self-portrait

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view post Posted on 5/3/2015, 20:43
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Sometimes I can feel my bones straining under the weight of all the lives I'm not living.

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To suffering there is a limit; to fearing, none
Contest a tema Marzo 2015 ▹ Paura
Ambientazione ▹Hogwarts, terzo anno (16 anni)





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«You never really remember the beginning of a dream, do you?
You always wind up right in the middle of what's going on.»

Un alito di vento le accarezzò la pelle, sussurrandole tra i capelli e gonfiandole un poco il candido vestito di stoffa leggera che le copriva le ginocchia, lasciandole invece nude le braccia ed una porzione del petto; ondeggiò un paio di volte sui piedi scalzi prima di muovere qualche passo incerto sul legno umido del pavimento, non avvertiva il freddo che pure allungava le sue lunghe dita tutto intorno a lei, sentiva piuttosto il gelido peso del vuoto dentro di lei, aria pesante e glaciale nei polmoni, tra le costole, sfiorava lo sterno, rendendola insensibile alla temperatura della stanza.
Chiusa nella sua bolla di ghiaccio, sorda ai segnali esterni, si sentiva protetta, sicura, salva da qualunque cosa si agitasse lì fuori come lingue di fuoco indomabili e imprevedibili; una gabbia ermetica, inaccessibile, frutto di anni ed anni di preparazione: non avrebbe permesso a niente e nessuno di ghermirla, trascinarla in quel turbine di calore ed emozioni di cui aveva tanto paura.
Perché, c'era da chiedersi. Ma lei non ci pensava, preferiva ignorare quell'evidente debolezza, quella scomoda verità che però non voleva proprio saperne di tacere, neppure lì sepolta, in fondo al suo animo.
Arrestò il passo di colpo, qualcosa opponeva resistenza e le impediva di proseguire; poggiò i palmi su quella spessa lastra di vetro trasparente sulla quale si infranse il suo respiro improvvisamente accelerato. Le iridi azzurrine saettarono da ogni parte, solo per scoprire che un globo vitreo si era materializzato intorno a lei, ingabbiandola questa volta letteralmente.
Non soffriva di claustrofobia, tuttavia la consapevolezza di essere intrappolata lì dentro, con i gradi che rapidamente si abbassavano ed il gelido vuoto che diventava man mano più grande e si espandeva tutt'attorno, una striscia di panico si insinuò tra i suoi battiti, non più così tranquilli; era solo un perverso gioco di luce o le pareti si stavano addirittura stringendo?
Il freddo divenne più intenso e difficile da sopportare, il rifugio a cui aveva fatto ricorso adesso la tradiva, rivoltandosi contro di lei, chiudendosi su quell'esserino dalle ossa di colibrì.
Lasciati andare, solo così sarai al sicuro.
Abbandonarsi, diventare di vetro. Intoccabile, inscalfibile, inaccessibile.
Devi stare lontana dal fuoco, o finirai per sciogliere le tue deboli ali di cera. Non vuoi perdere le tue preziosi ali, scricciolo, vero?
No, no di certo, eppure quel freddo le era ormai ostile, le prime scaglie di cristallo le ricoprirono le gambe, ancorandole al suolo, trasformandola nella sua stessa prigione; stava per essere inglobata dalla sua stessa paura e non poteva permetterlo.
Nonostante il pericolo ed i moniti perentori, aveva
bisogno di quel calore da cui era sempre fuggita, ma dove trovarlo ora che l'aveva irrimediabilmente allontanato? Possibile che si fosse rintanata così in profondità da impedire a qualunque raggio di luce di raggiungerla? Cosa era diventata per colpa della paura? E soprattutto, c'era modo di risalire in superficie?

«Nessuno può farcela da solo. Per questo, cara, ogni volta che ti sentirai troppo debole, piccola o inesperta per affrontare qualcosa, fermati e chiudi gli occhi. Sicuramente nel tuo cuore avrai una persona a cui vorresti poter confidare le tue paure e i tuoi dubbi... anche se ti sembra che non sia così. Va' e parlaci. Sono certa che non ci metterai molto a renderti conto della grande forza racchiusa nel tuo cuore.»

Questo le aveva detto Tosca Tassorosso, ormai tre anni addietro; tre anni in cui niente era cambiato, perché la risposta, come sempre, si celava in chi, quel raggio di sole, lo portava nel nome: Leah. Nella semi oscurità dell'incoscienza riconobbe il suo volto infantile e rassicurante, avrebbe urlato per ridestare la sua attenzione se solo il gelo non le avesse rubato anche le parole. All'ultimo, la Tassorosso si voltò e le sorrise.



La luce degli sfarzosi lampadari è abbagliante mentre il piacevole tepore del camino le riscalda la schiena, tutt'attorno c'è una grande confusione generata dal chiacchiericcio di tutti i presenti, riuniti intorno a quel tavolo. Leah è accanto a lei e le sorride.
Dovrebbe sentirsi rincuorata a quel punto, come in genere succede, eppure non ci riesce perché trovarsi lì non va affatto bene; il problema non sta nel proprietario di casa, benché sia veramente strambo, né tanto meno negli assurdi quanto scomodi abiti che indossano, il problema è lei. Lei che non dovrebbe trovarsi in quel posto nella maniera più assoluta, i volti intorno a lei ne sono la prova: non avrebbe mai dovuto abbandonare il suo igloo, avrebbe dovuto abbracciarlo invece.
Nessun grido fende l'aria, ma le orecchie vengono comunque straziate da quel suono inesistente; solo ora se ne accorge, il chiacchiericcio che avvertiva non era reale, tutto è terribilmente silenzioso. L'urlo però ancora le rimbomba dentro, si trasforma in un nocciolo scuro che le toglie il fiato, lei è lì, troppo vicina a quel sole che si era riproposta di ammirare solo da lontano, lo strillo ne è la prova, gli sguardi ne sono la prova; gli occhi metallici di Horus la squadrano senza comunicarle niente, freddi e vuoti, gemelli di quelli di Rose nei quali l'accusa però è evidente.
Il corpo di fanciulla massacrato in mezzo alla sala è evidente.
Spiacente dolcezza, ti avevo avvertito.
L'espressione del Caposcuola assume una sfumatura feroce che la induce ad indietreggiare e sollevare contemporaneamente le mani in segno di innocenza, non è lei che devono incolpare.
Ma il rosso viscoso è troppo acceso perché lei possa ignorarlo, le insozza le dita, le gocciola in terra, le macchia il vestito che candido non è più.
Dovevi rimanere dentro, il rischio di ferire qualcuno è troppo alto.
Non è possibile, continua a ripeterlo afona. Il sangue racconta tutta un'altra storia.
E allora non resta che correre, fuggire via, allontanarsi da tutto e da tutti, cercare nuovamente il suo angolo di pace. Anche se forse ormai è troppo tardi.



Una grossa radice che spuntava dal terreno minò il suo equilibrio e lei incespicò per qualche passo prima di ruzzolare sul tappeto di foglie ingiallite, non poteva perdere neanche un istante di tempo prezioso: la scia di sangue che si portava dietro aveva ridestato potenti ululati, benché non avesse udito di fatto il suono, ne era consapevole esattamente come era consapevole del fatto che non importava assolutamente se quel sangue non fosse suo, al contrario aggravava la sua colpa.
Fu costretta a fermarsi, il cuore minacciava di schizzarle fuori dal petto, su per la gola, batteva forte, potente, impaurito; il battito preferito di un predatore dissennato.
La foresta era innaturalmente silenziosa, quel silenzio imposto che non comunica nulla, che non permetteva di distinguere la quieta immobilità dalla fiera che avanza fondendosi con lo sfondo per celare la propria presenza.
Si impose senza risultato di riprendere a correre senza tuttavia avere sufficiente aria nei polmoni, qualcosa le opprimeva il corpo e non era solo la gravosa cappa del terrore.
Qualunque cosa si nascondesse nel buio che inglobava gli alberi, appena rischiarato dalla luna piena, era vicino e attendeva una sua distrazione per saltarle addosso e dilaniarla, sciacquare col sangue la sua pena; quel che emerse dal fogliame la spiazzò, era pronta - per modo di dire - a scontrarsi con una bestia, pronta a ferire un essere senza controllo desideroso solo di ucciderla, ma non era assolutamente pronta a combattere un amico.
Lui non si farà questi problemi, bambola, ormai ti ha tradita.
Incrociò gli occhi di Paul, spaventandosi alla vista di quel guizzo danzante di pura follia che li dominava, la stessa follia che aveva mutato il suo corpo, risvegliando l'Altro, la parte bestiale nascosta in tutti noi. Lo vide trasformarsi davanti a lei, perdere quell'ultimo grammo di ragione che possedeva, ingigantirsi in modo disumano; vide gli arti allungarsi, i muscoli gonfiarsi sotto il controllo sapiente dei tendini, fu in grado di
sentire le ossa spezzarsi e saldarsi dentro di lui per renderlo un cacciatore infallibile.
Di certo non si aspettava quella bestia, né tanto meno le zanne che luccicarono al riflesso della luna e che affondarono nella sua pelle candida e tenera; troppo facilmente: la carne si arrese a quelle fauci, disgustosamente cedevole.
Dovevi rimanere dentro, il rischio di venir feriti da qualcuno è troppo alto.
Fu a quel punto che perse il controllo sul suo corpo, cadde al suolo pesantemente scossa da violenti brividi, i muscoli non le rispondevano più, il tremore era insopportabile.
Lo shock. Ti ucciderà.
Doveva impedirgli di far presa su di lei, di prendere possesso della sua mente, l'imperativo era improvvisamente diventato tagliarsi un varco tra gli spasmi continui ed aggrapparsi a qualcos'altro; impossibile, perché il dolore arrivò senza preavviso, terribile, impietoso, inaudito, inarrestabile, fulmine a ciel sereno; ancora una volta, fosse stato possibile, avrebbe gridato.
Delle zanne ti hanno quasi trapassato il braccio, bimba. Devi controllare il dolore.
Ecco un comando impossibile, il dolore non era mai stato suo amico, compagno magari, ma amico mai e di certo lei non sapeva fronteggiarlo, così come non sapeva fronteggiare qualunque cosa stesse accadendo lì.
Allora fai come fai sempre, rintanati. Lascia vincere alla Paura questa battaglia.



L'unica via era il cielo, l'unico mezzo le ali che leggere le vibravano febbrili fra le scapole, il suo corpo terribilmente pesante rispetto all'aria che invece avrebbe dovuto cavalcare se avesse voluto salva la vita; ogni passo l'ancorava ulteriormente al suolo e recava con sé il peso di un'esistenza intera.
Sapeva di poter volare, ne era in grado, era fatta per il volo, ma allora perché adesso ogni movimento le costava una fatica immensa, perché ogni secondo veniva scandito dal ritmo pesante del respiro? Il fuoco divampò nei muscoli, il suo nemico; il fuoco
brucia.
Solo la gabbia può proteggerti, è lì che devi tornare.
No, la sua via di fuga era verso l'alto, doveva volare.
NON PUOI, MALEDIZIONE.
E se fosse stato vero? Se lei non fosse predisposta per solcare la volta celeste? E se ciò che la legava a terra fosse troppo forte? Non avrebbe potuto sopportarlo, no, non era possibile, doveva esserci un modo, doveva scoprirlo, doveva trovarlo, doveva, per forza.
Ogni dubbio l'affossava ulteriormente, inesorabilmente; terra e tenebre.

«Palmi scuri incombevano minacciosi, proiettando ombra in quel piccolo angolo di paradiso; sempre più vicini, instancabili, bocche aperte e divoratrici.
Gli spazi si restringevano, l'aria veniva a mancare, la luce scompariva, il profumo del nettare si dissolveva nel nulla e lei si dibatteva senza tregua per guadagnarsi di nuovo la libertà; frenetica batteva le ali senza più alcun criterio, preda del terrore, dell'urgenza.»




Le mani le avvolgono il collo, con forza i polpastrelli stringono sempre di più, le rubano quella poca aria che ancora riusciva a respirare; dimenarsi è un inutile dispendio di energie perché le dita non lasciano la presa ed il rischio di ischemia è sempre più concreto.
Vorrebbe urlare, ma non ci riuscirebbe neanche se il gelo non le avesse precedentemente rubato il verbo, marchiandola una volta per tutte; è lì che vogliono condurla quelle mani blasfeme? Verso l'inospitale freddo che tanto aveva agognato e che adesso si ritorce contro di lei?
Gli occhi iniziano a pizzicare mentre un generale formicolio le percorre le membra, troppo simile alla gelida insensibilità già sperimentata.
Il muscolo cardiaco continua a pompare forte, ma il sangue non supera mai il suo collo; i suoi spasmi rallentano e perdono quell'ostinazione che avevano, le tenebre stanno pian piano calando, lente quel poco che basta per scorgere prima Kevin che scuote lentamente la testa e la guarda soffocare piano, e poi, una volta adagiata a terra, il tremolante riflesso del proprio volto.
Niahndra Alistine le regala un ultimo sorriso ironico prima di toglierle le mani di dosso e lasciarla sprofondare nell'oblio.

«Quando la lasciai andare di nuovo, la farfalla volò solo per pochi metri,
prima di afflosciarsi debolmente a terra.»




L'aria la colpì all'improvviso, con violenza, sufficiente a farle vibrare nuovamente le corde vocali liberando quel grido che tanto disperatamente aveva trattenuto; l'ipotermia era svanita, lasciandole una spiacevole sensazione di umido addosso, perle di sudore le decoravano la fronte, il petto, la schiena, i palmi delle mani convulsamente strette alle coperte.
Era troppo buio per riuscire a vedere qualcosa, ma il regolare respiro delle compagne di dormitorio ebbe comunque il potere di tranquillizzarla.
Era sveglia, quello era l'importante.
Quella voce non l'avrebbe più perseguitata fuori da quell'incubo.
Questo mi offende alquanto. Io sono l'unica che non ti abbandonerà mai, la sola compagna della tua vita, non osare rinnegarmi.
Un lungo brivido le corse lungo la spina dorsale. E per quanto potesse temere la risposta, non riuscì ad impedirsi di chiedere.

Chi sei?
Non è ovvio?


GI7Rspv

«Dreams feel real while we're in them. It's only when we wake up
that we realize something was actually strange.»


Tutti i pg sono stati menzionati con il consenso dei rispettivi utenti, in contesti riscontrabili (anche se in modo possibilmente alterato) in role che sono avvenute o si stanno svolgendo attualmente.
I tempi verbali da un paragrafo all'altro sono volutamente sfalsati per dare un'impressione maggiore di "stacco" tra i vari cambi di scena, tipici dei sogni.


Edited by Mistake - 13/7/2018, 21:00
 
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view post Posted on 28/4/2015, 16:03
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Adrenaline tends to kill the pain
Contest a tema Aprile 2015 ▹ Adrenalina
Ambientazione ▹Orfanotrofio, Aberdeen (6 anni)





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• Aberdeen, Scozia. Sette anni prima. •

Gli occhi non si erano ancora abituati all'oscurità e lei dubitava che lo avrebbero mai fatto; seppur sensibili alla luce - specie dopo tante ore passate sui gradini gelati con la schiena al muro - si rifiutavano di arrendersi a quelle tenebre, orgogliosi ed indomiti come la bambina che li sfoggiava.
"Alza il mento, ragazza. Gli occhi non sono fatti per guardare a terra." La rimbeccava spesso sorella Eleanor, con la sua voce aspra e brusca.
E così lei aveva preso a scrutare il cielo, sempre più spesso, sempre più intensamente.
"Meno foga, bimba. Vuoi forse consumarlo?" Alla fine era successo, o almeno era ciò che aveva pensato la prima volta che ricordava di essersi specchiata.
«Niahndra, sei lì?»
«Sam?» Inclinò la testa all'indietro ma non riuscì comunque a distinguere il volto dell'amico. «Sam, va' via.» Corrugò la fronte, se lo avessero scoperto...
Un piccolo fagotto le cadde sulle gambe mentre sentiva i passi di lui allontanarsi dal corrimano più su; non ebbe bisogno di aprire il sacchetto per sapere cosa contenesse: la sua cena. Quello che non si aspettava di trovare era una mela, non c'era luce ma in qualche modo intuì che fosse rossa.

«Vogliamo scommettere?» Il tono di sfida che ormai tutti avevano imparato a conoscere, ma che continuava a stonare su quel mucchietto di ossa da uccellino.
«Non hai il fegato.» Amava quando le persone la sottovalutavano in quel modo, sentirsi in qualche maniera sminuita le dava l'impulso di compiere azioni che magari non avrebbe portato a termine altrimenti, la motivava, la liberava da ogni genere di vincolo. Quasi.
«Allora non hai nulla da temere.» Con tutte le facce trepidanti lì presenti, Lex non si sarebbe mai tirato indietro: non poteva rischiare la sua posizione con così tanti testimoni; anche lui lo sapeva e l'espressione velenosa che aveva quando si allontanò portandosi dietro i suoi compari riempì Niahndra di infantile soddisfazione.
«È una cosa stupida.» In meno di qualche istante Sam le si era materializzato di fianco e le diceva esattamente ciò che la sua coscienza le stava suggerendo da una decina di minuti.
«Ha cominciato lui.» La blanda quanto prevedibile difesa strappò un suono sordo dalla gola dell'amico, ogni tanto tendeva a dimenticare quanto lei fosse piccola ancora nonostante i modi spicci e risoluti e una certa malinconica consapevolezza che sembrava accompagnarla ovunque. «Hai sentito cos'ha detto, non potevo lasciar perdere.»
«Certo che no, figuriamoci.» La canzonò, ma non tentò più di dissuaderla, conscio del fatto che non sarebbe servito a nulla; Niahndra si faceva dominare dall'orgoglio e quand'era così diventava sorda ad ogni richiamo.
E così era nata la sua carriera da ladruncola da quattro soldi, furtiva si intrufolava sempre più spesso nella cucina dell'orfanotrofio facendo sparire ora questo ed ora quello; se all'inizio si trattava di eventi sporadici e solo in risposta a scommesse e provocazioni, adesso sembrava quasi la prassi e qualcuno tra i responsabili iniziava a nutrire qualche sospetto.
«Devi smettere, Niahndra.» Quel pomeriggio Sam sembrava più risoluto del solito, le aveva afferrato un braccio abbassando la voce non appena sorella Korinnë aveva lasciato la stanza in cui solitamente passavano il tempo prima della cena. «Finirai per metterci nei guai tutti.» In risposta la Alistine si limitò a ritirare il braccio lievemente risentita del fatto che Sam non l'appoggiasse in quella sua folle versione "Robin-Hooddiana".
«Avevo fame, non ho mangiato niente a pranzo.» Mentiva, lo sapevano entrambi; non aveva mai toccato nulla di quel che rubava, si era sempre limitata a passare il cibo ai più piccoli.
«Non sono stupido, so che non lo fai per riempire la pancia.»
«È solo una mela.» Nel momento stesso in cui lo disse, si accorse che non era vero, non si trattava di una mela, o di un pezzo di pane, o di un cioccolatino; Sam aveva ragione, non lo faceva per riempirsi la pancia bensì quel vuoto opprimente che si sentiva all'altezza del petto. Rubacchiare qua e là, strisciare nell'ombra, trattenere il fiato, e sgusciare via inosservata... in qualche modo tutto ciò ottenebrava un altro genere di fame.
Anche lui ne era consapevole.
«Ieri era solo un biscotto, oggi solo una mela. Domani? Non sarai mai soddisfatta, Niahndra.» Ebbe un moto di stizza. «Stai cercando di farti cacciare? Siamo tutti stanchi di stare qui dentro.»
«Non capisci.» Ribatté altrettanto dura. Era difficile per chiunque, eppure sembrava che per lei fosse addirittura più arduo; stava impazzendo tra quelle mura, si sentiva appassire dentro, ogni giorno sfioriva un poco di più e perdeva quella verve che sempre l'aveva animata. Era impossibile non notarlo, ma i più avevano solamente pensato che infine il suo caratterino era stato domato.
Osservare il cielo non le bastava più.
«Dov'è la cleptomane?» La voce di Lex la riscosse, le si stava avvicinando torvo in viso. «Sai le regole.» Tese una mano e solo allora Niah si rese conto di aver tirato fuori dalla tasca del grembiulino una grossa mela rossa dall'aspetto prelibato; la strinse mentre le parole le uscivano prima che potesse davvero rifletterci. «No.»
«No?» La sorpresa venne rapidamente sostituita dalla boria e una nota minacciosa colorò il suo tono di voce. «Dammi la mela, cleptomane, comando io.» Più alto e più robusto della media, ma anche Lex rimaneva poco più che un bambino e da tale ragionava (usare quel vocabolo ricercato, poi, gli dava una certa soddisfazione)... quando non era impegnato a farlo con i muscoli delle braccia.
Ed era esattamente in quel modo che pensava di risolvere la questione, lo si capiva dalla posa aggressiva che aveva assunto.
Di colpo Niahndra comprese che Sam aveva ragione: non era soddisfatta; calarsi nei panni della ladruncola si era rilevato un buon diversivo almeno per qualche tempo, ma gli effetti benefici iniziavano a sparire; rubare non le dava più quel brivido di eccitazione che aveva provato la prima volta e che poi l'aveva spinta a continuare. Di nuovo al punto di partenza, decise di fare affidamento sulla buona vecchia ostinazione: quella tensione la elettrizzava.
La schiena di Sam le occupò il campo visivo quando si frappose tra lei e Lex.
«Forse è meglio se lasci perdere.» I due avevano la stessa età, ma era evidente che Lex avesse dalla sua il fisico piazzato e il cipiglio malevolo.
«Lasciaglielo fare.» Si sorprese lei stessa di quelle parole, tuttavia ciò non le impedì di percepire qualcosa sfrigolare all'altezza dello stomaco; il cuore accelerava i battiti e lei si ritrovò a sorridere quasi famelica. «Lascia che mi colpisca.» Non capiva, era trepidazione quella che avvertiva? Fremeva? Il lampo della sfida guizzò nei suoi occhi, rapido, minaccioso, disperato; non aveva il coraggio di compiere il primo passo, quella nuova sensazione di urgenza la spaventava ed esaltava al tempo stesso, in qualche modo capì che le stava sfuggendo il controllo, ma ben presto la ragione divenne un piccolo trascurabile nodo relegato in un piccolo anfratto del suo essere. Tutto il resto era.... era magnifico. Sentiva scorrerle il sangue nelle vene, così rapido da farle quasi girare la testa, respirava velocemente frastornata da quella straordinaria sensazione di sentirsi in grado di sfondare una parete a mani nude. Ora si trattava solo di scoppiare.
*Avanti, dammi solo l'occasione.*
«Vuoi tirarti indietro proprio ora?»

La vista si annebbiò per qualche secondo e una miriade di puntini neri le danzarono davanti agli occhi mentre le sembrava che il viso le fosse esploso in centinaia di schegge; fece qualche passo indietro per mantenersi in equilibrio, la guancia che le pulsava ferocemente, rimase immobile come a registrare veramente quanto era successo.
Poi, senza preavviso, gli saltò addosso; finalmente libera da ogni freno reagì d'istinto, sfogando quella rabbia che aveva covato nel petto così a lungo, incapace di credere che finalmente ne aveva l'
occasione. Quel buco nero dentro di lei inghiottì tutto.
Se il ragazzo si fosse sorpreso di vederla balzare in avanti come una molla, Niahndra non seppe dirlo, il grido iroso aveva momentaneamente acquietato le sue facoltà intellettive, non le importava niente se non del viso di lui e delle proprie unghie protese in avanti con l'intento di ghermirlo.
Si fece tutto molto confuso, all'improvviso non le importava nient'altro che rispondere ai colpi, lasciarsi dominare dalla furia, da quella sensazione di benessere e potenza che l'aveva pervasa, pizzicava sulla pelle, agiva sui nervi che brulicavano di energia.
In confronto ciò che aveva provato infiltrandosi nella dispensa per la prima volta era nulla. Quello d'altra parte era decisamente più... intenso.
Inaspettatamente si sentì tirare indietro e perse la presa sul corpo a cui si era avvinghiata fino ad allora, udì qualcuno gridare e scrollarla malamente, il viso paonazzo di sorella Eleanor le comparve davanti; quella fu l'unica volta in cui la donna le mise le mani addosso: l'impronta le pizzicò sulla guancia già lesa e il collo aveva ceduto all'impeto, tuttavia Niahndra si dimostrò totalmente insensibile all'umiliazione che in condizioni normali l'avrebbe rosa.
Si passò distrattamente la lingua sulle labbra ed il sapore metallico del sangue le esplose in bocca strappandole una smorfia; dovette farsi forza per non assecondare quelle fiamme che tuttora le scorrevano sotto pelle, ma non importava.
Non ora che aveva scoperto come riempire il vuoto e sentirsi di nuovo viva.
«Adrenaline tends to kill the pain


Edited by Mistake - 13/7/2018, 21:25
 
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view post Posted on 25/6/2015, 21:20
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Broken ego
Contest a tema Giugno 2015 ▹ Orgoglio
Ambientazione ▹Orfanotrofio, Aberdeen (7 anni)





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• Aberdeen, Scozia. Sette anni prima. •

I signori Morton le piacevano, le piacevano davvero.
E Niahndra aveva fatto veramente di tutto per piacere a loro di rimando; si era messa l'abito della domenica, proprio quello che ogni fine settimana si rifiutava di indossare, aveva pettinato i capelli per ben tre volte esattamente come sorella Korinnë le aveva insegnato a fare, aveva continuato a sorridere e ogni volta diventava più facile, non li aveva mai interrotti mentre parlavano e aveva risposto con garbo a tutte le loro domande
La signora Morton - ancora si riferiva a lei così nonostante la donna le avesse chiesto di chiamarla col suo primo nome, Amara - le aveva persino regalato un fermaglio in quell'ultimo incontro, niente di speciale, un fiocchettino rosso a pois bianchi minimamente sgualcito, ma Niahndra non ne aveva mai posseduto uno e lo ritenne un dono davvero prezioso; era arrossita un poco e aveva balbettato dei ringraziamenti prima di salutare la coppia e fuggire via dall'ufficio di suor Adolfa.

«È vero che sarai adottata?»
«Te ne vai?»
«È vero che il signor Morton mangia i bambini?»
«Wow! Mangerà anche te?»
«Ma non dire stupidaggini Robinson! Sarà Niahndra a mangiarlo per primo!»
La quantità di domande disorientò la bambina che sbatté un paio di volte gli occhi mentre faceva un paio di passi indietro; teneva la testa china e un leggero sorriso le aleggiava sul volto, intimo e sincero, timido come se non osasse manifestarsi ancora.
«Silenzio.» Sorella Eleonor pose fine a quell'assalto. «Andate a lavarvi le mani e poi a mangiare; tu, Niahndra, vatti a cambiare.» Lei ubbidì con lo sguardo ancora assente, il corpo leggero di chi non sa bene dove si trova o cosa stia capitando, nell'animo una trepidazione mai conosciuta prima. Era quella la felicità? Ci si sentiva così a sperare? Non lo sapeva, si trattava di sensazioni sconosciute ed inebrianti, carezzevoli, suadenti.

~

«Insomma, che ne pensi?» Sam non aveva specificato di cosa parlasse e non ce ne fu bisogno perché come spesso accadeva Niahndra comprese comunque; non che fosse difficile in quell'occasione visto che era stato il pensiero fisso di tutta la serata e il ragazzo, sempre attento ai minimi particolari, di sicuro doveva averlo notato.
«Mrs Morton sembra proprio una mamma.» Semplice, candida, quasi patetica. Era la prima cosa che aveva pensato quando l'aveva vista con quei riccioli castani, le guance rosate, le forme morbide e il sorriso materno: era quanto di più vicino ad una mamma avesse mai conosciuto.
L'altro annuì e per un altro po' rimasero in silenzio seduti accanto alla finestra, ognuno immerso nelle proprie riflessioni.
«Te lo ha dato lei, quello?» Indicò il fiocco e solo allora la bambina si rese conto di averlo ancora tra i capelli, a reggerle una ciocca laterale che le conferiva un'aria più fanciullesca.
Al cenno affermativo di lei, Sam aveva sospirato piano con l'espressione di uno che odia quello che sta per dire.
«Senti Niahndra... non prenderla nella maniera sbagliata, ma non vorrei che ci rimanessi male nel caso... sai...» Aveva distolto lo sguardo, trovando rifugio in qualsiasi cosa ci fosse al di là del vetro della finestra e le sue parole caddero nel vuoto; una rapida occhiata al riflesso di lei la colse con la testa abbassata e il volto adombrato.
"Nel caso non ti adottassero", era questo ciò che il ragazzo stava cercando di dirle, la stessa cosa che si era ripetuta inconsciamente dalla prima volta, ma giorno dopo giorno diventava sempre più difficile dar credito a quelle parole, il suo corpo ormai era troppo leggero perché una zavorra del genere potesse impedirle di viaggiare con la fantasia; le statistiche non giocavano a suo favore, pochi bambini - ancor meno preadolescenti come lei - venivano adottati, eppure non riusciva a curarsene, incapace di ascoltare la voce del buon senso.
Perché non avrebbero dovuto adottarla? si chiedeva allora; un certo autocompiacimento, un orgoglio latente, iniziava a germogliare nel suo animo, una lusinga senza voce che le ripeteva che lei non era inferiore a nessuno lì dentro e che no, non era strano pensare che qualcuno potesse affezionarsi a lei. Si trattava di un pensiero gentile che le scaldava il petto nelle notti insonni e che aveva il potere di porre un freno al vorticoso giro di elucubrazioni sfiancanti; era stata scelta, si ripeteva, tra tante persone i coniugi avevano scelto proprio lei, questo la rendeva speciale in un certo senso, no? Significava distinguersi dalla massa, risaltare, brillare, proprio come vedeva succedere alle pietre preziose che molte donne portavano al collo la domenica durante la funzione religiosa.
Era una pietra preziosa anche lei, adesso?
*Sì.*
Ed era esattamente quello il motivo per cui non poteva rispondere a Sam, il motivo per cui - per la prima volta - lo detestò; le sue parole rappresentavano tutto ciò che lei stava rifuggendo: la banalità, l'omologazione, l'inferiorità, l'abbandono. Contro la consapevolezza dell'essere nella norma, contro la brutalità dello scoprirsi assolutamente mediocre, la sua fierezza si ribellava, ruggendo con forza, dimenandosi, tendendo allo stremo le catene a cui era sempre stata relegata; spezzandole, persino.
Quindi no, quella dipinta tra tatto e disagio da Sam, non era neanche un'opzione.
Quando, dopo essersi voltato, scoprì di essere rimasto solo, il ragazzo sospirò un'altra volta.
❝ I try to understand the demons
inside your head, but the truth is
you love them t o  d e a t h.

Il tempo scorreva lento, assurdamente lento, ogni secondo che la divideva dal suo nuovo futuro era semplicemente straziante, quasi più degli anni passati a sfiorire lì dentro, settimana dopo settimana.
Ma quello era
il giorno.
Girava voce che i signori Morton fossero di nuovo all'orfanotrofio e benché Niahndra si fosse risentita del fatto che nessuno le avesse detto niente di ufficiale di persona, la considerò come un'opportunità per prepararsi con calma, chiudere per bene i bottoncini del vestito e lucidare le scarpe con il lenzuolo del letto: voleva essere perfetta.
La stanza comune era come al solito un tripudio di suoni e movimento, nel pomeriggio tutti i bambini, fatta eccezione per i più piccoli che ancora facevano il riposino pomeridiano, venivano riuniti lì.
«Niahndra!» L'amico le si fece incontro con una certa urgenza. La Alistine considerò che forse era l'unica persona della quale avrebbe sentito una certa mancanza, nonostante l'orrido comportamento che aveva tenuto quella sera alla finestra, ma lo capiva: Sam era ormai grande e disincantato, doveva aver creduto che lei avrebbe fatto la sua stessa fine lì dentro e doveva averla invidiata non poco una volta resosi conto dell'errore di calcolo commesso; però le aveva fatto male lo stesso, non poteva essere felice per lei e basta?
«Devo dirti una cosa» "E anche in fretta" le avrebbe detto il suo sguardo, se solo Niahndra non fosse stata così intenta a sentire qualcosa dentro di lei spezzarsi e sgretolarsi in pezzetti sempre più piccoli.
I signori Morton si stavano avviando alla porta, suor Adolfa li salutava con un sorriso.
Con loro c'era una bambina. E quella bambina non era Niahndra.
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Non avrebbe saputo dire se nella stanza fosse sceso di botto il silenzio o se lei avesse smesso di sentire, le orecchie furono però pervase dal distinto rumore di un vetro in frantumi perfettamente sincronizzato con la pugnalata che avvertì al petto: precisa e traditrice le tolse il fiato.
Occorsero svariati secondi prima che lei tornasse alla realtà, prima che potesse rendersi veramente conto di quel che aveva visto e di ciò che implicava per lei, per il futuro che le era appena stato rubato; lo stesso futuro che aveva anelato per così tanto tempo, che
sapeva di meritare. Allora perché non era stata lei a percorrere quel corridoio? Perché si trovava lì, infagottata nel suo abitino, il fiocco a pois ancora nei capelli, e non oltre quella soglia con una mamma ed un papà? Non era affatto giusto.
Ci era andata vicino, così vicino che le si stringeva il cuore solo a ripensarci, aveva a malapena sfiorato quella vita che non avrebbe mai avuto, ma come al solito era bastato un suo tocco a rovinare tutto; perché era ovvio che lei non fosse abbastanza, che non fosse minimamente paragonabile a quelle pietre luccicanti che rimirava incantata la domenica. Era questo ciò che le stavano dicendo? La voce taceva, il ruggito si era tramutato in fusa leggere, la zampata però bruciava ancora ai margini dei brandelli del suo Ego, meschinamente dilaniato. Nessuno ti vuole, ecco quello che cercava di dirle Sam quella sera, ecco le parole che non era stato in grado di pronunciare, ecco cosa le stava dicendo anche adesso; non poteva sopportarlo e fece l'unica cosa in cui fosse brava: fuggire.
❝ You can blame and you can hide
behind what is wrong and what is right.
Life is the choices we make
I hope you'll awake before it's too late.

~

Niahndra pareva non aver sentito quello che le stava dicendo, Sam l'aveva vista voltarsi di scatto e correre via con le lacrime agli occhi; si mosse per raggiungerla ma il piede pestò qualcosa che evidentemente la ragazzina si era lasciata scappare di mano; raccolse il foglio e lo studiò per pochi secondi prima di piegarlo ed infilarlo in tasca: una casa colorata con un comignolo fumante che aspettava solo quelle tre figurette stereotipate, di cui una più bassa delle altre; nel cielo la scritta "Per Amara e Dwight".

Sapeva bene dove cercarla, Niahndra era solita rifugiarsi nella stanza delle scope quando ricercava solitudine, non aveva mai capito il perché; la trovò lì anche quel giorno, ma la porta era chiusa a chiave.
Bussò inutilmente, chiamò il suo nome, pur non sapendo bene cosa dire nel caso in cui la fanciulla avesse aperto; Alistine non si era mai presa niente così a cuore e ora iniziava a capire il motivo: aveva investito tutta se stessa in quell'opportunità, aveva rinunciato ad ogni difesa e per cosa? Per essere colpita brutalmente nel punto esatto in cui faceva più male.
Non l'aveva mai vista così vulnerabile e invece di sentirsene impietosito avvertì solo rabbia; perché rimaneva lì dentro a nascondersi? Perché restava inerme? Perché non rispondeva? Il suo Orgoglio era ferito a tal punto?
«E allora resta lì!» Esasperato da quel silenzio, inveì contro la porta. «Mi hai sentito? Resta lì a piangere e vedi se cambia qualcosa!»
❝ I know it's the last time I have tried
to lift you up to make you fight.
Nothing is ever easy in life. I can't change
it if you don't have the will deep inside.

Niahndra voleva aprire quella porta, lo voleva seriamente, eppure c'era qualcosa che glielo impediva; quella stessa chimera che aveva liberato nelle settimane precedenti, quel mostro che l'aveva dominata per tutti quei giorni, adesso la teneva bloccata a terra con la schiena minuta contro la parete. Rimase in quella posizione per qualche ora, quando finalmente riuscì a prendere di nuovo possesso del suo corpo era ormai sera.

La mattina dopo cercò Sam, ma non lo trovò: se ne era andato. Sul letto rifatto del ragazzo rimaneva solo il suo disegno spiegazzato; era strappato, a lei era rimasta solo la metà con la casa.
Sperò che fosse una promessa e non solo un'altra occasione mancata.


«Where is the pain when your pride is wounded? And why do we say that: wounded? There is no gash, no blood, not even a scratch. Which part of us hurts? The brain cells? The neurons? What, for goodness' sake, what


Piccolo spazio perché non so se stavolta sono riuscita ad esprimere quello che volevo >//<
Ho voluto soffermarmi su due diverse sfumature di orgoglio, il primo è quello che rasenta la superbia, mentre il secondo è il tipico orgoglio ferito di quando metti in gioco tutto te stesso e l'universo ti prende a sprangate nel muso.
Hybris, bimba, te la sei cercata


Edited by Mistake - 1/10/2022, 15:43
 
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view post Posted on 29/1/2016, 23:08
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Contest a tema Gennaio 2016 ▹ Routine
Ambientazione ▹Orfanotrofio, Aberdeen (11 anni)





--

Ore 12:15
La Sala Grande era gremita di studenti e il chiacchiericcio piacevole stava rapidamente trasformandosi in un suono quasi assordante. Era l'ora del pranzo, facile intuire dunque quella coralità di voci di studenti riuniti.
Allo scoccare del quindicesimo minuto di mezzodì anche le tavole apparecchiate subirono una metamorfosi, sempre la solita, puntuale come un orologio svizzero, tre volte al giorno, sin da quando Niahndra - piccola e praticamente
immersa in quella divisa troppo grande - si era seduta per la prima volta alla tavolata dei Tassorosso; la solita metamorfosi - o per meglio dire, Trasfigurazione - eppure ogni volta non mancava di stupirsene. Ecco perché ci teneva ad arrivare puntuale, persino in anticipo quando possibile, per godersi la scena; anche quel giorno inspirò a pieno i deliziosi aromi che già colorivano l'aria mentre buona parte degli altri studenti si fiondava vorace sui piatti.
Non lei. Con deliberata lentezza, la Alistine si tagliò una piccola fetta di carne sollevando un piccolo boccone con la forchetta; la posata era ancora a mezz'aria quando la concasata al suo fianco le dette una leggera gomitata.
«Che aspetti a mangiare?»
«Lascia perdere - Intervenne in quel momento Leah, l'espressione di una che ha già assistito a quel copione - se ne sta sempre ferma così prima di mangiare, proprio non capisco come mai. E dubito che preghi.» Fece uno svolazzo con la mano come a dirle di lasciar perdere le stramberie del Prefetto che da parte sua si limitò a scrollare le spalle.


~ Allora.
All'orfanotrofio c'erano un sacco di orologi. Quasi le pareva che il ticchettio ritmico dei secondi accompagnasse il suo ricordo più lontano, o addirittura, lo costituisse. Tic, tac, tic, tac...
In breve tempo era diventata la colonna sonora della sua vita, un compagno fedele e al tempo stesso giogo indesiderato. Tic, tac... ogni cosa andava a tempo: inspira, espira; sbatti le lenzuola, stendi le lenzuola; dai la cera, togli la cera; un passo e poi l'altro.
C'era un orologio in ogni stanza, ma questo lo aveva notato solo in seguito, prima ancora tuttavia che le lancette e addirittura i numeri avessero acquisito un vero e proprio significato; aveva imparato le forme, per così dire. Linea unita sopra? Oh, suor Amelia stava giusto mettendo i piatti a tavola. Lancetta sinistra alzata e destro a metà? Meglio non farsi trovare fuori dalle brandine per il riposino pomeridiano. E se invece le lancette erano al contrario? Tempo di spegnere la luce e rintanarsi sotto le coperte.
Il momento che preferiva era: lancetta destra alzata e la sinistra poco sotto la metà perché significava ritrovarsi nella sala comune, insieme agli altri bambini, insieme a Sam.
Oh, non era stato facile imparare, per niente, ma le sorelle avevano - come dire - un metodo di insegnamento quasi...
Darwiniano. Quello che Niahndra aveva imparato in fretta era che avrebbe dovuto adattarsi il prima possibile, cogliere qualsiasi occasione, sfruttare ogni esperienza per poter trarre il meglio, per poter continuare; dopo un po' era diventata abitudine: sveglia alle sette e mezzo, sala comune alle otto, riposino alle tre e luci spente alle nove.
Pranzo a mezzogiorno in punto, vestiti a modo con le mani e il volto puliti.
«Pss, Niah!» Rivolse uno sguardo interrogativo alla bambina dai ricciolini biondi difronte a lei che si picchiettava insistentemente sulla guancia. «Hai una macchia...» Sussurrava, piccola leale Noreen, sempre pronta a dividere la merenda con tutti; sussurrava mentre lanciava delle occhiate intorno, sperando che suor Prudenzia non la sentisse.
Recepito il messaggio, la mano della Alistine corse alla guancia incriminata e iniziò a strusciare col palmo di soppiatto aiutandosi anche con il tovagliolo ancora lindo; mossa inutile dal momento che si era dipinta una striscia verdognola col pennarello, ma forse con un po' d'acqua...
«Con questa arriviamo a tre ritardi, Niahndra.» Suor Prudenza lo sorprese prima che potesse raggiungere il bicchiere e le esaminò rapidamente la gota colorata prima di mandarla a lavarsela con un severo gesto del capo. «Puoi anche tornare direttamente in camera, dopo.»
Pranzo a mezzogiorno in punto, vestiti a modo con le mani e il volto puliti.

Dopo quella volta, il tic toc si era fatto più assordante, vibrava nell'aria, sotto pelle, tra le coste fino al cuore; le martellava nella testa, condizionava i suoi pensieri, acuiva le sue percezioni. Ad intervalli regolari, gli occhi si spostavano sulle lancette, ansiose le pupille ne seguivano il percorso scandito.
Aveva assimilato quella cadenza, l'aveva fatta propria, risuonava come armonia nelle orecchie; giorno dopo giorno, settimana dopo settimana e benché fingesse di essersi abituata, qualcosa continuava a stonare. Persisteva un unico bisogno, l'istinto di infrangere quell'ingranaggio perfetto, mancare un battito, sincope, per poi accelerare vertiginosamente, giocare con quella musica, forzare i tempi.
Non ci riusciva, ancora tic toc, continuamente tic toc. Era più forte di lei.

All'orfanotrofio c'erano un sacco di orologi. Per questo motivo nessuno si era curato troppo dell'orologio nel corridoio che portava all'ingresso e che all'improvviso aveva smesso di funzionare. Ma Niahndra continuò a fissare quelle lancette immobili per un tempo infinito prima di decidersi ad uscire, con in mano una lettera sgualcita recapitata proprio a lei da una qualche stramba scuola del Regno Unito, dal nome mai sentito.
Tic...


Ore 12:16
La Tassina interruppe il contatto visivo col boccone per guardare distrattamente le compagne e abbozzare un sorriso. «Nessun motivo in particolare.»
Il ritmo si era spezzato.


Edited by Mistake - 13/7/2018, 21:28
 
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view post Posted on 25/2/2016, 17:26
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Turn it off
Contest a tema Febbraio 2016 ▹ Doppleganger
Ambientazione ▹Orfanotrofio, Aberdeen (6 anni)





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«L'hai sentito?» Una domanda banale, in apparenza, ma che celava una premessa ben più inusuale, confermata in quel guizzo tremulo nelle iridi della ragazza; gli occhi erano spalancati, l'espressione di chi già conosce la risposta e la teme.
Il ragazzino rimase in ascolto, tendendo le orecchie per captare qualunque cosa potesse aver attirato l'attenzione di Niahndra, poi scosse la testa sinceramente dispiaciuto.
«È come un pigolio.» Insistette lei, ma Sam non ebbe il cuore di aggiungere niente.
Non era la prima volta che la compagna se ne usciva con domande del genere, nel bel mezzo della giornata, solitamente durante il riposino pomeridiano quando l’orfanotrofio era avvolto dal più pesante silenzio; la prima volta era stata musica, un vecchio grammofono, poi era stata la volta di una voce di donna, poi ancora una porta che si apriva cigolando, l'ultima volta era stato rumore di ferraglia su ghiaia. E poi quell'urgenza di camminare, allontanarsi, seguire qualunque melodia il vento le avesse portato senza poterne fare a meno; aveva tentato di resistere, certo, specie considerando cosa capitava
dopo, ma era inutile e anzi più di una volta lui l'aveva sorpresa a lasciar cadere oggetti vari di proposito, come per ascoltarne il suono, la “storia” come la chiamava lei, o il “racconto del terrore” come era arrivato a definirli lui.
«Non andare.» Una preghiera vana, si disse subito; gli parve addirittura di vederla annuire, tuttavia, quando dopo le attività pomeridiane non la trovò nella sala comune, non ne fu affatto sorpreso.

Non aveva avuto l'intenzione di seguire quel richiamo, non stavolta; avrebbe veramente voluto seguire la richiesta di Sam, eppure quella volta aveva avuto un motivo più che valido per non farlo.
Il motivo risiedeva in una figuretta minuta poco distante dalla grande portafinestra, dalla pelle quasi opalescente, filtrata dai raggi solari; lo sguardo era serio e a Niah parve che quegli occhi azzurri, identici ai suoi, fissassero proprio lei. Dalla sorpresa, la
vista vacillò e la giovane scomparve.
Fu inutile provare a distinguerla nuovamente in quei giochi di luce, nonostante scrutasse l'aria aguzzando la vista; solo quando strinse gli occhi, di sfuggita riuscì a cogliere un tremolio sospetto, e comprese in qualche modo di non doversi concentrare sulla figura, quanto più su un punto vicino, in modo da focalizzarsi oltre e non direttamente sulla persona. Era difficile, ma ne valeva la pena perché nonostante i colori traslucidi, la Alistine riconobbe se stessa in quelle fattezze.
Non fece neanche in tempo a porsi delle domande o a provare paura, ché l’altra si mosse sgattaiolando via dalla stanza totalmente inosservata; senza pensarci, Niah le fu dietro, incespicando un po’ nel tentativo di coordinare i piedi mentre cercava di vedere-e-non-vedere la chioma bruna del suo sosia spettrale. Di tanto in tanto spariva per pochi istanti, per poi riapparire poco più in là, tanto che la bambina non riuscì mai ad avvicinarsi più di tre o quattro metri; se non altro conosceva la strada, intuiva dove l'altra sé volesse condurla e ciò le dava modo di dar adito ai suoi pensieri, mai totalmente silenziati. Prima le voci, ora le visioni: stava definitivamente impazzendo? Era forse malata? La ragione provava a convincerla a condividere quelle preoccupazioni con un adulto, ma l'innata diffidenza e un istinto che non riuscì a cogliere in modo completo le suggerivano di non farne parola.
Ciò nonostante una crescente ansia le appesantiva il respiro e l'andatura, la parte più razionale di lei scalpitò per fare dietro-front senza riuscirci, tentò di impuntarsi lì, nel corridoio, imprimere tutta la forza possibile sulla punta dei piedi rifiutandosi di muovere un passo di più. Inutile, ancora camminava, camminava incontro a qualcosa che non voleva vedere; il pigolio nella testa aveva triplicato la sua intensità acuendosi drammaticamente mentre attraversava la porta che dava sul giardino. Nello stesso momento il suo doppio scomparve.
*Tu sai dove andare.* No, no, no, mille volte no.
Il leggero "crac" che produsse la suola le corse lungo la schiena come un brivido, quando scostò la scarpa un gemito le sfuggì dalle labbra nel vedere a terra il corpicino martoriato di un piccolo uccellino; non dovette guardarsi attorno per sapere che avrebbe potuto trovarne altri tre del tutto simili, fratelli anche nella sorte. Un conato di vomito le scosse il petto mentre volgeva lo sguardo da un'altra parte; gli occhi incrociarono l'espressione seria del suo fantasma, immobile di fianco all'albero che per così poco tempo aveva ospitato il nido di fringuelli. Alla vista di quel corpo sfumato, ultraterreno, estraneo e indifferente, la repulsione crebbe e si tramutò in rabbia.
«Perché mi hai portato qui?» Scagliarsi contro di lei sembrava l'unica cosa da fare, per quanto insensata. «Io non volevo!» Voleva solo che il pigolio cessasse. Voleva solo che tutte le voci nella sua testa cessassero.
«Ti prego falle smettere.» La voce spezzata da un principio di pianto.
L'altra non le diede neanche l'impressione di essere stata toccata dalle sue parole, continuava a guardarla senza dire niente: voleva essere un monito? Gli uccellini non erano altro che l'inizio, forse. Avrebbe dovuto temere per la sua vita?
«RISPONDIMI!»
Il viso della sua copia si trasfigurò in una smorfia e dalla bocca innaturalmente spalancata si scatenò un grido come non ne aveva a mai sentiti, un grido che parve assorbire in sé tutti gli altri suoni, monito che le si annidò sotto pelle. E poi, semplicemente, la figura sparì.
Quella fu l'ultima volta in cui Niahndra Alistine riuscì a
sentire.

Premetto che partecipo al contest sapendo che sia un po' un azzardo questa one-shot, perché ho voluto provare ad unire la figura del doppelganger con quella della banshee in quanto entrambe connesse alla morte in qualche modo; è vero che sono tutt'ora in quest per sbloccare tale natura, ma è altrettanto vero che sin dall'inizio ho sempre fatto riferimento a presagi e intuizioni nel ruolare Niah e dal momento che in questa os ho specificato che si tratta di un episodio che poi non si ripete più fino all'ufficiale "sblocco", ho pensato di osare.


Edited by Mistake - 13/7/2018, 21:29
 
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view post Posted on 31/3/2016, 21:38
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Padrone del cielo
Contest a tema Marzo 2016 ▹ Bellezza
Ambientazione ▹Londra (11 anni)





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• Aberdeen, Scozia. Sei anni prima. •TjpaIQk

«Vieni tu dal cielo profondo o sorgi dall'abisso, Bellezza?»


Una lunga apnea.
Non avrebbe saputo spiegare altrimenti la sensazione provata in quell'ultimo, lunghissimo, periodo. Non ricordava neanche l'ultima boccata di aria fresca che aveva preso, prima di lasciar bruciare alla disperata ricerca di ossigeno.
La sua mente si era spenta, le sue gambe erano più pesanti e sembravano voler accettare quel contatto forzato con la terra, gli occhi non salivano più a scrutare il cielo: Niahndra Alstine era infine stata domata?
Di certo la fiamma che le ardeva nel petto aveva perso il suo ardore da un pezzo, soffocata dalle costrizioni a cui aveva dovuto adeguarsi per sopravvivere.
L'apatia le era sembrata un buon rimedio: i suoni erano di ovatta e le emozioni solo un'eco di quel che furono, i colori un tempo così vividi da farle male agli occhi si erano fusi in un anonimo grigio.
Ma non aveva compreso ciò che veramente si stava perdendo finché non lo aveva visto.
In un primo momento era stata la folla ad incuriosirla, poi la struttura metallica ed infine l'uomo; la sua quasi totale nudità l'aveva quasi indotta a voltare le spalle, nel proprio imbarazzo degli undici anni, mentre un primo, timido rosso iniziava a colarle nuovamente il viso; poi fu l'azzurro del nastro che l'uomo si stava avvolgendo intorno alle braccia forti e definite che le ricordarono in qualche modo sculture antiche, bianche da far male ed altrettanto belle. Infine, a trattenerla lì fu l'esplosione di energia scatenata dal suo corpo che rapido si inerpicava, facendosi beffe della forza di gravità.
Fu allora che si rese conto dell'aria che tornava ad affluire nei suoi polmoni in maniera quasi dolorosa, lo sforzo dell'acrobata era palpabile e le segnava il respiro mentre non segnava minimamente il volto marmoreo di lui; anzi, la naturalezza di quel gesto, la pacatezza che paradossalmente ne scaturiva, facevano apparire il tutto come il più semplice dei traguardi. Si sollevava in alto col solo ausilio della propria figura, facendo leva sul tessuto ceruleo che scendeva dall'impalcatura costruita per l'occasione.
Rimase a guardarlo, affascinata da quel tripudio di forza ed eleganza che le accendeva i sensi. Seguiva pedissequamente quegli scatti misurati, la potenza contenuta a stento, l'armonia dei muscoli sulle note della musica.
Un brivido le corse lungo la schiena, solleticò i suoi nervi fino a risvegliare una voglia che aveva perduto da tempo: l'urgenza di muoversi, liberarsi,
librarsi insieme a lui. Era impossibile staccare gli occhi da quella figura magnetica che scivolava su acqua mossa dal vento, la curva della schiena inarcata in modo innaturale ma così appagante, le gambe tese fino allo spasimo inducevano in lei un tremore simile e febbrile.
Magnifico.
Non c'erano altre parole per descrivere ciò a cui stavo assistendo. Era un esempio di controllo totale e massimo sforzo, combinati ad una grazia che non avrebbe mai più ritrovato in nessun altro.
Quel nastro che gli incatenava i fianchi spigolosi e le gambe scolpite, lo stesso nastro che accarezzava la sua pelle in una danza senza fine, quel nastro lo rendeva
libero.
E l'uomo godeva di quella libertà. Gareggiava con quell'alito di vento che la sorreggeva, in un perpetuo perdersi e ritrovarsi, simbiosi perfetta; lottava, s’avvolgeva e saliva, farfalla in un bozzolo; cadeva sprofondando, assicurato a quella fune sospinta dalla brezza. E danzava, danzava su spire cristalline, angelo a mezz'aria, incantando quella piccola ragazzina che aveva appena ritrovato le sue ali.



Edited by Mistake - 13/7/2018, 21:32
 
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view post Posted on 26/5/2016, 21:46
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Caught between earth and sky
Contest a tema Maggio 2016 ▹ Terra
Ambientazione ▹Hogwarts, terzo anno (15 anni)





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Capitava di quando in quando, nel pieno di un movimento automatico, nel bel mezzo di un semplice respiro, nella risata che fragorosa le giungeva alle orecchie, capitava che Niahndra percepisse - quasi fosse una seconda pelle - quella strana e inesprimibile sensazione di sentirsi un’intrusa.
In quei momenti ogni singola fibra del suo essere gridava, si dibatteva, semplicemente fuori posto; era un’intrusa nel mondo, un’intrusa persino nel suo stesso corpo, come se in qualche modo la sua essenza fosse rimasta incastrata tra una costola e l’altra, così per sbaglio, per uno stupido errore che adesso le condizionava la vita. Troppo vecchia, troppo stanca, troppo vissuta.
Si trattava di stupidi giri mentali, ovviamente, lei aveva a malapena la maggiore età, era impensabile avvertire già la pesantezza degli anni e dell’esperienza, la stessa pesantezza che le serrava la gola, la stessa pesantezza che le faceva mantenere un cipiglio severo e lo sguardo assente troppo spesso come se si disconnettesse dal mondo per rifugiarsi chi sa dove nella sua immaginazione, da sempre il suo posto prediletto.
Capitava di assistere, rigorosamente da lontano, ad uno scambio di battute, ad un rapido contatto, uno sguardo complice e risa gioviali ed ecco che una stilettata la colpiva proprio lì alla bocca dello stomaco; il petto le si stringeva per quel doloroso desiderio di far parte del mondo, di inserirsi quale piccola ruota dentata in quel ben più grande e collaudato ingranaggio. Al tempo stesso tuttavia, la consapevolezza bruciante di non potersi integrare le riempiva la bocca d’un sapore amaro: quel cameratismo, la sensazione di sentirsi
parte di qualcosa, era a questo che la sua anima aspirava.
Ma non del tutto, alla sicurezza dei legami, alla solidità della terra, si contrapponeva quel bisogno di libertà e completa indipendenza che solo la solitudine sapeva darle; il bisogno di scoprirsi priva di vincoli, in balia dei venti, senza riferimento alcuno.
E allora subentrava la paura, la prospettiva di non avere controllo azzerava il fascino che il cielo esercitava su di lei e Niahndra si ritrovava nuovamente con il viso schiacciato contro il terreno, la volta celeste che si sottraeva al suo sguardo immerso nel fango.
C'era qualcosa di rassicurante nella stabilità della terraferma, o almeno era quello che si ripeteva per non pensare ai vincoli che invece la incatenavano lì: i dubbi, i timori, le perplessità, i pensieri stessi.
Ma come poteva appartenere alla terra quando ogni sua singola cellula anelava al cielo?
E come poteva appartenere al cielo quando esso la respingeva con tale fermezza, ostile ed ignoto?
Intrusa, una volta di più. Bloccata a metà tra poli contrapposti, duplice natura.



Forse lei allora era tempesta, intrappolata tra cielo e terra, impetuosa e sferzante. Troppo leggera per fondersi col terreno, troppo legata per librarsi senza peso; era tempesta. Era la guerra eterna che cielo e terra combattevano, destinata a dibattersi in quel limbo per sempre, a vagare senza patria, raminga e solitaria.
Era la tempesta che spazzava via il mondo, era quella bolla di calma piatta dopo il temporale, costretta tra due opposti, vestita di contraddizioni. Tumulto e fragore.
Forse non era fatta per un posto soltanto; forse viveva solamente in relazione a qualcos'altro, ponte tra due realtà inconciliabili tra loro.


«My heart wants roots. my mind wants wings. I cannot bear their bickerings.»


Edited by Mistake - 13/7/2018, 21:42
 
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view post Posted on 21/2/2017, 12:38
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Vis insita
Contest a tema Febbraio 2017 ▹ spontaneità
Ambientazione ▹Londra, appartamento (12 anni)





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Ho cercato di non focalizzarmi sul significato principale e più immediato di spontaneità provando invece ad approcciarmi in maniera meno convenzionale e certamente rischiosa; ne sono consapevole, ma ci ho voluto comunque provare perché 1) avevo bisogno di mettere per iscritto questi pensieri e 2) meno di 0 non si può avere, vero? :ihih:
La prima parte viene da una OS vecchia in cui la tutela di Niah passa dall'orfanotrofio a Sam (c'è il link), ma non è fondamentale leggerla.
Ultimo ot, so che in genere non ci si riferisce al moto d’inerzia come “moto spontaneo”, ma ho trovato alcuni riferimenti alla voce della treccani ed il resto è venuto da sé (licenza poetica?). Se ci sono alcune imprecisioni, probabilmente sono volute perché ovviamente si parla di ragazzini e non esperti di fisica (inclusa me).
Le citazioni, tranne l'ultima, sono tratte dal Philosophiae Naturalis Principia Mathematica di Newton.

Estate: tra il primo e il secondo anno.
Il giorno era giunto, infine.
Ormai era davanti alla porta, tuttavia gli occhi non riuscivano ad imprigionare quel legno venato, la realtà sfuggiva alla sua presa, riportandola indietro con la memoria, allontanandola da là, portandola lontano, alla deriva.
Ancora.
Ma era stanca di vagare senza meta, di galleggiare a mezz'aria senza controllo, sebbene tentasse di dimostrare – dimostrarsi – il contrario, le urgeva un punto fisso, faro contro la tempesta; fu perciò con uno sforzo che combatté contro quella corrente che la trascinava via da lì, alzò il pugno ma si accorse che la porta si era aperta. «Hai deciso di venire, alla fine.»
Nia alzò lo sguardo per posarlo su quel medesimo figuro che popolava i suoi ricordi. «Ciao Sam.»
Lui sorrise. Era a casa. — Tratto da ἀμφί βίος

* * *
Pochi giorni dopo.
Niahndra spalancò gli occhi nel buio, immobile, le orecchie tese allo spasimo, ma non riuscì a cogliere alcunché.
Dopo una (giovane) vita passata a condividere la stanza con altre persone, ci si abitua a sprofondare nei sogni cullati dal respiro leggero di chi dorme accanto a noi. Lei non ci aveva mai fatto caso, anzi certe volte era persino arrivata ad odiare quei sospiri notturni e il fatto che non vi fosse mai vero e proprio silenzio, ma mai come ora si rendeva conto di quanto le mancasse quella debole colonna sonora.
Il cuore accelerò la sua corsa mentre le dita arpionavano le lenzuola di quel letto che non era suo. Non era Hogwarts, non era l'orfanotrofio, era... casa?
Il petto divampò brutalmente mentre la gola si seccava e lei cercava con tutte le sue forze di non muovere neanche un muscolo; "casa", pensava, ma quelle pareti le erano estranee.
"Casa" avrebbe dovuto riempirle il corpo di calore, "casa" avrebbe dovuto farla sentire protetta e sicura, non fredda e impaurita.

«Uh, scusaaaa.» Lei e Sam ancora faticavano a coordinarsi nello spazio non troppo ampio della cucina, quando la mattina preparavano colazione insieme; e lei finiva sempre per pestargli i piedi o allontanargli involontariamente mestoli e posate o a scambiare di posto lo zucchero e il sale all'interno della credenza. Niah si paralizzò, sentendosi stranamente ingombrante ed imbranata, pesce fuor d'acqua, si spostava continuamente per non essere tra le scatole, eppure finiva sempre per scegliere il posto sbagliato.
«Perché non vai già a sederti? Potresti spremere le arance, qui ci penso io.» Bandita dalla cucina, la ragazzina si allontanò in punta di piedi. Il tono di Sam era stato gentile, ma si percepiva la punta di esasperazione, specie perché condivisa.
Accettare la tutela legale di Sam non pareva più quel sogno luminoso che l'aveva coccolata spesso la notte e soprattutto si stava rivelando ben più ostico.
«Non le mangi, quelle?» Indicò le fette di pane con la marmellata, di cui Niah ne aveva sbocconcellata una a forza. «Alle arance non mi piace molto.»
L'altro quasi si soffocò per la sorpresa.
«Ma se era la tua preferita!»
«I gusti cambiano.» Il ragazzo corrucciò le sopracciglia, rabbuiandosi un istante. «Suppongo sia così.» Per qualche minuto l'unico suono udibile fu lo scozzare metallico della forchetta sul piatto, il rumore prodotto da un bicchiere appoggiato forse con troppa foga sul tavolo, il coltello che grattava sul pane croccante.
Tra loro non c'era mai stata tanta distanza, ma – supponeva Niah – dopo tanti anni passati lontani era comprensibile, e in più, sotto sotto, non era neanche sicura di essere riuscita a perdonarlo del tutto, non ancora. D'altra parte, il tutore, doveva percepire questa sorta di ostilità, questa barriera che da sempre accompagnava la ragazzina, ma che mai aveva escluso
lui.
«Maledizione, Niahndra.» Un moto di stizza impossibile da trattenere ulteriormente. «So che non è facile, ma ce la sto davvero mettendo tutta; non ho un copione da seguire o un manuale a cui ispirarmi. È una cosa che non avevo programmato, ma che sapevo di voler fare; con te, insieme.»
Lei assottigliò le labbra, le dita delle mani e dei piedi contratte, come se ciò potesse impedirle di trattenersi dal litigare.
«Non sono brava con le improvvisazioni.» Era sempre stato un suo limite, un limite che tutto sommato lei non aveva mai cercato né desiderato correggere.
«Lo so, ma so anche che troveremo un modo; basta prenderci la mano, sforzarci un poco di più... Per due persone che si conoscono da così tanto tempo come ci conosciamo noi, non dovrebbe essere troppo difficile, no?»
Niah sentì la bile salirle alla gola, inondarle il palato e pregare per uscire; solo che non era bile, era veleno, e pronunciare quelle parole era sbagliato, lo sapeva, eppure non le trattenne.
«No, ci conoscevamo tanto tempo fa. È diverso.» Ed eccola lì, l'accusa. Forse il problema era che avevano imparato a stare lontani per troppo tempo.
Il volto di Sam tremò e lei fu in grado di prevedere con precisione chirurgica il modo in cui i suoi muscoli facciali avrebbero collaborato per cancellare la rabbia e trasformarla in dolore. C'era stato un unico momento in cui aveva provato odio nei confronti del ragazzo, un solo misero istante, ma non l'aveva mai fatta stare così male come odiare se stessa in quel frangente. Perché un conto è pensarlo, al sicuro nella tua mente, con la coscienza che fa da guardiano morale e tiene sotto controllo la bestia; un conto del tutto differente è sottrarsi al suo controllo e scegliere deliberatamente di colpire qualcuno dove fa più male. Una persona non dovrebbe avere quel genere di potere.
Le orecchie registrarono meccanicamente il suono di un piatto che cadeva a terra fracassandosi in mille pezzi, ma non se ne curò e scappò prima ancora di dover reggere lo sguardo di lui.

La vis insita, o forza innata della materia, è il potere di resistere attraverso il quale ogni corpo, in qualunque condizione si trovi, si sforza di perseverare nel suo stato corrente, sia esso di quiete o di moto lungo una linea retta.

«Tutti i corpi tendono a muoversi a velocità costante.»
Quando Niah corrugò le sopracciglia, Sam sorrise.
«Vuol dire che mantengono sempre la stessa velocità, non è che prima vanno più veloci e poi rallentano o cose così. Se non lo fanno è perché ci sono altre forze che modificano questo loro movimento spontaneo.» Spiegare i rudimenti della dinamica ad una bambina non era certo facile, eppure la piccola era affascinata dal modo in cui gli occhi di Sam si illuminavano quando le parlava degli argomenti trattati in classe, e Sam adorava la visione tutta particolare di Niahndra. «Ma i corpi non sono tristi se qualcuno vuole obbligarli a spostarsi?» Il ragazzino represse una risata, anche se questa rimase annidata agli angoli della bocca e nelle grinze del naso; sapeva che il modo migliore per allontanare la Alistine era darle l'impressione che si facesse beffe di lei. «In un certo senso. Infatti cercano di opporre resistenza, ma queste forze ci sono molto utili: per esempio senza la gravità voleresti via!» Si sporse per farle il solletico sulla pancia e lei rise, dimenticandosi apparentemente del discorso.
Solo la sera a cena, dopo un intero pomeriggio passato a rifletterci, confessò scura in volto il frutto dei suoi ragionamenti.
«Se non posso volare, non penso che queste forze mi piacciano tanto.»
Ormai diversi anni più tardi, la Tassorosso comprendeva il succo del discorso di Sam e di certo non pensava più che abolire la gravità fosse un'idea vincente per volare liberi nel cielo, ma in qualche modo aveva continuato a riflettere. E adesso, mentre si lasciava dondolare pigramente sull'altalena del parco vicino casa, si sentiva come quel corpo che – libero da ogni influenza – segue la sua placida traiettoria, un moto rettilineo, uniforme; aveva raggiunto un proprio equilibrio, un proprio ordine e tutto si incastrava alla perfezione come un meraviglioso puzzle. Il ritorno di Sam e tutta quella storia dell'affidamento invece rappresentavano l'improvviso agire di una forza esterna, determinata ad influenzare il suo corso, farla deragliare; era ovvio che quella non fosse l'intenzione del ragazzo, ma inevitabilmente era così: Niahndra era una creatura routinaria che mal si prestava a cambi di programma e dunque non aveva potuto fare altro che opporsi a quella forza, resisterle, tentare disperatamente di perseverare nel suo spostamento. Era quello il suo istinto, quello il suo moto spontaneo.

Un corpo, dall'inattività della materia, è tolto non senza difficoltà dal suo stato di moto o quiete. [...] Ma un corpo esercita questa forza solo quando un'altra forza, impressa su di esso, cerca di cambiare la sua condizione.

E il moto spontaneo di Sam, quale era? Si meravigliò di come quella domanda le attraversasse la mente per la prima volta solo in quell’istante, appena sospesa nell’aria prima che la spinta impressa dalle gambe si esaurisse e l’altalena tornasse nuovamente all’indietro.
Anche per Sam quella doveva essere una novità, anche Sam aveva dovuto “aggiustare” il suo percorso per strapparla all’orfanotrofio e accoglierla in casa, no? Eppure lo aveva fatto, che fosse per affetto, che fosse per mantenere fede alla promessa, contro ogni senso logico lo aveva fatto.
Cos’era più innato, quindi, cosa più spontaneo? Rimanere fedeli, avvinghiati alla propria natura, al proprio istinto primordiale, ed opporre resistenza a condizionamenti esterni; oppure permettere che il proprio moto subisse delle variazioni dettate da impeti improvvisi ed imprevedibili?
L’altalena continuò ad oscillare debolmente e le catene cigolavano appena, ma della ragazzina non c’era più traccia.

La resistenza è solitamente ascritta ai corpi in quiete e l'impulso a quelli in moto; ma moto e quiete, come vengono intesi comunemente, sono solo relativamente distinti; e d'altronde, quei corpi che comunemente sono considerati in quiete non lo sono sempre realmente.


Era ancora molto presto quando Sam si alzò dal letto, incuriosito dai rumori affatto rassicuranti che parevano provenire dalla cucina; un armeggiare di posate, mestoli, qualcosa di metallico e forse... ceramica? Si avvicinò guardingo, non sapendo bene cosa aspettarsi.
Probabilmente una Niah indaffarata a non far bruciare la colazione mentre saltellava da un fornello all'altro imprecando sottovoce non rientrava esattamente tra le ipotesi più accreditate.
«Niahndra?» La tavola era apparecchiata e l'odore del pane appena sfornato riempiva la stanza. Stava ancora sognando?
«Cosa significa?» La ragazzina si voltò, colta sul fatto, e parve aver bisogno di qualche istante per connettere; era il momento. «Okay, è un discorso preconfezionato, quindi lasciami finire. Volevo solo dire che i corpi potrebbero essere un pochino tristi se qualcuno vuole obbligarli a spostarsi, ma solo all'inizio... poi potrebbero anche preferire la nuova traiettoria.» Era arrivata alla conclusione che rimanere fedeli alle proprie abitudini fosse tutto sommato un bene, ma crearne di nuove per conciliare due personalità distinte era anche meglio
Deglutì, consapevole che quelle parole non avrebbero avuto alcun senso se l'altro non si fosse ricordato di quell'episodio di tanti anni prima, ma qualcosa nella reazione di Sam le fece intuire che ricordasse perfettamente. Lui sorrise, si grattò la barba vecchia di un paio di giorni e, prima di poter dire qualcosa, si accorse del piatto in tavola: una serie di crepe e venature lo percorrevano, ma in qualche modo era intatto.
«Come lo hai aggiustato?»
La Alistine assunse uno sguardo colpevole.
«Vinavil.» In quel momento un pensiero comune li colpì, ovvero che forse – al di là del commovente e simbolico gesto – cercare di avvelenarlo in quel modo non fosse un'idea vincente.
«Ne prendo un altro, eh?»
«Sì, ecco, brava. Nel prim---»
«Primo sportello a sinistra, ripiano più alto.» Rise. «Sto imparando.»

Nothing happens until something moves.
— Einstein


Edited by Mistake - 13/7/2018, 21:44
 
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view post Posted on 9/4/2017, 12:35
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Arrah
Contest a tema Aprile 2017 ▹ colori
Ambientazione ▹Londra, appartamento (16 anni)




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People show their true colors unintentionally. Pay attention.
HNo1oib
Sebbene Niahndra fosse una creatura razionale, la fiducia che riponeva nel proprio istinto – soprattutto riguardo le prime impressioni – era molta, forse addirittura troppa perché in seguito si mostrava restia a cambiare idea. E raramente ne aveva bisogno.
Ciò nonostante, quando per la prima volta aveva avuto modo di incrociare la vecchia signora che abitava nell'appartamento di fianco, pur ricavandone generalmente una buona impressione, mai avrebbe pensato di poter sviluppare con lei un rapporto così profondo.
Hameeda era una donna d'altri mondi, le rughe sul suo volto raccontavano una storia antica e i suoi occhi racchiudevano una saggezza perduta. Solo ascoltare la sua voce rilassava Niahndra, la quale era in grado di lasciarsi cullare dalle storie della vecchia per ore intere; le piaceva osservare la donna intagliare il legno, decorare mani e piedi delle donne che venivano a trovarla con elaborati disegni fatti con l'henné, o ancora castare le linee di demarcazione intorno alla casa, a scopo difensivo. Si trattava di un rituale che ripeteva ogni notte, incurante delle stanche membra.
"Sarebbe molto più semplice con una bacchetta di sorbo, tayir saghir, ma devi imparare a farlo anche senza".
La Alistine non avrebbe saputo dire se funzionasse o meno, così come non aveva mai osato indagare sulla vicina di casa; non le importava se fosse babbana o meno, era convinta di aver appreso cose più preziose da lei che ad Hogwarts, almeno in certe occasioni.

La libreria che faceva mostra di sé in salotto raccoglieva decine e decine di libri, molti dei quali Niahndra non aveva mai neanche notato, figurarsi toccato. Provava una sorta di timore reverenziale nei confronti della donna e mai si sarebbe permessa di lasciar vagare le dita sulle coste ordinate, sui titoli ondeggianti ed impreziositi da polvere d'oro, sebbene la tentazione di lasciar fluire la propria energia sui polpastrelli ed usare "i pizzichi delle dita" fosse irresistibile. Si trattava di una tecnica che Hameeda stessa le aveva insegnato; la donna era convinta che in momenti diversi della vita per ogni persona esistesse il libro adatto, il libro che ti ispira e che sembra parlare proprio a te, tra tutti. Con i pizzichi delle dita – se eri abbastanza bravo – non potevi sbagliare.
«L'hai trovato, bimba? Dovresti vederlo all'altezza degli occhi.» Niahndra fece scorrere le iridi da una mensola all'altra mormorando sottovoce i vari titoli prima di scovare il libro giusto e prenderlo con delicatezza. «Trovato.»
Fu allora che il suo sguardo venne catturato da un disco vitreo grande quanto il palmo della sua mano che poggiava in bilico, al suo interno si intravedevano fiori essiccati. I petali rosati l'attraevano e respingevano al tempo stesso; prima di potersene rendere conto la ragazza aveva allungato la mano, ma non appena la pelle sfiorò il sottile medaglione una scossa improvvisa le saettò lungo il braccio, fin su la spalla, e si diramò per tutto il corpo.
La Alistine si ritrasse spaventata ed il vetro si infranse in mille pezzi mentre ancora quell'orrenda sensazione di malessere fisico le intorpidiva i muscoli.
«Che succede, ragazza?» La voce di Hameeda le giunse lontana e solo dopo qualche secondo si rese conto che la donna l'aveva raggiunta.
«Io... mi dispiace, l'ho fatto cadere.» Mortificata si accucciò a terra per raccogliere le schegge, ma si bloccò a metà del movimento: i petali vellutati sembravano ora piccole ferite violacee sul pavimento e per una qualche oscura ragione il magnetismo avvertito poc'anzi era sparito lasciando completo spazio alla repulsione.
«Non toccare.» Sorpresa dal tono stentoreo Niahndra alzò gli occhi sull'anziana signora, colpevole. Hameeda non vi badò e storse il naso. «Senti quest'odore? Niente di buono.» L'aria in effetti aveva assunto una nota asprigna e sgradevole, ma la giovane ancora non sembrava capire.
Aiutandosi con un panno per evitare di toccare i fiori e le foglie lanceolate, la vicina raccolse i pezzi e li portò vicino alle narici prima di sputare una mezza parola che la Tassina non comprese ma che aveva tutta l'aria di essere un'imprecazione.
«Ciliegie del diavolo. Come facevi a saperlo?» Sapere cosa? L'espressione che la giovane le restituì lasciava intendere quanto poco stesse seguendo il filo del discorso.
«Io non... non volevo farlo cadere, ho solo sentito---» Che cosa? Stava forse impazzendo? Forse le sciocche credenze di Hameeda la stavano condizionando? In mancanza di una parola adatta tacque, a disagio mentre l'altra la scrutava sovrappensiero.
«Arrah.»
«Arrah?» L'altra annuì come se questo potesse chiarire le cose; non era la prima volta che le sue parole rimanevano criptiche, in attesa di una specifica che non sempre giungeva.
«Sembra che tu sia stata più brava di me a percepirlo. Gli oggetti non sono mai malvagi in sé, ma assorbono l'energia dell'ambiente o della persona che li produce e questo li cambia, lascia una sorta di marchio, come un alone. Dev'essere quello che hai percepito. Arrah.»
«Oh.» Non sapeva che pensarne. Discorsi del genere potevano sembrare così assurdi per la maggior parte delle persone, troppo rapide a gridare al ciarlatano; eppure la Alistine conosceva una storia diversa e con quale coraggio avrebbe potuto affermare che Arrah fosse una sciocchezza e forgiare le rune invece no? Il principio era il medesimo.
«Vale anche per le persone, L'arrah ci circonda, ci contraddistingue, e rivela più cose di quel che vorremmo condividere. Una corrente luminosa, pulsante e mutevole, un continuo flusso di energia. L'aura non mente, ed i suoi colori neanche.»
«Tu riesci a vederla?» Nel momento stesso in cui pose la domanda, seppe la risposta; ciò nonostante non ebbe il coraggio di chiedere ciò che veramente desiderava sapere.
Nei giorni successivi quella parola dal suono arcano continuò a pulsarle nella testa, lei si divertiva a farla rotolare sulla lingua e sentire come solleticasse le labbra al pari di spine gentili. Una settimana dopo si presentò a casa di Hameeda.

«C'è qualcosa che ti blocca.» Erano ormai due ore che Niahndra si sforzava di concentrarsi e focalizzarsi sull'aura luminosa che avrebbe dovuto circondare la pianta grassa che stava davanti a lei. La silhouette smeraldina si stagliava contro la parete neutra, ma tutto ciò che lei era in grado di vedere era un alone biancastro. Di certo non si illudeva di poterci riuscire al primo colpo, né al secondo, né al terzo e Hameeda l'aveva avvertita sulle difficoltà, ma non poteva nascondere una certa frustrazione.
La sua mente funzionava per immagini, giocava coi simboli e con le metafore, e soprattutto coi colori; intimamente aveva sperato che riuscire a scorgere le sottili trame dell'aura potesse aiutarla a comprendere meglio se stessa e risolversi come un puzzle. Ma qualcosa la frenava.
«Hai un muro nella testa, devi aggirarlo per poter percepire le vibrazioni dell'animo. So che puoi farlo, tayir saghir.»
Alla fine le aveva bendato gli occhi. «Concentrati sul piano di vibrazione, non su quello che vedi. Voglio che ti dimentichi dei colori così come li conosci.» Improvvisamente cieca, Niah si era lasciata guidare – dapprima un po' restia – fin fuori casa, nel profumato giardino della donna; sotto le sue indicazioni si era inginocchiata e aveva lasciato che l'altra le prendesse le mani.
Senza preavviso, le sue dita affondarono nel terriccio. «Marrone. La terra sotto i piedi, il suolo ricco di nutrimento, ma anche il colore delle piante morenti.» I polpastrelli si graffiarono al contatto con la corteccia ruvida. «Il verde, al contrario, è vita. Il succo dissetante della mela, il solletico dell'erba, il sapore amaro dei broccoli; verde è l'odore rinfrescante della menta, della salute e della guarigione; il suono del vento tra gli alberi e il cinguettio degli uccellini tra i rami. Verde è equilibrio.» Verde era Elhena nella sua calma rassicurante.
Hameeda la guidò per qualche altro passo prima di farla distendere sotto il sole. «Arancione sono i raggi sulla pelle, la sensazione di sazietà dopo un pasto, arancione è ciò di cui ha bisogno la vita per crescere rigogliosa; arancione è generosità, abnegazione, compassione ed amore verso il prossimo.» Arancione era Leah, tiepida come una giornata primaverile.
«Ora prendi l'arancione e portalo all'estremo, questo è il rosso. Il rosso è prepotente, aggressivo, reclama la tua attenzione; rosso è le sirene dell'ambulanza...» La voce della donna si perse nel vento perché Niahndra conosceva già il rosso e aveva imparato a temerlo. Rosso era il pomeriggio al campo di quidditch passato con Kevin; era il tramonto, le fiamme vive e divampanti, i papaveri, il sangue; era il pericolo, la passione, ed i cartelli di divieto babbani. Era la collera e l'aggressività. Era il timore scaturito da qualcosa che non si è in grado di controllare.
A quel punto fu come un torrente in piena; il fuoco vermiglio s'attenuò, senza perdere del tutto il suo dinamismo; un giallo in continuo movimento, energico, guizzante lo sostituì: Eloise. Giallo come il sole e come l'energia, come l'elettricità che percorreva costantemente i muscoli della ragazza.
Poi giunse la calma e pacifica bolla del blu, le placide acque del mare, il lapislazzulo che impreziosisce la tela, l'espressione stanca ma sornione di Horus al termine della ronda.
E poi il grigio la colpì come una sferzata di vento. Il grigio sapeva di neve e freddo metallico, aveva la consistenza dura della pietra e la silhouette scheletrica di un albero intirizzito dall'inverno; grigio era nebbia, confusione, spaesamento; grigio era la cenere che rimaneva dopo il rosso di fiamma.
Grigio era un nome che Niahndra si tenne ben stretto.
«Riesci a vederli adesso?»
«Sì.»
Quel nuovo, sinestetico flusso di informazioni sommerse la sua mente che faticava a tener testa a tutti quegli stimoli, i cinque sensi collaboravano strenuamente e la loro unione formava qualcosa di più della semplice somma dei singoli; era una sensazione che Niahndra non avrebbe saputo descrivere, era come se i suoi orizzonti si fossero allargati ma al tempo stesso ancora non era in grado di esplorarli.
La frustrazione crebbe perché adesso sapeva che ci fosse molto di più, ma tentare di setacciare tutte quelle nuove ed infinite possibilità era come cercare di afferrare l'acqua con le mani: inutile e sfiancante. Come quando sotto il flusso rassicurante dell'acqua della doccia il segreto del mondo si svela all'animo solo per un istante, prima di sgattaiolare via perfidamente e lasciare solo il vuoto amaro di un'occasione mancata, il rimpianto di un "quasi".

L'alone della pianta grassa rimaneva biancastro, quello scorcio sui colori del mondo, sulla sua intrinseca bellezza, si era nuovamente chiuso escludendola definitivamente; solo che adesso lei sapeva, sapeva e per questo sbatteva i pugni contro la porta, sapeva e per questo gridava così forte da grattarsi la gola che sì, lei voleva esserne partecipe, testimone di quel "di più" che le era stato sottratto così malignamente.
Allora provava a chiudere gli occhi e dispiegare le dita sottili della mente, provava a pensare al sollievo del verde, al calore dell'arancione, alla determinazione del rosso ed alla pace del blu; ma tutto ciò che il mondo riusciva a restituirle era il verde del veleno e dell'invidia, il giallo della gelosia, il rosso della rabbia e della violenza; più di tutti, le restituiva la gelida fissità del nero.
Allora la stessa sensazione di malessere fisico che l'aveva colta toccando quel disco vitreo si impossessava nuovamente di lei, ghermiva i polmoni, accecava la mente, graffiava l'inconscio; la paura faceva ritrarre le sensibili antenne e la sua coscienza tornava a nascondersi dietro quel muro difensivo che la rendeva cieca. Cieca e protetta.

I found that I could say things with colors and shapes that I couldn't say any other way. Things I had no words for.


Nota d'autore: si trattava di una os molto difficile per me perché in qualche modo racchiude l'essenza stessa di Niahndra così come l'ho immaginata al momento della sua creazione, essenza che si è andata a definire sempre più chiaramente nel corso degli anni, in maniera spontanea e quasi chirurgica: il contrasto tra l'innata sensibilità di Niah, il desiderio di affondare nel significato delle cose, e la vulnerabilità che inevitabilmente ne deriva, vulnerabilità che non è in grado di accettare e per questo preferisce "staccare completamente la spina".
È stato difficile condensare il tutto qui dentro, quindi ho preferito scrivere due-tre righe. La foto è di Dennis Auburn.


Edited by Mistake - 8/8/2019, 12:56
 
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view post Posted on 29/9/2017, 09:48
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Contest a tema Settembre 2017 ▹ cambiamento
Ambientazione ▹Hogwarts, secondo anno (14-15 anni)





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La seconda parte è collocata temporalmente subito dopo la role Outstanding accounts con Kevin Confa. Un breve riassunto è disponibile in scheda (quinto paragrafo nel bg del secondo anno) o – ancora più incisivo – sotto la voce "Gebo" nella parte relativa a "curiosità, simboli e oggetti personali".

orfanotrofio, 5 anni
Niahndra era stata più silenziosa del solito quella sera e non si era neanche unita agli altri bambini quando questi si erano seduti in cerchio per giocare al telefono senza fili, che in genere riscuoteva il suo interesse. Aveva camminato inquieta, senza riuscire a sostare per più di qualche secondo sulle stesse mattonelle, rimuginando su chissà cosa.
«Non starai mica ancora pensando ancora a quello che ha detto Lex prima?» Colta in fallo, la bambina incassò il collo nelle spalle, inconsciamente sulla difensiva. «Certo che no.» Sam, percettivo come sempre, la scrutò per qualche secondo prima di aggrottare le sopracciglia. «È un bugiardo, si inventa quelle storie solo perché si diverte a mettere paura.»
Lei scattò.
«Guarda che lo so! Non sono stupida.» La voce sfumò sulla parolaccia e con un'occhiata rapida si assicurò che le suore non stessero ascoltando. Se Sam credeva che i racconti suggestivi di Lex facessero effetto su di lei, si sbagliava di grosso.
Eppure non aveva smesso di arrovellarsi il cervello, e ripetersi che fosse tutta un’invenzione non le aveva impedito di far saettare gli occhi qui e là al minimo rumore sospetto; pur non aggregandosi agli altri, Niah non si era mai allontanata troppo, non aveva cercato un angolo appartato, non si era isolata. Come se non desiderasse – o temesse – restare sola. Ma si vedeva quanto ne soffrisse e quanto intimamente detestasse quel bisogno di vicinanza.
Quella notte, con le coperte ben tirate su, la piccola Alistine cercava di isolare il dolce respiro delle compagne di camerata per captare qualunque scricchiolio sembrasse fuori posto; tra gli ululati del vento le pareva di udire il lamento della
Bean nighe, la terribile lavandaia portatrice di morte con un solo dente, una sola narice ed i piedi palmati. Sarebbe venuta a prenderla come Lex aveva suggerito tra i suoi soliti sghignazzi inquietanti? *Sono solo stupidaggini*, rammentò a se stessa; ciò nonostante non chiuse occhio un solo momento.

«Cosa stai facendo?» Sam sussultò, scostandosi appena dal fianco del proprio materasso. Nella mano teneva un sasso scheggiato e da sopra la sua spalla Niahndra poté scorgere il cerchio che l'amico aveva inciso sulla struttura del letto. «È per protezione. Lo disse con semplicità, come se fosse la cosa più ovvia del mondo Per tenere lontana la Bean nighe.»
«Allora sei tu quello spaventato!» La Alistine si mise a ridere, sbeffeggiandolo, all'improvviso molto più sicura di sé e totalmente incapace di capire come stessero davvero le cose.
«Se vuoi lo faccio anche sul tuo.» Lui ignorò completamente gli scherni, ma questo non fece altro che incendiare ancora di più la Alistine.
«L'hai detto anche tu che Lex lo fa apposta, io ho dormito benissimo!» L’amico nel frattempo era tornato a lavorare sul suo marchio, apparentemente disinteressato.
«E poi quello è solo un simbolo, non significa niente, non ne ho bisogno.» Fu un meccanismo inconscio, la voglia primitiva di dimostrare di essere forte, l’illusione di sentirsi intoccabile. Cosa avesse da dimostrare all’altro era un mistero che neppure lei sapeva spiegarsi.
«Dicevo per dire, per stare più tranquilli...»
Lei non si fece sfuggire l’occasione, quello spiraglio che le avrebbe fatto ottenere ciò che voleva salvando la reputazione, ignara d’essere stata manipolata.
«Certo, se ti fa stare meglio...» Niah fece spallucce come a dire che gli avrebbe fatto il favore di stare al gioco se ci teneva tanto, bastava mettere in chiaro che lei fosse superiore a quelle sciocchezze.
Tuttavia quella notte, sotto la protezione del simbolo di Sam, la bambina dormì sogni tranquilli.

Era riuscita a fare ritorno al castello prima che il cielo di marzo si tingesse di tempesta, stranamente leggera. Si muoveva per la camera quasi a passo di danza, senza veramente toccare terra, senza veramente sentirsi lì, come un fantasma o una carezza impalpabile.
Eppure al tempo stesso si sentiva invecchiata, stanca di quella spossatezza che solo la cognizione della portata delle proprie azioni poteva regalare.
Non si trattava di una sensazione nuova; per quanto ancora acerba nel suo insieme, Niahndra aveva dovuto crescere abbastanza in fretta e di certo la battaglia d’ottobre non le aveva restituito l’infanzia mai goduta. Era perciò abituata a prendersi la responsabilità delle sue scelte e delle sue azioni e la spilla che portava al petto le ricordava che alcune di quelle decisioni avrebbero potuto ripercuotersi anche su altri, però fino ad allora non si era mai veramente resa conto dell’impronta che avrebbe potuto lasciare su qualcun altro. Ad Hogwarts – ed in generale nella sua vita, con un'unica eccezione – non aveva permesso a nessuno di avvicinarsi così tanto da poter far presa su di lei, lei che continuava a sfuggire come aria tra le dita; si era mossa nervosamente, senza fermarsi troppo in un unico punto, così da non rimanere incatenata in un luogo preciso. Ne conseguiva dunque che anche la sua influenza sul corso della vita degli altri studenti fosse stata appena impercettibile, un'increspatura lieve sul pelo dell'acqua destinata a non propagarsi più di tanto; e in fondo le andava bene così, nell'ingenuità di una ragazzina che non aveva conosciuto altro si illudeva di poter trascorrere gli anni più importanti per la sua formazione senza uscirne minimamente toccata.
Una previsione utopistica, si sarebbe resa conto negli anni a venire, che l'aveva indotta a liquidare qualsiasi rapporto come un'interazione poco influente ed affatto determinante, convinta a torto di riuscire a starsene nel suo limitato recinto.
Almeno fino a quel giorno, perché ignorare la realtà dei fatti dopo quanto accaduto nel pomeriggio da Fortebraccio sarebbe stato impensabile persino per lei.
Nell’intimità della stanza, come custodendo un segreto, Niahndra sollevò appena la manica della camicia. Sul polso pallido, un poco slavati, rimanevano i segni dell’inchiostro.
Gebo.
Per quanto sbiadita sulla pelle, la runa era ormai stata assorbita dal suo Essere. L’aveva abbracciata, accettata completamente, si trattava di un marchio, di un accordo, di un patto. Una promessa il cui significato molto probabilmente ancora non poteva comprendere appieno, pur avvertendone i sintomi.
Due linee intrecciate in un solo, decisivo punto; abbastanza per sconvolgerne i rispettivi percorsi.
Una parte di lei lo considerava un vincolo e forse era veramente così: la prima, timida radice che si insinuava nel terreno; in profondità, dove il gelo non sarebbe potuto arrivare, così come testimoniava un’altra parte di lei – quella che l’aveva spinta a disegnare il simbolo sulla pelle di Kevin. Non poté far altro che ricordare istintivamente il calore ed il senso di protezione che da un legame del genere scaturiva.
Sornione infilò la mano nella tasca del mantello e chiuse le dita sul sasso che aveva raccolto sulla strada di ritorno al castello e lo soppesò per qualche secondo sul palmo avvicinandosi al proprio letto; con la sinistra scostò le coperte per scoprire la struttura in legno ed in un gesto meccanico passò il polpastrello nel punto esatto in cui sapeva di trovare l'incisione. Riprodurre il marchio di Sam era stata tra le prime cose che aveva fatto appena arrivata ad Hogwarts, a dispetto di tutti gli atteggiamenti da dura che aveva finto qualche anno addietro: era un modo per sentirlo vicino durante la sua misteriosa scomparsa; in parte si era detestata per quel segno di debolezza, ma mentre il sasso scalfiva per la seconda volta la superficie lignea disegnando una X non fu disprezzo quello che rivolse a se stessa.
Un moto di gratitudine, appartenenza, determinazione e fiducia la pervase.
Alla fine, si disse, per esprimere certe cose, non c'era mezzo migliore di uno stupido simbolo denso di significato.
Hogwarts, 15 anni



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Contest a tema Dicembre 2017 ▹ mono no aware
Ambientazione ▹Toscana, Italia (17 anni)





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Rocca della Verruca — Toscana, Italia

2ASEiK3
«Nelle sere blu estive andrò per i sentieri,
punto dal grano, l’erba fine calpesterò:
ne sentirò, sognante, il fresco sotto i piedi.
E lascerò che il vento mi bagni il capo nudo.

Il sole scottava sulla pelle.
Era l’unica cosa che riusciva a pensare. Bruciava.
Avrebbe giurato che quei raggi volessero insinuarsi in ogni suo poro, tanta era la violenza con cui la investivano irradiando calore in tutto il corpo, mirando a scaldarle persino l’anima.
Ed ogni tanto Niahndra aveva davvero l’impressione che ci riuscissero, almeno finché le fronde dei pini silvestri non offrivano temporaneo refrigerio; allora era la frizione delle stringhe dello zaino sulle spalle sudate ad attirare la sua totale attenzione, oppure il fiato che le mancava, o ancora l’incontrollabile tremore ai muscoli che la supplicava di fermarsi.
Sì, ecco, fermarsi per bere un sorso d’acqua era una buona idea.
Col respiro pesante e frenetico quanto le ali d’un colibrì, la Tassina arrestò la marcia; assaporò quei pochi istanti di calma, interamente assorta nell’impossibile compito di incamerare ossigeno.
La gamba venne stesa in avanti, la suola della scarpa che premeva contro uno spuntone roccioso. Il polpaccio protestò debolmente, dapprima per i crampi e poi per quello stiramento forzato, ma poco a poco le fitte diminuirono.
Il suo termostato interno era del tutto sballato, com’era possibile sopportare quelle temperature per un quarto dell’anno? Si terse il sudore dalla fronte prima di aprire lo zainetto con i viveri.
Ad occhi chiusi avrebbe potuto sentire la montagna respirare insieme a lei, antica e maestosa, appena al di sotto del rumore del suo cuore impazzito; se si fosse lasciata andare – temeva – si sarebbe trasformata lei stessa in calore. Fu solo la prospettiva di perdersi, disgregarsi e cessare di
essere ad ancorarla nuovamente al suolo.
Proprio in quel momento un altro scalatore poco distante da lei si protese per porgerle un contenitore in plastica; ordinate e perfette, le fettine tagliate di ananasso all’interno le fecero venire l’acquolina. Ricambiando con un sorriso di gratitudine per quella gentilezza inaspettata, Niahndra si servì un bocconcino; la strana combinazione di asprigno e zuccherino le esplose sulla lingua, placando almeno un poco la sete inestinguibile.
Si era quasi dimenticata della presenza degli altri escursionisti, complice anche la differenza di idiomi parlati, ma per la scena che le si era presentata davanti non servivano parole: quella breve sosta per rifocillarsi si era trasformata in un simpatico scambio di viveri e pacche sulle spalle tra sconosciuti che sconosciuti – almeno per certi versi – più non erano.

Rinfrancata nello spirito, mossa dal vibrante desiderio di conquistare la vetta, la Tassina riprese il cammino; il sentiero si era fatto più impervio con l’altitudine, soffocato dagli arbusti e dalle possenti radici degli alberi.
Presto il terreno divenne roccia, l’inclinazione si accentuò ulteriormente e le mani si scorticarono nel tentativo di mantenere l’equilibrio e trascinarsi dietro il resto del corpo.
Dapprima la ragazza aveva rallentato il passo, scegliendo accuratamente i punti su cui far leva, incerta; poi fu l’istinto a prevalere: come seguendo una cadenza regolare, un qualche ritmo arcano insito nella conformazione di quella superficie irregolare, mani e piedi si mossero in armonia e la ragione cedette il passo alla sensazione. Era il suo corpo, non più la sua mente, a guidarla, a scegliere gli appoggi adeguati. Non la tradì, neppure una volta.
Il sole aveva ormai superato il meridiano, ma benché fossero immersi nelle ore più afose del pomeriggio, alla lunga il caldo era diventato una costante che faceva parte di lei.
Niente esisteva più, non il dolore, non la sete, non la fatica. Solo lei, e quell'ascesa scandita dal suono dei propri passi; solo lei, e la meta sempre più vicina.
La circonvoluzione andava restringendosi, la luce sembrava non filtrare più, ma una volta alzato lo sguardo gli occhi si posarono su suo obiettivo: rovine murarie l'attendevano solo pochi passi più su.
L'ultimo sforzo, gli ultimi gradini, ed il varco le si schiuse davanti.
3DbnL5b

Lo spiazzo risultava indifeso contro le sferzate di vento che infuriavano senza clemenza, le alte mura rocciose che un tempo delimitavano la pianta pentagonale erano poco più che ruderi.
La giovane mosse qualche passo, attenta ad evitare le aperture nel terreno che conducevano a delle stanze sotterranee, rabbrividendo per quell’improvviso cambio di temperatura.
Si inerpicò su una parete in parte crollata; così accovacciata, a strapiombo sul fianco del monte appena risalito, priva di una qualsivoglia protezione, con l’intera valle dell’Arno ai propri piedi, Niahndra si sentì sopraffatta.
Per maghi e streghe volare non era così inusuale, eppure c’era qualcosa in quella vista – qualcosa che forse aveva a che vedere più con l’indolenzimento dei muscoli o il fuoco nel petto, e molto meno con la bacchetta sepolta e dimenticata in fondo allo zainetto – che si discostava da qualsiasi precedente esperienza in sella ad una scopa.
Un solo passo la separava da quel
richiamo del vuoto, ed anche solo contemplare l’idea di compierlo le procurò una scarica elettrica del tutto nuova nelle membra; abituata sin dall’infanzia a soffocare quell’insopportabile pulsione che la spingeva sempre più in alto, si trovò spiazzata a sperimentare per la prima volta il desiderio opposto.
Sbilanciarsi, lasciarsi cadere; abbandono totale per fondersi con l’aria che le sussurrava seducente alle orecchie. Urgenza intollerabile, invito ammaliante; un solo passo le avrebbe permesso di far parte di quello spettacolo per l’eternità, di cristallizzare nel tempo quella grandezza che può derivare solamente dalla consapevolezza della proprio essere microscopici.
Il respiro della montagna si fece più profondo, solo che non era più respiro: era l’eco dei colpi di artiglieria che esplodevano nell’aria, cantando secondo un codice ormai caduto nell’oblio; era il rimbombo di decine e decine di piedi mossi all’unisono; era il fumo che saliva acre per informare gli avamposti vicini degli spostamenti delle truppe nemiche; era il cigolio del vento che carezzava le bocche di fuoco preposte alla difesa del muraglione meridionale; era il freddo che filtrava dalle feritoie che costellavano la torre ovest; era lo stridere del metallo sul metallo nella piazza d’armi in cui sost-
«Indescrivibile, non credi?»
La bolla nella quale si era rintana s'incrinò.
Le dita si scattarono nervosamente, la mente che cercava disperata di aggrapparsi a quel sogno ad occhi aperti.
«Sono spettacoli del genere che ti fanno capire quanto siamo insignificanti e quanto al tempo stesso siamo capaci di imprimere un segno così profondo anche in un'opera già di per sé grandiosa come...» La Alistine se ne era già andata.
Non avrebbe mai compreso quell'assurda necessità di volersi esprimere a parole, di rovinare un istante altrimenti perfetto con quell'insensato bisogno di aprir bocca. Come potevi
provare, se eri troppo impegnato a blaterare?
Non dirò una parola, non penserò a niente:
ma l’amore infinito invaderà il mio spirito
ed io, come uno zingaro, me ne andrò via, lontano
nella Natura, lieto come con una donna.»
Invece si allontanò, intimamente gelosa di quel segreto rubato che avrebbe tenuto soltanto per sé.

PCVagWP

Le foto sono di una cara amica (fatta eccezione per la terza) e ritraggono tutte proprio la Verruca ed i territori circostanti. La poesia è di Arthur Rimbaud. Ho preferito non indagare sui dettagli riguardo il breve soggiorno estero per non perdere di vista il tema centrale.


Edited by Mistake - 13/7/2018, 21:48
 
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view post Posted on 28/5/2018, 23:00
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Insight
Contest a tema Maggio 2017 ▹ Sospiro
Ambientazione ▹Orfanotrofio, Aberdeen (6 anni)





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Melody stuck inside your head, a song in every breath
HNo1oib
Then► Non erano mai state parole, eppure Niahndra non aveva dubitato un istante del fatto che si trattasse di un linguaggio. Un linguaggio arcaico ed inconscio che non poteva essere espresso verbalmente; un susseguirsi di impulsi e tensioni dell’animo, uno stiracchiarsi ed un contrarsi dell’aria intorno a lei. Un linguaggio fatto di respiri, frasi incastrate in gola e corpi che si muovono. Era il linguaggio delle corde pizzicate, dei pensieri trattenuti, delle cose che conosci senza motivi per conoscerle.
«Sei riuscita a capire qualcosa?» La voce di Sam riuscì ad insinuarsi nella fitta rete che la annebbiava, sebbene le fosse giunta al cervello ovattata e distante.
Si limitò a scuotere la testa delusa. Era una lingua che non sapeva parlare. O per meglio dire, una lingua in cui non era fluente, perché avrebbe giurato che se solo quel sospiro si fosse fatto appena più scandito, allora lei sarebbe riuscita a ghermire una sillaba o due e darsi finalmente pace.
Invece ogni volta non le rimaneva che la frustrazione d’esserci andata vicina, mancando l’obiettivo per un soffio. Era come cercare di mangiare la minestra con la forchetta, solo che la minestra era poco più di un’eco impalpabile sulla pelle, una carezza a fior di labbra; era come descrivere un colore impercettibile all’occhio umano.

All’inizio non vi aveva badato più di tanto. Le capitava di quando in quando di captare come un fruscio, allora alzava la testa e si guardava intorno cercando di individuarne la fonte.
Aveva impiegato un discreto lasso di tempo a capire che quel sussurro fosse solo nella sua testa. In genere, quando il dubbio l’assaliva, guardava Sam che giocava con i lego affianco a lei. L’hai sentito?, pigolava il suo sguardo. Lui scuoteva la testa con espressione sofferente.
Niahndra allora fremeva, improvvisamente inquieta, mossa da un bisogno incontrollato di correre via. Ci aveva provato, oh se ci aveva provato, ma — per quanto si muovesse veloce — quell’anelito nostalgico le sfuggiva ogni volta.
Alla fine era diventata un’ossessione. Camminava coi sensi continuamente all’erta, la testa che scattava meccanicamente qua e là nella speranza di anticipare quel…qualcosa.

«Non so spiegartelo» Se avesse posseduto le competenze di linguaggio (e di comprensione) necessarie, probabilmente la piccola avrebbe parlato di equilibrio e direzione; di micro-cambiamenti nella densità dell’aria, vibrazioni, spifferi e vuoti riempiti. Tuttavia, anche a quel punto, cosa avrebbe concluso?
No, l’unica soluzione era andare fino in fondo, spogliare quel rumore di ogni suo strato fino a giungere al nocciolo, carpire il messaggio.
Così quella ricerca forsennata continuava, nonostante i blandi tentativi di Sam di distogliere la sua attenzione da quel pensiero. In un primo momento aveva cercato di includerla nei giochi e nelle attività con gli altri bambini, ma di rado si rivelava un’idea vincente: era come se Niah non fosse lì con loro; puntualmente finiva ultima a rubabandiera, si lasciava rubare la palla e dimenticava la posizione delle carte giocando a memory. Come se non bastasse, al malcontento di chi disgraziatamente finiva in squadra con lei, rispondeva con linguacce e dispetti a causa dei nervi a fior di pelle.

Una domenica, durante il breve tragitto dall’orfanotrofio alla Chiesa per la funzione religiosa, l’aveva sentito ancora.
Il suono, sempre più definito, l'aveva attratta irresistibilmente con la promessa della comprensione; a intervalli irregolari la bambina avrebbe persino potuto distinguere le parole: le solleticavano sulla pelle, premevano sulla lingua supplicando di essere pronunciate, ma lei non le conosceva.
Allora si era protesa con tutto il corpo, immersa da capo a piedi in quel profondo respiro; aveva chiuso gli occhi, proiettando la sua coscienza all’esterno, ricettiva. Parlami.
«FERMA!» Rientrare in sé fu più doloroso del previsto: di colpo tornarono i colori, i suoni, gli odori, il rumore insistente del clacson e le unghie affondate nella sua spalla.
Di primo acchito, voltatasi nella direzione di suor Eleanor, non riuscì a capire il motivo della paura che le deformava il bel viso. La donna la strattonò di malagrazia all’indietro e la sua confusione crebbe: come diamine c’era finita in mezzo al traffico? Eppure quel pensiero passò subito in secondo piano.
«C’ero così vicina, Sam» fu la prima cosa che disse quando il ragazzo comparve nel suo campo visivo, negli occhi sbarrati i rimasugli di quella verità che non era riuscita a ghermire. «Non le avevo mai sentite così bene.»
Lui si limitò a fissarla incapace di replicare, stordito dalla scarica di adrenalina, ma nei giorni successivi il suo atteggiamento mutò; se prima soprassedeva a queste sporadiche manifestazioni di stranezze “alla Niah”, adesso cercava attivamente di smorzarle.
«Devi smettere, non le ascoltare più. È pericoloso.» L’apprensione gli faceva mangiare le parole, il suo sguardo era serissimo. «Promettimelo, Niahndra.»
Si controllava, era evidente, eppure quel panico trattenuto a stento gli correva sottopelle, danzava lungo i tendini del collo e gli induriva i lineamenti fanciulleschi. Ascoltare quelle parole ebbe l’effetto di una doccia fredda e la paura di Sam, suo punto di riferimento, la contagiò di riflesso: si era spinta troppo oltre, realizzò, e adesso non sapeva come tornare indietro.

. . .

estratto da Ma la donna, sollevato il coperchio del vaso...Fu allora che un rumore sommesso le solleticò le orecchie, leggero e ai limiti dell'udibile, tanto che lei dubitò di averlo sentito; eppure in qualche modo aveva raggiunto il suo cervello. Proveniva dall'esterno? Torse appena il collo, tendendo l'udito, sforzandosi di captare il resto. Un segnale, forse? Una risposta, o l'ennesimo interrogativo? Era stata l'unica ad avvertirlo? L'eco già sbiadiva lasciandole nient'altro che perplessità circa la sua sanità mentale. Desiderava solo che il suono si ripetesse, come se in quella singola nota si celasse una via di fuga.

Now► Sam aveva scosso impercettibilmente la testa, riconoscendo sul suo volto quel L'hai sentito? che aveva suo malgrado imparato a decifrare. "Non è il momento di distrarsi dalla realtà, bimba", avrebbe detto se avesse potuto parlare, ma lei non fu in grado di frenarsi: mentre il corpo esanime di suor Prudenzia s'accasciava al terreno, gli ingranaggi nel suo cervello si incastrarono alla perfezione; la frequenza della sua voce funse da chiave di decriptazione, lavando via al contempo qualsiasi impurità sporcasse il segnale. Ora era chiaro, limpido, inequivocabile.


Da quel momento in poi Niahndra non glielo aveva più chiesto espressamente, ma Sam riusciva comunque a capire quando succedeva: il corpo di lei si irrigidiva, gli occhi si perdevano, e per un istante – uno solo – sapeva con assoluta certezza che Niah non fosse più lì.
Allora si ritrovava involontariamente a pregare, consapevole che in un futuro non troppo lontano uno di quei sospiri se la sarebbe infine portata via.

The drama of life begins with a wail and ends with a sigh


Edited by Mistake - 13/7/2018, 21:49
 
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view post Posted on 24/7/2018, 17:21
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Two peas in a pod
Contest a tema Luglio 2018 ▹ Clonazione
Ambientazione ▹Hogwarts, quarto anno (quasi 18 anni)





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«Mi aspetto di trovare sulla cattedra trenta centimetri di pergamena sugli usi delle lacrime di ghiro per domani, oltre ovviamente alle consegne della scorsa settimana. È tutto.»
Niahndra rovesciò la testa all’indietro e sprofondò ancora di più nella sedia. Non solo aveva perso un anno di studio —e già questo le bruciava da morire—, ma addirittura stava riuscendo a rimanere indietro anche nelle classi che bene o male aveva già seguito; ancora non si capacitava di come potesse essere possibile.
Aveva rinunciato alla spilla, alle uscite, al quidditch e persino agli orari di lavoro folli del Paiolo Magico in favore di un turno più regolare al Wizard Store, e nonostante ciò continuava ad arrancare. O per meglio dire, non è che arrancasse, ma neanche procedeva spedita come si sarebbe auspicata: di quel passo non sarebbe riuscita a recuperare due anni in uno.
Coi libri stretti al petto si trascinò per i corridoi e un’esuberante Tassorosso le fu subito al fianco.
«Nianhdra, ciao! Allora possiamo contare su di te stasera?»
«Stasera?»
L’altra spalancò le braccia spazientita.
«Il torneo di gobbiglie, Niah. Ce la giochiamo contro Grifondoro, ricordi?»
Qualcosa nella sua mente annebbiata parve fare
clic, e la morettina si stampò il palmo in fronte. «Maledizione, è oggi? White ci ha riempiti di compiti per domani e devo assolutamente passare Pozioni…»
Le dispiaceva un sacco: oltre tre settimane prima aveva comunicato la sua disponibilità, illudendosi di potersi permettere un paio d’ore di svago; invece, avrebbe dovuto passare il resto della giornata in biblioteca.
«Vedrò di supplicare Johnson, ma questa me la segno, Alistine»
*Ci mancava.* La mora si allontanò da lì con un sospiro e raggiunse le botti che celavano l’entrata della Sala Comune. Stava giusto per tamburellare il ritmo misterioso quando dal varco emerse Amber.
«Eccoti, ho confermato che copri tu il mio turno di oggi, sì?» Col cambio lavoro, lei e Niah erano diventate colleghe e avevano avuto modo di replicare sul posto di lavoro la partnership sperimentata durante gli anni da prefetto insieme; peccato che dai suoi tempi d’oro, la memoria di Niah e le sue doti organizzative fossero peggiorate di brutto. «Ne avevamo parlato questo fine settimana», aggiunse l’altra nella speranza di darle un indizio.
«Sì sì, certo. Nessun problema»

«Ho un problema. Pure bello grosso.»
«Mh-h.» Stravaccato in una delle comode poltroncine davanti al camino, Paul non sollevò neanche la testa dal libro che teneva in grembo, la schiena appoggiata ad uno dei braccioli e le lunghe gambe lasciate penzoloni sull’altro. La Alistine distese elegantemente il braccio armato di bacchetta e dopo che ebbe mormorato una formula basilare il tomo svanì da sotto gli occhi dell’amico. Un ringhio gutturale fu l’unica cosa a tradire il giovane, altrimenti immobile nella sua posizione. «Hai cinque secondi», ovvero il tempo necessario perché il Vitreo eseguito dalla Tassina esaurisse il suo effetto. Niah, però, aveva già iniziato a snocciolare parole. «HobisognochetuprendailmiopostoalWizardoggi Lui non mosse un muscolo. Pausa e poi un sospiropoitidovròunfavoresenzacondizioni»
Lo disse così veloce che per poco non le si attorcigliò la lingua, ma almeno ottenne la soddisfazione di vedere la mascella di Grindelblack contrarsi nel disperato tentativo di contrastare l’interesse che stava affiorando.
«Tipo?»
«Posso farti da spalla, la prossima volta ai Tre Manici. Senza lamentarmi, stavolta»
Si guadagnò un’occhiataccia.
«Sei una pessima spalla»
«No, è che semplicemente non ne capisco il senso.»
Paul roteò gli occhi e slacciò le gambe da cavalletta dalla poltrona per fronteggiarla; non aveva ancora detto niente e la Alistine ne approfittò per rincarare la dose.
«Sono solo quattro ore, è facilissimo. Sanno che sono ancora un po’ imbranata, non noteranno la differenza. E poi---»
«Va bene.»
«Potessi mi sdoppierei ma prop--cosa?»
«Ho detto che va bene.»
La ragazza sbatté le palpebre un paio di volte interdetta per la rapidità con cui aveva indotto l’amico a capitolare. Le venne il dubbio di essere stata fraintesa.
«Hai capito, vero, che ti sto chiedendo di usare il tuo…» la frase venne lasciata in sospeso, mentre lei smanaccava con le mani davanti al viso; nei suoi pensieri quel vorticare di dita avrebbe dovuto costituire un chiaro riferimento alla metamorfomagia, nella realtà era solo un movimento ridicolo. Grazie al cielo lei e Grindelblack ormai avevano sviluppato un rapporto tale da permetterle di farneticare ed essere comunque compresa.
«Sì, scemotta, ma riscuoterò quel favore.»

La mattina seguente aveva un che di inusuale, per così dire. Iniziò male come le altre, ma proseguì addirittura peggio.
Amber l’aveva fermata sulla via per la Sala Grande per comunicarle che una strega dall’aria distinta era tornata in negozio, lamentandosi del fatto che “quella ragazzina scoordinata coi capelli scuri e gli occhi chiari” avesse incastonato in un orecchino una pietra d’ambra e nell’altro un topazio. In silenzio, Niah aveva mandato giù il rospo tacendole lo scambio operato con Paul.
Durante il resto del tragitto, poi, le era parso —più del solito!— di cogliere alcune occhiate oblique indirizzate proprio a lei; rapide e frenetiche, tipiche di chi ha fretta di interrompere il contatto visivo, ma deve fare i conti con la curiosità.
Aveva qualcosa di strano sulla faccia? Le era già spuntato quel solito, puntualissimo brufolo sulla guancia sinistra? Ormai mancava meno di una settimana, in effetti.
Si specchiò nel bicchiere di vetro senza ricavarne niente e lo riempì di succo.
Colse il risolino di un gruppetto misto che sfilò davanti al tavolo di Tassorosso, una di loro —una ragazzina di Serpeverde dai tratti orientali ed i denti sporgenti— la indicò prima di scambiare un cenno con l’amica di Corvonero.
A questo, per esempio, non era abituata. Non poteva essere certa che la gente non ridesse di lei, questo doveva ammetterlo, tuttavia almeno avevano la decenza di farlo alle sue spalle.
Fece per alzarsi, ma nello stesso momento Eloise le tamburellò sul braccio.
«Sekhmeth ti cerca per quel ragazzo che hai trasfigurato in un maialino, non mi è sembrato contento per niente»
La mora quasi si soffocò.
«Quale rag--- voglio dire, non ho trasformato nessuno» *non nelle ultime settimane quantomeno*, ma questo lo tenne per sé.
Eloise le rivolse quel suo solito ghigno malandrino come per dirle “dai Niah, stai parlando con me”, fece spallucce e addentò una fetta di pane imburrato prima di prendere il volo per andare a lezione.
«Comunque se lo meritava, se lo vuoi sapere.»
Abbandonata a se stessa senza spiegazioni, Niahndra si sporse dalla sedia per chiamare il capitano della squadra femminile di Tassorosso di gobbiglie.
«Becca, com’è andata poi al torneo? Siete riuscite a reclutare Johnson?»
La faccia dell’altra si contorse: era andata così male? Oppure si era davvero legata al dito quel bidone?
«Non serve che tu finga interesse, Alistine, così come non serviva che tu inventassi una scusa così banale.»
Niahndra si ritrasse, sulla difensiva.
«Ero a studiare, la Pince lo confermerà di sicuro.» Ma che discorsi erano? Non si faceva troppi problemi a dire piccole bugie o torcere la verità, però non avrebbe accettato un’accusa simile.
«Così come decine di studenti confermeranno di averti vista qui, sulle scale o per i corridoi durante il torneo? Lasciamo perdere, preferisco.»

Ancora più di malumore, la Tassina si avviò verso l’aula dei sotterranei ripassando mentalmente l’elenco delle piante officinali, dei funghi, e la teoria e la pratica degli unguenti per la verifica orale del professor White: se non altro avrebbe messo a frutto le ore spese in biblioteca il giorno prima con una manciata di punti casa.
Invece, ne uscì con una ramanzina e la divisa zuppa di latte di capra.
Rifugiatasi in bagno trattenne un conato di vomito mentre si spogliava il più velocemente possibile. Dall’ultima avventura di Atene in Mexico, Niahndra aveva sviluppato una violenta repulsione per qualsiasi forma di latticini e già solo l’odore era abbastanza per scombussolarle lo stomaco.
«L’ha fatto apposta, ti dico. Mi ci gioco la mano, maledetta O ' Farrell»
Thalia, che l’aveva seguita in bagno dopo la lezione, le passò un asciugamano con l’aria di chi non sa se parlare o meno; poi, siccome non era nella sua natura avere troppi peli sulla lingua azzardò un “non che la si possa biasimare più di tanto”.
La morettina inarcò un sopracciglio, si poteva davvero scusare un comportamento del genere?
«Le ho solo chiesto di passarmi il bricco con il latte, bastava dicesse di no»
«Alistine, se vuoi fare quel gioco per cui io ti do ragione ed entrambe ignoriamo l’enorme erumpent nella stanza, non sono la persona giusta»
«Ci mancherebbe, Moran, illuminami» Frequentando gli stessi corsi, Niahndra aveva imparato a conoscere e talvolta apprezzare l’oculata sagacia del prefetto, ed inoltre un vago sospetto iniziava a formarsi nella sua testolina.
«È dal secondo anno che O ' Farrell ha una cotta stratosferica per Dowson»
«Lo so persino io.»
«Quindi in quale momento esattamente ti è sembrata una buona idea baciarlo davanti a tutti?»
Niahndra distolse lo sguardo dalla camicia macchiata per puntarlo sulla compagna.
«Chiedo scusa?»

Era entrata in Sala Comune come un fulmine, accesa d’ira funesta.
«Paul Grindelblack!»
Morgana, se l’avrebbe sentita quella volta. Gli avrebbe anche potuto perdonare un piccolo tiro mancino —d’altronde, era il rischio che correvi quando permettevi a qualcuno di prendere le tue sembianze— come promettere di aiutare una concasata a riordinare tutta la discografia delle Sorelle Stravagarie (cosa che, per inciso, quel disgraziato aveva fatto); tutt’altra cosa era rovinarle la giornata e la dignità in un colpo solo.
I Tassorosso si dileguarono rapidamente, sentendo aria di tempesta.
Il volto di Paul emerse invece da dietro il solito libro.
«Ah… immagino te ne sia accorta»
Come avrebbe fatto a
non accorgersene? Il ragazzo era riuscito a scombinarle la vita nel giro di sei ore scarse. «Hai cinque secondi.» Uhu, déjà vu.
«Non riuscivo a tornare in me, sai quanto mi ci è voluto? Fa anche un male cane.» Certo, non era paragonabile allo strider d’ossa e al tirar di tendini di quelle notti, ma comunque non era gradevole. «E poi tu eri in biblioteca, non è che qualcuno ci abbia visto contemporaneamente. Ho risposto male, lanciato qualche fattura qua e qualche occhiataccia là, nessuno ha notato la differenza.»
«Stai scherzando speroNiahndra si morse la lingua per non urlareè tutta la mattina che sento parlare di come io e Matthew Dowson abbiamo pomiciato nei corridoi»
«Oh, quello...» Paul fece uno svolazzo noncurante con la mano, ma la bocca gli si aprì in un sogghigno beffardo. «Curiosità. Puoi considerare il debito saldato, ti avevo evidentemente sottovalutato nel ruolo di spalla.»
La ragazza fece per aprire bocca, ma lui la precedette.
«Te lo dico sempre che il mondo non è in grado di reggere due Alistine contemporaneamente. Così impari.»



Ho voluto azzardare qualcosa di diverso dal mio solito approccio. Spero di aver reso l'idea.
Ringrazio moltissimo Pablo, Giuls, Nih, Horus e Thalia per avermi permesso di prendere in prestito i loro pg, anche se solo per pochino.
 
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view post Posted on 20/2/2019, 01:47
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Contest a tema Febbraio 2019 ▹ Acchiappasogni
Ambientazione ▹Londra, poche settimane dopo i gufo di swan





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Il ritmo incontrollato dei suoi singulti si alternava ai battiti frenetici del cuore; il terrore le ghermiva le viscere con dita sottili e nodose che risalivano lungo il tronco —serpeggiando tra i polmoni— fino a chiudersi intorno alla sua gola. Non respirava.
Spasmodiche, le mani strinsero la stoffa del lenzuolo; o almeno ci provarono. Invece, le trovò rigide e pesanti, inerti agli impulsi nervosi; neppure le gambe le rispondevano, o i piedi o il collo o la testa o la bocca.
Ti hanno trovato alla fine. Nessuna sorpresa in quel dato di fatto, li aspettava da settimane; sapeva che sarebbero venuti anche per lei, sapeva che l’essere sopravvissuta fino ad allora non era altro che un incidente di percorso, un errore di calcolo a cui andava posto rimedio il prima possibile.
La pressione sul suo corpo aumentò ancora, come una mano che la teneva ferma contro il materasso impedendole qualsiasi movimento; bisognosa d’aria, Niahndra oppose un’inutile resistenza.
Stai ritardando l’inevitabile. Sai che non puoi nasconderti.
Un'ultima tensione, poi —così com’era arrivata— la pressione si dissolse e a questo punto sapeva che si trattava solamente di battere sul tempo
loro. Rapida si tirò a sedere e si chiuse a bozzolo: la schiena spinta contro la testiera del letto, il capo stretto tra le mani.
Le urla cominciarono subito dopo, e lei si rannicchiò ancora di più tentando di tenerle
fuori. Ma per quanto si sforzasse, queste andarono avanti, grattando contro l’interno sensibile del cranio senza nemmeno fermarsi per prendere fiato. Aveva imparato che nascondersi era inutile, le voci la trovavano sempre.

Nell’oscurità della camera da letto le fece eco un sospiro che non era il suo.

. . .
«Di nuovo?» La voce di Sam era uscita come una carezza gentile, affilata appena solo dalla punta di apprensione che si nascondeva proprio sotto i bordi delle parole, eppure —arrivatale di soppiatto alle orecchie— riuscì a farla scattare sul posto, spaventata.
Quando Niahndra si voltò nella direzione del ragazzo, gli occhi smarriti e la paura che le incurvava l'arco delle sopracciglia risposero per lei. Impresse il segno dei polpastrelli sulla superficie della cucina solo per avere la certezza di esserne in grado e per cercare di fermare il tremore delle mani. Rabbrividì appena sotto il velo di sudore che le si gelava sulla pelle.

«Mi spiace averti svegliato, cercavo...uhm» Si guardò intorno spaesata, ma il cervello ancora intorpidito non le giunse in soccorso. In ogni caso, qualunque scusa stesse per imbastire, Sam la precedette.
«La fiala di sonno senza sogni? L'ho gettata ieri, era finita comunque» Le scoccò un'occhiata da sotto le sopracciglia d'ambra. «Sono due settimane che ne diluisci due gocce nell'infuso di erbe di Hameeda, pensavi davvero non me ne fossi accorto?»
La ragazza tentò di dissimulare la sorpresa e il senso di colpa senza particolari risultati; quindi rimase in silenzio e sempre in silenzio si fece da parte quando Sam venne avanti per chiudere il rubinetto che lei aveva dimenticato aperto nel riempire la teiera.
Dopodiché le chiuse le mani sulle spalle e la condusse gentilmente fino al bagno dove le preparò la vasca. Recuperò gli asciugamani e controllò la temperatura dell'acqua, solo allora tornò a guardarla direttamente.
«Non pretendo di sapere cosa stai passando e non dobbiamo parlarne per forza, solo...non escludermi, ti prego.» Parve tentennare un secondo, a disagio, represse un movimento sul nascere e uscì.


«E si ripete sempre uguale?»
«Di solito sì. È come un copione già scritto: so di preciso cosa accadrà, ma non riesco a muovermi; sono--sono completamente impotente»
Sam buttò giù un sorso di caffè con aria pensierosa.
«E poi le grida?» Sollevò gli occhi in cerca di una conferma da parte di Niahndra.
Stare ammollo aveva contribuito a calmarla e a forza di strofinarsi col sapone era riuscita persino a togliersi quel maledetto odore di paura dalla pelle; tutto sommato, nonostante le occhiaie e i lineamenti del visto contratti, sembrava stare meglio.
«Sono accuse.»
Lui corrugò la fronte nello sforzo di rimettere insieme i pezzi.
«Come lo sai? Credevo non capissi cosa dicono.» Commentò come in punta di piedi, quasi temesse di spaventarla.
La vide stringere la presa sulla tazza fumante di tè che reggeva tra le mani.
«Lo so e basta.»
«Ti accusano ingiustamente,» Impuntatosi, il ragazzo si allontanò dal bordo del tavolo a cui si era appoggiato col fianco e passò la mano tra i ricci scompigliati dal sonno. «Comunque sia, non puoi continuare con la sonno senza sogni Non gli sfuggì l'immediato irrigidirsi dell'altra forse è il caso di parlarne con qualcu--»
«La strizzacervelli è fuori discussione» L'occhiataccia parve volerlo sfidare ad insistere; Sam, dal canto suo, represse un moto di stizza in favore di un gesto vago con le dita. «Ascoltami un secondo, ho sentito parlare di questa bottega che sta a Diagon Alley...»
. . .
Chiamarla bottega era farle un complimento. Se non avesse avuto le indicazioni di Sam a guidarla, la ragazza non avrebbe saputo neanche dove guardare.
Aveva abbandonato la via di Diagon Alley per inoltrarsi in uno dei vicoli secondari che dalla banca dei maghi si diramavano come capillari venefici; neanche il sole estivo riusciva a far breccia tra i tetti dimessi, scivolava pigro tra una piastrella e l'altra, carezzava appena la schiena di chi bazzicava abitualmente quei muri e poi fuggiva via senza lasciare traccia, inorridito dal genere di affari per cui Nocturn Alley era così tristemente nota.
Niahndra si strinse nelle spalle quasi di riflesso venendo meno al proposito di avanzare a schiena diritta, come se avesse uno scopo ben chiaro e preciso, come se quello fosse il suo posto. Non lo era, sarebbe stato evidente nonostante il gelo sedimentato in fondo alle iridi con le quali spiava tutt'attorno con discrezione.
D'un tratto, il pertugio che cercava. Insignificante ad una prima occhiata, coperto com'era da una serie di arazzi dai colori che cozzavano l'un con l'altro, forniva le giuste indicazioni a chi aveva vaga idea di cosa cercare: il nero lucido e coriaceo dell'esoscheletro, le venature giallognole che nel regno animale avvertivano del pericolo, le sottili zampe che come ombre s'allungavano contro le pietre del muricciolo. Il ragno.
Rabbrividì violentemente mentre i primi sintomi della fobia si risvegliavano e, prima che il panico le bloccasse le gambe, si infilò di slancio nella fessura.
Subito fu buio. O meglio, la poca luce che illuminava la bottega era filtrata dalle trame sottili dei tessuti che le coprivano la faccia, uno dopo l'altro, tenuti sospesi da incantesimi libratori, nonostante i suoi sforzi per scostarli.
«Un cliente.»
«Un altro?»
«L'ultimo.»
Fu costretta a procedere a tentoni ancora per qualche passo prima di riuscire a scorgere la fonte di quelle voci. Una vecchia rattrappita se ne stava seduta in un angolo, curva sul telaio mangiato dagli anni; le mani nodose si muovevano tra i fili dell'ordito, mosse da una saggezza antica, fluide e rapide tanto che per un istante la giovane credette di scorgerne tre paia.
La giovane si guardò intorno alla ricerca delle altre signore, ma in quel buco non c'era più nessuno; e per fortuna, disse tra sé e sé, vista la quantità di stoffe e ninnoli e panneggi ed indumenti per poco non c'era spazio neanche per respirare.
«In cosa posso esserti utile, ragazza?» Non sollevò lo sguardo dal macchinario. «Un cappello che faccia cadere tutti i capelli? Babbucce che procurino dolorosissime vesciche?» Di nuovo la seconda voce s'intromise, emozionata, ma non c'era nessun altro.
«No... la notte, gli incubi---può fare qualcosa-?» Fu interrotta a metà.
«AH! Una coperta che induca gli incubi più terrificanti? Oh, mia cara, giuro che i tuoi nemici grideranno nel sonno così forte e così a lungo da impietosire il più arido dei cuori; impazziranno pur di sottrarsi alla presa di Morfeo: li coglierai debilitati nel corpo e nella mente» La bocca della strega non si era mossa, il volto non tradiva l'emozione che invece aveva acceso la voce di fervore eppure qualcuno aveva parlato. «Silenzio.» Era lei, stavolta, e con una tale autorità che Niahndra —che pure non aveva fiatato— si trovò a serrare i denti di scatto, quasi mozzandosi la lingua nel processo.
Solo quando la vecchia le fece un cenno col capo, sempre senza guardarla, la morettina s'arrischiò a parlare.
«Non sono gli incubi che cerco, ma l'esatto contrario» Come le pareva sottile la sua voce, ora! «Speravo che forse, lei, —*voi?*— potesse aiutarmi?»
«Questi incubi, parlamene. Accuratamente.»
Malgrado il disagio le inaridisse la gola, Niahndra ubbidì; ripercorse la trama passo passo, senza tacere i particolari, e presto sogni e ricordi s'intrecciarono rivelando così la matrice traumatica che li aveva generati.
Dopo che ebbe terminato, per svariati minuti non udì alcunché all'infuori del rumore dei pedali e dei ganci del telaio che muovevano i fili; pur allungando il collo, da dove si trovava le era impossibile scorgere il motivo che andava intessendosi.
«Quello che chiedi è tutt'altro che banale.» Ruppe infine il silenzio la strega.
«Eppure lei prima...» Lasciò cadere la frase quando l'altra fece uno svolazzo noncurante con la mano, come scacciasse una mosca. «Intrecciare incubi è facile, ci riuscirebbe anche un bambino. I sogni felici, ne converrai, sono un affare di natura ben diversa.»
La Alistine dovette ingoiare la delusione sebbene sin dall'inizio avesse mantenuto delle basse aspettative; di certo aveva immaginato di trovarsi un negozietto simile alla
Serpe Allegra coi suoi filtri e le pozioni, o ancora magari un erborista di qualche tipo, non di certo una... sarta?
«Non può aiutarmi, quindi.» Già pensava alla strada da fare per fermarsi a comprare un fiala di sonno senza sogni; il solo pensiero di dover affrontare la notte le provocò sgomento.
S'avvicinò all'uscita, ma la strega la fermò.
«Non è quello che ho detto. Posso intessere ciò che ti serve, ma occorreranno tempo, energie e... risorse.»
«Che le serve?» Le parole vennero pronunciate troppo velocemente, se ne rese conto; non poteva rischiare però che la donna cambiasse idea ed era fin troppo felice di poter abboccare a quell'amo. Ciò nondimeno sapeva quanto fosse rischioso condurre trattative in quella parte del mondo magico, ed una certa inquietudine non l'abbandonava.
La vecchia si alzò dalla sedia, mostrandole sempre il profilo arcigno indurito dalla pettinatura severa che le tirava indietro i capelli ingrigiti.
«Dello spago»
Niahndra non fu in grado di trattenersi. Tutte quelle storie su quanto le sarebbe costato, sul dispendio di energie investite, sulle difficoltà del compito, e poi tutto ciò che bastava era del comune spago?
«Un po' di filo, tutto qui?» La bocca della tessitrice era una linea dritta, eppure la giovane avrebbe giurato che —per un secondo!— si fosse aperta in un ghigno feroce e sardonico; pensò di udirla, perfino, quella risata enigmatica.
Invece, composta, la strega le fece cenno d'avvicinarsi mentre frugava in quello che sembrava uno scatolone celato da stoffe simili a quelle che nascondevano l'entrata.

«Tutto qui, purché sia il filo esatto.» Rimestò il contenuto dello scatolone, scegliendo e scartando con cura, lanciando sguardi fugaci alla Alistine nel mentre, come se volesse valutarla e prenderne le misure; aveva visto una simile concentrazione sul volto di Madama Malkin e su quello di Olivander, gli stessi occhi assorti che si fissavano su ciò che altri avrebbero trascurato. Sbirciò all'interno della scatola, non scorgendovi che rocchetti di filo identici l'uno agli altri.
L'altra continuava la cernita.
«Troppo regolare... no, più robusto di quanto dovrebbe all'inizio-»
«No, troppo lungo»
«Quello, vedi come si sfilaccia proprio a metà?»
«Non è così che finisce... Ah, eccoci, è lui.» Completarono la frase all'unisono.
Niahndra, che aveva seguito a fatica quello scambio di parole senza capirci alcunché, abbassò le iridi azzurrine su quel rocchetto anonimo che la vecchia teneva soddisfatta tra le dita callose. Non una sfumatura, non una scritta, non un dettaglio che lo distinguesse dai gemelli che erano stati scartati e gettati nuovamente nel mucchio.
«Continuo a non capire.» Percepì la stessa ilarità di prima, solo che stavolta era davvero la megera a sogghignare mentre riprendeva posto sulla sedia dinanzi al telaio.
«Siamo collegati da stringhe di energie, sottili come fili; ogni azione, ogni pensiero persino, riecheggia nell'immenso campo di coscienza in cui siamo immersi. Pizzica un poco qui tese tra le unghie uno dei fili longitudinali del telaio e subito la vibrazione si propagò alla trama trasversale ed ecco che si ripercuote da quest'altra parte; come in un'enorme-»
«Ragnatela», concluse per lei Niahndra sommessamente. L'insegna acquisiva finalmente senso insieme alle pillole di saggezza un po' sparpagliate che le vorticavano in testa.
Governa i fili, e il burattino seguirà. Comanda con la giusta inflessione, e la magia si piegherà al tuo volere.
Annuendo gravemente, l'anziana prese a misurare lo spago, passarlo tra le dita e poi avvolgerlo intorno ad una struttura lignea recuperata chissà dove.
«Una coperta è fuori discussione, ma posso cucire qualcosa di più pratico e maneggevole.» Riprese a lavorare in silenzio sotto lo sguardo attento ed assorto della morettina. Quest'ultima contava le dita: cinque, sei, quattordici, ventidue... un trucco della vista, sicuramente.
L'altra riprese:
«I punti sono necessari a chiudere la ferita, a suturarla, per dare all'anima il tempo di guarire; i nodi, al contempo, bloccano e filtrano le onde ostili, che interferiscono con la coscienza quando è più indifesa e generano mostri che non esistono e producono eco che non dovresti percepire.»
Proseguirono così, ciascuna assorta nel proprio compito. Quando la Alistine fu pronta per andarsene, le tenebre già stiracchiavano gli arti pregustando una nottata proficua; avrebbero popolato i suoi sogni o sarebbe riuscita finalmente ad assaporare un po' di quiete?
«La pietra va consacrata ogni sei lune piene, non dimenticartene.» Le affidò quel consiglio insieme all'oggetto finito.
La ragazza chiuse le dita attorno all'intelaiatura di legno, stringendo con cautela.
«Come posso ripagarla?» Un brivido le corse lungo la spina dorsale solo per aver posto quella domanda ed ebbe come l'impressione che gli occhi stanchi della vecchia l'osservassero con compassione; durò un secondo, poi la solita derisione millenaria riprese il suo posto.
Non aveva ancora capito, era evidente.
Un'occhiata all'acchiappasogni; un'occhiata al rocchetto lasciato vicino alla scatola, visibilmente assottigliato.


«Il filo. Il filo è il mio prezzo.»

. . .



Stitch
noun
1. a loop of thread or yarn resulting from a single pass or movement of the needle in sewing, knitting, or crocheting.
verb
1. make, mend, or join (something) with stitches.
2. manipulate a situation so that someone is placed at a disadvantage or wrongly blamed for something


There will be scrapes and sutures:viciousness and victory



Edited by Mistake - 20/2/2019, 11:25
 
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view post Posted on 13/8/2019, 22:00
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Sometimes I can feel my bones straining under the weight of all the lives I'm not living.

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Hogwarts isn’t safe anymore
Evento ▹ GUFO di Patrick Swan
Ambientazione ▹Hogwarts, fine quarto anno (17 anni)
Riporto il post richiesto in questa sede per una questione di continuità personale.





--

Do monsters make war

Non aveva mai raggiunto il quinto piano; e, per quanto quel pensiero istintivo e viscerale la rivoltasse, Niahndra Alistine aveva ringraziato ogni singola divinità a lei conosciuta perché se ci avesse provato, molto probabilmente non sarebbe stata viva per raccontarlo.
E di certo non se la sarebbe cavata —come invece lei aveva fatto— con pochi graffi e scottature così lievi da apparire quasi una presa di giro per tutti quegli altri nel castello rimasti coinvolti nell’assalto.
«Il passaggio era ostruito, e non c’era modo di scendere oltre le scale e accedere al corridoio» Non sapeva neanche con chi stesse parlando —parlare era già un tale sollievo di per sé, che non le importava—, la realtà era nebulosa e distratta; il ricordo, d’altra parte, vivido e terrificante. «Anche dopo essermi sbarazzata della tormenta di sabbia rovente, intendo. Era semplicemente ovunque, riempiva lo spazio d’una densità venefica impossibile da descrivere». Il mostro nato da un incantesimo ampiamente al di fuori della portata di una ragazzina di sedici anni aveva popolato i suoi incubi nei giorni successivi all’accaduto, e Niahndra temeva che non sarebbe svanito molto presto dalla sua memoria. «era fuoco e… malvagità. Non so se abbia senso». Non ne aveva. Niente di tutto ciò aveva un dannato senso.
Improvvisamente era di nuovo lì, sotto l’arco in pietra che dava l’accesso al corridoio del quinto piano, libera ma al contempo bloccata; contro ogni senso logico aveva provato ad avvicinarsi alla creatura, tuttavia la sua stessa
presenza era sufficiente a tenere la studentessa alla larga.
Ricordava —riferì all’interlocutore— che quell’abominio fosse rimasto immobile per svariati secondi, guardiano irremovibile delle porte dell’Inferno; o Inferno lui stesso.

«Chiunque abbia evocato quel-quell'essere si trovava al di là dell'arcata; credo lo controllasse da lì» Era arrivata a credere che il mostro non avesse volontà propria, bensì fosse strettamente dipendente dal suo evocatore; era l'unica spiegazione plausibile che era riuscita a darsi per l'improvvisa sua scomparsa, pochi minuti più tardi.
«Io non l'ho...un respiro profondo, lo sforzo di rimanere ancorata alla realtànon sono riuscita a vederlo, ma forse White, di Grifondoro, sì» L'odore del sangue le impregnò le narici, e per qualche istante fu tutto ciò che la Alistine riuscì a percepire.
Udì una voce nella sua testa, fredda e tremendamente distante, quasi estranea a lei.
*Un passo alla volta, bimba. Uno alla volta, o non ci caverai niente.*Si aggrappò a quella Niah calma e padrona di sé con tutte le sue forze, e recuperò il fiato.
«Ad un certo punto qualcosa è cambiato, qualcosa nell'aria... no, nello spazio» Era stata una sensazione sulla pelle e alla base della nuca, un'istinto che le ribolliva nel sangue e di cui —allora, e ancora per poco— non conosceva l'esistenza. «Il vuoto, il buio... tutto era più denso e vivo. Come un formicolio lungo le pareti.» Sbuffò a mo' di scuse, incolpando se stessa. «Forse è stata solo la mia immaginazione, non riesco più a fidarmi dei miei sensi.» Era strano ammetterlo ad alta voce, e solo allora Niahndra si accorse di quanto fosse vero. Udiva suoni che non esistevano, vedeva ombre dove non ce ne erano; i nervi tesi, i sensi all'erta, uno stato di stress e attivazione fisiologica costante.
Si interruppe, gli occhi intenti a rincorrere un pensiero, la bocca che cercava di frenare l’impulso di vomitare parole.
«Non sono riuscita a muovermi, e comunque non avrei potuto vedere alcunché», disse senza accorgersi di starsi ripetendo. Era forse una scusa, quella? Il suo senso di colpa arrivava a tanto? Cosa avrebbe potuto fare, logicamente parlando? Niente. Eppure sentiva il bisogno di ripeterselo nella sua testa. Eppure non si scrollava di dosso la sensazione della paura che correva rapida su per le gambe; paura che avvinghia le viscere e le storce e le strattona e le rivolta e le rimescola finché diventa impossibile rimetterle a posto. Si sentiva così; inutile.
«Così com'è comparso, il mostro se ne è andato. È stato a quel punto che ho trovato White riverso a terra, in una pozza del suo stesso sangue. Poco distante sono riuscita a scorgere il professor Black, svenuto.»
Uno tra i più brillanti studenti, ormai prossimo ai MAGO, ed un docente di Hogwarts— a terra, sconfitti; e lei, fresca di triennio, in piedi ed incapace di provvedere alle cure più basilari— in piedi, illesa. Quanti altri corpi avrebbero trovato ai piani inferiori? Quanti sotto le macerie? Lei lì, in piedi, illesa, mentre cercava di eseguire un innerva disperato su Black e si prodigava a tamponare il taglio nella testa di White. Non era giusto, ripeté la sua coscienza per la milionesima volta. Non lo era.
Chinò lo sguardo per studiare le proprie mani, aspettandole imbrattate di sangue. Le trovò invece pulite e tremanti, e così strinse con forza la gonna della divisa per nascondere gli spasmi. Era ingiusto.
«Ho atteso lì finché non sono giunti i soccorsi, a quel punto ho lasciato entrambi alle cure dei medimaghi.»
Solo in quel momento Niahndra fu in grado di focalizzare i tratti decisi del volto della Pompadour, l'ametista dei suoi occhi dolorosamente accesa. La giudicava. La giudicava perché era lì, in piedi, illesa; la giudicava perché non era sangue sulle mani di qualcun altro. Era davvero Camille a giudicarla?

«Io s'alzò all'improvviso, incapace di restare in quell'ufficio un attimo di più non c'è altro, io, io devo andare»


Si fece strada fino alla porta e poi nel corridoio; spalle al muro tornò a respirare.
Un ragazzino la fissava: occhi scuri su un viso appuntito, una cascata di folti capelli castani gli copriva le orecchie leggermente a sventola.

«Ho fatto come ha detto lei, prefetto Alistine» Un balbettio sconnesso, le spalle innaturalmente rigide.«ho raggruppato i miei concasati e ci siamo chiusi in sala comune, abbiamo accolto anche alcuni serpeverde che erano nella torre» A quel punto Niahndra lo riconobbe come il fanciullo di Corvonero a cui aveva ringhiato di nascondersi, pena l'esser trasformati in puntaspilli. Solo allora si accorse che non potesse avere più di tredici anni, mingherlino com'era nella sua divisa stropicciata.
Negli occhi grandi, la stessa colpa che divorava lei.
Il prefetto si sporse in avanti e afferrò le spalle tremule di lui.
«Sei stato bravo» Lo sguardo del bambino era confuso, pareva non averla sentita. «abbiamo sentito le urla e i rumori, ma siamo rimasti lì»
Niahndra cacciò indietro il nodo di lacrime che le si stava formando in gola e affondò un po' di più le unghie nella carne del ragazzino.
«Guardami. Hai fatto bene, hai capito? Hai fatto quello che dovevi»
L'altro annuì sull'orlo di una crisi di nervi, ed una rabbia antica —una rabbia che aveva quasi rischiato di dimenticare— tornò a macchiarle la visuale di rosso. Erano bambini, perdio. Adolescenti, studenti in una scuola di magia, non soldati. Che razza di persone attacca una scuola?
• • •

Aveva fatto appena in tempo a raggiungere il bagno e ringhiare un
muffliato tra i denti prima di accasciarsi a terra; il contraccolpo fece saltare l'ultimo gancio che ancora la tratteneva, ed il groviglio di lacrime semplicemente esplose.
Un urlo, e poi un altro; il terrore che aveva ormai formato un nodulo solido alla base dello sterno venne vomitato fuori, tra uno spasmo del petto e quell'altro.
Il fracasso del cuore echeggiava nelle orecchie, all'interno delle pareti del cranio e lei riversò quella furia contro il lavandino, contro lo specchio, contro il bicchiere con gli spazzolini, contro le pareti.
Tutte le emozioni che aveva tenuto imbottigliate in quelle settimane tornarono a presentarle il conto, mentre lei acquisiva pian piano coscienza —
vera coscienza— di ciò che era accaduto.
«Niahndra?»
«VA' VIA» Con la vista offuscata dalle lacrime, Niah si ritrasse maggiormente contro la vasca da bagno, le gambe raccolte al petto; cercò di spingere via Sam, ma non poteva competere con la sua forza, e alla fine semplicemente si arrese. «Va tutto bene, sei a casa adesso» Con le braccia di Sam avvolte intorno a sé avrebbe anche potuto crederci. Affondò la testa nell'incavo del collo di lui e continuò a piangere.
Era a casa adesso, e poteva permettersi il lusso di essere una diciassettenne debole, sola ed impaurita fin nelle ossa.


Does war make monsters
 
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22 replies since 5/3/2015, 20:43   1602 views
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