| Jessica A. Evans |
| | Dalla Torre di Astronomia la valle del castello riluceva di mille colori. Un'alba ricca di sfumature cremisi pennellava la volta del cielo, riflettendosi sulle mura e sul parco di Hogwarts. Un brezza leggera intervallava a fatica una cappa afosa innaturale, che gravava sulla pelle e si appiccicava ai vestiti. Jessica Evans osservava il panorama, decine di chilometri sotto i suoi piedi, da una solitaria finestra della Sala Comune. Era deserta e il silenzio conferiva solennità allo spettacolo pirotecnico della natura. Le sue valigie erano appena state recapitate in camera dagli elfi domestici, e ben presto la giovane Corvonero si era resa conto che pochi suoi concasati erano rimasti tra le mura scolastiche. L'anno accademico era alle porte, ma solitamente gli studenti del castello rientravano a Hogwarts il primo settembre. Il suo anticipo non era casuale, ma volontario e non era mai accaduto durante i quattro anni in cui aveva frequentato l'accademia di magia. Aveva bisogno di tempo per riassemblare i pezzi, e un rientro in solitudine avrebbe giocato a suo vantaggio. Confondersi con i visi sorridenti del resto degli studenti l'avrebbe solamente fatta impazzire e le avrebbe fatto venire voglia di darsela a gambe, correndo più veloce che poteva. Si sentiva fuori luogo, non degna di condividere la felicità altrui e non all'altezza di affrontare un anno accademico complesso, con importanti esami alle porte. Un fallimento ambulante, un inutile scarto. E questa sensazione la perseguitava da quando aveva tirato le somme e aveva preso atto di quante cose aveva mandato all'aria. Nathan, L'Ordine della Fenice, le Amicizie... Tutto. Così come non aveva potuto fare nulla per la sua giovane sorella, se non stare accanto al suo esile ed esangue corpo, adagiato in un letto asettico di ospedale. L'unica cose che aveva potuto fare, era stata attendere. E aveva atteso, inerme ed impotente, atteso, fino a che qualcuno aveva portato buone nuove. Era stata infinita, quell'attesa, infinita e snervante, e Jessica ancora non sapeva se ne fosse davvero valso qualcosa. Sua sorella era ancora malata, e nessuno sapeva quando e se si sarebbe ripresa definitivamente. Jessica sospirò sonoramente, e diede le spalle alla finestra. I suoi occhi ci misero parecchi secondi ad adattarsi alla penombra della Sala Comune e a permettere alle sue gambe di trovare la strada per uscire dalla sala, senza urtare qualcosa. Una volta fuori, si lasciò il corvo custode alle spalle, chiedendosi se sarebbe mai più stata capace di rispondere correttamente agli indovinelli, o se l'intorpidimento psichico degli ultimi mesi, l'avrebbe vista costretta ad attendere l'arrivo di qualche compagno più in gamba di lei per andare a dormire. Prese le scale e scese di qualche piano, attendendo che le rampe a cui piace cambiare, scegliessero la strada per lei. I corridoi erano deserti e le volte gotiche erano illuminati dal chiarore mattutini, che mano a mano stava abbandonando le sfumature rossastre, lasciando il posto a colori pastello più tenui. L'afa nei corridoi era così densa da poter essere affettata con un Diffindo, e si insinuava tra i suoi capelli, appiattendoglieli sulla fronte. Si raccolse la chioma vermiglia in una coda alta, per lasciare respirare la pelle, e ringraziò i numi di aver indossato una camicia estiva e una gonna di media lunghezza, lasciando la divisa ben appallottolata nel baule. I suoi passi rimbombavano nell'aere, dandogli la convinzione che non avrebbe trovato anima viva nel raggio di chilometri, ma l'eco di una voce, non molto distante e arrivata del tutto inaspettata, la fece arrestare dallo stupore. Una brezza fresca seguì quell'inaspettato suono, tanto che Jessica pensò che la voce udita provenisse, con più probabilità, dall'esterno delle mura, ma non appena svoltò l'angolo, una folata di vento la investì in pieno e, voltandosi verso la finestra da cui essa proveniva, notò una gamba penzoloni. Sobbalzò incredula, facendo un salto all'indietro e inciampò in un risvolto del tappeto, urtando un'armatura di guardia al corridoio. Perse l'equilibrio e rovinò al suolo, trascinandosi dietro l'armatura nel tentativo di trovare un appiglio per restare in piedi, ma invano, e con un fragore metallico, che rimbombò per tutto il corridoio, atterrò sul pavimento di pietra. Si protesse il capo dai pezzi metallici che le piovvero addosso e gli occhi si sgranarono, quando la spada dell'armatura si infilzò nel tappeto tra le sue gambe, per poi afflosciarsi lentamente a terra. "Beh, non avrei potuto sperare in un'accoglienza migliore!" sbottò, afferrando l'elmo con due mani, alzandolo sopra alla testa, per lanciarlo lontano nel corridoio. Ruotò sui glutei aiutandosi con i palmi delle mani puntati a terra, e si spinse, flettendo le ginocchia, per trovarsi seduta ma con la schiena appoggiata al muro. Sospirò e chiuse gli occhi, passandosi una mano sul viso e poi, sperando che in tutto quel baccano, l'individuo appeso alla finestra non fosse volato giù, disse a mezza voce: "Mi scusi, ma la mia goffaggine è celebre e verrà tramandata ai posteri con eroici canti da menestrelli burloni...". E lì seduta, sopraffatta dagli eventi, attese di essere defenestrata oppure che le sue scuse venissero formalmente accettate. Edited by Jessica A. Evans - 15/10/2014, 14:42
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