and now, here I stand, apprendimenti - K Channing

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kapitän
view post Posted on 5/4/2017, 23:55




RHcjDDO

“A teacher affects eternity;
he can never tell where his influence stops.”

– Henry Adams
Ai miei insegnanti.


Le alte colonne scandiscono le proporzioni di una facciata che rimanda ai fasti delle epoche che furono. Paiono tronchi perfetti di una foresta di infallibile geometria, a cui giro intorno con il naso all’insù.
Il museo, come sempre, è gremito di turisti di ogni nazionalità. Se le statue potessero prendere vita dentro alle teche, ammirerebbero un carosello di cliché multiculturale: i giapponesi piegati dalle pesanti macchine fotografiche allacciate al collo, gli americani in rumorose combriccole con l’audioguida in una mano e lo smartphone nell’altra, i cinesi in file disordinate dietro al tour leader.
Anch’io, con i miei occhiali da sole, la mia felpa con il cappuccio di pelo, la mia borsa di tela, trovo posto in questo teatrino. Mi aggiro tra le sale superando la gente che rallenta per ammirare i cimeli in esposizione o per comprare un sandwich in caffetteria. Svolto seguendo l’indicazione “British Museum Reading Room”. Varcando la soglia mi fermo un momento ad ammirare la maestosa sala circolare, le pareti gremite di libri, i pilastri che si trasformano in cornicioni di stucco sulla cupola e convergono verso l’oculo finestrato che si apre sul cielo come uno squarcio. La scala di legno che conduce al terzo livello scricchiola sotto al mio peso: non sono che gemiti impercettibili, ma nel silenzio della biblioteca mi paiono scoppi di granate. Cerco di salire i gradini con passo felpato, falsamente convinto che tutti gli sguardi siano puntati su di me e, giunto all’ultimo pianerottolo, mi lascio volentieri la scala alle spalle.
Trovo infine il volume rilegato in porpora che permette di accedere alla sezione magica della libreria. Il passaggio si apre rivelando una scala a chiocciola, che supero velocemente. Un Goblin seduto su un alto scranno in legno scuro nota il mio ingresso; rivolge il suo viso affusolato verso di me, e con i suoi occhi neri ed infossati sembra scandagliarmi da capo a piedi. In tutta risposta lascio scendere gli occhiali da sole fin sulla punta del naso, indirizzandogli un sorriso sghembo e guardandolo da sopra alle lenti. Poi li sistemo sopra alla testa. La creatura si aggrappa con le dita ossute al bordo del tavolo e, protendendosi verso di me, sibila con fare poco amichevole: «Il prestito è vietato, sola consultazione. E non è concesso Smaterializzarsi». Si riaccomoda contro lo schienale della sedia, ma senza cessare di seguirmi con lo sguardo mentre accedo finalmente al salone della biblioteca.
Sarebbe stato comodo chiedere un’indicazione sulla collocazione del libro che cerco, ma il guardiano non sembrava particolarmente ben disposto nei miei confronti.
Mi dedico perciò alla ricerca, seguendo l’ordine alfabetico degli scaffali e ritrovandomi inevitabilmente un paio di volte in fondo ad un corridoio in cui l’ultimo libro è catalogato sotto a una determinata sillaba, ma il ripiano relativo alla sillaba seguente non sembra essere nelle vicinanze. Il classico problema di chi cerca Bathilda Bath dove lo scaffale 7 finisce con Ludo Bagman e il numero 8 comincia da Flavius Belby.
Dopo qualche minuto appoggio vittorioso il manuale di cui ho bisogno su uno dei tavoli dedicati alla lettura. Produce uno sbuffo di polvere in cui filtrano i raggi che entrano, come lame di luce, dalle vetrate laterali.
Mi siedo e tiro fuori dalla borsa una piuma d’oca e un foglio di pergamena. Scorro velocemente le pagine del libro fino a trovare l’incantesimo che cerco: Incarceramus. Leggo attentamente le indicazioni, prendendomi il tempo per memorizzarle. Scribacchio qualcosa sul pizzino che mi sono portato, ma la tecnica è in realtà più semplice di quanto temessi. Quando ritengo di aver memorizzato il necessario, ripongo il manuale sullo scaffale, nella posizione in cui l’ho trovato, arrotolo la penna nella pergamena e, stringendola in mano e gettandomi la sacca su una spalla, cerco una stanza che avevo intravisto, in cui credo di potermi esercitare indisturbato.
È un’aula illuminata da bracieri, con una lavagna che fluttua magicamente nell’aria. Degli schizzi tracciati con il gesso che rappresentano schematicamente dei movimenti di bacchetta mi lasciano pensare che qualcun altro abbia usato questa sala per esercitarsi nell’apprendimento degli incantesimi, e la cosa non mi sorprende. Fortunatamente non c’è nessuno. Nonostante i tavoli e le sedie disposte senza un ordine, una buona parte dello spazio è libera. Appoggio a terra la mia borsa di tela e ci lascio cadere sopra il foglio di pergamena arrotolato. Estraggo due cose: una stuoia di lino che distendo sul pavimento di pietra e una figura degli Scacchi dei Maghi. Conto quattro o cinque ampie falcate nella navata laterale, completamente vuota, e a questa distanza appoggio la statuetta. Sfodero la bacchetta e sussurro: «Engorgio», creando un perfetto fantoccio per esercitarmi.
So che apprendere quest’incantesimo non sarà facile, che saranno necessari numerosi tentativi.
Sfilo le scarpe e mi siedo a gambe incrociate sulla stuoia. Rilassarmi, svuotare la mente, meditare mi aiuta molto a focalizzare l’attenzione su quello che sto cercando di imparare. Dopotutto realizzare un incantesimo è un esercizio mentale, più simile ad un’acrobazia da ginnasta che a ripetere una poesia imparata a memoria. Un po’ come suonare uno strumento musicale: all’inizio è difficile trovare l’esatta successione di note, ci si interrompe necessariamente con un suono scordato, ma dopo aver ripetuto la melodia più volte, ogni giorno, le dita sembrano muoversi da sé, come se i muscoli avessero una propria memoria.
Poso la bacchetta magica vicino a me e chiudo gli occhi. Mi concentro sul mio respiro. Inspiro. Espiro. Inspiro.
Il manuale dava indicazioni molto semplici: puntare la bacchetta, pronunciare la formula. L’elemento difficile è raggiungere la concentrazione necessaria, visualizzare le funi e trasformare l’immaginazione in realtà.
Espiro. Inspiro.
Dopo qualche minuto apro gli occhi, mi alzo afferrando la bacchetta, rimanendo a piedi scalzi sul telo di lino. Fisso il fantoccio inanimato e distendo il braccio davanti a me, puntando verso di lui. Immagino le funi che scaturiscono dalla punta della bacchetta e lo intrappolano. Le immagino come serpi che scattano all’attacco, come la trappola di un ragno. Mi sforzo di vedere quello che non c’è, poi, lentamente, con precisione e senza perdere la concentrazione, pronuncio la formula: «Incarceramus».

[Primo tentativo]

Qualche scintilla colorata e una nuvola di fumo che puzza di bruciato.
Non mi scoraggio, ma decido di ricominciare da capo. Mi risiedo, incrocio le gambe e poggio la bacchetta. Chiudo gli occhi. Inspiro. Espiro. Svuoto la mente, cancello ogni pensiero, creo una tela bianca su cui potrò dipingere la mia arte. Inspiro. Espiro.
Mi rialzo pensando al mio obiettivo. Quel fantoccio dovrà essere imprigionato. Ho tempo, riproverò fino a quando non riuscirò ad eseguire l’incantesimo perfettamente.
Punto la bacchetta verso la figura ingigantita, ogni nervo teso è come il filo di un burattino abilmente manipolato, sono la metafora vivente della supremazia della mente sulla materia. Mi sforzo di visualizzare le funi che dovrebbero avvolgersi attorno all’obiettivo. Chiudo gli occhi per raffigurarmele più veritieramente; mi sembra di vedere l’intreccio dei fili che le compongono, i capi spezzati che escono dalla regolarità della spirale, mi sembra di sfiorarne la consistenza legnosa, ruvida al tatto, mi sembra di intuirne il peso e lo sforzo necessario a piegarle.
Quando le immagini sono più vivide, apro gli occhi e scandisco le sillabe con artificiosa naturalezza: «In-car-ce-ra-mus».

[Secondo tentativo]

Il manichino oscilla, come sospinto da una forza invisibile, ma senza rovesciarsi a terra. Ritorna verso di me e dondola ruotando nella posizione iniziale, facendo fulcro sulla base circolare.
Sospiro.
Non immaginavo che sarebbe stato facile. Ricordo quando mi adoperavo per apprendere gli incantesimi ad Hogwarts, quando mi rifiutavo di svolgere i compiti; mi “dimenticavo” più spesso di scrivere trenta centimetri di pergamena piuttosto che di esercitarmi in una nuova fattura, ma procrastinavo volentieri fino agli ultimi minuti prima dell’inizio della lezione. I professori mi riprendevano bonariamente nei corridoi della scuola… Ah, gli insegnanti! A loro vola un pensiero misto di riconoscenza e nostalgia, un’emozione che chiunque si sia dedicato da autodidatta ad una disciplina in cui precedentemente era stato discepolo non può non conoscere.
Tornando al presente, mi concentro sulla realizzazione dell’incantesimo. Immagino le funi, e constato con amarezza come non riuscire nel mio intento mi faccia sentire le mani legate. È come se i ruoli si fossero scambiati e fossi rimasto intrappolato nella tela dei miei intenti. Scaccio rapidamente questi pensieri che non mi aiutano a focalizzare.
Il mio cuore batte come il timpano dell’orchestra, mi sembra di percepirne la pulsazione nei polsi, sulle tempie, le funi danzano nella mia mente a questo ritmo lento. Sono come nastri da ginnastica ritmica, come corde di frusta pronte a schioccare un colpo. È come una sinfonia intellettuale, una sinestesia di sesti sensi. Per la terza volta, con il massimo dell’impegno, punto la bacchetta e pronuncio la formula: «Incarceramus».

[Terzo tentativo]

La melodia è interrotta da un accordo dissonante. Il musicista ha pizzicato la corda sbagliata, la nota calante riverbera nel salone. Un lampo e uno scoppio: il fantoccio, come colpito da un proiettile, si crepa all’altezza del petto. Una lunga fessura attraversa verticalmente il suo corpo, confondendosi con le pieghe degli abiti cesellati. Lo spacco raggiunge il collo, locus minoris resistentiae della struttura, minacciando di farne cadere la testa. Briciole e schegge di pietra volano sul pavimento.
Faccio una smorfia per il rumore, sperando di non aver disturbato nessuno in biblioteca. Mi avvicino cautamente, sempre a piedi scalzi, cercando di evitare che la pesante cocuzza precipiti su un mio pollicione.
«Orbiculus Reparo».
La statua ritrova la sua integrità.
Torno alla mia posizione sulla stuoia e, anche mentalmente, al luogo di partenza. Cerco di svuotare la mente da ogni pensiero e lasciare spazio solo alla visualizzazione dell’incantesimo. Le funi, l’obiettivo, il movimento, la formula. L’immagine è così vivida che non ho più nemmeno bisogno di chiudere gli occhi. Sono certo che stavolta riuscirò nell’esecuzione. Con sicurezza e decisione punto la bacchetta. «Incarceramus».

[Quarto tentativo]

Non una fune, ma una stella filante si libera dalla punta della bacchetta magica, parte nella direzione del fantoccio e a metà strada si arrotola su se stessa, planando a terra.
Il mio braccio, ancora per un momento sollevato, cade senza energie lungo il fianco. Comincio ad essere sconsolato, quasi arrabbiato con me stesso. Eppure la motivazione nell’apprendere questo incantesimo è così forte. Posso solo immaginare quanto una tattica di questo genere potrà tornarmi utile nelle mie future missioni, quando mi sarà chiesto di dare la caccia ad un Mago Oscuro. È impossibile tergiversare, ne va della mia carriera. Devo imparare a imprigionare l’avversario, e devo farlo ora.
Mi siedo per l’ennesima volta, poso la bacchetta, incrocio le gambe. Ho bisogno di liberarmi da ogni pensiero perché ogni cellula del mio corpo sia focalizzata sull’intento. Inspiro ed espiro profondamente.
Quando ritengo di essere pronto per un nuovo tentativo mi alzo in piedi raccogliendo la bacchetta. L’immagine delle corde che si stringono intorno al manichino è impressa sulle mie retine, bruciata sotto alle mie pupille. Il mio animo è rilassato e trasparente come il mare in estate.
Pesanti, robuste funi di canapa.
Alzo il braccio indirizzando la bacchetta. Mi sento come un filo d’acciaio in tensione, e il potere magico è la corrente elettrica che scorre dentro di me.
«Incarceramus».

[Quinto tentativo]

Per la quinta volta tutto si conclude con un nulla di fatto. Qualche scintilla e niente più. La statua non si muove nemmeno di un millimetro. Sembra fissarmi, quella figura. Il suo volto realizzato con pochi precisi colpi di scalpello da qualche artigiano, ingigantito dal mio incantesimo, è caratterizzato da un sorriso arcaico. Gli occhi sono due buchi di punteruolo, l’espressione, nell’insieme, un misto tra apatia e scherno. L’alto copricapo bombato lascia immaginare che, nella scacchiera, sia un alfiere. Il corpo è decisamente poco definito, simile ad una campana, ma le vesti sono state cesellate con cura, per mezzo di linee che si avvolgono a spirale verso l’alto. Al collo ha una sorta di pendaglio, una catena forse, ma l’effetto sgranato non permette di dire con precisione.
Mi ricorda le numerose partite a scacchi con mio padre. A casa, in vacanza, era uno dei suoi passatempi preferiti. Avevo perso così tante volte… per anni, invariabilmente. Fino a quando non mi ero deciso a vincere: avevo comprato un manuale e avevo studiato le strategie migliori. Avevo trascorso dei pomeriggi a muovere i pezzi sulla scacchiera per esercitarmi. E nonostante tutto, avevo continuato a perdere. Non mi ero rassegnato: avevo continuato ad esercitarmi. Finché, un giorno, ho vinto. Ho vinto due, tre volte e poi ho smesso di giocare e di esercitarmi. Avevo raggiunto il mio obiettivo e il gioco, improvvisamente, non era più accattivante.
Sorrido al ricordo del passato, ma torno a concentrarmi sul presente. Inspiro ed espiro lentamente, ad occhi chiusi. Immagino l’alfiere che ho appena osservato con attenzione, e mi sembra di distinguere le pieghe delle vesti, il medaglione al collo, le scanalature della pietra che definiscono il viso. Mi sembra di vedere il suo sorriso storto. Con altrettanta precisione posso immaginare le funi che dovrebbero imprigionarlo, ogni filo ritorto intrecciato dal mero esercizio di magia.
Punto la bacchetta e mi sembra di percepire la tensione in ogni muscolo, sono come un arco che tende un filo d’immaginazione, pronto a scoccare una freccia; e a imprimere nella freccia non l’energia cinetica sviluppata dalla forza elastica, ma il potere magico che scorre dalla mia anima, incanalato dalla forza di volontà e controllato da una marziale dedizione.
Vedo le corde, le vedo con gli occhi della mente.
«Incarceramus».

[Sesto tentativo]

Un colpo di vento, come un vortice intorno al manichino, mi sferza il ciuffo dei capelli. Al suo interno mi è sembrato, per un momento, di scorgere i lacci che dovrebbero imprigionare l’avversario. O forse è solo la mia speranzosa immaginazione?
Vorrei gridare, andarmene, far scoppiare quello stupido simulacro, invece torno a sedermi a gambe incrociate. Posare la bacchetta, svuotare la mente. Inspirare. Espirare.
Sono certo di poter riuscire a lanciare l’incantesimo. Posso dirlo in virtù dei traguardi che ho raggiunto, e devo farlo per rispetto di chi ha risposto fiducia in me. Credo in me stesso e nelle mie possibilità, credo nella magia e nelle sue meraviglie, credo di poter evocare una fune, qui, ora, per imprigionare il pezzo di pietra che ho davanti. E credo che riuscirò a farlo quando mi troverò di fronte ad un Mangiamorte.
Inspiro. Espiro.
C’è serenità nella dedizione.
Ergendomi in piedi, come un monaco buddista per affrontare un duello contro se stesso, mi sforzo di visualizzare l’incantesimo. Movimento, formula, concentrazione. Le corde sono davanti ai miei occhi, e sono intrecciate della mia consacrante ostinazione.
Con un gesto deciso, pronuncio la formula: «Incarceramus».

[Settimo e ultimo tentativo]

HP 172/172 ♦ body 120/120 ♦ mana 120/120 ♦ EXP 26

Attendo l'intervento del Master.

 
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view post Posted on 8/4/2017, 23:33
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Il Fato

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Forza di volontà.
Dedizione.
Testardaggine.
Era tante le caratteristiche che facevano di un Mago un abile apprendista e di un abile apprendista, un eccellente Mago. Eppure c’era qualcosa in più ad animare ogni singolo essere umano nella riuscita dei loro obiettivi. Poteva essere qualsiasi cosa eppure, al contempo, nulla di interessante; una piccola luce da seguire nell’oscurità, un lampo di vitalità opportuna o un’esperienza di vita, di quelle che segnano e restano scritte sotto la pelle: un eterno Primo Motore che rende la vita meno insensata e lasci pensare che ci sia davvero qualcosa per cui lottare, non arrendersi ed andare avanti con uno scopo ben chiaro nella mente.
Cosa avesse spinto l’Auror a recarsi in quella stanza vuota e mettere alla prova le proprie capacità e la propria pazienza, non era dato saperlo – non a chiunque almeno.
Voglia di conoscenza, desiderio di migliorare... Tutti concetti e motivazioni che al Fato poco interessavano. Egli si limitava a vegliare sulle azioni umane e poco importava, in vero, cosa ne fosse delle loro vite. Erano soltanto dei piccoli, brevi palcoscenici in grado di intrattenerlo per il fugace attimo di un battito di ciglia: il Destino era lì eppure esterno. Lontano eppure coinvolto. Che manovrasse davvero i fili delle vite umane al pari delle Moire? Avrebbe avuto poi importanza?
Come tanti altri, in bilico tra la vita e la morte, tra una decisione che poteva cambiare drasticamente le loro vite e la consuetudine di cui si riempiva un’esistenza monotona, Christopher si stava ritagliando il suo piccolo momento di rivelazione. Sapeva che sarebbe stata dura o, per meglio dire, questa era una preziosa consapevolezza a cui avrebbe attinto grazie ad ogni singolo fallimento.
Frustrazione, pensieri astratti e ricordi si susseguivano tra gli innumerevoli tentativi. Per quanto sperimentasse la concentrazione era difficile agguantarla con mera celerità. La respirazione era tutto eppure nulla: riuscire ad avere una mente serena e sgombra da ogni pensiero era più complicato di quanto si potesse evincere dalla carta.

Concentrarsi, puntare la bacchetta, pronunciare la formula.
I libri, a volte, erano così superficiali. Li si poteva biasimare? Erano mero materiale oggettivo ed era dannatamente giusto lasciare ad ogni singolo essere la capacità di sfidare se stessi e i propri punti deboli per conseguire l’obiettivo. Le possibilità di riuscita stavano alla capacità del Mago.
Si poteva dunque dire che il giovane fosse un Mago capace? Che la Forza di Volontà spesso minata dalla frustrazione rappresentasse la sua arma vincente?
Soltanto lui, al termine, avrebbe potuto tirare le somme e non era detto che lo facesse. Riposto il libro, una volta ottenuto il suo grande premio, avrebbe fatto la conta delle piccole vittorie raggiunte per arrivare al successo? O se ne sarebbe andato lasciandosi la stanza alle spalle con il semplice sapore del trionfo e nulla più?
Ah, piccoli, insulsi esseri umani, troppe volte superficiali ed in egual modo incapaci di approfondire i loro errori, le loro azioni, le loro colpe, le loro conquiste e, persino, la loro stessa esistenza.
Dall’alto della sua regale e asettica posizione, il Fato lo aveva seguito in ogni piccolo movimento, aveva contato ogni goccia di sudore, ogni espressione corrucciata o sorpresa del viso. Ne fosse stato capace, avrebbe forse tifato per lui? Ad ogni azione, corrisponde una reazione, dicevano: allora perché continuavano ad invocarlo od inveire contro di lui? Se il Fato esisteva davvero, avrebbe potuto in vero spingere il giovane verso il successo? E per quale motivo? Perché lui e, parimenti, non altri?
Al di là di questi inutili quesiti, una cosa poteva sembrare certa, che Christopher vi indugiasse o meno: l’esito della sua prova era dipeso da lui e da lui soltanto.
Robuste, forti e tenaci corde di canapa vennero evocate non appena il suono della formula si perse nell’aere di quella vuota stanza. Con un’innaturale spinta, come da contraccolpo al potere magico incanalato nel legno di Melo, le funi corsero contro l’obiettivo cingendogli i polsi e legandosi alla base come alla ricerca di inesistenti caviglie attentando alla preziosa veste delineata con cura.
Il volto restò apatico, come se in realtà alcun attacco gli fosse stato arrecato. Se solo gli fosse stato concesso muoversi, si sarebbe sicuramente ribellato e, in tal modo, avrebbe rafforzato l’offesa dell’Auror.
La statua, tuttavia, rimase immobile così come le corde avvolte intorno al suo inanimato corpo.
Ad incanto terminato, il tempo sembrò come fermarsi: il silenzio permeò la statica aria e i muscoli del giovane restarono tesi fin quando la realizzazione non si estese lungo le fibre nervose sensitive e tutto parve improvvisamente chiaro.

Ci era riuscito.



Complimenti.
Incantesimo appreso, puoi inserirlo in scheda.

 
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