Un attimo di solenne silenzio, "Concorso di Scrittura: La Grande Guerra"

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view post Posted on 18/5/2017, 14:52
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entropia.

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Preciso solo un paio di cose.
1)La Nieve di quest'universo parallelo è diversa da quella attuale: oltre ad essere più adulta, ha compiuto una serie di scelte che l'hanno portata alla deriva, sicché il suo dolore per la perdita degli amici è acuito dal senso di colpa.
2)Nieve si allontana dall'infermeria proprio perché scossa dalla vista dei corpi senza vita degli amici. Non l'ho precisato nello scritto - come non mi sono soffermata sulla tipologia di scelte cui accenno
- perché avrei dovuto farlo sotto forma di informazioni telegrafiche e questo avrebbe spezzato il ritmo della narrazione, cosa che io odio. Quindi, avviso in off. :fru:
3)La scelta di rimanere molto scarna nella grafica è voluta per il contenuto dello scritto: nella mia personale esperienza, ci sono cose che non si possono imbellettare.

Buona lettura!





"C'è nelle cose umane una marea che colta al flusso mena alla fortuna: perduta, l'intero viaggio della nostra vita si arena su fondali di miserie. Ora noi navighiamo in un mare aperto. Dobbiamo dunque prendere la corrente finché è a favore, oppure fallire l'impresa avanti a noi."

Il frastuono era cessato com'era venuto, d'un tratto e col benestare dei protagonisti di quella chiassosa, cruciale vicenda. Con le spalle esili poggiate contro il muro in pietra, Nieve si concesse l'istante di cui aveva bisogno per respirare, il petto curvilineo che si alzava ed abbassava ad un ritmo forsennato, gli occhi verdi spenti nell'ultimo spasimo di dolore che il suo corpo si accingeva ad affrontare. Non importava quanto tempo avesse avuto per prepararsi all'ultima tappa di una guerra per la quale si erano lungamente allenati; né che il cuore, nella morsa protettiva della gabbia toracica, battesse ad un ritmo vigoroso, ricordandole quanta vita scorresse ancora nelle sue vene. La disperazione di cui era preda non avrebbe potuto essere placata con l'intervento dell'adrenalina, men che meno con la prospettiva di avere avuto, per l'ennesima volta, salva la pelle. Coi lunghi capelli argentati sporchi di sangue, polvere e detriti, ringhiò di un suono basso, indomita e indomabile come sempre era stata dietro la maschera di morigeratezza, finché le emozioni che aveva a lungo represso non uscirono fuori con dirompenza sufficiente a travolgerla. Scattando in avanti, girò su se stessa per fronteggiare la parete presso la quale aveva cercato sostegno, avversario negletto di una frustrazione che non avrebbe potuto accogliere né placare, e le sue nocche vi si abbatterono insistentemente una volta, due volte, tre volte e, infine, altre ancora. Era frustrata, devastata e impaurita, nulla di più e nulla di meno di quanto non fossero gli occupanti del castello rimasti in vita. Al di sopra di ogni cosa, però, era furente.

Con i grandi occhi languidi fissi sulle scie di sangue che i suoi colpi avevano lasciato sulla pietra, Nieve si concesse una piccola tregua, la carne che pulsava, scorticata, e l'animo che gemeva, vulnerabile. Il silenzio s'espanse tutto intorno a lei, spezzato a tratti dall'affannoso rincorrersi dei suoi rantoli, mentre la vista le si appannava di una sofferenza che non si sarebbe tradotta in lacrime. Aveva perduto quella capacità, così dolcemente umana, di trasfigurare le emozioni in stille panciute, sapore salmastro su una lingua che era stata teatro di un folto nugolo di emozioni: sarcasmo, verità e, di recente, lascivia. Crollò sul pavimento di calcinacci e devastazione, le ginocchia che premevano sulla rigida consistenza di pura materia che sorreggeva il suo peso e le braccia mollemente distese lungo i fianchi. Il fantasma di un pianto riluttante a insorgere ebbe a scuoterla d'impazienza, quasi a dirle che, se proprio non aveva intenzione di lasciarsi andare, avrebbe dovuto impiegare le sue energie in un'attività più proficua della mera commiserazione.

Era possibile provare tanto scoramento per una persona sola? Nieve conosceva il dolore, poiché vi aveva convissuto tutta la vita fino a farne sue le sfumature. Come una presenza ingombrante, si era messo comodo tra le pieghe della sua quoditianità e si era preso il meglio, deprivandola di tutto ciò che avrebbe potuto giovarle: la fiducia in se stessa e negli altri, le ore serene del riposo, la spensieratezza dei suoi anni e, da ultimo, perfino la speranza. Era stato lì, serafico, a guardarla affannarsi nel tentativo di raccogliere i pezzi e metterli insieme, un sorriso sghembo sul viso a schernirsi di lei, come se Nieve e la sua fame di ottimismo lo divertissero, oltre che nutrissero. L'aveva osservata con la pazienza del ragno che tesse le sue trame di morte, finché non aveva esultato brevemente nel vederla arrendersi. Alla fine, aveva vinto lui. Mentre le immagini dei corpi senza vita di Gertrude e Lloyd le tornavano alla mente, Nieve seppe di aver perduto la guerra, oltre che la battaglia: non solo non residuava in lei barlume alcuno di fiducia nel futuro, ma non era neppure più in grado di vederlo, un avvenire. Ad esasperare il suo avvilimento, v'era infatti la consapevolezza di aver perduto i suoi amici molto tempo prima, principessa dimenticata su una torre solitaria, unico carceriere di se stessa.

Nel lungo termine, a seguito di pretenziose interrogazioni nel reboante frastuono che era la sua anima, era riuscita a dare una definizione al suo rapporto con la sofferenza e a comprendere che, una volta conosciuto, del dolore non fosse più possibile liberarsi, men che meno dei segni che questo lasciava al suo passaggio. Era una convivenza che, come tutte le altre, seguiva un percorso scandito dal perfetto alternarsi di fasi prestabilite: all'inizio, era tutta una questione di aggiustarsi ad una presenza sconosciuta e, insieme, ingombrante, come di un coinquilino che non si conosca e non si tolleri, ma del quale non ci si possa liberare; seguiva l'accettazione di quel vincolo reciproco e inscindibile per arrivare, infine, alla resa dinanzi all'evidente necessità di un compromesso. Con il venir meno delle due persone che aveva più care al castello, il Fato aveva messo in pratica l'ultima mossa di una partita a scacchi pressoché infinita, sicché Nieve si piegò per, infine, spezzarsi. Lo scacco matto era, forse, il prezzo per le scelte sbagliate che aveva compiuto?


«Aiuto!»

Un rantolo alle sue spalle infranse la cappa di isolata disperazione ove Nieve si era auspicata di trovare conforto, sicché ebbe a voltarsi per incrociare lo sguardo terrorizzato di una bambina che si trascinava verso di lei. Era una matricola e stava morendo dissagnuata. Nieve, nei tratti di fulgida bellezza dei suoi diciassette anni, la osservò accasciarsi sulla solidità di un pavimento indifferente, a poco meno di un metro da lei. Con un balzo, la raggiunse e, bacchetta alla mano, mise in pratica ciò che aveva imparato a fare meglio.

«Vulnera Sanentur, Vulnera Sanentur...»

La sua voce ormai adulta, nei toni caldi di una nenia curativa, cullò la ragazza morente, sottraendola alle grinfie della Dama con la Falce, mentre la bacchetta correva sulle ferite nell'intento di sanarle. Con la mano imbrattata dei colori del sangue rappreso, Nieve le carezzò i capelli e incastrò i suoi grandi occhi verdi in quelli nocciola della sconosciuta. Quando aveva deciso di fare richiesta per affiancare l'infermiere della scuola, lo aveva fatto sulla scorta di un unico desiderio: curare le persone, laddove falliva continuamente nel curare se stessa. Ethan le aveva insegnato tutto ciò che sapeva, perfino a riconoscere l'odore acre della paura. E l'aria che le circondava ne era pregna.

«Ssh! Andrà tutto bene.»

"Mentire, a volte, è l'unico modo per assicurarsi il successo dell'intervento. Un paziente spaventato è un paziente con le funzioni vitali troppo accelerate, Nieve. Diventa imprevedibile, il che rende chi prova a curarlo insicuro e deconcentrato. Un paziente spaventato è sempre un passo più vicino a morire di quanto non lo sia a sopravvivere". Sin da principio, da uomo d'azione qual era, Ethan le aveva usato una schiettezza brutale nel parlarle, perciò non aveva riscosso i favori della ragazza: proprio Nieve, che della sua schiettezza aveva sempre fatto un vanto, si era concessa il lusso di giudicare chi l'aveva introdotta con franchezza nel mondo del complesso rapporto tra vita e morte. C'era voluto un po' per farle apprezzare quei modi così cinici fino al punto da volerli fare suoi, il che, in un momento come quello, poteva significare praticamente tutto. Nessuno di loro aveva la certezza che ogni cosa sarebbe andata per il verso giusto, che la giovane vita che Nieve stringeva tra le dita con la mordacità di un rapace non sarebbe sfiorita sotto i colpi di una guerra che non le apparteneva; come non era sicura del fatto che, se anche la bambina fosse sopravvissuta, il tempo avrebbe guarito le ferite che il terrore aveva impresso sull'animo dell'innocente. Se c'era una cosa che l'esperienza le aveva insegnato era che il tempo non avesse la chiave della guarigione. Nel suo caso, aveva tutt'al più diluito l'acredine della sofferenza, somministrandogliela poco alla volta perché riuscisse a tollerarla.

Il suo sguardo corse sul vestiario logoro della bambina, il cui respiro aveva trovato la regolarità perduta e il cui corpo, sotto il tessuto, aveva oramai finito di rimarginarsi. Cosa ne avrebbe fatto di lei il Fato? Avrebbe lasciato che il salvataggio di Nieve giocasse un ruolo nel prosieguo della sua esistenza? Nieve la guardò con espressione contrita, il volto della piccola ora rilassato sotto la balsamica carezza del sollievo, e non poté fare a meno di domandarsi chi avrebbe pagato il prezzo della sua decisione: per una vita sottratta alla Morte, un'altra avrebbe dovuto giungere in sostituzione così che i conti fossero in pareggio. Correndo con fare trafelato, quasi senza scorgerle, la sagoma di un uomo apparve oltre l'angolo, apprestandosi ad attraversare quella porzione di pianerottolo in direzione delle scale.


«Gregor!»

La sua voce ruppe il caotico corso dei pensieri dell'altro con i tratti d'intrinseca linearità che la contraddistinguevano. L'uomo si volse a guardarla, le pupille dilatate sotto l'effetto dell'adrenalina e dello spavento, e per un attimo faticò a riconoscerla. Nieve colse sui suoi lineamenti la gioia della realizzazione, il sollievo di scorgere un volto amico che conservasse ancora il fregio della vitalità. Era felice che non fosse morta e glielo mostrò sorridendole di una smorfia tirata a simboleggiare il tumulto che si agitava in lui: c'era un non so che di sbagliato nel concedersi il lusso di un sorriso, quando tutto intorno a loro imperversavano morte e distruzione; e, a un tempo, non era nient'altro che la dimostrazione del fatto che la vita, contro ogni forma d'oscurità, resistesse ancora.

«Nieve!»

Era incredibile pensare, in quell'istante, a quanto si fossero affannati nel timore di essere scoperti, docente lui e allieva lei, personaggi principali di un'opera abbozzata che l'autore non avrebbe mai completato. Erano stati amanti per un tempo brevissimo, baci e carezze lascive date sotto i termini di un'occasionalità che Nieve non aveva consentito divenisse abitudine. Era refrattaria ai legami, lei, e glielo aveva detto dall'inizio, ma non era servito ad impedire che Gregor le si affezionasse contro ogni prova di buonsenso. Era un uomo sposato con una donna giovane e bella e, prima ancora di stimarsi come marito, aveva fatto del suo essere integerrimo un vanto. Si era rimproverato tanto per aver ceduto ad una tentazione che aveva tutti gli ingredienti dell'errore, tanto ma non abbastanza. La cosa peggiore era stato rendersi conto di aver perduto se stesso lungo il percorso: nello stimolo al possesso del proprio simile tipico della razza umana, aveva preteso da Nieve qualcosa che lei non aveva potuto e voluto dargli, chiedendole più di quanto fosse nelle sue capacità. Era stato quel suo desiderio di possederla nell'animo, sulla scia di un romanticismo ereditato dai libri che gli erano così cari, a condurla lontana da lui, alfine. Dimentico della sua posizione, del suo buon nome, perfino della persona in cui si era sempre identificato, aveva sperato di insegnarle l'amore fino a mostrarle le vesti d'arte di cui esso si abbelliva; il suo fervore, tuttavia, non era bastato a garantirgli il risultato. Le loro anime erano troppo diverse perché Gregor potesse sperare di toccare Nieve senza spaventarla, così poco affini da generare stridore: troppa luce tutta insieme avrebbe avuto la pretesa di scacciare le imponenti zone d'ombra che animavano lei e che, col tempo, ella aveva imparato ad accettare. Nieve non gli aveva permesso di distruggerla, di cambiarla poiché non apparteneva alla sua indole il compromesso. Nell'osservarla, dopo mesi di lontananza, Gregor ebbe la conferma che le condizioni estreme in cui si trovavano non avrebbero mitigato quell'aspetto di lei.

«Stai bene?» Solo in quel frangente, lasciando correre lo sguardo lungo le candide braccia dalla pelle lesionata, scorse la sagoma inerme che la Grifondoro pareva voler proteggere dall'imperversare del tempo, alleato e nemico insieme. «Cosa le è successo? E'...»

«No, è viva,» asserì con determinazione, la stessa che lui le aveva, prima, invidiato e, infine, ammirato. «Ho bisogno che la porti lontano da qui. Ethan si sta prendendo cura dei feriti più gravi in infermeria. Si occuperà anche di lei.» Nieve lo vide esitare, gli occhi che indugiavano su quel volto che evidentemente aveva ancora caro. Decisa, si sporse in avanti, toccandogli un braccio e stringendo la presa come a voler dar forza alle sue parole. Non si sfioravano da mesi, oramai. «Ti prego!»

Gregor annuì, un fiume in piena che indugiava sull'orlo delle labbra, mentre tentava di scandagliare quegli occhi verdi che, chissà per quale ragione, erano riusciti a rimanergli estranei, nonostante i suoi più convincenti sforzi. Quando Nieve ritirò la mano per portarla mollemente in grembo, egli si risolse a tacere, limitandosi a prendere tra le braccia il giovane corpo che giaceva a terra. Prima di sparire oltre l'arco dal quale era apparso, girò su se stesso per guardarla un'ultima volta.

«Fa' attenzione.»

«Anche tu.»

* * *



Da quando era diventata aiuto infermiere, Nieve aveva imparato a fare i conti con la malattia, aiutata dall'atipico rapporto di familiarità che aveva sempre avuto con la morte. Considerata la sua età, sapeva che avrebbe dovuto esserle estranea, tutt'al più conoscente dai tratti a malapena familiari; invece, condivideva con essa un intero album di ricordi che, in quantità quanto in qualità, superava di gran lunga le rare scappatelle col tepore della gioia. Non sapeva in quale frangente della sua vita l'ombra del dolore avesse cominciato a prevalere sugli attimi di luce, non con esattezza almeno. Sapeva soltanto, guardandosi indietro, che aveva acquisito la deplorevole deformazione a soffermarsi solo sui dettagli nefasti del suo vivere, dimenticando - fino a far affievolire - i contorni nitidi delle scoperte più dolci. Nella sua esperienza, così giovane eppure così agghiacciante nel realismo con cui s'imponeva, la morte era un unico, brevissimo istante di ordine nel bel mezzo del caos. Era un attimo di solenne silenzio che poneva un freno all'esuberanza del frastuono, come una mano che si alzi per porre fine al ciarlare della folla e, pur brevemente, vi riesca. Prima e dopo di essa, solo confusione.

Harry Potter era morto. L'annuncio echeggiava ancora nell'aria del tono mezzo estatico, mezzo isterico di Voldemort. La tregua che aveva concesso loro nell'attesa di ottenere ciò per cui era tornato dal regno dei defunti era terminata e, con essa, era giunta la disperazione di alcuni, il tripudio di altri. Un'era pareva essersi conclusa, mentre un'altra dai toni assai più foschi si affacciava alla vita a mo' di sberleffo nei confronti del predecessore. Nieve indugiava ancora sul pianerottolo, la luce del più funesto dei giorni che si abbatteva sulla sua figura lacera, esterrefatta. Cosa ne sarebbe stato di loro adesso che il regno della libertà era tramontato per lasciare tutti sotto il giogo di un'oscura tirannia? Vita e morte orbitavano attorno a lei, studiandosi come avversari in procinto di attaccarsi, equamente vittoriose equamente sconfitte. Volgendo lo sguardo in direzione della grande apertura nella pietra, Nieve scorse attraverso il vetro il volo di una civetta coraggiosa e la vide, la vita, librarsi al di sopra della pesantezza delle carni. Chiuse gli occhi e sospirò, avvilita, nella mente ardente la speranza che coloro la cui esistenza era stata spezzata potessero aver raggiunto lidi migliori. Per un istante sì fugace da parere inconsistente, il desiderio di elevarsi oltre lo sfacelo circostante si irradiò in lei per attecchire nel suo animo, virgulto radioso esercente sollievo. Infine, il trambusto riprese, l'idillio s'infranse e la vita tornò a scorrere.

Mentre Nieve si affrettava giù per le scale, la bacchetta sguainata e gli occhi alla vigile ricerca di una fonte di pericolo, il ritmo a cui procedeva il tempo seppe rallentare ed ogni cosa ebbe ad amplificarsi. Del suo corpo di giovane donna, Nieve percepiva il più piccolo sussulto vitale: gli spasimi incostanti dei muscoli, l'irregolarità del respiro, la frenesia del battito cardiaco, il gelo della paura e il calore dell'adrenalina, la puntura infingarda della perdita emotiva. Il primo avversario la raggiunse quando ancora i suoi piedi s'inseguivano sui gradini della scalinata che dava sull'ingresso. Con una padronanza che aveva acquisito sotto il giogo del rischio, il braccio della giovane si mosse brutale, imperdonabile, a tratti perfino spietato per rispedire al mittente le maledizioni con cui questo sperava di sopraffarla. Una stoccata, poi un'altra ancora e, in men che non si dica, l'attacco era stato respinto. Pietrificato, l'uomo giaceva con sguardo vitreo sul pavimento bitorzoluto della gradinata, il setto nasale frantumato dalla violenza di un colpo che Nieve si sentì in dovere di dargli prima di lasciarlo. Seguì il secondo di una folta schiera di nemici, poi un terzo e, infine, altri ancora.

A mano a mano che la lotta infuriava e gli schieramenti si decimavano a vicenda, lasciando una scia di corpi inermi a testimonianza dei reciproci sforzi, Nieve perdeva il suo attaccamento al reale. Era come vedersi da una prospettiva sopraelevata, immune alle aggressioni, sicché, forse per la prima volta nella vita, si scorse nella bellezza dei suoi anni. I lunghi capelli argentati oscillavano al ritmo del suo avanzare, onde arrendevoli sotto le carezze di una brezza che feteva del sapore ferroso del sangue; le gambe lunghe sotto le pieghe di una gonna fin troppo rigorosa per una tempra selvaggia come la sua; il volto gentile trasfigurato in un'espressione di crudele concentrazione, negli occhi il baluginio del piacere che veniva con il dominio sugli altri; le labbra sottili disegnate in una smorfia a tratti perfino seducente, mentre puntava la sua vittima con la spregiudicatezza dei suoi diciassette anni. Da quella prospettiva, comprendeva la ragione del suo successo con gli uomini, cosa le permettesse di irretirli contro i moniti del buonsenso e dell'integerrimità. C'erano, in lei, una ferinità femminea che, nel candore dei suoi tratti delicati, acquistava un gusto squisitamente lascivo e virginale insieme. Riusciva perfino a vedere i cambiamenti che le ultime, più oscure scelte avessero avuto su di lei, portandola a sviare il percorso che tutti si sarebbero aspettati seguisse. Cosa potevano saperne loro, del resto, delle rovine di cui era composta e a partire dalle quali ricostruirsi pareva quasi impossibile?

D'un tratto, dall'alto della sua postazione di osservatrice, Nieve vide il favore del Fato abbandonarla e le sorti dello scontro ribaltarsi. Mentre tutto intorno imperversava il delirio, incrociò lungo il cammino qualcuno di gran lunga più forte di lei. Serviva, come altri prima di lui, i colori dell'Oscuro Signore tanto negli abiti quanto nell'animo. Riusciva a scorgerglielo in volto, il desiderio che aveva di finirla, irretito dal fascino irresistibile della vittoria e del sangue come Nieve lo era stata poco prima. Si osservò annaspare, l'espressione ora meno sicura, meno impersonale, e indietreggiare pericolosamente sui mattoni in pietra del cortile antistante l'ingresso. Inneggiò alla se stessa che combatteva qualche metro più in basso, pregò per un miracolo e trattenne il fiato quando, alfine, il fascio di crudeltà che sprigionò dalla bacchetta dell'avversario ebbe a colpirla al petto. In quell'esatto istante, smise di essere due persone in una: non era più Nieve la combattente e Nieve l'osservatrice, solo Nieve. Mentre il sangue fuoriusciva dalle ampie ferite che aveva sul petto e percepiva l'energia fluire via da lei, si sentì morire poco a poco, il nemico già intento in un altro combattimento, dimentica.

Era tutto finito. Un attimo prima era una persona con una vita, interessi, passioni più o meno proibite, oneri, persone care, amori. Un attimo dopo quella stessa vita sfilava via dal suo corpo, lasciando di lei un guscio vuoto e una scia di azioni che nessuno avrebbe ricordato, non per sempre almeno. La sua memoria sarebbe svanita a poco a poco e silenziosamente, finché la dimenticanza non fosse sopraggiunta ad avvolgere ciò che era stato. Nieve Rigos era morta, la carezza materna del vento come unico conforto, lo sguardo oramai vuoto che rifletteva il trambusto di una vita che non avrebbe mai più potuto tangerla. Eccolo lì, il suo attimo di solenne, sempiterno silenzio.




Perdonami, Emmina! :fru:


Edited by ~ Nieve Rigos - 18/5/2017, 22:42
 
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