli del mio affetto per te. Hai l’espressione desolata, il viso rigato di lacrime, le ciglia bagnate. È colpa mia. Sono io l’artefice della tua disfatta. Vedo anche me stessa, quella sera nell’ufficio dei Caposcuola. Non ti ho degnata di una parola di conforto, illividita da una rabbia cieca. Perché non hai capito? Perché hai anteposto la gelosia al bisogno che avevo della tua comprensione? Avrei ceduto, sarei crollata tra le tue braccia e i miei propositi di distanziamento dal mondo avrebbero vacillato. Sei sempre stata la soluzione.
«Lo vedremo a tempo debito» riesco a dire, diversi minuti di silenzio dopo. «Ma non le permetterò di togliermi anche questo». La mascella vibra, le unghie trovano la morbidezza delle palme. «Ha smesso di allungare le mani sulla mia vita».
Sputo in terra. Non uno spettacolo per te ma la reiterazione di un gesto con il quale l'ho bruciata tra le fiamme.
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view post Posted on 30/12/2023, 15:24
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You can take the darkness out of the man, but you can't force him to step into the light.

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Mi stupisco della tua natura di diamante grezzo: apparentemente senza alcun difetto sul piano fisico, ma con una forma da definire e affinare. Seguo per riflesso col mio sguardo il tuo ultimo gesto e mi chiedo se sia diretto alla stupidità della mia richiesta o se, al contrario, si riferisca a qualcos’altro. Te lo vorrei chiedere, ma preferisco tacere mentre il mio cervello mi incalza a tornare al castello e mettermi all’opera.
Hai risvegliato in me la fiamma della curiosità, le hai fornito la miccia che mancava e adesso il fuoco della sete di conoscenza mi arde negli occhi; te ne puoi accorgere tu stessa di quell’impazienza che mi scuote il corpo, giacché continuo a muovermi sul posto con piccole oscillazioni da un piede all’altro. Sì, fremo per scoprire perché tu non sei più tu, ma ancor di più mi preme di imparare qualcosa di nuovo sulla magia che, altrimenti, ignorerei.
Tu hai la tua agenda e io la mia.

«Quando pensi di potermi dedicare del tempo?»
Sto già cominciando a pianificare i nostri incontri, quasi fossi il mio progetto di fine percorso scolastico. A ben pensarci, il tuo tempismo è eccezionale: tra una manciata di mesi non sarò più al castello - o così spero. Quindi sento l’urgenza di pianificare ogni cosa, per farla coincidere alle nostre tabelle di marcia e mi sovviene per un momento il dubbio di dover giustificare ad altri la nostra collaborazione.
«Non fraintendermi, avrò bisogno di qualche giorno per raccogliere idee e informazioni generiche.» mormoro «E visto che fino a venti minuti fa tu ed io non ci parlavamo se potevamo evitarlo, direi che sarebbe saggio fingere che io ti stia aiutando a rimetterti in pari col programma.»
Sospiro, dopo aver enunciato tutto d’un fiato il mio pensiero. Non parlo, adesso, perché l’idea che io ti dia ripetizioni su qualunque cosa non è poi così pessima e sarebbe stata la logica sequenza degli eventi se - ed è un grande condizionale - tu ed io non avessimo scelto di prendere strade diverse.
«Credi che possa funzionare?»

In realtà ti sto chiedendo se tu ed io possiamo funzionare.
L’impressione che ho - e che più il tempo passa più diventa una certezza materiale e solida - è che tu ed io non siamo compatibili in questa versione della realtà; forse, in un universo parallelo, le nostre copie stanno ridendo insieme delle feste natalizie in arrivo, pensando a come trascorrerle e a come nasconderci vicendevolmente i regali fino all’ultimo secondo. Magari l'altra Nieve non soffre di tutto quello di cui tu hai sofferto oppure, in quell’universo, tu ed io nemmeno ci conosciamo. Come sarebbe diversa la nostra vita? Mi trovo a pensarci, mentre attendo una tua risposta, e riesco ad avere un solo riscontro: se non avessimo nulla a che fare l’una con l’altra non sapremmo di aver perso qualcosa di prezioso, poiché - logicamente - come puoi soffrire la fine di un’amicizia se non l’hai davvero vissuta?

Sposto un po’ di neve con la punta del piede, impacciata fisicamente quanto emotivamente. Sto realizzando solo adesso che la mia proposta e l’accettazione della tua richiesta ci obbligano a passare insieme molto del tempo che, altrimenti, spenderei in altro modo. Mi viene in mente solo ora che da due anni a questa parte il mio tempo libero l’ho passato a studiare, impegnandomi al massimo, e dedicando il resto alla mia ritrovata serenità con Mike. Mi preoccupa il non sapere come si faccia a stare con te per così tanto tempo, da sole, al riparo da occhi altrui. Tutti sanno qual è lo stato del nostro rapporto e mi inquieta sapere che io, la diretta interessata, non so più dove sia tracciata la linea di confine tra noi e che sia arrivata perfino a dubitare che esista. Ti guardo, speranzosa sul fatto che tu abbia più cognizione di me sul come gestire questa cosa, qualunque cosa sia, ma credo che nemmeno tu abbia le idee tanto chiare. Sì, ci siamo fatte del male, ci siamo ferite emotivamente e fisicamente, ma in fondo possiamo dire con certezza di non essere state perfettamente consapevoli di quello che stavamo facendo?

© Thalia | harrypotter.it

 
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view post Posted on 1/1/2024, 18:39
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entropia.

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m e t a n o i a
Mi vuoi bene. So che lo odi, ma non puoi farne a meno. Non saresti qui altrimenti. Non avresti accettato la mia richiesta di aiuto. Non saresti tanto pronta a iniziare questo percorso, più incurante di quanto vuoi dare a vedere dei sussurri che potrebbero correre su di noi. Ci guarderanno, sì, chiedendosi se tutto sia risolto; se la nostra amicizia sia risorta dalle proprie ceneri.
È questo che stiamo facendo senza ammetterlo? Stiamo dando una chance a chi siamo — non a chi eravamo — di trovare un incastro, nascondendoci ciascuna dietro l'apparenza di durezza? La verità è che non è facile capire se siamo pronte. Le circostanze direbbero il contrario, ma i segnali che ci lanciamo addosso portano il peso della speranza. Ho la sensazione che ti deluderò ancora, che non sarò capace di muovermi senza impaccio tra le correnti dell’umanità. Rovinerò tutto, immagino, anche se questo tutto ha le sembianze del niente.
«Quando vuoi e sei pronta. Io faccio di questi nostri incontri la mia priorità.»
Se ti conosco bene, so che smani quanto me all’idea di iniziare. Me lo dice il tuo atteggiamento, il brillio nei tuoi occhi. Le sfide ti hanno sempre entusiasmato e io rappresento probabilmente l’enigma più controverso che sia capitato sul tuo cammino. Solletico la tua mente, la accendo di una curiosità impaziente. Lo faccio anche adesso — e, forse, adesso più che mai —, nonostante l’acqua torbida passata sotto i nostri ponti.
«Fai pure con calma, in base ai tuoi impegni. Io aspetterò» ti dico, mansueta. È difficile vedermi così remissiva, in balìa delle decisioni altrui, ma so quanto pesi su di te la concessione che mi hai fatto. Implica tornare a spendere il tuo tempo con me, trovare la forza di starmi accanto per l’ennesima volta. «Quanto ai motivi del nostro…» Tentenno. “Riavvicinamento” non è la parola giusta. Ma quale definizione posso dare a quello che sta accadendo tra noi? «Di questa cosa, va bene la storia delle ripetizioni. A me, sinceramente, non importa di cosa possano pensare. Ma è una buona scusa!»
Non lo penso davvero. Dopo quanto accaduto tra di noi, è bizzarra la prospettiva di vederci di nuovo insieme come se nulla fosse, Thal. Lascia intendere una rappacificazione. Non ti protegge dalla possibilità che gli altri ci credano di nuovo amiche. Ma non lo dico. Se tanto basta a fornirti lo schermo di cui hai bisogno per sentirti al sicuro dalle speculazioni esterne, non sarò io a togliertelo.
Mi raddrizzo. Perfino la mia posa, in questi ultimi minuti, ha suggerito docilità. Osservo un gruppo di ragazzi e ragazze passeggiare a poca distanza da noi. Ne ascolto le risate. Torneremo mai ad essere così? È quello che voglio davvero?
Un sorriso spento sale alle mie labbra. Non posso esporti al rischio della mia maledizione, eppure non riesco a frenare la tensione che tira ciò che rimane della corda appesa ai nostri polsi. È sfilacciata, debole. Non sarebbe capace di resistere a un altro strattone. L’ho maltrattata, mentre tu hai provato a prendertene cura. È questo che hai scritto nelle lettere che non ho mai letto?
«Fammi sapere quando hai tempo.» È difficile parlare con te, ora. È come muoversi nella terra dei draghi, sperando di non svegliarne alcuno. «Ci vediamo nell’ufficio vuoto!» Il nostro quartier generale. Te lo ricordi? «Buona serata e grazie per essere venuta. E anche per aver accettato.»
Non so dire di meglio. Ti rivolgo un sorriso incerto, prima di chiudere i lacci del mantello all’altezza del collo e incamminarmi verso il castello. .
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