C o n t r o l, Thalia Moran

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view post Posted on 23/4/2024, 18:18
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You can take the darkness out of the man, but you can't force him to step into the light.

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Una parte di me non riesce a conciliare la versione di te che prova terrore per qualcosa: penso a quante cattiverie ti sono state inflitte, alle perdite che hai subito sin da bambina e agli scherzi idioti ai tuoi danni a cui io, impotente, ho assistito. Le piccole cicatrici sulle tue mani ne sono la testimonianza e ho sempre creduto fosse quella l’unica traccia del male che avevi vissuto. Poi Astaroth è morta, Grimilde ti ha protetto nel modo sbagliato e adesso sei questo: un involucro tremante di paura e rabbia. La tazzina trema tra le tue dita, il liquido color ambra oscilla paurosamente al suo interno, prima che la ceramica si incrini e una pioggia di detriti taglienti si sprigioni lì dove prima c’era calore e benessere. Istintivamente chiudo gli occhi, non ci voglio rimettere la vista dopotutto, e quando li riapro e ti vedo sanguinare mi stupisco di non provare una certa dose di preoccupazione per il tuo stato fisico; intendiamoci, mi farai sempre preoccupare a morte, ma un taglio o delle nocche sbucciate hanno fatto di te il terrore di Hogwarts e quando c’è da sporcarsi le mani tu sei ben felice di farlo. Ti lascio sfogare, ma dopo qualche pugno di troppo decido di intervenire. So che le reazioni fisiche sono il tuo modo di reagire ai traumi: corri come una lepre di fronte al pericolo, ti nascondi fisicamente aspettando che le ferite guariscano. Questo, però, è diverso.
«Lascia, faccio io.» ti interrompo, costringendoti a tenere la mano sotto il getto d’acqua gelata e ti obbligo a metterci anche l’altra. Non aggiungo altro mentre esamino la ferita: la pelle è incisa per bene, questo devo concedertelo, ma sei stata fortunata a non aver intrappolato piccoli residui di corpi estranei che possano cagionare un’infezione. Le nocche, invece, sono arrossate e solo qualcuna è lesionata in superficie.
Non ti parlo, ma non perché non voglia o non sappia che cosa dire. La verità è che se avessi meno consapevolezza di me e delle mie azioni ti direi che Grimilde mi fa schifo. L’ABC del genitore non si impara tra i banchi di scuola e chiunque può sbagliare, ma di fronte al rifiuto nell’accettazione di un lutto è davvero la sua soluzione la migliore a disposizione? Non posso dirtelo, però, perché se lo facessi sarei un’ipocrita. Lo penso, lo confermo tra me e me mentre con la bacchetta di salice che ho estratto dalla tasca dei pantaloni ti disinfetto la ferita con un incantesimo elementare, ma non posso e non voglio dirti che giudico severamente Grimilde; mi diresti che io ho fatto lo stesso, che lei ed io siamo della stessa pasta e anche se ci siamo ritrovate so che una parte di te lo pensa ancora. Non so come farti capire che quello che ho fatto, per quanto sbagliato, non era dettato né da perfidia né da sadismo: le mie erano buone intenzioni, solo che non immaginavo di trovare una mente manomessa davanti a me. Primrose era un Bolide incatenato nel suo scrigno e una volta liberato dalla mia mano invisibile ha cominciato un volo pindarico e violento che mi ha sconquassato l’anima e le ossa allora come oggi.
Lavoro in silenzio, metodica, consapevole dei tuoi occhi su di me. Osservi le mie dita affusolate che ti stringono le bende evocate da una magia che ti appartiene, ma è nascosta? O forse cerchi di intuire che cosa penso di tutta questa storia? Non posso evitare di chiedermelo e così comincio a riflettere sulla risposta alla domanda che non hai ancora posto.
«Non so come aiutarti, ma ci proverò con ogni fibra del mio essere. Vederti così mi...»
M'interrompo, certa che tu abbia capito. Solo adesso sollevo lo sguardo sulla tua figura e accenno ad un sorriso affettuoso. Ne hai bisogno, lo so, ma vuoi anche farmi capire - forse addirittura credere - che, oltre lo sproloquio e l’aver quasi demolito casa mia, stai bene.
«E dimmi, se non vivi a Londra con…» lascio in sospeso la frase, immaginando tu non voglia sentirli nemmeno nominare. Non ho neanche un modo migliore per chiederti se vivi da Gaspare e Lucrezia, se in qualche modo sei in famiglia pur non essendolo davvero. Ti offrirei rifugio qui, ma il cottage non è ancora accogliente per ospitare me o chiunque altro.
«...dove passi il tuo tempo? Che cosa hai fatto prima di… tornare?»

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A cosa stai pensando?
È la domanda che rimbomba senza indulgenza nella mia testa. Si chiede — ci chiediamo — se una qualche parte di te non trovi, in fondo, così riprovevole il gesto di Grimilde. Se, come Julian, sei dell’idea che il suo fine di proteggermi possa giustificare a tratti il crimine di cui si è macchiata. Lo noto che non mi guardi e so con certezza che non si tratta soltanto di un eccesso di cura. Non è la prima volta che mi vedi ferita. Non è la prima volta che mi vedi reagire così. Sono come uno di quei cuccioli di lupo che si lancia nella mischia prima di avere il consenso della mamma, costretta poi a intervenire per salvargli la pelliccia. Tu fai un po’ questo, lo hai fatto sempre: mi prendi per la collottola e mi trascini via dai guai. Allora cos’è che ti induce a sfuggirmi?
Li aspetto, i tuoi occhi, e a tempo debito li intrappolo nei miei. Mentirei se dicessi che non lo giudico di già, questo silenzio. Non mi piace e non mi piacciono le implicazioni che vi leggo. Allora, ricordo cos’è che mi hai confidato e cos’è che mi hai appena proposto. Tu sei una legilimante — lo devo a te se so qualcosa sull’argomento e posso dirmi di un tassello meno ignorante di prima — e puoi fare come e forse peggio di lei. Non “puoi”. Lo hai già fatto. Quindi, perché rimango e ti permetto di curarmi? Perché permetto ai nostri sguardi di incrociarsi, pur sapendo che sono proprio gli occhi la porta che potresti spalancare per fare del tuo peggio?
«I nonni mi hanno detto che sono stata catatonica per tre mesi, se non ricordo male. Cioè, lo so anch’io perché vedevo e sentivo tutto, ma non riuscivo a muovermi. Voglio dire che, quando guardi solo il soffitto, il tempo assume una consistenza e una forma diverse.»
Dico la verità, partendo dall’inizio. Forse sono una stupida a credere che non lo faresti mai a me, lo scherzetto della Legilimanzia, o magari ho imparato a conoscerti abbastanza da intuire — senza giustificare — che dev’esserci un motivo se hai intrapreso quella strada. Tu non sei crudele e non sei spietata. Se lo fossi, non avrei visto sul tuo viso la scia lasciata dagli anni trascorsi in mia assenza. Mi illudo che anche il senso di colpa abbia tracciato un segno.
«Poi, mi sono ripresa e li ho mandati via perché non volevo fargli del male. Ne ho già fatto troppo.» Titubo ancora per lo stesso motivo al pensiero di rientrare nella tua vita. Non voglio fare di te una vittima del mio egoismo e della maledizione che pende sul mio capo. «Sono entrata in una spirale abbastanza… discutibile. Sai già fino a che punto mi sono spinta. Te l’ha detto Casey.» Ecco, questo mi ricorda quanto rimpianga il pugno che gli ho assestato sull’isola di Skye. Lì ero ancora nel centro del vortice — non lo sono forse ancora? «Ma ho fatto di peggio, se devo essere onesta, e non ne vado fiera. Ma non me ne vergogno neppure perché dovevo sopravvivere e ho fatto quello che dovevo fare.»
Ci siamo sempre divertite a notare quanto siamo diverse e, ciononostante, a funzionare così bene insieme. Anche adesso mi rendo conto che la mia morale è diversa dalla tua: io ho messo in discussione ogni regola del benestare comune, sono scesa nei fondali più balordi e sudici della mia anima, l’ho macchiata volontariamente; tu hai corrotto la tua seguendo una direzione differente, opposta alla mia, ma il risultato rimane lo stesso. Mi chiedo, allora, se ho davvero diritto di giudicarti per ciò che hai compiuto.
«Adesso, quando non sono a scuola, vivo a Villa dei Gigli, quella che ho ereditato. Insieme a me c’è Tilly, l’elfa domestica della famiglia Morgenstern. O, meglio, la mia elfa domestica.» Non mi piace parlare così di lei, come fosse un oggetto di cui si può disporre a proprio piacere. Ho provato a liberarla dal suo servizio, ma la disperazione e il terrore che ho letto sul suo visino raggrinzito mi hanno costretta a tornare sui miei passi: non sono io a volere che sia mia, è lei a desiderarlo per sua natura. «Sto lì e faccio“finta di poter essere come lei”? — provo a fare la padrona di casa in un mondo che non mi appartiene poi tanto.»


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«Sì, qualcosa mi aveva accennato…» rispondo e mi schiarisco la voce altrimenti roca per il troppo silenzio imposto. Me la vedo, Casey, seduta di fronte a me in una carrozza anonima dell’Hogwarts Express a sciorinare i molteplici modi in cui hai deciso di mandare a quel paese tutta la tua vita; mi fa rabbia pensare che tu la creda inutile, sostituibile perfino, e il fatto che non ti accorgi di quante altre persone tengono a te oltre alla sottoscritta. Casey è venuta da me perché spinta dalla preoccupazione, dalla frustrazione di non poterti aiutare più di quanto avesse potuto o provato a fare. M’immagino che altri abbiano provato a frapporsi tra te e l’annullamento fisico e spirituale al quale ti sei sottoposta e ucciderei chi, in quel momento, si è approfittato di te e delle tue debolezze. Ci metterei un attimo a incasinare la testa di questo o quello se solo mi facessi dei nomi e la consapevolezza di questo pensiero mi racconta che anche io sono scivolata in una spirale da cui non riuscirò mai davvero a risalire per quanto possa fingere di provarci. Nei tuoi occhi ci leggo ancora il giudizio truce di quella sera al recinto dei Thestral e vorrei dirti che hai ragione a pensare quelle cose di me, ma vorrei anche dirti che devi ricordare chi sono stata e - in minima parte - sono ancora. Tu, per me, non sei una mente qualunque da navigare alla ricerca di sordidi segreti e mezze verità, né sei il prodotto di un processo ben più complicato di quello che descrivi e che devo per forza aggiustare. Ho capito, ascoltandoti, che posso solamente accoglierti nella mia vita così come sei, acciaccata nel cuore, nella mente e nel corpo, sperando che anche tu possa riuscire - un giorno - a fare lo stesso con me.

Stringo le bende con un nodo doppio e la mia espressione si distorce per la fatica dell’atto; questo mi permette anche di nasconderti quello che penso davvero di Villa dei Gigli, perché se potessi farti un giro tra i miei pensieri vedresti cose che non ti piacerebbero.
Assisteresti, ad esempio, ai ricordi di lei che mi affiorano alla mente ogni volta che la nomini: le sue movenze sinuose, talvolta perfino troppo sensuali per una docente, che facevano girare la testa a qualche studente più grande; i suoi sguardi, dal mio punto di vista sempre carichi di troppo amor proprio, e l’espressione snob generale che ti faceva ricredere su quella poca autostima che potevi miracolosamente aver racimolato negli anni.
Non te l’ho mai detto, ma non l’ho mai sopportata e detestavo il suo ascendente su di te.
Per questo motivo il pensiero successivo - e l’immagine del tutto inventata della Villa che mi sono creata in questi istanti - ti farebbero vedere come percepisco io la dimora Morgenstern per te: un mausoleo di ricordi, autocelebrativo al massimo, forse perfino troppo per una abituata alla semplicità come te. Avevo sentito dire spesso che la Morgenstern fosse finita a fare la barista prima e la docente poi per fare dispetto alla famiglia d’origine, lontana chilometri e chilometri, che non sapeva nemmeno che cosa significasse davvero lavorare sul serio. Era questo di lei, forse, a non farmela piacere: voleva costruirsi una vita distante da quella conosciuta, ma non poteva fare a meno di ricordare da dove venisse, dal benessere che aveva conosciuto e al quale - presto o tardi - sarebbe tornata per la difficoltà di gestire la sua nuova realtà.
Ti direi che la capisco, povera anima: il mio passato, il nome che porto e il conto in banca hanno lo stesso peso che avevano i suoi. Vivere per dare lustro al casato, combattere per distinguersi senza tuttavia rinnegare niente… lo capisco. Eppure, io e lei siamo diverse al punto che la disdegno perfino ora che so, per certo, quanto fosse infelice. Conosco anche quell’infelicità, ma solo in parte, perché se pensassi di farla finita come ha fatto lei mi sentirei una codarda, incapace di lottare per ciò che conta davvero.
Capisci che non posso esprimere tutte queste cose? Ti perderei di nuovo e non voglio.

«E ti piace vivere lì?»
Te lo devo chiedere, ma lo faccio allontanandomi con la mia tazza di nuovo in mano e la schiena appoggiata al muro, vicino alla finestra. Credo che anche da morta Astaroth Morgenstern sia veleno per te e, forse, non smetterò mai di pensarlo.

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Hai ragione: mi perderesti, forse per sempre.
È assurdo che la mia devozione nei confronti di Roth sia tale da annebbiare ogni forma di raziocinio. Lei cancella tutto, perfino me. Smetto di percepire ciò che provo per voialtri, mi piego al Suo fantasma e al ricordo del Suo sorriso. È che è tutto così vivido, soprattutto il senso di colpa che provo per averLa odiata, per averLa lasciata sola, da confondere presente e passato; da oscurare il futuro. Le stelle non abbandonano la luna. Io avrei dovuto fare altrettanto e provare a dorare la sua malinconia d’argento.
Ma non è facile vivere nella Sua ombra. Mi ci sono adattata a forza come punizione per questo mio delitto. All’inizio, Villa dei Gigli mi ha risucchiata e sputata allo stesso tempo. Continuava a ricordarmeLa nella raffinatezza, nei profumi, nelle scelte stilistiche. Era il tempio di tutta la Sua essenza — lo sarà per sempre — e ne rimanevo inghiottita finché l’oscurità non mi spingeva a cercare l’annullamento. Eppure, tornavo. Torno sempre lì. Non lo so e non lo ammetterei nemmeno se mi venisse fatto notare, ma è quella casa ad accrescere la presa che il gelo ha sul mio cuore.
Sospiro e la mia espressione si fa corrucciata, perché non ci ho mai riflettuto e questo pensarci fa emergere consapevolezze che mi scombussolano. Vedo, per la prima volta, il male mi fanno quelle colonne e le stanze così grandi e vuote. Noto il brivido che mi corre sempre sotto pelle quando si spengono le luci e il lenzuolo non riesce a proteggermi dal refolo della Sua assenza.
«È strano» ammetto infine. Con te posso farlo. «Non è molto da me.» Abbozzo un sorriso. «È molto ricercata, raffinata, elegante. Io non sono proprio così, diciamolo.» Ci ho provato a lungo durante le lezioni con Roth, senza riuscirci. Per paradosso, è con la Sua morte che gli insegnamenti hanno finalmente fatto presa. La Dama Senz’Occhi, penso. Che gran puttanata definirmi “dama”, aggiungo mentalmente. «Ed è troppo grande per me. Non so che farmene di tutto quello spazio e non ho abbastanza buongusto per arredarla daccapo e renderla un po’ più mia. Forse nemmeno lo voglio.»
Non credo che ti sorprenda quest’ultima constatazione, sapendo quale presa Lei abbia avuto e abbia ancora su di me. Mi ostino a tenerne vivo il ricordo, proteggendo quelle mura da ogni attacco e marchiando la mia pelle con i gigli. Ma non ci vedo nulla di male, non amandoLa così. Probabilmente diresti che sono cieca e io mi arrabbierei. È solo che tu non hai visto la piccola Emma perdersi nelle distese di fiori bianchi con quel suo sorriso innocente; né hai visto Isabella far squillare la sua risata nella pancia di Villa dei Gigli. Se potessi vederlo, forse… forse capiresti quanto ha fatto Lei per me, lasciandomela in eredità. Che è il testamento del Suo amore per me.
«Quindi, è strano viverci. Non riesco ad accostare la bimba sudicia che sono stata con la “signorina Rigos della villa gentilizia”.» Sto citando, inconsapevolmente per te, una delle definizioni con cui Cézanne mi ha presentata alle feste cui ci rechiamo. Sono così sfarzose, estetiche, eccessive. Sono così perverse. Cosa penseresti di me se ti dicessi che ho bevuto sangue umano? «Ma è casa. A volte mi sento sola, ma — e mi scappa un sorriso nostalgico, mentre lo sguardo vaga oltre una finestra — non lo sono mai davvero lì dentro.» Mi riscuoto d’un tratto e torno a soffermarmi su di te. Allora, inclino leggermente la testa. «Perché me lo chiedi?»
Vorrei solo sentire più calore, mi scappa da pensare. Me ne pento subito dopo.

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Edited by ~ Nieve Rigos - 26/4/2024, 14:48
 
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Il tè caldo mi favorisce nel darmi una scusa per non guardarti: sentirti parlare di lei, di quella Villa e della vita che lì conduci fa sorgere in me sentimenti contrastanti. Sembra bello, dopotutto, quel mausoleo in cui abiti e il fatto che mi confermi l’idea che mi sono fatta di quel posto lascia ben poco all’immaginazione. Ho sempre saputo leggere abbastanza bene le persone da potermi fare un’idea precisa, anche se approssimativa in minima parte, di chi io abbia di fronte, quali siano le sue fragilità e i punti di forza, i vizi e talvolta le virtù. Su di te, ad esempio, potrei scriverci un libro. Il modo in cui ti tocchi i capelli, il verso impercettibile che fai quando storci naso e bocca per non esprimere a parole la repulsione che provi e perfino i tentativi di sembrare indifferente quando proprio non ci riesci e fingi di guardare da un’altra parte quando, in realtà, stai osservando minuziosamente ogni singola mossa dell’altro. Ti leggo anche adesso, persa nel tuo mondo di sogno e ricordo, e mi si contorce lo stomaco all’idea della presa che lei ha su di te.
Non avrò mai la stessa forza prorompente di Astaroth Morgenstern, che ti strappa dal piano reale anche se lei non ne fa più parte. La odio e la detesto, la giudico male e non me ne pento nemmeno un po’.

«Non so, non ti facevo il tipo di persona che passa dalla stalla ai marmi intagliati.»
Faccio spallucce e accenno ad un sorriso sarcastico, rievocando il concetto che hai espresso tu stessa. Sono dell’idea, però, che vivere lì ti stia avvelenando giorno dopo giorno; abitare le stanze in cui lei si muoveva, promuovendo se stessa ad ogni specchio con ridondante superbia, non ti fa bene. Una parte di te deve saperlo.
«Non potrei mai vivere da sola al Maniero, nemmeno se mi costringessero…» aggiungo, ripensando alla dimora in cui sono cresciuta e che, idealmente, si trova sul fazzoletto di terra al di là di quel mare nero e impetuoso che abbraccia la tempesta. Il vento beccheggia all’esterno, ma la struttura in cui ci troviamo è solida abbastanza da reggere; inoltre, ho già apportato qualche miglioria magica alla casa dei miei sogni del futuro. Giusto per precauzione.
«Quindi immagino tu non abbia modo di invitare molte persone a Villa dei Gigli.»
Sicuramente non lo hai chiesto a me. penso, incurante della punta di gelosia che mi pizzica lo stomaco. Sì, forse sono anche gelosa di una defunta, ora sì che ho toccato il fondo.
«Se non puoi renderla come vuoi tu esteticamente, dovresti circondarti di persone che rendono il posto tuo. Capisci che intendo?»
Non so se ti sei resa conto che essere qui, per te, è un rito di passaggio da spuntare dalla mia check list. Ho sempre immaginato di farti vedere casa mia, quella che avrei acquistato col mio denaro e i miei sacrifici, facendoti partecipe di tutti quei momenti della vita di una persona che rendono l’esperienza dell’esistenza qualcosa di speciale. Non so se mi sposerò mai o se avrò una famiglia mia, ma vorrei fossi consapevole che in ogni tappa di questo viaggio - la mia vita - tu sei sempre inclusa. A me, invece, sembra che per te non sia lo stesso. Quanto ci vorrà, Nieve, perché tu mi restituisca una minuscola parte dell’affetto e dell’importanza che io sto dando a te? Lo so che non dovrei pretendere nulla, ma è più forte di me.

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Mi capisci. Lo fai sempre. In qualche modo, la vita torna ciclicamente a ricordarci che, nelle diversità, ci sono aspetti in comune a legarci; e che gli uni e gli altri contribuiscono a unirci. So quante tribolazioni abbia comportato per te la vita al maniero. Non conosco tutti quanti i dettagli della storia, ma quel che hai condiviso con me e le espressioni che si sono dipinte sul tuo viso a suo tempo sono bastate per permettermi di avere un’idea in merito. Quindi, sospiro e rilascio una parte della tensione che ho accumulato. I due anni di lontananza non hanno cancellato l’intesa che, oggi, rimane la lega del nostro rapporto — il modo in cui ci conosciamo nei pregi e nei difetti.
“Se non puoi renderla come vuoi tu esteticamente, dovresti circondarti di persone che rendono il posto tuo. Capisci che intendo?”
Le mie connessioni neurali si accendono e creano un collegamento che non mi aspetto; che mi spiazza. Ho provato così cocciutamente a relegare quella parentesi della mia vita sul fondo del baule (metaforico e non), dove ho ficcato con rabbia la foto che lo ritrae scattata con carta rubata da un cassetto del suo appartamento. Non mi aspettavo che potesse raggiungerci, questa parte del racconto. Non ero pronta — e non lo sono nemmeno adesso — a dare voce al casino del cazzo in cui mi sono cacciata. È così che ti scocco un’occhiata colpevole, come se mi avessi appena trovata a rovistare nella cantina con le botti di vino a rubarne un paio di bottiglie; come ho fatto, in effetti, quella volta in Italia.
Il vento esterno colpisce le finestre e qualche refolo mi accarezza il viso. È allora che mi accorgo di essere avvampata. Non so se il calore si sia trasformato il colore, se adesso i miei zigomi pronunciati portino il segno dell’imbarazzo e di tutte quelle emozioni che mi ostino a seppellire a colpi di terra e pala. Comprendo, però, di essermi tradita ché tu sei in grado di leggermi come nessun altro.
«S-sì, sono d’accordo. E qualcuno ho conosciuto» abbozzo, convinta di poter limitare il mio intervento a Isabella. Il fatto è che, in questa casa, così vicine, l’intimità del nostro rapporto torna con prepotenza a pungolarmi e fermare la lingua si rivela più complicato del previsto. «Senti — dico e sospiro — la cosa è questa: mi sono cacciata in un fottutissimo guaio. Il peggiore di tutti. E sai che io sono un asso dei casini.»
Fa strano parlarne con qualcuno che non sia Isa. Fa strano approcciare una questione che avrei voluto non tornasse più a galla. Ma mi sto prendendo in giro perché, ogni volta che incontro la testa tutta treccine cui voglio tanto bene, la preoccupazione che entrambe proviamo per le sue sorti finisce per caricarmi di nuovo sulla giostra. E via che parte un altro giro.
«Sai che io sono tipa da una botta e via, e l’ho fatto senza problemi per il tempo in cui sono mancata da scuola. Poi, ho mandato tutto in malora.» Abbiamo, dovrei dire, ma il ricordo del nostro ultimo incontro mi smentisce. Io ho fatto la puttanata. «Long story short: vado al Ministero, incontro lei, quasi distruggo un livello per la voglia di metterle le mani al collo, la gente comincia a pensare che io sia un Obscurus, vengo nascosta in un ufficio. Entra questa persona che conosco, quasi ci ammazziamo, lui però mi aiuta a uscire dal ministero. Ci rivediamo, gli chiedo alla cazzo di cane aiuto con la magia, succede un casino dopo qualche giorno e ci urliamo contro le peggio cose. Poi, lui si sente male e io lo aiuto, lo curo. Perdo la bacchetta, lui la recupera ma non me la restituisce. Ci scanniamo di nuovo finché non finiamo sul pavimento in orizzontale. Scopamicizia e basta. Scopamicizia e basta un cazzo.»
Mi accaloro nel fare il riassunto. Mi torna il mente il giorno a casa sua, le tacche di febbre, le sue maledettissime parole. Infine, il disastro. E vorrei dire che riesco a mantenere un certo distacco, ma il cuore batte rintocchi impetuosi sulle costole e fa presto a smentirmi. Abbasso lo sguardo, mi muovo per non guardarti più, passeggio, cerco il supporto di una parete. Torno presto su di te.
«Lo conosci» dico di getto e me ne pento così amaramente che mi mordo forte la lingua. Perché diamine non so tenere la bocca chiusa? Ora, non ho praticamente scampo. Sei più intelligente di me, potresti creare un abbecedario sui miei meccanismi, la mia gestualità ti ha rivelato più di quanto volessi. «Senti, accorcio i passaggi perché so che mi faresti un interrogatorio e io alla fine cederei. Perciò, te lo dico e basta. È Horus Sekhmeth.»

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Non capisco esattamente che cosa sta accadendo, ma intuisco di aver centrato un punto che non stavo cercando e di cui non conoscevo l’esistenza; mi sovviene all’improvviso il ricordo delle mie sorelle, che s’impuntano a volermi nascondere la verità delle loro bravate sperando di farla in barba a me - e per estensione, quindi, di prendere in giro nostra madre, dea vendicativa e terribile -, salvo tradirsi con un cenno nervoso delle mani, lo sguardo rivolto ovunque (ma mai a rispecchiare il mio) e balbettando come le assurde adolescenti che sono.
Nieve non si discosta molto da Fiona ed Iris, dunque, e scatta in me il sesto senso della sorella maggiore che intuisce il problema, pur non sapendo identificarlo, attende qualche informazione in più prima di procedere alla sentenza definitiva e poter passare poi alla ricerca della soluzione più congeniale per tutti.
Non ho mai incalzato le mie sorelle per avere le risposte che volevo: ci sono voluti anni di sguardi truci, alcuni meno di altri, e con Nieve intendo adottare la stessa tecnica. Lascerò che sia lei a sciogliere la matassa del mistero avvolto intorno al suo fottutissimo guaio. Alla sua definizione, tra l’altro, mi accorgo di aver fatto una smorfia con la bocca - una di quelle che condivide quello che si sta dicendo, ma senza aver il coraggio di mettere nero su bianco con le parole il concetto stesso; me ne rendo conto quasi immediatamente e scuoto velocemente il capo per cancellarmi il sorrisetto che altrimenti spunterebbe quando sento il resto della frase. Sì, Nieve è decisamente una regina nel cacciarsi nei guai, ma se siamo amiche - credo sia assodato ormai che lo siamo ancora, no? - ci sarà un perché. Con tutte le scelte sbagliate che abbiamo fatto finora ci si potrebbe lastricare ex novo tutta Diagon Alley e sono certa che anche stavolta quello che avrà da dire aggiungerà un tassello importante a questa nuova opera metaforicamente infrastrutturale.

Vorrei dire che non mi stupisce la sua reazione al Ministero e vorrei chiederle perché si trovasse lì in quel momento, ma me lo impedisce: il fiume in piena di parole si riversa nella mia cucina, mi travolge e mi costringe a mantenere la posizione. All’accenno della sua probabile natura di Obscurus - fortunatamente smentita - le mie sinapsi hanno un momento di shock; non ho idea di come si risolvano i problemi di un Obscurus, ma ora che me lo ha accennato mi incuriosisce saperne di più. Accidenti a me che non ho seguito il corso di Midnight quando potevo, forse l’unica cosa utile della sua intera carriera accademica ad Hogwarts.
Il racconto prosegue con un’enfasi crescente, un climax di emozioni pari alla vittoria della lotteria indetta dalla Gazzetta del Profeta o dal Settimanale delle Streghe, solo che qui la persona che ho di fronte sta per collassare a causa del peso della rivelazione. Pendo chiaramente dalle sue labbra e mi riscuoto dal pensiero precedente - quello sull’Obscurus - solo per dare la giusta attenzione alla definizione della posizione assunta da lei e questo fantomatico Ministeriale. Decido di sorvolare sul fatto che prima di chiedere aiuto a me abbia cercato asilo altrove, perché ricostruendo la cronologia degli eventi a spanne, questo era il periodo in cui l’anguilla nella mia cucina mi causava fortissimi e penosissimi attacchi di panico. La vedo agitarsi, contorcersi perfino, parlando così velocemente da ingarbugliare le parole tra loro. Vorrei dirle che va tutto bene, che possiamo pure sederci e parlarne con calma, e faccio per muovermi verso di lei - certo, scelta discutibile visti i precedenti -, ma sono lì con la mano tesa pronta a guidarla al tavolino alle sue spalle quando il nome della persona con cui è finita sul pavimento in orizzontale mi blocca.
Il palmo che tengo aperto si contrae e si chiude in un pugno, per poi rilasciare le dita - non vorrei mai pensasse che intendo picchiarla, insomma - e, probabilmente, lasciare che sia il fatto che sto boccheggiando a definire lo stato di shock in cui mi trovo.

Horus Ra Sekhmeth.
Il mio Caposcuola.
Il Campione di Tassorosso del Barnabus.
La crush segreta di almeno il cinquanta percento di Hogwarts ai tempi in cui la frequentava e - lo confesso - pure la mia per cinque minuti abbondanti. Poi ho capito tante cose, ma questa è un’altra splendida storia da lasciare ai posteri.
Lo scopamico di Nieve Rigos, regina dei guai e causa dei miei infarti.

Mi rendo conto che non posso starmene lì in sospeso, con lei che mi guarda così, senza dire una parola. Però non so che dire e quindi apro e chiudo la bocca come un pesce fuor d’acqua in cerca di ossigeno da respirare. Non so nemmeno perché mi stupisca tanto il fatto che sia riuscita là dove frotte di ragazzine adoranti - e qualche ragazzino pure, nei corridoi della scuola se ne sentono di ogni - hanno solo sperato di riuscire ad arrivare.
Per le mutande viola di Merlino.
Non so se essere scioccata, compiaciuta, invidiosa o cosa. Non lo so.
Mi limito a puntarle l’indice contro, in silenzio assoluto, come a volerla redarguire per questa relazione scandalosa. La supero, lasciandole intatto lo spazio vitale e mi siedo, facendo barcollare la tazza di tè sul tavolo. Mi sorreggo il volto con il palmo della mano e la guardo, questa creatura strana nella mia cucina, che mi redarguisce sul sesso occasionale, quasi ne sia effettivamente esperta, e poi è la prima che cade dritta nella trappola.
Beh, vorrei vedere. Insomma. Horus. Sekhmeth. C’è bisogno di dire altro? Tra le altre cose, con i capelli lunghi faceva proprio la sua bella figura anche al ballo dei Ruggenti Anni Venti, seduto al bancone dello speakeasy col suo drink. Che ci fosse qualcosa tra loro già allora? Mi è venuto in mente solo adesso di averli visti discutere con troppa - ma ora ne capisco il motivo - confidenza.
Sento che dovrei dire qualcosa, ma mi limito ad appoggiarmi allo schienale della sedia di tutto peso e a sospirare.
Ci sono tante cose che vorrei dire, taaaante.

«Lasciando perdere il fatto che credo tu abbia appena superato te stessa nel volermi scioccare…» e lo penso, Nieve, diamine se lo penso! «...credo che non ti parlerò per i prossimi cinque minuti. Devo elaborare questa cosa. E’ come se avessi appena sorpreso mio fratello a letto con la mia migliore amica.»
Sì, perché alla fine dei conti Horus è stato per me, Amber ed Eloise il punto di riferimento per così tanto tempo da essere entrato di diritto nella famiglia allargata che ciascuno di noi si costruisce col tempo al di là del legame di sangue fine a se stesso. L’attenzione per qualsiasi Tassorosso in difficoltà, le riunioni all’inizio dell’anno per la gestione dei turni come Prefetti, le festività e le piccole festicciole in Sala Comune. Prima che si diplomasse e Amber prendesse il suo posto, ricordo di aver sentito una specie di strappo dentro, come se il fatto che - finalmente - avesse preso i suoi meritati M.A.G.O. fosse una ferita aperta; non ho mai dubitato di Amber, ma Horus è sempre stato qualcosa di più, la figura di cui avevi bisogno e non sapevi di averne, ma che ogni volta era lì, pronto e presente.
Ad undici anni, quando ti ritrovi davanti un ragazzo del genere non puoi far altro che sognare un po’, ma - almeno nel mio caso - quella fiammella si è spenta in favore di un rapporto molto diverso. Non abbiamo mai parlato molto di questioni personali, a dire il vero proprio mai, ma questo non ci ha mai impedito di svolgere bene i nostri compiti per la Casa di cui facevamo entrambi parte. Oggi, qualche anno più tardi dal suo diploma, me lo immagino realizzato e indipendente - com’è sempre stato del resto - e guardo Nieve che è esattamente l’opposto di Sekhmeth: finge di riuscire a vivere da sola, di bastare a se stessa, ma cerca il contatto umano con una disperazione tale da suscitare tenerezza. Forse capisco meglio, adesso che ci ragiono un po’, perché si trovino a vivere questa cosa insieme.
Messa sotto questa luce la questione mi appare diversa, ma lo shock rimane invariato; assumo però un’espressione e un tono più concilianti quando apro bocca di nuovo.
«Immagino che il casino vero e proprio sia che ti sei innamorata, non è così?»
Povero Kurt, penso, ci avevi provato tanto, ma non sei e non sarai mai Horus Ra Sekhmeth.

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Ridacchio nel registrare la tua reazione. Parole ed espressioni non lasciano spazio ai dubbi: se di shock ne hai subiti negli anni a causa mia, questo si piazza decisamente sul podio. Sono divertita perché ritrovo, nella spontaneità cui ci stiamo via via approcciando, la Thalia e la Nieve di una volta; perché ti sento più vicina e percepisco il gelo, la rabbia e la frustrazione che ti ho inflitto trasformarsi piano piano in qualcosa di diverso — perire sotto la lava calda di ciò che proviamo l’una per l’altra.
Cristallizzo i tuoi gesti, scattando una fotografia della quale rideremo in futuro: la bocca spalancata, la mano tesa, l’indice che mi punta, il modo in cui ti metti a sedere, la mancanza di controllo sui tuoi lineamenti che mostrano ciascuna delle emozioni che ti stanno scuotendo da che ho iniziato a parlare. Forse, non avrei dovuto farlo. Anzi, sono sicura che non avrei dovuto ripescare il troll dal Cappello Parlante. Ma il danno è ormai fatto e, in fondo, se proprio devo esserne sincera, ne è valsa la pena solo per lo spettacolo che mi stai regalando.
Cambio radicalmente idea, quando la tua ultima frase mi colpisce. Sono io, stavolta, a schiudere le labbra e a spalancare gli occhi, mentre mi torna in mente un confronto simile già affrontato con Isabella. Ma la volete smettere di dare per scontate… cose? Non è nemmeno lontanamente come pensate. Io e l’Umanoide abbiamo solo fatto un macello con un paio di regole, ecco.

«Quindi, mi vorresti far credere che tu non abbia alcun problema con il controllo? Tu a me?»
Ti guardo con aria divertita perché, davvero, più buffone di così non sei mai stato. E a rendere più esilarante la situazione è il fatto che la tua vita sembra davvero orbitare attorno ai pilastri di serietà, compostezza e ordine, Umanoide. Solo che adesso, mentre chiacchieriamo di una mossa di Quidditch e la vediamo (tanto per cambiare) in modo diametralmente opposto —io sono per un approccio più fluido e istintivo, tu mi dici che a livelli alti non si può prescindere da studio e coordinazione con i compagni in certi ruoli—, stai provando a dipingerti come un tipo alla mano, sciallo. E io non è che non ti ci vedo. So che è proprio impossibile.
«La scelta della moto come mezzo per spostarci» inizio, allungando l’indice per dare il via alla lista di cui mi servirò per perorare la mia causa. «Un mezzo babbano di cui io non sapevo un cazzo. Tu e la tua fottuta visiera.» Gli lancio uno sguardo in tralice al pensiero dei moscerini incastrati sotto le palpebre, ma la mia bocca non riesce a fare a meno di sorridere. «Andiamo avanti con la presa da Antimago contro la porta, che se non mi hai spezzato una spalla è solo perché le tue parti basse hanno prevalso su quelle alte e hai capito che sarebbe stato un po’ difficile divertirsi se mi avessi disabilizzata.»
Sto fornendo una versione molto manipolata della realtà, andando a pizzicare alcune corde controverse del modo in cui si è evoluto il nostro primo incontro presso il tuo appartamento. Ti guardo, però, e i miei occhi brillano della stessa malizia giocosa che ti uso quando stiamo prendendo fiato tra uno scontro di passione e l’altro, e voglio farti capire che sono già pronta a ricominciare.
Il secondo dito, intanto, si è aggiunto al primo da un pezzo.
«Vogliamo parlare del modo in cui ti ostini a trattenere la metà dei gemit-»
Il divertimento è finito e a scattare, stavolta, non è stato il terzo dito ma la tua mano; il tuo corpo in generale. Rotoli sopra di me. Mi ammutolisci.
«Ahsjfjelxhekxnkeldj» bofonchio sotto la tua mano e non è strano che non si capisca un accidenti.
Il modo in cui si muovono le mie sopracciglia vuole palesemente dire “ci arrivi che devi spostarla o no?”, ma tu sei sadico —e ami il controllo—, perciò te la prendi comoda. Ti guardo male, la versione smorzata di ciò che sarei capace di fare e ho già fatto, perché la pazienza non è il mio forte.
Quando ti decidi, realizzi presto di aver commesso uno sbaglio: «Dicevo che ne trattieni la metà — di scatto, porto le mani davanti al viso per impedirti di zittirmi ancora, afferrando la tua — perché con l’altra metà non ci riesci. Sono suprema!»
È allora che me l’avvicino al viso e la addento lateralmente, là dove il palmo si fa carnoso. La meritata punizione per un prepotente.


«Ora non esageriamo» faccio presto a risponderti, scoccandoti un’occhiata indignata senza che il mio cuore abbia dato segni di volersi dare una regolata. Che Dio mi maledica! «La parola giusta è “confusa”. Sai, come quando ti fanno un Lucis Ambitus e non sai dove sbattere la testa.» Com’è che dice sempre l’Umanoide? Che sono brava a rigirare le frittate e voglio cadere sempre in piedi. Beh, sennò che Gattaccio sarei. «E non è colpa mia stavolta. È colpa sua» mi scappa di bocca. Poi sospiro, ti raggiungo e mi metto a sedere a mia volta, passandomi la mano sulla faccia. «Non è vero» mi correggo. «È colpa mia. Maledetti i suoi sandwich del cazzo!»

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Edited by ~ Nieve Rigos - 26/4/2024, 21:17
 
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Quanto sei ingenua. L’espressione sorniona sul mio viso risponde ai tuoi patetici - e teneri - tentativi di nascondere l’Erumpent nella stanza. Nieve Rigos si è innamorata seriamente di Horus Sekhmeth.
Mi chiedo se per lui sia la stessa cosa, se quel rapporto che avete intrecciato sia cominciato per gioco e stia continuando su un binario imprevisto con implicazioni che potrebbero portare ad un deragliamento disastroso oppure - come spero, in realtà - alla prima stilla di felicità che tu abbia davvero provato in vita tua.
Ti guardo torturare la faccia con la mano, nel vano tentativo di nascondermi il rossore sulle gote altrimenti pallide, e sorrido. Una parte di me è orgogliosa di constatare che tutto il male che ti è stato fatto non sia stato sufficiente a soffocare lo spazio in cui far germogliare qualcosa di nuovo e bello; ed è assurdo che tu mi chieda se capisco quella confusione, perché un’ustione fa e diverse lacrime addietro ti ho raccontato di me e di questa sensazione svilente di non sapere che cosa si voglia - chi, più che altro - quando, in verità, si pensa di avere già tutto quello che ci serve.
Mi allungo sul tavolo, con delicatezza ti afferro il polso e te lo scosto dal viso. Vorrei che mi guardassi mentre cerco di impartirti una lezione sui sentimenti che nemmeno Astaroth aveva previsto nel suo piano di studi per te.
«Guarda che non è sbagliato.» ti dico, un sorriso appena accennato «Se ti rende felice, non è sbagliato affatto.»
Il pollice ti accarezza il polso mentre ti parlo, come se ti stessi cantando una ninnananna per conciliarti la quiete e il sonno. Che tu ci creda o no, quello che stai passando lo conosco piuttosto bene, l’ho provato e lo provo ancora, solo che crescendo tutto s’incasina e si complica, quando spereresti soltanto in un briciolo di chiarezza dato dalla maturità.
«E poi… diamine, come si fa a non amare Horus?» ti lascio andare, perché so che questa frase ti spiazzerà e ti farà venir voglia di ridere e nasconderti sotto al tavolo allo stesso tempo «Le espressioni del suo viso quando si ostina a dirti come la pensa sono… eccezionali. Evidentemente hai scoperto altre cose di lui altrettanto straordinarie…» ammicco e mi stupisco di me stessa per il tentativo, forse maldestro, di stemperare la tensione che si annida nel tuo cuore; sto combattendo ancora contro l’incredulità che la notizia mi ha dato, ma vederti così confusa mi intenerisce e preoccupa insieme. Di fronte a queste cose tu scappi come una gazzella di fronte al leone, io lo so. Ti ho vista farlo tante volte e ho sempre pensato che andasse bene così, perché non eri pronta e ci avresti fatto i conti più avanti. Quel momento è arrivato ed ho paura che anche stavolta tenterai di scappare da qualcosa che, per l’amor del cielo, ti meriti davvero.
Mi rendo conto che perorare la causa di Sekhmeth sia un azzardo bello e buono, ma sono anche sicura che lui abbia fatto i suoi calcoli in tutto questo e non ti affiderei a nessun altro delle persone che conosciamo. La fiducia e la lealtà verso di lui esistono e perdurano da troppo tempo, ormai.
«E comunque, anche se avrò gli incubi per questa vostra cosa...» aggiungo «Di tutti quelli che potevi incontrare sulla piazza, lui è il migliore.»
A te serve sicurezza, stabilità e raziocinio, tutte caratteristiche che possiedi forse all’un percento in quella testolina affollata di idee e pensieri; Horus è questo, almeno per me, e se dovessimo dirla davvero tutta è l’unico che può reggere l’onda d’urto dei tuoi malesseri - e fidati, Nì, non è cosa da poco.

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Tu mi ignori proprio, signorina. Stai lì a parlare d’amore quando ti ho appena spiegato di essere soltanto confusa. Ci passa tutta Hogwarts e un esercito di giganti tra questo e quello che continui a ripetere tu. Figurati se posso innamorarmi di quel cocciuto ammasso di ferraglia che devo sbullonare con prepotenza per riuscire ad aprire feritoie nella sua armatura! È implausibile e magari, se ti dessi tutte le informazioni, capiresti che una ritrattazione è d’obbligo.
«Ferma, ferma, ferma. Qui nessuno ha parlato d’amore e nemmeno lo farà.» Arriccio il naso e congiungo le sopracciglia con espressione infantile, immusonita, ma non rifiuto le tue carezze. Anzi, le accolgo come se il tocco delle tue dita fosse la sola cura per la battaglia che imperversa dentro di me. «Non è così che stanno le cose. Avevamo solo posto delle regole molto chiare e, a una certa, le abbiamo stupeficiate come due coglioni.» Il ricordo delle risate echeggiate su quel soppalco mi perseguita. «Doveva essere una cosa semplice: due botte ogni tot, ma anche tre o quattro, e via. Poi, quello ha cominciato a prepararmi i panini per farmi mangiare, a mettermi la coperta nella cabina armadio, a invitarmi a uscire con i suoi amici. E io stavo tranquilla, eh. Stoica come sempre. Ti pare che quello non si fa venire un attacco di gelosia e mi manda il cervello il cortocircuito?»
Ma tu continui. È come se le mie parole ti entrassero da un orecchio e uscissero dall’altro. E io non riesco a non sbottare a ridere quando fai riferimento “cose di lui altrettanto straordinarie”. A parte il fatto che non ti avevo lasciato così sfacciata, la smetti di evocare demoni che sono mesi che provo a spegnere? Non riesco a trattenermi e ti rivolgo un sorriso sornione. Oh, se ne ho scoperte di abilità interessanti dell’Umanoide! Vorrei dire che mi ha colpita una su tutte, ma significherebbe sminuire mesi di gesti svergognati messi in atto in ogni luogo con un bel corredo di bestemmie di Isabella al seguito.
«Quello non posso negarlo» ti rispondo, maliziosa. «Ha degli strumenti che lo rendono piuttosto… convincente.» Ne ricordo giusto un paio, una decina, forse un centinaio. Sotto il tavolo, non resisto a un’involontaria contrazione delle cosce. Che cazzo ho fatto di male per meritarmi tutto questo? «E, infatti, quella parte dell’accordo era perfetta. Chef’s kiss!»
Mi stupisce sentire come parli di lui, onestamente. Riponi una fiducia nell’Umanoide che rispecchia quella di Isabella. Non è che vi siete messe d’accordo per farmi cambiare idea? Come se non l’avessi già fatto, commenta l’Abisso e la mia espressione torna a indurirsi. Torna a indurirsi perché il ricordo del nostro ultimo incontro mi travolge più di quanto mi sarei aspettata dopo tutto il tempo speso a distaccarmene; dopo le cose che ho fatto con Cézanne. Mi balena in mente l’idea di parlarti anche di lui — così, magari, la smetti di dire che sono innamorata! —, ma il mio istinto è pronto stavolta e mi frena. Ci sarà modo di renderti edotta anche di questa parte della storia, anche se credo che non potrò raccontarti tutto.
«Sarà il migliore per qualcun’altra, non per me» dico e stavolta sono perentoria. Noterai subito che qualcosa è cambiato e trarrai una conclusione molto vicina al vero. Sospiro. «Come ti dicevo, è stata una parentesi che si è già chiusa. Ecco perché so che non c’è niente di male. È andato tutto come doveva andare.»
Ma era davvero in questo esito che speravo quando indossavo i suoi vestiti di cinque o sei taglie più grandi di me? O quando lo lasciavo entrare nella doccia con un ghigno compiaciuto e realizzavo presto che non fosse l’acqua la cosa più calda presente in quello spazio circoscritto? Sì, decreto. Carne e sangue, sempre e solo.
«Te l’ho detto giusto perché me l’hai chiesto e mi sembrava giusto darti il quadro completo. Non c’è altro su cui ricamare.»
Vedo la mano di Isabella raggiungere il mio viso e sprimacciare un naso rosso invisibile — “Popi popi”. Stavolta, però, non sono stata io a fuggire.

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Ti ho vista cambiare davanti ai miei occhi quando Astaroth ha cominciato la sua opera. Non ne abbiamo mai parlato approfonditamente, per fortuna - altrimenti ti avrei strappata alle sue grinfie più che volentieri -, ma ho riconosciuto i segni del suo passaggio su di te come si riconosce il passare delle stagioni semplicemente guardando il paesaggio. Quando ti ho conosciuta eri già maliziosa e accattivante come qualsiasi altra adolescente di tredici anni; non possedevi, però, la capacità di imprimere il tuo pensiero con la sola forza dello sguardo, non eri in grado di spogliarti - metaforicamente e non - delle cicatrici del tuo passato; proteggevi te stessa in tanti modi e per me era difficile accedere alla parte più nascosta di te. Oggi ti vedo frequentare i balli scolastici con movenze e atteggiamenti più maturi, forse troppo perfino, e mi hai confessato tu stessa di aver percorso una via oscura in fatto di relazioni. I sentimenti ti hanno sempre spaventata e lo fanno ancora adesso per le implicazioni che questi comportano. Astaroth ha creato un’opera che non riesco ad apprezzare del tutto, benché riesca ancora a vedere la bozza sotto al tratto definito che mostri in superficie.

«Non ti ho chiesto proprio nulla, cara mia. Hai vuotato il sacco da sola e molto volentieri, aggiungerei.»

Mi racconti di te ed Horus, del modo in cui si è preso cura di te in quei mesi - o erano solo settimane? - e mi dispiaccio nel constatare che, ancora una volta, sei così concentrata su di te da non riuscire a vedere il problema degli altri.
Horus non ha avuto proprio un’infanzia candida e di certo lui non lo racconta, ma le voci nel mondo magico corrono alla velocità della luce e, ad eccezione di qualche stortura e approssimazione, la base di verità è che anche Horus è sostanzialmente orfano tanto quanto lo sei tu. Tra simili vi siete riconosciuti e non capisci che questo suo prendersi cura di te, facendoti mangiare e dandoti delle regole, equivale ad una vera e propria dichiarazione.
Ho sempre vissuto dall’esterno la sua personalità, senza mai potermi addentrare nel suo privato; l’ho visto frequentare Emily Rose il giorno prima e poi, in apparenza, mollarla senza un perché il giorno dopo. Poi si è diplomato e chissà quante altre volte ha fatto la stessa cosa: affezionarsi, prendersi cura di qualcuno di speciale per poi spaventarsi come un gatto al primo rumore assordante e fuggire. Non lo biasimo, se è questo quello che è successo tra voi, e non credo ti emulerò nel voler ristabilire la quiete tra voi. Sono affari vostri, per quanto mi riguarda, ma quello che mi tange davvero è il tuo stato in questo momento.
Possibile che non ti accorgi di quanto questa storia ti stia facendo soffrire? Riesco a vederlo nei tuoi occhi, nell’espressione e nel tono della voce che usi per dirmi che non ho capito assolutamente niente di tutta questa storia e, se vogliamo dirla tutta, non hai capito nulla nemmeno tu.
«Serve dare un nome alle cose per definirle?» ti chiedo dopo un po’ «Può darsi che Horus ci abbia provato, a dare un nome a questa cosa, perché non ti prendi cura di qualcuno così, per divertimento. Specialmente se si tratta di te. Tu sei un caso davvero particolare e richiedi attenzioni estreme. Guarda cos’hai combinato in due anni che ti ho lasciata sola…»
Non te lo sto rinfacciando e il mio tono è leggero, decisamente colloquiale e affatto rancoroso. Vorrei capissi che i rapporti tra le persone sono complicati per la loro stessa natura e ciascuno di noi li intreccia su un filo di base sottilissimo e fragile. Con te, Nieve, quel filo è almeno due volte più sottile e immagino che vista dalla parte di Horus tutta questa situazione sia… dannatamente complicata.
«Te lo dico perché un pochino lo conosco e so che prendersi cura degli altri è il suo modo per dire che ci tiene.» aggiungo «...continuerà a guardarti storto, per carità, ma lo farà perché vuole che tu capisca quanto è importante per lui. Noi Tassorosso lo sappiamo perché lo abbiamo vissuto ogni giorno finché non ci ha lasciati.»

Quindi, cara mia, se anche fosse fuggito a gambe levate di fronte a quello che stava succedendo tra voi, devi dimostrargli che ha torto oppure che ha ragione, ma non piagnucolare nella mia cucina senza aver tentato l’una o l’altra strada; perché giuro su Merlino che se stavolta mandi tutto a quel paese non te lo perdono.

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Ho vuotato il sacco, hai ragione, incapace di frenare la lingua. È che sono mesi che mi tengo tutto dentro e la mia mente, le mie emozioni, i miei pensieri continuano a volare in ogni direzione senza darmi tregua. Adoro Isabella e parlare con lei — stare con lei — è uno dei regali che l’Umanoide mi ha fatto senza davvero rendersene conto. Non nego, però, che è te che avrei voluto accanto nel periodo in cui la confusione si è intrecciata ad un patto all’apparenza perfetto. Avrei voluto chiederti cosa significassero le sue azioni: perché mi aspettasse sveglio a letto quando mi alzavo in preda a un incubo, come mai si ostinasse a scrutarmi per capire cosa ci fosse sotto la facciata. È colpa mia, è vero, per non essermi accorta in tempo del pericolo che correvamo e aver permesso che la gentilezza dei suoi gesti attecchisse là dove il terreno era arido. Ma è lui ad aver mandato a puttane l’accordo, contraddicendosi e mostrandomi cura, attenzione. Io, maledizione, non c’ero più abituata e ci sono cascata con tutti gli stivali.
Ti osservo e ascolto. Ripeti le stesse identiche cose che mi ha spiegato Isa su di lui, quando non lo capivo e mi ostinavo a dire che fosse freddo e insopportabile con il suo atteggiamento da androide. Poi, però, mi scordo di rimanere impassibile e mi lascio trascinare indietro. Quel bacio ci ha fottuti definitivamente, anche se alla fine le cose sono andate esattamente come mi aspettavo. Non sono mai abbastanza.
Sospiro. «Non è così semplice e lineare, Thal» provo a spiegarti. «E anche lui non è che sia un caso tanto semplice.» E ho ragione. Definire Horus Sekhmeth un enigma di facile soluzione significherebbe toppare alla grande. Alla grandissima. «Il sesso complica sempre tutto.» Ti scocco un'occhiata significativa. Non ho dimenticato il racconto di poco fa. «Ma noi eravamo dei professionisti della materia “niente emozioni”. Non capisco come la situazione sia deragliata in uno schiocco di dita.»
Non mi accorgo di come le mie parole sconfessino ciò che mi ostino a credere: che per lui non abbia significato niente. Una parte di me — gli Abissi — sanno che hai ragione, che l’Umanoide non si concede a cuor leggero. Sanno anche che le rivelazioni che mi ha fatto sul motivo della sua partenza sono forse la dimostrazione più grande di quanto io sia nel torto. Ma mi serve aggrapparmi alle mie convinzioni, capisci? Come mi serve prenderti per mano e stringere la presa sulle tue dita.
Non mi accorgo neppure di come le mie parole riaprano la conversazione, quando solo pochi secondi fa ho tentato di troncarla di netto. Ho bisogno di te. Ho bisogno di mia sorella. «Non capisco perché si sia ostinato a prendersi cura di me, nonostante i miei sforzi di tenerlo distante. Di tenermi distante.» Continuo ad aggiungere dettagli senza che tu me lo chieda. Sono un fiume in piena di subbugli che per troppo tempo ho tenuto segregati. Ma non è forse così che ho sempre affrontato la vita? Un bel cumulo di terra et voilà. Situazione risolta. «Non era nei piani. Io n-non sono pronta.»
Allora perché gli ho confessato i miei sentimenti e ho lasciato che mi guardasse in quel modo? Perché ho mangiato i suoi sandwich? Perché “Non possiamo” e “Lo so” non ci hanno fermati? Sbuffo, usando la mano libera per coprire gli occhi.
«Comunque, non ha importanza. Abbiamo entrambi capito di aver fatto una cazzata e ci abbiamo messo un punto.» Lo abbiamo fatto davvero? «Se non altro, questa situazione mi ha aiutata a capire che la regola di Roth non si deve infrangere mai più: “devo divertirmi, ma devo essere la prima a scappare”.»
Non so quanto tu possa essere d’accordo con questa mia ultima affermazione. Non ci voleva una mappa per capire che Roth proprio non ti piacesse. Ho preferito ignorare la cosa, dividere il mio rapporto con te e quello con Lei in compartimenti stagni. Siete sempre state diverse e a me andava bene finché l’una non avesse tentato di allontanarmi dall’altra. Non ci crederai o, magari, non te l’aspetti, ma non avrei rinunciato così facilmente a te neanche se fosse stata Roth a chiedermelo.

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Edited by ~ Nieve Rigos - 27/4/2024, 18:51
 
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Roth. Sempre lei.
Stiamo parlando da venti minuti del rapporto più salutare tu abbia avuto in tutta la tua vita e tu scegli, ancora, di tornare ai suoi precetti idioti.
«Se continui a scappare non sarai mai pronta.» ribatto subito tetra. Non si tratta di Horus, adesso, ma di te. Si tratta sempre di te. Come faccio a spiegarti che Astaroth Morgenstern poteva fare quello che voleva della sua vita perché ne era consapevole - mentre tu non lo sei affatto - senza offenderti minimamente? Per tutti i lumi della ragione, se l’avessi qui davanti la strozzerei: ti ha plagiata al punto tale da aver affossato ogni tuo possibile tentativo di risalita dall’abisso in cui ti trovi e ti sei sempre trovata.
«Tu giochi sempre con le persone.» aggiungo, senza privarmi del sarcasmo che sento di dover integrare a questa verità assurda «Astaroth ti avrà insegnato due o tre cose su come divertirti senza concedere agli altri un briciolo di te stessa, ma io ne so qualcosa di relazioni e rapporti complicati. Te lo ricordi quello che ci siamo dette prima, vero?»
Nemmeno Lucas era nei miei piani l’altra sera e guarda come mi sono ridotta per il solo fatto che mi abbia sfidata, sfiorandomi i fianchi. La mia lealtà ha vacillato per un secondo - forse di più - e sento il peso della colpa fracassarmi le ossa e il petto. Tu sei nella situazione in cui non devi scegliere un bel niente e per uno stupido precetto ti stai lasciando scivolare tra le dita qualcosa di davvero importante.
Mi alzo in piedi e porto la mia tazza ormai vuota nel lavello. Mi faccio forza stringendo il bancone, perché vorrei farti capire la frustrazione che provo adesso e il fatto di non poterla sfogare per paura di farti chiudere di nuovo nel tuo guscio.
«Non sei costretta ad accettare i miei consigli né quelli di chiunque altro, ma vorrei che cominciassi a pensare con la tua testa, Nì, e non con quella di Astharoth.» Lei non c’è più, dannazione. «Non credi che si possa cambiare idea nella vita?»
Mi riferisco a te, naturalmente, e al fatto che se non comprendi adesso di aver scelto la strada sbagliata forse non te ne accorgerai mai. Mi rendo conto, però, che questo binario non ci porterà da nessuna parte, quindi cambio strategia e aggiro il problema semplicemente provando ad ignorarlo.
«Il sesso è la parte semplice, comunque, perché è istintiva. E’ il resto che complica tutto. Guarda me.»
Sto ammettendo qualcosa, forse? Non lo so e non lo voglio sapere. Avrò tutto il tempo per pensarci. Adesso la mia priorità sei tu. Tu e la tua zucca dura.

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18 yrs – Chaos – St. Ives

Non sei così sottile come pensi o, forse, è solo che ti conosco bene, nonostante gli anni che ci hanno tenute separate e ci hanno viste addirittura nemiche. Quindi, capisco i tuoi ragionamenti e intuisco la frustrazione che c’è dietro. Del resto, spingermi a pensare con la mia testa è una frase abbastanza eloquente.
Non credere che non mi sia posta il problema in questi mesi. Roth è una presenza ingombrante nella mia vita e nella mia mente. A tratti, lo è anche nel mio cuore, ma La amo così tanto che non riesco a sottrarmi all’ombra che la Sua ala spiegata continua a gettare su di me. Non riesco a percepirLa solo come un ricordo, come la persona che ha giocato un ruolo fondamentale nel periodo in cui ci siamo conosciute e volute bene. Non sono in grado di accettare appieno il peso del regalo che mi ha lasciato (Villa dei Gigli) o di pensare che abbia torto quando si parla di sentimenti. In realtà, su quest’ultimo punto, so anche perché: è più facile fare come mi ha insegnato Lei che non correre il rischio di scottarmi.
Magari, dovrei ripensare alla conversazione che abbiamo avuto su Channing ai tempi della mia cotta per lui. Non mi ha mai detto che ci fosse qualcosa di male in ciò che provavo. Non ha mai pensato che fosse una buona idea cancellare la memoria del primo incontro con lui. Si è perfino rifiutata di farlo, quando Le ho chiesto di usare la magia per aiutarmi a dimenticarlo. È che io prendo solo quello che mi fa comodo prendere. Potresti immaginarlo senza difficoltà, se solo sapessi tutta la storia.
«Non sono d’accordo, Thal. Il sesso complica davvero le cose. Non voglio azzardare ipotesi perché solo tu puoi sapere cosa provi e cosa provavi in quel momento, ma… non pensi che, se non fossi andata a letto con il giornalista, le tue emozioni non sarebbero esplose così all’impazzata? Non le avresti cancellate, certo, ma non avresti toccato con mano quello che ti fa sentire stare con lui. E credo di poter dire che per te non sia stato solo sesso. È proprio questo il punto.» Non sono sicura che tu sia d’accordo con me e non è neppure necessario concordare. Ma sono sicura di quel che dico per averlo sperimentato. «È solo sesso e te lo lasci alle spalle senza problemi se si tratta di qualcuno che non conosci più di tanto e che vedi una volta, fine. Certo, ci sono casi in cui scatta una connessione che non ti aspetti e sei fregata lo stesso, non dico di no. Ma negli altri casi è una trappola mortale» continuo. «Se io e l’Umanoide fossimo andati a letto una volta sola, le cose non sarebbero degenerate. Se fossi scappata come faccio sempre, non sarei in questa situazione di merda.»
È l’unico modo che mi venga in mente per definire il guaio in cui mi sono ficcata. So che tu la vedi in maniera diversa — l’hai ripetuto più volte, del resto —, ma non c’è niente di buono in quello che io e l’Umanoide abbiamo combinato, te lo assicuro.
«Comunque, non ha senso stare qui a parlare di questa cosa. Quel che è fatto è fatto. Sono mesi che non ci vediamo e va bene così. Sono venuta da te per un altro motivo: uno, per passare un po’ di tempo insieme e, due, per provare a ricordarmi come si fa a essere una strega.»
Estraggo la bacchetta, che ho riposto nei pantaloni subito dopo averti curata. So che non mollerai, che la questione tornerà a galla nei giorni in cui godremo l’una della compagnia dell’altra. Per ora, tuttavia, è abbastanza. Non voglio pensarci. Non voglio pensare a lui. Voglio che rimanga relegato sul fondo del baule dove giace, negletta, quella foto che avrei dovuto bruciare. Forse, mi dico, è tempo che lo faccia quando tornerò a casa.

–Don't know if you get it 'cause I can't express how thankful I am
That you were always with me when it hurts, I know that you'd understand–

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Edited by ~ Nieve Rigos - 4/5/2024, 01:16
 
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view post Posted on 4/5/2024, 13:27
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You can take the darkness out of the man, but you can't force him to step into the light.

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20 yrs – (Dis)order – St. Ives

E’ proprio questo il punto, Nì. Non è stata quella notte a farmi esplodere. Stare con lui è stata solamente la conseguenza naturale di tanti giorni passati a rimuginare su quello che avremmo voluto fare di quella storia; di me e lui, diversi ad un livello profondo eppure simili in modi che non avrei potuto ritenere possibili. Vorrei poterti dire quello che so di lui, così dividerei il peso del mio fardello e lo saprei gestire meglio, ma so anche che sarebbe completamente e incondizionatamente sbagliato. Non hai spazio per queste cose, non adesso.
Perciò annuisco e ti lascio credere di aver ragione - ogni tanto succede davvero - e ti esamino con quella bacchetta in mano, mentre glisso volutamente sul curioso soprannome di Horus. Mi chiedo quando tu glielo abbia affibbiato, la ragione dietro la scelta peculiare, il perché lo preferisci al suo nome di battesimo. Non vuoi aprirti di più su questa faccenda e non sono così stupida da forzarti la mano. Ti conosco troppo bene: sotto pressione non cedi, semmai attacchi ed abbiamo già litigato a sufficienza per una vita intera - almeno per quanto mi riguarda.
Decido quindi di assecondarti, sembra sia il mood della giornata, e ti faccio cenno col capo di metterla via.
«D’accordo.» mi avvicino a te, sedendomi sui talloni e prendendoti le mani tra le mie «Prima mi hai detto che sei riuscita a guarirmi solo perché tieni a me. Quindi la mia deduzione iniziale era giusta.»
Ti sorrido e non ti lascio intravedere nel mio sguardo la soddisfazione di sapere che le mie ricerche e il fatto di aver sempre saputo di essere legata a te per la vita siano entrambe verità assolute. Qualsiasi cosa succeda, chiunque tu decida di far entrare e uscire dalla tua vita, ovunque deciderai di andare - Nieve - non ti libererai di me. Sono troppo cocciuta per permettertelo. «Quindi, se la tua magia è collegata a questo è su questo che dobbiamo puntare. Emozioni forti.»
Non sei nuova nemmeno a questo argomento e, probabilmente, questa è la ragione che ti ha spinta a provare sostanze ed esperienze umane discutibili: cercavi l’adrenalina per sentire qualcosa, per tornare a vivere. L’ho capito prima, quando ne abbiamo parlato, e adesso ne sono sicura. Leggo dell’incertezza nei tuoi occhi o, forse, è solamente curiosità.
«Ti chiedevo di lasciare andare tutto quello che è successo perché speravo avresti reagito come hai fatto: vetri delle finestre che tremano, tazze che si rompono…» tagli sulle mani «E quella è solo una parte della soluzione. Tu rivuoi la tua magia indietro, giusto?»
Essere una brava strega non ti è mai importato - Merlino solo sa quante volte ti ho costretta a studiare per passare il compito o l’esame -, ma essere una strega è tutto ciò che sei. Non sapresti reinventarti, altrimenti, perché ne hai passate talmente tante che la forza e la voglia non le hai più. Questa è l’ultima spiaggia, l’ho capito quel giorno ai Tre Manici, quando ti sei permessa di far cedere il muro che ci separava e hai chiesto aiuto. Non ti ho voltato le spalle allora e non ti abbandonerò adesso, te l’ho promesso. L’unica cosa che non ti ho detto è che il processo, probabilmente, sarà brutale.
«So che il fuoco e i draghi ti terrorizzano.» continuo, stringendoti le dita magre «E credimi se ti dico che non farei mai nulla per metterti in difficoltà o in pericolo.»
Non ho un Dorsorugoso nascosto nel seminterrato, il mio sorrisetto dovrebbe rassicurarti abbastanza su questo, ma è l’unica idea che mi sia venuta in mente. Metterti sotto pressione e scatenare l’inferno.
Ti serve una terapia d’urto, Nieve, e questa è l’unica che conosco.
«Ti andrebbe di fare un giretto in Galles?»

–The truth is, everyone is going to hurt you.
You just got to find the ones worth suffering for.–

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