Sei nervosa. Lo sono anch’io. Mi è solo più facile mascherarlo.
Ho iniziato questo strano rituale con le emozioni, da quando la mia vita è drasticamente cambiata. Le provo e le nascondo. Così, il mio cuore è diventato come uno di quei dessert sfogliati che richiedono una lunga lievitazione: tanti strati per ignorare, per sentirmi leggera. È la libertà cui anelo, quella di distaccarmi dal mondo che mi circonda e dalle sue persone — le
mie persone. Tu eri una di queste e ho dovuto lasciarti indietro.
So che non dovrei sorridere, eppure le mie labbra si arricciano spontaneamente quanto ti osservo rispondere. La tua mimica è rimasta inalterata, perfino il modo in cui mi parli e tenti di farmi arrivare alle conclusioni che rifuggo. Io il caos, un intruglio mal assortito di ingredienti sbagliati; tu la goccia capace di portare in equilibrio la pozione. Era destino che fossimo amiche, ne sono convinta. Preferisco pensare, però, che ci siamo scelte ogni giorno con piena consapevolezza e con il desiderio di intrecciare le nostre strade, nessuna imposizione dall’Alto.
«Già…» Un’unica parola del peso di un macigno. Forse è per questo che, senza accorgermene, mi abbandono a un sospiro profondo — gli occhi adesso incollati alla superficie consunta del tavolo.
«È sempre stato questo il problema».
Pronuncio la frase soprappensiero, colta da un’intuizione che mi spinge a vuotare il bicchiere. Scegliere questo luogo per un incontro non è stata la migliore delle mie trovate. È qui che ho conosciuto Astaroth; è qui che Lei lavorava; è qui che mi ha dato le prime lezioni di seduzione. È qui che ho iniziato ad amarLa. Insieme all’acquaviola, deglutisco il groppone che si è stretto nella mia gola al ricordo di una festa di Halloween, risalente a così tanti anni fa che di essa porto giusto il ricordo delle mie orecchie a punta. Il Suo fantasma aleggia su di me anche quando, come in questo istante, provo a concedermi di più della mera sopravvivenza.
Torno a guardati, lo sguardo chiaro vestito di determinazione.
«Tu lo conosci, quel caos» rispondo con voce pacata.
«Ci hai avuto a che fare più di chiunque altro — sì, persino di Roth —
e sei sempre stata l’unica ad aiutarmi a ricomporlo con la tua logica».
E il tuo affetto, rifletto ma non lo dico.
Il torneo Barnabus Finkley è uno dei tanti esempi che potrei portare. Conservo con malinconia le memorie di quelle settimane trascorse a provare incantesimi, a elaborare strategie, a ipotizzare scenari. In ognuno di quegli episodi, ci sei tu al mio fianco a temperare la vampa con la quale sono nata e che neppure la morte di Roth sembra essere riuscita a spegnere. Picchio ancora duro come un tempo, in senso figurato e letterale, nonostante la mia stazza.
Gli occhi ispezionano il locale. Rimango in attesa per i secondi che bastano a intercettare lo sguardo del garzone. Dunque sollevo il braccio e gli chiedo di portarmi un secondo bicchiere, ignorando lo spettro della mia mentore che aleggia dietro al bancone.
«Non me lo devi, questo è sicuro». Inizio a prendere di petto la questione e sposto l’ago della bilancia verso il suo nocciolo. Io so di cosa ho bisogno e, adesso, lo sai anche tu. Rimane da capire se e come iniziare a parlare delle beghe che renderebbero impossibile un nostro eventuale schieramento sullo stesso lato della scacchiera — ce l’hai ancora quella che ti ho regalato?
«E io non voglio convincerti con l’inganno. Non ci riuscirei comunque».
A meno di fingere un ripensamento sulla nostra amicizia per il tempo necessario ad accaparrarmi la tua collaborazione…Non lo farei mai. È troppo meschino anche per me. Soprattutto, non lo farei
a te. Di Nieve Rigos si possono dire tante cose in questo momento, ma non che sia meschina. Un tempo, avremmo detto che non appartiene alla mia natura fingere. Oggi, so bene quante maschere conosce il mio viso; almeno quante le menzogne dietro cui mi sono accucciata per il mio tornaconto. Allora, provvedo a una correzione: Nieve Rigos non è meschina
fino a questo punto.
«Tu come stai?»Le parole sfuggono al mio controllo, sospinte da una preoccupazione impossibile da sopire. Ho notato i ritmici sobbalzi del tuo corpo; vedo le emozioni combattersi oltre le ciglia. Non ti sono indifferente e non sai nasconderlo. E io, che nell’espressione mi professo imperturbabile, mi lascio tradire da una semplice domanda. Potrei ritrattare, ma non è da me svicolare in un vicolo buio come un ratto per sfuggire alle mie responsabilità emotive,
non più.
«Ti ho vista in Sala Grande» aggiungo.
Preferiresti che nessuno toccasse l’argomento, io su tutti. E magari mi restituirai un commento al pepe e un ghigno sardonico perché mostrare preoccupazione, dopo tutto quello che ti ho fatto, richiede una bella faccia tosta. Non ho mai negato di averla.
«Ti ho vista anche dopo, se è per questo.»Mi riferisco al tormento che t’impallidisce le guance, anche se tenti di celarlo dietro la spilla da Caposcuola. Ai piccoli segnali di fuga che sprigionano da te quando ti muovi — ché, quelli, io li conosco bene. Alla tonalità più chiara delle tue labbra giacché il sangue, smosso dal panico, fluisce tutto nel centro del tuo petto, non è così?
Dovrei disprezzarti per esserti tacciata di un crimine eguale, per gravità, a quello messo in atto da Grimilde. Invece, mi accorgo — senza alcuno stupore, in verità — che non è così. Tu non lo intendi, però, oltre le pennellate di neutralità che dominano il mio viso. E a me va bene, perché non c’è altro che desideri di più.
the journey of changing one's mind, heart, self