Lo sgabuzzino delle scope, Privata: solo buzzicozzi ammessi.

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Nieve Rigos
Grifondoro | Prefetto | 13 Anni Emma-Swan-once-upon-a-time-32675127-500-266 "Canarine a chi vuoi, nello sgabuzzino son mazzi tuoi"
Al tempo in cui era giunta a Hogwarts, come una spaurita e promettente studentessa che poco o nulla sapeva della magia, lo smistamento a Grifondoro aveva portato con sé una buona dose di dolcezza, oltre che d'orgoglio. All'indomani del suo arrivo, di ritorno da una giornata trascorsa tra classi, corridoi e folti gruppi di facce sconosciute, aveva trovato sul letto un pacchetto di dolciumi dalle proprietà stravaganti. Nieve, che non aveva una gran predilezione per i sapori stucchevoli per mancanza di abitudine, si era limitata ad accogliere il gesto con una scrollata di spalle e a riporre il piccolo involto nel fondo del baule senza troppo entusiasmo. L'aveva ripescato con una certa noncuranza a circa un anno e mezzo di distanza, la mente che si arrovellava nel tentativo di comprendere come avesse potuto non prestarvi attenzione tutte le volte che ne aveva rassettato il contenuto. Seduta sul bordo del letto in una camera del tutto vacante - eccezion fatta per la piccola Ania, il cui nasino odorava spasmodicamente l'aria in un accesso di curiosità -, era stata costretta a fare i conti con uno scoppio d'ilarità non indifferente nel constatare quale trattamento avesse riservato ai dolci: Emma le avrebbe quantomeno riservato un'occhiata truce per quell'intollerabile (ai suoi occhi, almeno) spreco. Mossa dalla medesima curiosità del giovane felino che le stava accanto, perciò, Nieve aveva rimboccato le maniche della camicia, raggiunto il baule per inginocchiarvisi dinanzi e cominciato un'opera di ricerca sotto la vigile assistenza di due grandi occhioni blu. A mano a mano che estraeva gli oggetti che costituivano buona parte del complesso dei suoi averi, ora la vista, ora il tatto, ora l'olfatto venivano sollecitati dall'essenza di un ricordo che credeva di avere perduto e che, timidamente, tornava a galla per rischiarare le trame della sua memoria, talvolta fino addirittura ad arricchirle. L'instancabile operazione alla quale si era dedicata dovette arrestarsi quando le capitò tra le mani un piccolo contenitore trasparente dal contenuto malmesso. Mentre lo portava a sé con la mano destra e con la sinistra impediva alla zampa di Ania di colpirlo per puro spirito di gioco, la sua mente le restituì l'immagine di un sorteggio in Sala Comune, risalente al periodo dell'Epifania. Sorrise e scosse il capo con condiscendenza: al tempo, non aveva avuto la benché minima idea dell'effetto di quei dolci dallo strano nome e l'imbarazzo di un'ennesima dimostrazione di ignoranza l'aveva frenata dal chiedere spiegazioni. Dopo due anni di amicizia con Emma, tuttavia, aveva una conoscenza del mondo della pasticceria che andava ben al di là delle sue aspettative, sicché comprese di aver perduto un'occasione nel lasciare le Crostatine Canarine nel fondo del baule. O forse c'era ancora tempo?

«Tu dici che funzionano ancora?»

Con lo sguardo cercò Ania, che se ne stava a pancia all'insù con un sacchettino di velluto stretto tra le zampe anteriori, mentre quelle posteriori scalciavano febbrilmente contro di esso fino a sfibrarlo. Si guardarono per un attimo. Infine, un sorriso inarcò le labbra di Nieve. Valeva la pena tentare.

* * *

«Ma le pare, signor Gazza? Mettermi in punizione per averle offerto una crostatina. Questa sì che è buona!» L'indistinto bofonchiare che proveniva dalle sue spalle le suscitò una risata bassa, mentre armeggiava con un paio di manici di scopa nello stanzino angusto. «Io davo per scontato che si sarebbe accorto della natura del dolce, visto il numero di ninnoli che sequestra quotidianamente,» proseguì, le scope strette al petto mentre si allungava sulle punte per afferrare un secchio che stava troppo in alto, senza ottenere alcun risultato che non fosse una nuvola di polvere di proporzioni gigantesche. Starnutì. «Se c'è qualcuno che dovrebbe punire, è la sua gola, signor Gazza. Venga a darmi una mano, su!»

Era un prodigio che riuscisse ancora a parlargli, dopo aver registrato le immagini che le erano costate, alfine, una bella punizione. Seguendo un sentiero del tutto casuale, nel bel mezzo del pomeriggio, Nieve aveva preso le distanze dalla torre di astronomia alla ricerca di una preda che le consentisse di operare quell'ultimo, disperato tentativo. Aveva eliminato immediatamente i primini dalla lista, consapevole del fatto che vivessero una condizione di insicurezza emotiva tale da rendere il suo scherzo un potenziale trauma. Aveva rimosso anche gli studenti più grandi, troppo navigati per cadere in un tranello del genere nonostante l'aspetto a dir poco irriconoscibile delle crostatine. Ma chi, allora? La risposta si era palesata nelle fattezze zompettanti di un Gazza dall'aria arcigna. A differenza degli altri studenti, Nieve non aveva mai tratto alcun malsano piacere dalla prospettiva di farsi beffe di lui, talché, nonostante la sua natura deviata, l'uomo aveva instaurato con lei un rapporto di non-disistima. Era stato facile come rubare - o dare, nel caso di specie - le caramelle a un bambino. Gettando uno sguardo languido ai dolci che la Grifondoro stringeva tra le mani, Gazza aveva segnato ufficialmente la sua iscrizione ai provini di cui solo Nieve sapeva l'esistenza; la tredicenne, senza dire una parola, gli aveva allungato una crostatina, trattenendo a stento un sorriso d'eccitazione, e il resto era venuto da sé. Considerato il decorso del tempo, l'effetto giocoso dei dolci aveva subito un affievolimento: dunque, quando Gazza ne aveva addentato uno con espressione mezzo beata, non si era trasformato propriamente in un canarino, ma ne aveva acquisito soltanto alcune caratteristiche. L'incarnato, da olivastro che era, aveva assunto una tonalità di giallo vivace e le unticce ciocche sparute che aveva in testa erano state - giusto qui e lì, eh - arricchite da un piumaggio riempitivo dello stesso colore solare. Nieve era quasi morta sul posto, rannicchiata contro il pavimento del primo piano col volto rigato di lacrime, mentre Gazza la prendeva malamente per un braccio, le sequestrava la bacchetta e si preparava ad infliggerle una punizione. Ne era valsa la pena. Ne era decisamente valsa la pena.

«Se ci pensa su un pochino,» esordì dopo una manciata di minuti, interrompendo il flusso di maledizioni sussurrate in cui Gazza si stava profondendo, «si renderà conto che sta guardando la situazione da una prospettiva sbagliata.» Una scopa le sfuggì di mano e il suono che generò il contatto col pavimento echeggiò nel piccolo sgabuzzino, coprendo a stento la risata che l'aveva colta nel ripensare alla vicenda. Ammassando i manici tutti su un lato, si preparò a saltare per recuperare il secchio in ferro che la guardava dall'alto. «Sequestrarmi la bacchetta, poi. Ma cosa crede che ci avrei fatto? Provare un Gratta e Netta per lavarle via il colore? Tra l'altro, la rende così infinitamente più allegro.»

L'urlo che la raggiunse attraverso la porta socchiusa la convinse a tacere un attimo. Saltò col braccio destro pronto ad agguantare il secchio.

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Horus R. Sekhmeth Bestemmiava, bofonchiava, imprecava contro la gioventù. Lo diceva sempre sua madre: “I bambini fanno schifo”, eccome, concordava. Ma chi gliel'aveva fatto fare a lavorare in una scuola? Sì, va bene, era un Magonò ed era già un miracolo che avesse trovato lavoro nel Mondo Magico, ma oltre alla frustrazione di vedersi intorno quei mocciosi che agitavano per aria le loro stupide bacchette anche per scaccolarsi il naso, ci si mettevano pure le beffe. Da un Prefetto poi! Ah, se gliel'aveva fatta vedere, pensò, sputacchiando un paio di piume giallo limone. Quella ragazzina non sarebbe uscita da lì prima della fine della giornata, altroché. Gazza si grattò il collo ossuto, cercando di strappare via il lieve piumaggio che, sparuto, cresceva a chiazze, facendolo sembrare, più che un canarino, un pollo spiumato. Strillò di dolore quando la pelle venne via con tutta la penna, sputacchiando furioso altri improperi diretti alla Grifondoro. Dallo stanzino giungevano le risate della vipera e Gazza si gonfiò come un tacchino (incredibile quanti pennuti stesse interpretando nel giro di pochi minuti). Basta, non ce la faceva più: sarebbe andato di corsa dalla Preside a implorarla di lasciargli appendere la ragazzina per gli alluci. E poi, pensò con un rivolo di bava sadica che gli usciva dal bordo della bocca storta, le avrebbe conficcato gli aghi nelle unghie. Che delizia!
« Sta' a vedere, ragazzina! Te ne pentiPIO. » E quello cos'era? Strabuzzando gli occhi, Gazza si portò le mani alle labbra. Cos'era... un becco quello?! Incredulo si tastò il punto dove, una volta, c'era la fessura della bocca, sottile come l'entrata di un salvadanaio. Le labbra, per effetto della maledetta crostatina, si erano protese in avanti, ad imitare un bruttissimo becco.
« Pio! » Imprecò, balzando sul posto e guardandosi attorno, nel panico. Non c'era nessuno, ma una voce giungeva dal fondo del corridoio. Presto, si disse: doveva correre dalla Preside a trovare una soluzione prima che qualcun altro potesse vederlo in quella condizione ridicola!
« PIOOOOOWH!! » Sbottò l'uomo, rivolto alla ragazzina nella stanza. Non si sarebbe accorta di nulla e, del resto, con sé aveva la bacchetta della marmocchia: allontanati e te la spezzo. Corse via, zampettando sulle gambette rachitiche e lasciando dietro di sé una scia di piume, diretto verso il Quinto Piano.

Ciò che indusse Gazza a scappare fu il ruggito isterico del Caposcuola Tassorosso che giungeva dal corridoio adiacente, intento a correre dietro un euforico Pix. Più correva dietro al Poltergeist, svicolando fra gli studenti che ingombravano i passaggi, scontrandosi contro le armature agli angoli e saltando al volo le scale semoventi, più Horus si malediceva in un crescendo di epiteti sempre meno signorili. Si era fatto fregare come un novellino e questo era il risultato: erano già dieci minuti che stava correndo dietro al dispettoso fantasma e ormai il fiato lo stava abbandonato, mentre i polmoni da quel dì erano a tracolla.

« Figlio... di... morgana... t'ammazzo...no... prima ti resuscito... poi... ti stronco... » Bisbigliava, ormai al limite, completamente dimentico della natura del suo nemico. Pix trovava delizioso l'aver spinto il ragazzo fino a quel punto: raramente riusciva a farlo imbestialire e talvolta si teneva ben alla larga, consapevole che il ragazzo gli avrebbe mandato il Barone Sanguinario alla prima ripicca. Ma quell'occasione era stata troppo ghiotta da ignorare, ridacchiò, facendo volteggiare la bacchetta rubata sopra la propria testa come un abile giocoliere. L'allocco se la dormiva beato in un'aula vuota, rannicchiato sopra un banco ed era stato una fortuna che lui si fosse affacciato per vedere chi c'era! La bacchetta gli spuntava dalla tasca della divisa ed era chiaro il suo invito: “Rubami!”. Chi era lui per ignorare quell'esortazione? Rise estasiato: stava esibendosi in una sconcia canzoncina ai danni del già disperato Caposcuola, quando i suoi occhi neri come la pece (e come la sua anima, probabilmente) inquadrarono uno stanzino la cui porta, accostata, sembrava l'ennesimo suggerimento ad agire. Svolazzando a tutta birra, il suo viso si trasfigurò in un ghigno diabolico. Oh, che bell'idea gli era giunta! Accelerò, sfruttando il proprio residuo magico per un ultimo sprint, voltandosi appena a controllare la posizione del Tassorosso. Perfetto: il ragazzo doveva ancora svoltare l'angolo. Fece un gran baccano e poi, puff. Si nascose.

Horus, dal canto suo, non era mai stato più convinto di morire come in quel momento. Negli attimi che avevano accompagnato il suo inseguimento, il Tassino si era chiesto se davvero qualcuno poteva tirare le cuoia per una corsa e cosa ci sarebbe dovuto esser scritto sulla lapide. Amava correre e andava a farlo ogni volta che poteva, soprattutto la mattina presto, quando il sole era appena sorto e baciava i giardini di Hogwarts, illuminandolo di una luce magica. Così, però, si sorpassava ogni limite. Non appena svoltò nel corridoio del primo piano, i suoi occhi cercano la figura di Pix e, con sommo orrore, Horus si rese conto di averlo perso di vista. Esausto, rallentò l'andatura, cercando freneticamente la figura del poltergeist.

« Dannazione. » Imprecò fra i denti, mentre il petto si alzava ed abbassava spasmodicamente alla ricerca d'aria. Sentiva le gambe come gelatina e quando vide la porta aperta di uno sgabuzzino, pregò tutti i suoi Dei affinché Pix fosse lì dentro. Si avvicinò all'uscio, in silenzio, cercando di respirare col naso per attirar meno l'attenzione. Doveva esser lì, dove poteva esser andato altrimenti? Non c'erano aule in cui rifugiarsi nei dintorni. Entrò con passo felpato, ma non appena il suo piede oltrepassò la porta... SBAM! Questa si chiuse con forza e la luce, quella poca illuminazione che c'era, saltò. Al di là della porta chiusa la risata acuta e senza freni di Pix era come un martello nelle orecchie e nell'orgoglio.
« MA ALLORA C'HAI LA MAMMA INFAME. » Gridò, al limite, tirando un sonoro calcio alla porta. Per la frenesia, il Caposcuola fu lì lì per cercare la bacchetta nella tasca della divisa quando improvvisamente si ricordò che l'aveva Pix.
Fuori dai gangheri, completamente immerso nel buio Horus cominciò a ringhiare. Mai, mai, mai aveva perso le staffe come in quel momento. Pix avrebbe fatto meglio a correre fino a Timbuctu, perché se solo Horus fosse uscito da lì, il Barone Sanguinario sarebbe stato un allegro piccolo pony in confronto.


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Nieve Rigos
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Se Nieve fosse stata un poltergeist, probabilmente non avrebbe avuto un temperamento poi così dissimile da quello di Pix. Considerata l'esigua vita mondana che doveva condurre per via della sua natura e la noia che inevitabilmente ne conseguiva, non era, in fondo, del tutto incomprensibile che lo spiritello trascorresse le sue giornate a zonzo nel castello, pronto ad elargire una marachella ai danni di quello o quell'altro studente. Ancora di più, se Nieve avesse assistito all'intera scena che si apprestava a giungere a completamento e a coinvolgerla, dubitava che sarebbe mai riuscita a dare addosso a Pix. In fondo, se il giovane Tassorosso era stato così imbranato da servirgli la possibilità di uno scherzo su un piatto d'argento, doveva esserselo meritato... Un po' come Gazza e la sua golosità!
Dalla prospettiva che la punizione le concedeva, tuttavia, Nieve brancolò nel buio almeno quanto lo sconosciuto che sarebbe presto divenuto suo compagno di sventure. Col secchio stretto allo sterno e il polso che sfregava contro il naso per cacciar via i segni dell'irritazione da polvere, dunque, la giovane Grifondoro si trovò nel bel mezzo di una situazione lungi dal poter essere prevista. Insospettita dall'improvviso assetto taciturno di Gazza, si voltò con gli occhi annacquati dall'infinita serie di starnuti solo per cogliere a malapena la sagoma di qualcuno di non meglio identificato fare un inquietante ingresso nello sgabuzzino. Chi diavolo era il depravato che era riuscito ad intrufolarsi nello stanzino e aveva avuto la brillante idea di chiuderli dentro, spegnendo per giunta la luce? E che ne sapeva lui che la madre di Nieve era un'infame? La reazione dell'islandese fu così rapida da mancare di ogni forma di ponderazione. Mentre ancora l'urlo inumano dello sventurato si librava nell'aria, prossimo ad un completamento, le braccia di Nieve caricarono il colpo di una forza impressionante per una giovane così minuta. Alzando le braccia in aria e spingendole oltre la linea delle spalle, lanciò il secchio in quella che ricordava essere la posizione della porta - Non che ci fossero molti dubbi, considerato quant'era piccola la stanza, ma la paura, si sa, gioca brutti scherzi anche alle menti più brillanti - per allungare, subito dopo, la mano destra in direzione di un manico di scopa e porlo dinanzi a sé con ardimento paragonabile a quello di un giostratore medievale. Un sorriso tirato le inarcò le labbra quando udì il rumore del ferro abbattersi contro qualcosa di consistente nella sua solidità. Con un po' di fortuna, si disse, l'avrebbe preso in testa e si sarebbe tolta dall'impiccio di incrociare un possibile molestatore dal temperamento rabbioso. Certo, stava militando chiaramente verso la soluzione più spaventosa e questo l'aveva portata ad agire prima di ponderare bene la situazione. Ma, del resto, la miglior difesa è l'attacco... O era il contrario?!


«Chi diavolo sei?»

La domanda le uscì di bocca con furia quasi paragonabile a quella dell'improvvisato compagno di stanza, mentre brandiva il manico di scopa, spostandolo da sinistra a destra e viceversa, per scongiurare qualsiasi avvicinamento. C'era un non so che di frustrante, realizzò presto, nella consapevolezza di essere in difetto. Non poteva sapere che, proprio come lei (sebbene per ragioni diverse), anche il giovane Tassorosso fosse monco di quello che, per un mago, altri non era che un prolungamento dell'arto. Nel dubbio, perciò, Nieve si sentì nel diritto di fare della scopa la sua spada e del coraggio la sua scintilla di magia, almeno fintanto che non si fosse accertata che la testa rossiccia che aveva vagamente intravisto, prima che ogni cosa si oscurasse, non appartenesse ad un molestatore seriale. Per quello che ne sapeva lei, poteva perfino trattarsi della versione pulcino di Gazza che tentava di torturarla in uno degli indicibili modi che spesso sussurrava dolcemente alle orecchie della sua gatta. Il pensiero la fece rabbrividire, mentre l'eco del secchio che cadeva sul pavimento si estingueva, sicché avanzò di un passo e mosse a scatti ancora più violenti l'unica arma a sua disposizione. Il cubicolo in cui si trovavano era talmente stretto - e la scopa talmente lunga e grossolana - che con ottime probabilità sarebbe riuscita a spazzare la faccia al tipo, cancellando l'eventuale ghigno sadomasochista che doveva avere in volto. Ce l'aveva lui, la mamma infame... 'Sto maniaco!

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Horus R. Sekhmeth Non udì alcuna risposta al suo improperio —non che se l'aspettasse, dubitava che Pix avesse mai avuto una madre—, ma sentì perfettamente il dolore acuto che si diramò fra collo e scapole in modo totalmente improvviso. Non si rese subito conto di cosa l'avesse colpito: un sonoro STONK risuonò nello sgabuzzino e lui gemette per la sorpresa ed il dolore. Si portò entrambe le mani nel punto ferito, gli occhi che si appannavano, mentre la testa lavorava frenetica per cercare di raccapezzarsi in quel risvolto imprevisto. Era stato il Poltergeist? La sola idea gli mandò il sangue al cervello e il male provato scemò per far posto ad una furia ben più appagante.
« PIX? » Ruggì, voltandosi di scatto mentre le mani lasciavano il collo e brancolavano nel buio. Le dita si protendevano nell'oscurità nel tentativo di afferrare qualsiasi cosa che potesse lanciare a caso dentro quel luogo angusto e stretto con la speranza di colpire l'aggressore; se poi riusciva a strozzare Pix o a ficcargli un dito nell'occhio, tanto meglio. Ma non fu il Poltergeist a rispondere, no. La voce di una ragazzina furente tanto quanto lui risuonò nella stanza ed Horus rimase perplesso qualche secondo, immobile per lo sgomento per la seconda volta in pochi attimi. Anche lei vittima di Pix? Stava quasi per annunciare la sua venuta in pace (beh, più o meno), quando la misteriosa prigioniera pensò bene di prendere—cosa?— forse uno spazzolone o una scopa e strofinargliela in faccia di tutta risposta.
« MA FERM—FER-- » Horus agitò freneticamente le braccia, voltando il viso a destra e sinistra per sfuggire alla ruvida arma, cercando con le mani di afferrare quella che ormai sapeva essere una scopa: la saggina gli sfregava guancia e labbra che dolevano per l'irritazione ed il pensiero dei germi che potevano sostare lì sopra e fargli ciaociao con le loro manine piene di malattie lo costrinsero a trattenere il respiro e chiudere la bocca. Nonostante ciò, il nervosismo che l'animava si fece così potente e frenetico che Horus, alla fine, riuscì ad afferrare il manico, stringendolo per la saggina, e lo strappò via dalle mani della ragazza con una forza bestiale, trascinandolo verso di sé. Il viso gli bruciava terribilmente.
« Molla 'sta scopa! » Esclamò indispettito, prendendo lo sventurato oggetto per le due estremità e sbattendolo con violenza sulla propria gamba, alzatasi per fornire un perno ed un appoggio per lo scopo. Nel silenzio si udì un eloquente "CRACK" e la valorosa scopa cadde a terra, spezzata a metà.
« Hai finito di cercare di ammazzarmi? Non è colpa mia se sono qui! » L'ammonì, con un tono di voce basso e ruvido. « È Pix che ci ha chiuso qui dentro, lo stavo inseguendo. » Si affrettò poi a dire, nel dubbio: metti caso che la ragazzina gli avesse lanciato contro uno straccio sporco? *Brrr.* Non aveva la minima idea di chi ci fosse lì con lui, lo sgabuzzino era buio come pece e l'unica fonte di luce era una minuscola striscia di luce che filtrava dalla porta, tuttavia non abbastanza forte per sondare le tenebre. L'odore misto di polvere e muffa gli solleticava le narici e c'era un vago, pungente profumo di detersivo che si portava dietro sempre il Guardiano. Al di là di tutto, Gazza non poteva essere: oltre al puzzo di unto e chimico che l'uomo emanava, permettendo a chiunque di riconoscerlo anche a metri di distanza, l'uomo era ben lungi dall'avere una voce così femminile. Oddio il dubbio poteva comunque venire lì per lì: Horus aveva constatato, una volta, che Gazza strillava come una donnetta se spaventato (e lo aveva scoperto per caso, sbucandogli da dietro le spalle e cogliendolo di sorpresa mentre ballava con la sua gatta), ma non fino a quel punto.
« Sei una studentessa? » *Certo cretino, cos'altro potrebbe essere, una fatina?* « Ehm... che ci facevi qui? » Sforzandosi di adottare un tono cordiale, Horus cercò di analizzare la situazione, tentando di far capire alla fanciulla le sue buone intenzioni. Senza bacchetta poteva fare ben poco (quasi si vergognava ad ammettere la sua stupidità, sorvolando quindi sull'argomento Magia) e visto il minuscolo spazio vitale di cui disponevano sia lui che la sconosciuta ospite, cercare di ingaggiare battaglia non era la scelta giusta. Nonostante ciò, fidarsi è bene, non fidarsi è meglio e stando alle premesse... Per evitare di esser colpito di nuovo da qualche altro oggetto di dubbia provenienza, Horus scivolò sul lato sinistro della parete, senza avvedersi degli scatoloni ivi impilati con precario equilibrio. Bastò la punta della sua spalla a scatenare l'inferno: un minuscolo tocco e le scatole traballarono pericolosamente, cadendo una dopo l'altra con un effetto domino pazzesco. Piene di ogni cianfrusaglia possibile, una pioggia di oggetti e cartoni piombò nello stanzino.
« PorcATTENTA! » Fu tutto ciò che Horus riuscì a dire, mentre serrava gli occhi e si schiacciava sul muro, trattenendo il respiro. Si udì un gran fracasso di ferraglia, barattoli che cadevano e rotolavano sul pavimento, addirittura si udì un giocattolo Babbano per cani che risuonò con un "SQUEEEK" nella confusione; infine, un oggetto contundente (forse un libro da mezzo quintale) gli cadde sul piede. Il Tassino si morse la lingua per non imprecare dal dolore, maledicendosi con ancor più intensità di quando correva dietro a Pix, ma ben lungi dall'informare la sua ospite —se era ancora viva— di esser lui l'artefice di quel marasma. Il terremoto si arrestò dopo aver fatto un tale baccano che Horus, sopravvissuto all'alluce distrutto, riuscì solo a pigolare un: « S-sei viva? » In direzione ignota. Visto il poco spazio che evidentemente li ospitava, quante probabilità c'erano che la sua unica compagnia fosse stata travolta? Come se non bastasse, la caduta degli scatoloni aveva alzato un tale polverone che il naso cominciò a pizzicare con ancor più intensità ed Horus fu costretto a portarsi una mano alla bocca per cercare di filtrare l'aria. Un vago senso di panico lo colse al pensiero di aver ammazzato la misteriosa studentessa. Come gliel'avrebbe spiegato alla Preside, SE fosse uscito di lì?
“Sekhmeth, com'è morta la ragazza? Magia Oscura? Suicidio? Voldemort? Gazza ubriaco?”
“La valanga l'ha sommersa.”
“Ma valanga di cosa?”
“... carabattole sonore”.
Non proprio una morte dignitosa, ecco. Certo, poteva impiccarsi con la cravatta, al limite.

*Ah, questo sì che è dignitoso.*

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Il tempo del giochi e dell'audacia era terminato sulla scia del suono riprodotto dal manico di scopa nel momento in cui la sua lignea vita ebbe a spezzarsi. Il sonoro crack, inframmezzato dalla voce di qualcuno che non era decisamente Gazza, produsse una sensazione di allerta nell'animo di Nieve tale da avvinghiarle il cuore. Come per magia, parte del suo impavido ardimento sparì e sul suo essere calò un velo di densa preoccupazione che la costrinse ad arretrare fino ad appiattire il corpo contro la parete retrostante. Era stata incauta a rivelare la sua presenza, si rimproverò mentalmente, mentre l'intervallo tra un respiro ed un altro si faceva a poco a poco più breve sulla scorta di un pericolo che non si era aspettata di dover fronteggiare. Era talmente annichilita da quello sfoggio di intemperanza altrui che impiegò qualche istante a registrare le parole dello sconosciuto, sicché la pausa che seguì quelle brevi spiegazioni fu più lunga del previsto. Poteva credergli? Pix era certamente un mascalzone e Nieve sapeva di essere stata fortunata a non averlo ancora incrociato lungo il cammino, non in condizioni che potessero offrire al poltergeist l'opportunità di vittimizzarla coi suoi dispetti. Ma non era forse una scusa troppo comoda da usare, considerata la situazione in cui si trovavano? Con cipiglio severo, Nieve recuperò il controllo di cui l'imprevista imboscata l'aveva privata, i sensi vigili per captare qualsiasi rumore nella speranza di avere la protezza di affrontarne le implicazioni.

«Sono un Prefetto,» disse, la voce bassa e vibrante nella densa oscurità che l'attorniava. Si era presa un po' di tempo per riflettere sulla risposta da dare al ragazzo, vagliando perfino l'ipotesi del silenzio, finché non si era costretta a prendere una decisione. Esplicitare quale fosse il ruolo che ricopriva all'interno della compagine scolastica aveva dei vantaggi e, insieme, degli svantaggi: per un verso, implicava che, qualunque cosa fosse successa, la sua assenza sarebbe stata notata, sottolineando quel briciolo di autorità che veniva con la carica; per un altro, la esponeva al biasimo di rivelare la realtà della sua condizione. Avrebbe potuto mentire, certo, ma Nieve detestava gli inganni al punto da non aver neppure vagliato quell'opportunità. Del resto, i particolari della vicenda di cui era stata unica protagonista fino a pochi istanti prima le consentivano di sfruttare la sua posizione per comprendere le ragioni del ragazzo, chiunque egli fosse. «Gazza mi ha messo in punizione per avergli rifilato una crostatina canarina andata a male.» Nonostante la tensione, le costò uno sforzo di serietà inaudito modulare la sua voce perché risultasse così grave e seria, ripensando alla trasformazione subita dall'uomo. «Dovresti averlo incontrato fuori dalla porta, visto che stava di guardia per accertarsi che non me la svignassi...»

Il tono che usò fu rivelatore del sospetto che l'animava, ma si librò nell'aria giusto il tempo di essere travolto da una slavina di oggetti non meglio identificati. Nieve, che aveva compiuto un paio di passi in avanti con le movenze silenziose di un felino, subì la medesima sorte proprio mentre tentava di appiattirsi contro la parete opposta a quella occupata dal giovane. Avendo avuto tempo e modo di studiare lo sgabuzzino per sincerarsi della mole di lavoro che l'attendeva, non le fu difficile comprendere cosa fosse accaduto, mentre il mappamondo incantato in cima agli scatoloni le colpiva una spalla, strappandole un grugnito di dolore. Udì a stento le parole del ragazzo, vittima com'era della furia cieca che minacciava di prendere possesso del suo animo; le gote assunsero un colorito appena più roseo, ma nessuno (lei compresa) avrebbe potuto notarlo nel buio circostante. Non poteva sapere che le intenzioni del Tassorosso fossero meramente difensive, posto il colpo che gli aveva assestato col secchio, né che si fosse trattato di un incidente del tutto involontario. Nei tratti di intemperanza che assai di rado si manifestavano in lei, mosse febbrilmente le mani nel vuoto prima di chinarsi sulle ginocchia, rannicchiarsi su se stessa e portare le braccia in direzione del capo, perché potessero cingerlo e proteggerlo dalla valanga di cianfrusaglie che le stava venendo addosso. Imprecò a denti stretti in più d'un occasione.

«Sei un maledetto IDIOTA!»

Da che aveva memoria, Nieve non ricordava di essere mai stata altrettanto furente in vita sua, eccezion fatta per la partita di quidditch dell'anno precedente; e il suo corpo era così poco avvezzo a quel genere di emozione che ringraziò l'oscurità in cui era immerso lo stanzino, consapevole che avrebbe nascosto il tremore che la scuoteva lievemente dall'alto in basso. Quando l'eco dell'ultimo tonfo si era estinto e aveva compreso di essere al sicuro - non dal maniaco, bensì dalla possibilità di un colpo ulteriore -, Nieve era scattata in piedi con la prontezza di uno di quei pagliacci babbani che se ne stavano tutta la vita chiusi in una scatola, finché qualcuno non aveva la compiacenza di girare sufficientemente a lungo la piccola manovella esterna per consentirgli di prendere un po' d'aria. Probabilmente, sarebbe risultata perfino altrettanto inquietante, se Pix non si fosse preso la briga di spegnere la luce. Se ne stava, dunque, a qualche passo di distanza dal ragazzo, ritta in piedi con il corpo che doleva in punti diversi. Ad un certo punto, qualcosa di appuntito le aveva mezzo perforato il fianco destro, strappandole il mugugno più acuto della breve trafila.

«Che intenzioni hai?» La domanda fendette l'aria di un'acredine malcelata, mentre Nieve stringeva i pugni lungo i fianchi e s'imponeva di ignorare la dolenzia sparsa che le animava il corpo. «Vuoi ammazzar-»

"...ci per caso?". Avrebbe sicuramente completato quella frase, se non avesse avuto la brillante idea di muovere un passo sul suolo accidentato dell'angusto sgabuzzino. A causa della rovinosa caduta degli scatoloni, aveva intuito quale fosse la posizione del giovane e si era messa in testa di raggiungerlo per... Dirgliene o dargliene quattro, i suoi intenti non erano ancora molto chiari a riguardo. Il fato si fece beffe di lei in una maniera che avrebbe volentieri evitato: quando si accinse a muovere il primo passo, il piede destro trovò non la salda pianura del pavimento, bensì le forme arrotondate di un barattolo; nel tentativo di recuperare parte dell'equilibrio perduto, fece scattare la gamba sinistra in avanti, ma fu talmente sfortunata da beccare proprio il secchio di cui si era inizialmente servita per colpire il ragazzo. Il risultato fu che, sbilanciata in avanti, raggiunse lo sconosciuto che si era imposta di evitare cadendogli praticamente addosso, una cacofonia di metalli al seguito mentre tentava di scongiurare l'unico risvolto che non avrebbe mai preventivato. Ma, d'altra parte, glien'era forse andata una giusta, quel pomeriggio?

«Ahia!»


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Horus R. Sekhmeth Qualcosa chiaramente non quadrava nell'ammissione della ragazza, una parola tanto stonata che ad Horus ci volle qualche secondo per collegare l'accaduto. Un Prefetto (di che Casata? Vuoto assoluto) che rifilava Crostatine Canarine a Gazza doveva essere davvero molto poco furbo (o talmente creativo e depresso da desiderare un suicidio fuori dall'ordinario), pensò a a scoppio ritardato, mentre aspettava di sapere, col cuore in gola, se la suicida fosse ancora viva. *Se l'ho ammazzata, almeno le ho fatto un favore.* Si giustificò mentalmente, ponderando di utilizzare quella scusa qualora si fosse ritrovato seriamente davanti la cattedra della Bennet. Sì, forse era andata così: annoiata dalla vita, la misteriosa Prefetta aveva deciso di togliere le tende da quel mondo col botto, letteralmente.
« Sei un maledetto IDIOTA. »
*Ok, forse no.*
Si sarebbe dovuto sentire profondamente offeso da quell'epiteto sputato con tanta enfasi proprio durante la slavina di carabattole, ma ciò che accadde fu talmente imprevisto che Horus si sarebbe ritrovato a giurare, poco dopo, d'esser lui il suicida creativo. Dopo quel ruggente impulso che la ragazzina aveva sfogato su di lui fra un botto e l'altro, la Prefetta —evidentemente insoddisfatta di come "maledetto idiota" suonasse— gli vomitò addosso una (più che pertinente) domanda che faceva seguito all'ennesimo gemito di dolore che quasi risuonò come il “do” finale di un imponente concerto. Se non si fosse sentito in colpa per quella baraonda, Horus avrebbe riso meschinamente di quella cacofonica composizione di grugniti e mugugni accompagnati, con una certa artisticità, da rombi, tintinnii e fracassi vari ed eventuali di tutte le cianfrusaglie che Gazza conteneva là dentro (ma cos'era, un rigattiere?). Il pensiero andò a chi poteva esser nel corridoio adiacente alla stanza e avesse potuto udire, nel silenzio, spadellate di oggetti metallici schiantarsi su corpi non meglio identificati . A quell'immagine, Horus si premette la mano sulla bocca, stroncando sul nascere il riso che gli sarebbe potuto costare seriamente la testa. Non ci voleva una scienza per capire che quella ragazza l'avrebbe volentieri incaprettato per dargli fuoco a cose normali, figuriamoci se l'avesse sentito ridere sguaiatamente della sua disgrazia.
« No, ma verament... » Così si ritrovò a risponderle nel tentativo di mediare, cercando di anticipare l'insinuazione palese che lei gli andava rivolgendo di malagrazia, alzando le mani aperte in segno di resa come se queste potessero esser scorte dalla fanciulla. *È buio, ritardato*. Con tutte le buone intenzioni del mondo era lì, pronto a scusarsi per un bene superiore (la propria salvezza), quando, mentre terminava la frase, il fiato gli mancò ed un sonoro: “Oooouuuuuffff” fuoriuscì dalle sue labbra, insieme a tutto l'ossigeno contenuto nei suoi polmoni. Partì così l'encore della più ambita esecuzione del momento: ecco il roboante ritorno delle percussioni e dei triangoli realizzati da nientepopodimeno che da rozzi secchi e non ben identificati barattoli che, con drammatica sinfonia, accompagnarono ad arte il volo pindarico —neanche troppo figurato— della ragazza che atterrò, dritta dritta, addosso ad Horus. Gli caracollò addosso con inaspettata violenza, spinta da chissà quale trampolino di lancio, giungendo nel crescendo di fracasso mentre il suo spompato tentativo di metter pace a quella rissa finiva perduto nell'aria. Per un istante Horus aveva quasi creduto che lei gli avesse tirato un cazzotto dritto nello stomaco, ma capì solo qualche istante dopo che quello che s'era ficcato nel suo stomaco non era un pugno, ma un gomito.
D'istinto indietreggiò nell'infinitesimale porzione di spazio che aveva dietro di sé, spalmandosi sul muro e sulla porta; non essendosi allontanato poi di molto, la maniglia di questa gli penetrò in un fianco, all'altezza del rene, facendogli emettere un curioso quanto grottesco gemito di dolore. Una sola mano aveva risposto all'appello dell'istinto: mentre l'altra brancolava nel buio alla ricerca di un appiglio per non andar lungo per terra (come e con quale fisica quantistica il suo metro e ottantotto si sarebbe distribuito su uno sgabuzzino di neanche due metri, non era ben chiaro), l'altra aveva cinto il corpo della ragazza, nel tentativo di ammortizzare la botta. Gli ci volle qualche istante prima di capire
realmente l'accaduto. Restò qualche momento con gli occhi inumiditi dal dolore e la prima cosa che gli fu chiara è che quello sgabuzzino fosse maledetto: era lì da neanche un minuto ed era stato aggredito con una certa furia da un secchio volante per poi dare il via a tutta una serie di colpi e botte che neanche i Bolidi gli avevano mai rifilato in anni di gioco. Ed eccole, puntuali, le fasi del dolore che si palesarono in lui. Prima fase: confusione. *Almeno non posso essere disarcionato* Seconda fase: furia omicida.
« Ma che diamine! » Si sentì in dovere di esordire, mentre la mano libera stringeva il fianco indolenzito. L'aveva inglobata quella maniglia? Poteva quasi giurare di sì. Chissà se i reni filtravano pure l'ottone. « Non l'ho fatto apposta! » Si rese subito conto di quanto infantile suonasse quell'ammissione, così cambiò il tiro, guardando un punto non ben identificato davanti a sé. « E guarda che sei tu che m'hai tirato quel coso in faccia per prima, volevo solo evitare me ne tirassi un altro. Cos'è sei una specie di sadica nascosta negli sgabuzzini che vuole ammazzare la gente sprovveduta a suon di scopettate e secchiate? » Non si premurò di nascondere l'irritazione che permeava il suo tono di voce, troppo preso dal nervosismo che accompagnava qualsiasi dolenzia. Del resto, fitte pungenti si irradiavano diffusamente per tutto il corpo e il pensiero che tutta quella bolgia fosse stata generata solo dal suo tentativo di evitarsi un altro oggetto contundente sulle gengive lo indignava. Oh insomma! Aveva iniziato lei, ecco tutto ed ora chi ne pagava lo scotto era lui, con tanto di scopettata in faccia. Si rese conto di tenere ancora la mano in quella che presumeva essere la schiena della ragazza e, incerto sull'equilibrio di lei e ben lungi dal volersela ritrovare stecchita per terra, indugiò nel toglierla. Nel frattempo l'ennesima, acuta stilettata al fianco lo portò a chiedersi qualcosa di molto più urgente: si può vivere con un rene solo?
« Gnnnn... » Fu l'eloquente risposta che si diede, curvandosi leggermente in avanti, in barba alla sua credibilità.

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Nieve Rigos
Grifondoro | Prefetto | 13 Anni Emma-Swan-once-upon-a-time-32675127-500-266 "Canarine a chi vuoi, nello sgabuzzino son mazzi tuoi"
Da bambina, per un periodo di tempo protrattosi più del dovuto, Nieve aveva desiderato entrare a far parte di una compagnia circense e girare il mondo al seguito delle piccole città itineranti di cui le era capitato di sentir parlare. Un giorno, mentre giocava con una vecchia scarpa da donna in fondo ad una via del tutto isolata, aveva udito due signore parlare dall'alto delle loro finestre: sicure della confidenza che viene col vicinato, l'una aveva raccontato all'altra di aver assistito, la sera prima, ad uno spettacolo meraviglioso presso la vicina Reykjavìk, suggerendo, infine, all'amica di fare altrettanto prima che il circo smontasse le tende in previsione dell'ennesima tappa di un percorso più o meno studiato. Lo scenario descritto dalla voce sconosciuta aveva suscitato una tale malia su Nieve che, per molti anni a venire, era stata assolutamente convinta che quello fosse il suo destino, sfoggiare, cioè, le sue abilità nascoste al servizio di un gruppo di persone che non avrebbero svilito, bensì apprezzato la sua stranezza. Se anche la maturità e il buonsenso non l'avessero spinta, col tempo, ad abbandonare un tal proposito, le recenti evoluzioni presso lo sgabuzzino delle scope avrebbero potuto suggerirle un messaggio a chiare lettere che militava verso la resa: quel mestiere, di grazia, non faceva per lei.

«Oh no!»

Quando - nell'avanzata più sgraziata in cui si fosse esibita - il suo piede riuscì a liberarsi della morsa del secchio, era già decisamente troppo tardi. Con la mano sinistra protesa in avanti nella vana speranza di evitare l'inevitabile, Nieve si arrese infine alla gravità e lasciò che le cose facessero il loro corso: dapprima solo il gomito e, poi, l'intero suo busto finirono contro il petto del ragazzo in un urto di muscoli, morbidezze e prospicienze più o meno ossute. Un mugugno di dolore raggiunse le sue orecchie e, non fosse stata troppo impegnata ad evitare di spalmarsi più di quanto già non fosse sull'addome dello sconosciuto, avrebbe gioito di quell'improvviso ribaltamento di posizioni. Fu una fortuna - forse l'unica emersa da quella situazione - che le ristrettezze dello stanzino decisero di venire loro incontro: muro e porta, nella loro salda immobilità, ressero il peso costituito dal corpo del ragazzo e dall'aggravio dato dalla spinta di Nieve, restituendo a entrambi una parvenza di equilibrio. Per una manciata di secondi, la Grifondoro non ebbe il coraggio di muoversi, perfino di respirare, mentre se ne stava con il palmo della mano sinistra premuto sul legno della porta e parte del viso che affondava sulla curva esterna della spalla dell'altro, segandole quasi uno zigomo. A proposito, quanto diavolo era alto? Un metro e un grattacielo?

«þakka góðvild!» L'esclamazione le uscì fuori in un sussurro a denti stretti, mentre tentava di capire quale parte del suo corpo fosse rimasta integra e si lasciava investire metaforicamente dalla sfuriata dell'altro. Fu il rantolo finale, con cui il ragazzo decise di porre fine alla colorita recriminazione in cui s'era appena esibito, a renderla consapevole del modo in cui gravava spiacevolmente su di lui. «Oh, scusami!»

Esercitando una decisa pressione sulla superficie della porta, Nieve si diede la spinta necessaria ad indietreggiare. Guidata dall'istinto, dunque, fece scivolare la mano destra lungo il busto del ragazzo finché non afferrò saldamente tra le dita il bavero della giacca; poco dopo, anche la sinistra fece altrettanto e la Grifondoro si impegnò a realizzare ciò che sperava potesse alleviare l'affanno dello sconosciuto. Compiendo un passo all'indietro, lo tirò a sé quel tanto che bastava a liberarlo della scomoda pressione della porta. Era, ai suoi occhi, un modo per fare ammenda.

«Meglio?» La domanda fu posta con voce sicura, una pennellata di apprensione appena percepibile nell'aspettativa di cui l'aria s'era fatta gravida. «E non sono una sadica che tira scopettate a destr-»

Avrebbe voluto terminare la frase e ribattere a tono, avrebbe voluto davvero farlo, ma non ne fu in grado. La portata e il significato delle parole che lui le aveva rivolto la colpirono a scoppio ritardato, echeggiando nella sua mente della voce stizzita del ragazzo e spingendola a rivivere ciò che era accaduto in quel breve lasso di tempo. Fu assai meno accorta del giovane e non gli usò la stessa premura. Arcuando il collo per gettare il capo leggermente all'indietro, si lasciò andare ad una risata genuina, gli occhi chiusi mentre si abbandonava all'ilarità e metteva fine (almeno dal suo punto di vista) all'alterco che li aveva visti protagonisti sin dagli esordi del loro insperato incontro. Il corpo le doleva in più punti e una porzione del suo animo ribolliva ancora dell'impeto venuto con l'ira; ma era più che sicura del fatto che entrambi avessero dato e ricevuto botte a sufficienza per quel giorno. Per una qualche ragione (il fatto che fosse così alterato, il senso di colpa per averlo malmenato a più riprese, il sesto senso tutto femminile?), era oramai quasi certa di non essere in pericolo.

«Senti,» fece col riso che ancora indugiava sulla bocca, «se non la smettiamo di darci addosso in questo modo, comincio a dubitare di uscire incolume da questo maledetto sgabuzzino. E, per quanto mi è possibile, vorrei evitare che il mio epitaffio recitasse "uccisa dalla sua indole maldestra"... O dalla tua, a pensarci bene.» Rise un poco ancora, mentre osservava un punto imprecisato appena al di sopra della linea dei suoi occhi. «Anche perché non me la sento di dare un'arma del genere a Gazza: potrebbe sfruttarla per terrorizzare i primini che, nel timore di fare la nostra stessa fine, si piegherebbero a lui.» L'immagine di Gazza con i lunghi capelli tirati all'indietro, vestito del suo miglior abito (sempre nei limiti del pessimo gusto!), che girava per i corridoi spadroneggiando sulle matricole, fu sufficiente a rendere appetibile la prospettiva di una tregua duratura. L'eco del crack con cui il ragazzo aveva spezzato il manico di scopa fece brevemente capolino nella sua mente, suggerendole una preoccupante sostituzione che le costò un involontario irrigidimento. «Propongo un armistizio.»

Con una certa apprensione, Nieve lanciò uno sguardo al punto in cui stavano le sue braccia, prima di scacciare il pensiero che l'aveva colta d'improvviso: se il giovane avesse voluto davvero farle del male, non avrebbe perso tempo ad urlarle contro. Rincuorata come sempre dalla salda linearità della logica, si sottrasse alla morsa del rigore e rilassò i muscoli della schiena. Fu solo in quell'istante che ebbe a percepire il tocco della mano del ragazzo che indugiava nei pressi della zona lombare. Nel trambusto che era seguito all'inciampo, le movenze di entrambi erano state sì frenetiche e il loro impegno per evitare di cadere dedito al punto che molti dei dettagli della situazione avevano finito per sfuggirle. La sorpresa la colse nelle sembianze di un tremito sottopelle che, dal punto in cui poggiavano i polpastrelli del ragazzo, risalì di prepotenza lungo la spina dorsale per estinguersi là dove le sue (di dita) stringevano ancora saldamente il tessuto della giacca. Quando era successo tutto quello? Quando il braccio di lui l'aveva cinta e quando le sue mani lo avevano arpionato a quel modo? Ma, soprattutto, perché non lo aveva ancora lasciato andare? Avvampò.

«Io sono Nieve, comunque,» sputò di getto, mentre allentava la presa sul vestiario del ragazzo con lentezza esasperante, quasi che la cautela e il suono della sua voce potessero venirle incontro e distogliere l'attenzione di lui dai movimenti che stava compiendo. Serrò gli occhi con timore e speranza in egual misura ad animare le sue mosse. «Nieve Rigos, Prefetto Grifondoro. E tu...» Indugiò un istante, chiedendosi quante fossero le possibilità di farla franca, un occhio chiuso e l'altro aperto come se, nonostante il buio, potesse prendere le misure e assicurarsi la vittoria. «... sareeeeesti... Chi?»

Qualcosa doveva averle necessariamente colpito il cranio, durante la slavina di oggetti non meglio identificati, per causarle una tale deficienza sotto il profilo linguistico.


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Horus R. Sekhmeth Quando giunse la risata di lei, Horus stava ancora trattenendo il respiro. Nel momento di stasi che l’aveva preceduta, quando ancora l’eco delle sue parole rimasero sospese, Horus aveva temuto che la misteriosa fanciulla gli avrebbe tirato una craniata sulle gengive. Sì, lui l’aveva indubbiamente dipinta come una folle manesca e non aveva perso troppo tempo —incalzato dalla velocità con cui si erano susseguiti gli eventi— a domandarsi se, in effetti, la reazione di lei potesse davvero avere ragione di esistere. Ma quando lei rise, anziché lasciare che la permalosità rovinasse tutto, l’aria trattenuta scivolò lenta ed Horus sospirò di sollievo, lieto di quell’inaspettato e piacevole risvolto. Capì subito, pur senza vedere il volto della ragazza, che quel riso fosse sincero e, di riflesso, sorrise anche lui. Era decisamente una situazione anomala e una volta ripercorsa mentalmente la cronologia di quanto accaduto, era impossibile non abbandonarsi all’evidente ridicolezza che aveva caratterizzato quell’incidente.
« Oh beh, se dalla mia o dalla tua goffaggine poco importa, quel che è chiaro è che se continuiamo così ci lasciamo le penne, qualche costola e scommetto anche… nnnh… gli organi interni. » L’iniziale tono divertito sfociò in un gemito di dolore quando, nel tentativo di muoversi, infierì sui propri lombi, ficcandosi ancora una volta il pomello della maniglia nella carne (l’istinto di sradicarla dalla serratura fu per un momento sorprendentemente intenso). Nell’angusto sgabuzzino la slavina di oggetti fu forse la cosa più deleteria che sarebbe potuta accadere: di per sé la stanza era minuscola ed ora che tre quarti di cianfrusaglie si erano riversate sul pavimento, ingombrandolo, lo spazio per muoversi era diminuito maggiormente. Certo, quando lei aveva intuito la sua scomodità e l’aveva afferrato per il bavero della divisa, Horus gliene fu grato, assecondando quei gesti e liberando la schiena dalla pressione dell’ottone. Tuttavia, per quanto si sforzasse di non muoversi per non rischiare altre valanghe accidentali o di ammazzare, nel tentativo, sia lei che lui, Horus finiva sempre per fare qualche danno. Non era colpa sua, in fondo, se era un povero cristo incastrato in un luogo molto più piccolo di lui. Si ricordò quando Nofret si era ficcata in un vasetto molto più piccolo di lei e non era più riuscita ad uscire se non con un Waddiwasi, provocando risa incontrollabili nel ragazzo. *È la vendetta di quella felina rancorosa*. Sarebbe servito un Waddiwasi pure per lui? E fu anche un bene che non fosse claustrofobico —*Giusto quello mi ci manca, per essere un disgraziato completo.*—!
Si rese conto di non aver ancora dato una risposta alla ragazza e si affrettò a farlo; in un primo momento annuì, salvo poi ricordarsi che lei non avrebbe visto un accidente.

« Ci sto. In fondo siamo entrambi due sfigati rimasti chiusi non per nostra volontà. » Convenne, sottolineando quel punto con una lieve inflessione della voce, tendendo però le orecchie nel tentativo di captare qualche movimento oltre l’uscio. Silenzio assoluto: se da una parte si sentiva sollevato che nessuno avesse udito il gran marasma che aveva provocato (e perciò che nessuno sapesse della loro situazione), dall’altra un moto di preoccupazione lo investì come una folata di vento gelido: come diamine sarebbero riusciti ad uscire da lì? Mentre progettava come e in quanti modi potesse buttare giù la porta con un calcio o una spallata —*Perché tanto sono in piena forma, posso permettermi di giocarmi pure una scapola, così poi ci gioco a shangai*—, venne interrotto da un movimento inconsulto della ragazza. La sentì irrigidirsi e poi rabbrividire e, d’istinto, Horus scostò la mano che ancora sosteneva il suo corpo. Lì per lì, accortosi di star ancora titubando sulla sua schiena, gli venne da scusarsi per quel contatto non richiesto ma temette che, mancato il sostegno, la ragazza sarebbe capitombolata a terra (e chi l’avrebbe spiegato poi che era stato perché l’aveva mollata là per eccessivo scrupolo?). E a ben pensarci mettere il piede in un secchio (o inciamparci, questo Horus ancora non l’aveva capito) poteva rappresentare un serio rischio di morte, altro che Signore Oscuro ed incanti mortali: non erano gli incidenti domestici quelli con il più alto tasso di morti o feriti? Una volta, aveva sentito di un tizio con una mano ficcata in un bollitore che poi s’era dato in faccia quando aveva tentato di ammazzare una mosca che gli si era posata sul naso. Trauma cranico e tanti cari saluti alla propria memoria. « Sei sicura di stare bene? Non ti sento molto stabile. » <l>Le disse, invece, con accoratezza, percependo le sue dita avvolte (o arpionate?) alla stoffa della giacca che a poco a poco lasciavano la presa; Horus sentì la lieve tensione del tessuto venir rilasciata un po’ per volta. La mano, che aveva discostato in precedenza dalla schiena di Nieve Rigos —svelata l’identità!—, indugiò a mezzaria, pronta ad afferrare nuovamente la fanciulla al minimo segno (o grido).
Alla domanda, tuttavia, Horus tentennò: avrebbe voluto rispondere “sono solo uno sfigato qualunque” non per eccessiva riservatezza, ma per pura vergogna. Sì, d’accordo, lei era un Prefetto e aveva rifilato a Gazza delle crostate canarine, quindi mostro d’astuzia non era stata nemmeno lei. Ma lui era un Caposcuola, santo cielo, s’era fatto infinocchiare da Pix come una matricola qualunque quando, a logica, avrebbe dovuto risolverle quelle situazioni. Sviare, in ogni caso, non avrebbe avuto senso. La spilla che troneggiava tronfia sul suo petto —che mai come in quel momento avrebbe volentieri strappato dalla divisa e ficcato in una tasca— avrebbe dichiarato a gran voce la sua identità.
« Ioooo... » Esordì in quel momento, indeciso sul da farsi per poi arrendersi con un sospiro. « Sono Horus… Sekhmeth. Il Caposcuola Tassorosso. » Abbassò di mezzo tono la voce, evitando così di urlare ai quattro venti che quel gran fesso di Sekhmeth s’era ficcato in quel pasticcio. « E sono un gran deficiente. » *Evviva la sincerità* « Pix mi ha fregato la bacchetta mentre… dormivo in una classe vuota. E quindiii… spero tu abbia la tua, perché l’alternativa sarebbe sfondare questa porta e a giudicare da come mi ha spappolato un rene, sembra decisamente solida. »
Alla fine Horus capitombolò. Inutile narrare storielle edulcorate per descrivere in che modo rocambolesco era stato privato della fedele bacchetta. Doveva essere onesto con se stesso e con la Grifondoro: mentire a Nieve, proprio dopo il presunto armistizio, non era corretto. Fu un bene che lei non potesse vederlo perché, nell’ammettere la sua stupidità, arrossì appena. Proprio come un pivello.

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Nieve Rigos
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Nel momento in cui l'identità del ragazzo ebbe a rivelarlesi, Nieve non poté impedirsi di sbarrare gli occhi e battere prepotentemente le palpebre, come spesso accadeva quando un'emozione troppo forte la prendeva d'assalto prima che avesse il tempo di prepararsi. Oramai libere, le sue mani indugiarono a mezz'aria e la sua bocca si schiuse, completamente dimentica del dilemma che l'aveva preoccupata fino a poco prima. Non ricordava il volto del ragazzo, né poteva dire di averci mai conversato, ma era consapevole almeno di un paio di cose che lo riguardavano da vicino: in primis, le studentesse morivano tra sospiri e gridolini solo a sentirlo nominare; in secundis, pareva dotato di un'autorevolezza tale da sfociare nella minacciosità. Quante erano le probabilità che proprio lei finisse in uno stanzino con Horus Sekhmeth e gliele desse di santa ragione? Le labbra si tinsero d'ilarità in un moto spontaneo, scoprendo i denti candidi nella fitta oscurità del luogo, mentre provava ad immaginare quale reazione avrebbe avuto Emma nell'apprendere dell'accaduto.

"Dove sei stata tutto il pomeriggio? Ti ho cercata ovunque!"
"Sono rimasta chiusa in uno stanzino con Horus Sekhmeth e ci sono quasi morta, travolt-"
"ERI IN UNO STANZINO CON HORUS SEKHMETH?"
Le urla di Emma sarebbero state tali da attirare l'attenzione delle altre compagne di stanza.
"Hai capito la Rigos?" avrebbe commentato Mary, l'espressione sardonica sul bel viso dai lineamenti equilibrati.
"Non le basta più Von Kraus," avrebbe rincarato la dose Fiamma.
"EMMA!!!"
"Ero sconvolta! Stavo parlando a voce alta e... Non cambiare discorso. Voglio i dettagli."
"Ma che dettagli?! Gli ho tirato un colpo di scopa in faccia," avrebbe detto nel tentativo di smontare le fantasie galoppanti dell'amica, per rendersi conto solo alla fine di aver fatto peggio.
"Lo hai scopato?"
Mary l'avrebbe aiutata a realizzare il grossolano, sciocco, carissimo errore.
"Io muoio."
Nieve avrebbe lasciato la stanza, veloce come il vento.


Nella breve pausa che seguì le ultime parole del Caposcuola e che le servì per ponderare le circostanze della sua eventuale rivelazione circa l'accaduto, Nieve annotò mentalmente di procedere con assoluta cautela. Prese addirittura in considerazione la prospettiva di tenere per sé la cosa, finché non fosse stata costretta dagli eventi a vuotare il sacco. Sì, si disse, era la prospettiva più sana per evitare drammi e scenate di sorta. Quant'era ironico il fatto che Nieve, che aveva uno dei ragazzi più ambiti della scuola a portata di mano, non ricordasse neppure com'era fatto?

«Sekhmeth,» fece, curiosa di provare il suono di un cognome tanto particolare sulla morbidezza umettata di lingua e labbra, «la mia bacchetta ce l'ha Gazza,» confessò, la tempia destra che pulsava nel ricordare il gioco di forza che l'aveva vista, infine, cedere il bastoncino di tiglio argentato all'idiota. «Quel maledetto figlio di un troll gambizzato non solo si è fatto fregare dalla sua stessa gola, ma ha pure pensato di punirmi. Io non gliel'ho offerta, la crostatina. Ce l'avevo in mano, lui l'ha guardata con occhi languidi e io... Beh, non l'ho fermato per mera cortesia!»

Non seppe per quale ragione il racconto le fosse uscito di bocca con una tale peculiarità di dettagli. Che fosse per ricambiare la sincerità della confessione di Horus, oppure per giustificare la sua posizione sulla falsariga di ciò che aveva fatto l'altro, poco importava. Seppe solo, nel ripercorrere le vie tortuose di quel lunghissimo e denso pomeriggio, di non essere in grado di trattenersi. Per l'ennesima volta, si lasciò andare ad un riso breve, forse fuori luogo considerato il guaio in cui tutta quella storia l'aveva cacciata. Rimaneva comunque il fatto che, pur non costituendo più un pericolo l'una per l'altro, entrambi fossero reciprocamente poco d'aiuto in assenza di una bacchetta. La consapevolezza la colpì col fare impietoso d'una doccia gelata, costringendola a imitare - del tutto inconsciamente - il compagno di disgrazie. Tese l'orecchio nella speranza di udire un segno di vita, solo per andare incontro alla medesima, infida sensazione di sollievo e frustrazione insieme. Come diavolo sarebbero usciti di lì?

«Quant'era duro il secchio che ti ho tirato? Dici che abbiamo qualche speranza di sfondare la porta a secchiate?»

Non avrebbe dovuto ridere, ne era cosciente, ma, consapevole del vantaggio che le offriva il buio, si concesse il lusso di un sorriso nel pronunciare quelle domande. Se quello che aveva sentito dire su di lui era vero - che fosse, cioè, tanto bello quanto permaloso -, era rischioso per una persona vagamente indisponente e con una tendenza alla bonaria ridicolizzazione azzardarsi a tanto. L'occasione, tuttavia, era fin troppo ghiotta per lasciarsela sfuggire. Tutt'al più, si disse, le avrebbe urlato contro e lei avrebbe finto di cadere, spingendolo di nuovo sulla porta. La maniglia, infatti, pareva avere degli effetti particolarmente calmanti su di lui o, quantomeno, lo ammutoliva il giusto.

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Horus R. Sekhmeth Dopo la rivelazione della propria identità seguì un breve ma intenso silenzio. Horus fissava il punto dove presupponeva vi fosse l’ingombro della Grifondoro e fu grato della mancanza di luce poiché involontariamente si morse il labbro, nervoso e a disagio. Si aspettò una sonora risata dritta in faccia e, conscio di meritarsela, se ne restava lì, impalato come un gargoyle a fissare quello che per lui, fino a quel momento, era stato un ectoplasma composto in gran parte da ironia e da una certa propensione alla violenza. Ma la gogna, per quanto metaforica, non arrivò. Nieve registrò il suo nome, facendolo suonare sulla lingua come un ammonimento, ed Horus alzò gli occhi al soffitto. Non sapeva niente della Rigos, a dirla tutta. Non aveva mai scambiato molte parole con gli altri Prefetti non per cattiveria, quanto più perché tutti i suoi colleghi, lui compreso, gestivano egregiamente i loro compagni e raramente capitava occasione che il Caposcuola di un’altra Casata comunicasse con Prefetti diversi. L’aveva vista forse un paio di volte ed ora che il suo particolare nome gli aveva solleticato la memoria, non poteva escludere del tutto l’idea di non averla mai vista. Nonostante ciò, consapevole dei propri limiti, non poteva azzardare un riconoscimento efficace, tanto che non avrebbe mai saputo accostare il nome della ragazza ad un viso specifico. Ad aggiungersi a ciò era terribilmente strano parlare con qualcuno che gli occhi non riuscivano ad identificare. Venivano a mancare tutti i fattori basilari di un’osservazione standard, necessaria ai fini di una conoscenza fra esseri viventi, portandolo a rapportarsi con una sconosciuta nel più completo senso del termine. Non sapeva, quindi, se fuori di lì Nieve fosse andata in giro a raccontare la stupidità del Caposcuola Tassorosso, ma quando la Grifondoro gli rivelò la sua sfortuna, Horus sorrise impercettibilmente. Al di là dell’essere sulla stessa bagnarola bucata, si sentì di dare fiducia alla Prefetta. Non seppe bene perché, ma qualcosa gli disse —dalla peculiarità di dettagli che lei si premurò di raccontargli— che Nieve non l’avrebbe sputtanato a destra e manca. Ma perché aveva così a cuore l’idea che qualcuno potesse dire in giro che era stato un fesso? Nel corso di tutti quegli anni di voci sul suo conto se n’erano sentite tante, alcune lusinghiere, fin troppe, invece, decisamente infamanti, ma mai vi aveva prestato attenzione più del necessario. Allora perché, si indagò, aveva così a cuore che quell’esperienza rimanesse nel privato? Forse perché l’idea di lui che dormiva in un’aula vuota, alla mercé di chiunque potesse giungere, non gli piaceva affatto. Camille gli aveva detto che era ormai entrato nel mirino del Signore Oscuro: oltre la paranoia, era ormai chiaro che la Scuola non fosse un luogo sicuro. Non era stata lei stessa a dirgli di prestare attenzione ovunque si trovasse? *E qua torniamo a quanto io sia un idiota.* Pensò, cercando di scacciare l’inquietudine dalle proprie membra scrollando le spalle. Fu una fortuna che il racconto di Nieve si insinuò nei suoi pensieri, poiché l’effetto che ebbe il rievocare le immagini di quanto aveva udito fu davvero paradossale. Mentre la figura grottesca di un Mangiamorte abbandonava la sua vivida fantasia per tramutarsi in qualcos’altro, nella testa cominciò a galleggiargli l’immagine di un pulcino con la faccia di Gazza che prendeva a beccate il criminale. Senza volerlo, Horus prese a ridacchiare in un crescendo sempre più vigoroso, mentre il racconto di Nieve gli stimolava nella testa bucoliche immagini dell’anziano uomo che si fiondava sul Mangiamorte-Crostatina con fare rapace. Gli partì persino la colonna sonora, una di quelle arie classiche d’orchestra con una voce in sottofondo che commentava la ferocia predatoria dell’Argus Gazza. Quell’immagine per poco non gli fece andare di traverso la saliva e, premendosi una mano sullo stomaco, cercò di ricomporsi. « Credo tu sia nei guai più di me, ma se usciamo di qui giuro solennemente di Obliviarlo, così potrò dirmi perdonato per averti quasi uccisa. Ma… mi immagino Gazza e… Dei, che darei per averlo visto. O forse no, è meglio così. » Aggiunse l’ultima osservazione proprio mentre il riso andava spegnendosi ma poi l’infingardo Gazza-Pulcino ricominciò a zampettargli nella testa, le braccia piegate ad angolo e agitate in su e in giù. « Secondo me gli hai fatto un favore. » Biascicò nuovamente in un eccesso di riso, cercando di riprendere il controllo di sé. Riprese fiato, lasciando la risata spegnersi a poco a poco e per liberarsi di quelle immagini, Horus scosse il capo: il Gazza-Pulcino venne sballottato di qua e di là nella sua immaginazione finché con un acuto “piiiiiioooo” non finì fuori campo. *Sto impazzendo, non c’è dubbio.* La mano lasciò la bocca dello stomaco per massaggiarsi le guance indolenzite dall’ilarità e mentre tornava padrone di sé, l’irriverente voce di Nieve tornò a farla da padrona. Fu forse per la sua proverbiale ingenuità ed incapacità di comprendere le battute altrui che Horus non comprese la sottile ironia di quella domanda. Con sorprendente innocenza per un ragazzo di diciassette anni, fece scivolare le dita sulla nuca.
« Mmm… » Mormorò con serietà, mentre i polpastrelli sfiorarono quello che, senza alcun dubbio, era un bernoccolo che spuntava proprio laddove la latta del secchio l’aveva colpito in pieno.
« A giudicare da.. ahi… dal monte Fato che mi è spuntato sulla nuca, oserei dire che quel dannato coso è stato forgiato da quel famoso Troll gambizzato. Forse è la madre di Gazza, non so. » Ipotizzò sovrappensiero, allontanando la mano dal punto leso. Senza premurarsi di nascondere la propria preoccupazione per la loro sfortunata situazione, Horus sospirò, ruotando il viso in direzione della porta. Una sottilissima lingua di luce proveniva alla base dell’uscio, ma la feritoia era troppo stretta per infilarci una mano, figuriamoci un piede (qualcuno avrebbe notato un arto spuntare da sotto una porta?). E poi il fioco lucore che giungeva bastava a malapena per illuminare i profili delle loro scarpe. « Al di là della sua resistenza granitica, dubito che il secchio possa aiutarci. Le alternative sono due. » Spiegò, tornando a guardare (o almeno così supponeva di fare) Nieve. « O gridiamo come due disperati, consapevoli che chi verrà a tirarci fuori non ce la farà passare liscia oppure… sfondo la porta. Io dico di sfondare la porta. Perciò… scusa ma… » Allungò le mani con cautela dinanzi a sé, alla ricerca della ragazza. Trovò la testa (o era una spalla molto pelosa), e, oculatamente, presuppose la posizione della spalla dove adagiò la mano destra. « Ti devi togliere da qui. Da questa parte magari, dove non ci dovrebbe essere qualche altro secchio abbandonato pronto ad inglobarti. » Quindi con delicatezza ma con altrettanta fermezza, la condusse laddove una volta esisteva la famosa torre di ciarpame. Essendo il punto dove s’era infilato poco prima, c’era decisamente spazio per una figura più minuta della sua. « Bene. Ed ora… » Fu consapevole dell’azzardo della sua mossa, ma la disperazione era tale da spingerlo a compiere atti sconclusionati. Fece dietro front, portandosi dirimpetto alla porta e compì un passo all’indietro, occupando la precedente posizione di Nieve. Quindi, prendendo un bel respiro (era una sua impressione o l’ossigeno stava cominciando a diminuire?), caricò la gamba destra e… SBAM. Tirò un poderoso, potente calcio all’uscio che, di tutta risposta, tremò pericolosamente sotto la suola della sua scarpa. Tuttavia chi doveva aver costruito quel maledetto sgabuzzino doveva tenerci particolarmente alla sicurezza delle scope, perché il legno della porta era così robusto che per poco Horus non barcollò. Si riprese per miracolo con somma delusione dipinta sul volto imbronciato, ma, di tutta risposta, un inquietante rumore di oggetti giunse dalla parte opposta alla loro, facendolo impallidire. La vibrazione di quel colpo doveva aver smosso qualcosa: uno strofinio di stoffa, a tratti metallico (cosa cavolo era?), provenne da un punto imprecisato dello sgabuzzino e s’arrestò dopo qualche secondo di pura angoscia. Poi l’inevitabile frullo di polvere che scivolava giù da un interstizio si frappose all’inquietante silenzio, tanto che spinse Horus, col naso pizzicante, a gorgogliare un eloquente: « Oooh no… ».

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Nieve Rigos
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«Smettila di ridere, narcolettico dei miei stivali!»

Horus aveva una bella risata. Mentre ne ascoltava il suono e lo percepiva seguire il ritmo del suo racconto, Nieve si lasciò trascinare inconsapevolmente e le sue labbra si incurvarono a imitare la piega di quelle di lui. C’era un non so che di onesto, genuino e vigoroso nel modo in cui echeggiava, dapprima, nell’abbraccio della gabbia toracica, saliva poi su per la gola e, infine, sbocciava oltre la curva delle labbra; un non so che in grado di smentire la fama che voleva Horus ombroso e scontroso con chiunque non fosse stato fortunato abbastanza da conquistarne – chissà come! – le simpatie. La Rigos non avrebbe saputo dire se quello sfoggio di ilare serenità fosse dovuto alla peculiarità delle circostanze in cui entrambi si trovavano o se, più semplicemente, le dicerie sul ragazzo fossero infondate. Seppe soltanto, nel concedersi il tempo per osservare il punto in cui supponeva si trovasse il viso di lui per sorridergli nel buio, di provare per il Tassorosso un coinvolgimento che aveva la medesima, innocente genuinità. D’un tratto, tutti gli elementi che erano stati motivo d’allarme fino a pochi istanti prima (le urla tonanti con cui Horus aveva esordito, il crack del legno spezzato, l’attacco a suon di slavina) dismisero l’ombra di pericolosità per brillare di apprezzabile goffaggine. Horus Sekhmeth era, contro ogni scommessa, goffo e simpatico, e aveva una bella, grassa risata. Le avrebbero mai creduto, si chiese, se si fosse azzardata a descriverlo in quei termini, pur nell’aspetto di relatività che avrebbe intessuto il suo giudizio? Probabilmente no. Del resto, sarebbe stato altrettanto strano spiegare a se stessa per quale ragione si sentisse, adesso, così incredibilmente a suo agio in compagnia di una persona che, fino a pochi istanti prima, aveva insultato, picchiato e tentato di tramortire.

«Abbi un po’ di rispetto, insomma!»

In realtà, non v’era traccia di rimprovero nella sua voce. Gli parlò con la stessa, bonaria confidenza che avrebbe usato a un amico, trovando in cuor suo la spontaneità per sollevare la mano destra e dargli un colpo leggero sull’addome a mo’ di monito. Fu con una certa sorpresa che, poco dopo, accolse la presa di lui, dapprima attorno alla testa e dopo sulla spalla. Battendo le palpebre per registrare le informazioni sottese a quel gesto, mise insieme i pezzi giusto nel momento in cui Horus, dopo averla accostata al muro, si lanciava in un’impresa fallimentare ai danni della porta. Spalmata contro la parete, Nieve percepì distintamente le vibrazioni del solido legno, la gravosa insoddisfazione per il tentativo andato a vuoto e il rumore in fondo allo stanzino. D’istinto, si sporse in avanti per proteggere il giovane, arpionandolo con entrambi gli arti per allontanarlo dalla fonte del rumore e frapporsi tra questa e il corpo di lui.

«Maledizione,» imprecò a denti stretti e starnutì col viso rivolto in direzione opposta a quella ove si stagliava la sagoma di Horus. Infine, tacque nell’attesa che la situazione tornasse stabile. Fu in quel breve, silenzioso lasso di tempo che, con le mani che ancora indugiavano sul tessuto della giacca del ragazzo – non era sicura, in tutta onestà, di aver afferrato un braccio, il bavero o un pezzetto di stoffa da qualche altra parte dell’ampio busto – che, rivivendo la scena consumatasi pochi istanti prima, la colse il riso. «Per poco, non ti finiva come il Troll gambizzato,» fece tra una risata e uno starnuto, allontanando la mano destra da Horus per coprirsi il naso e frapporre una barriera che impedisse alla polvere di irritarla ancora. «Stai bene? Ti sei fatto male?»

Era curioso notare come, in pochi istanti, il modo in cui si approcciavano l’una all’altro fosse cambiato. Ora che l’immagine di un ragazzone tutto tremante aveva smesso di sfilare nella sua mente provocandole un accesso di risa, qualcosa in Nieve attinse al bagaglio delle emozioni per intingerne la voce nel boccale dell’apprensione. Una lacrima, venendo giù dai grandi occhi arrossati, le solcò una guancia, percorrendo la linea del volto per sospendersi in prossimità del mento. Nieve la raccolse col palmo della mano, tirando su col naso.

«Se usciamo di qui, ho bisogno del tuo permesso in qualità di Caposcuola per legare Gazza come un salame e chiuderlo qui dentro una settimana.» Il tono nasale con cui parlò la diceva lunga sul suo stato di salute. Da quanto tempo non pulivano quel maledetto sgabuzzino, perdio?! «Se lo nutrissi a suon di Crostatine Canarine, dici che potrebbe rimanerne intossicato?» Non poté fare a meno di domandarsi che aspetto avesse un uomo che avesse subito un’intossicazione da dolcetti magici. Gli effetti sarebbero stati permanenti? Sospirò, ora meno gioviale mentre prestava orecchio al silenzio vigente oltre l’uscio. «Suppongo non ci rimanga che urlare…»

Come se il precedente tentativo di Horus avesse sancito un’equa suddivisione dei compiti tra le parti, le mani di Nieve salirono per posizionarsi ai lati del volto del ragazzo, là dove stavano le orecchie. Odiava urlare, poiché andava contro ogni suo più basilare principio di ponderazione, eppure non avevano alternative. Il grido d’aiuto che le lasciò le labbra risuonò – seguito a ruota da diversi altri – nel corridoio all’esterno dello sgabuzzino e nello sgabuzzino stesso.

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Horus R. Sekhmeth Non sapeva spiegare perché, ma Nieve Rigos lo faceva ridere. Ed era completamente assurdo visto che, fino a pochi istanti prima, Horus aveva provato l’ardente desiderio di farla fuori nel modo più cruento possibile. Ancora più strano era il fatto che lui proprio non avesse la più pallida idea di che faccia la Grifondoro avesse. Era bella? Brutta? Bassa? Alta? No alta decisamente no. Assomigliava a qualcuno? Bionda, mora, rossa, blu, a pois, a righe? Ridendo ancor più sonoramente al suo inveire, Horus si era reso conto di quanto fosse ininfluente l’aspetto di una persona ai fini di una vera, reale impressione. C’erano aspetti nel fisico altrui che generalmente tendevano ad attrarre o respingere un individuo, poiché la Vista era forse il senso più sopravvalutato e meccanico che l’essere umano possedesse. In quello sgabuzzino, però, gli occhi avevano perso la loro vitale funzione e il testimone era passato al tatto, all’udito, persino all’olfatto. Forse fu questo ad essere il senso più bistrattato in quel luogo di perdizione: in seguito al suo sprovveduto calcio alla porta, la polvere che si annidava maligna sulle travi, sdrucciolò giù come neve, ingrigendo i capelli e pizzicando fastidiosamente le narici di entrambi. Prima di rendersi conto della presa della fanciulla sulla propria veste, Horus si portò velocemente ambo le mani al viso, sopprimendo uno starnuto che gli squassò l’intera cassa toracica; in seguito rabbrividì quasi automaticamente al pensiero degli anni di sporcizia ed incuria che avevano reso quel ripostiglio meta preferita di Gazza e le sue cianfrusaglie e di chissà quanti acari e bestie orribili.
« S-sto bene, credo… » Rispose con voce lievemente nasale —e stranamente roca— alla premura di lei. Com’era buffa Nieve: un attimo prima gli aveva quasi procurato un trauma cranico con la secchiata di peltro ed ora…ora lo stava quasi strozzando tirandogli il bavero della camicia nel tentativo di non farlo cadere.
« N-Nieve, mi stai… strozzand…oh! » Senza rendersene conto aveva utilizzato il nome di battesimo di lei ed il modo in cui lui l’aveva pronunciato differiva dalla tonalità che lei gli aveva dato nel momento in cui si era presentata. Questo non fece che acuire l’impressione che la Rigos non fosse completamente inglese. Comunque, quando lei allentò la presa Horus socchiuse le labbra per un respiro profondo che fu tuttavia stroncato improvvisamente da un accumulo (tossico) di polvere. Infidi, i temibili granelli gli si infilarono letali nella trachea, grattandone la superficie come tanti piccoli aghi. Tossì, coprendosi la bocca con la mano sinistra, sentendo l’aria mancargli e gli occhi appannarsi. Com’è che si respirava, si ritrovò a pensare freneticamente in quegli istanti di panico. Serrò le labbra ed inspirò dal naso, sentendo tuttavia il familiare senso di disagio per quel luogo angusto penetrargli nelle membra. « Dei, comincio a credere che questo posto sia una sottospecie di luogo di tortura e che ci moriremo dentro. » Commentò con voce strozzata, puntando gli occhi sullo scorcio di fioca luce che penetrava dabbasso. Sentì Nieve starnutire ancora e tirar su col naso e voltò lo sguardo nella sua presunta direzione, percependo all’altezza dello stomaco un certo senso di rimorso. Avrebbe dovuto immaginare che Gazza non avrebbe certo sprecato il suo prezioso olio di gomito per pulire uno sgabuzzino: se c’era stata una slavina di oggetti, chissà cosa avrebbe potuto fare la polvere accumulata da secoli. Si frugò nella tasca dei pantaloni, estraendo un fazzoletto di stoffa, per poi allungare il braccio alla ricerca della sagoma di Nieve. Probabilmente dovette trovarne il viso, poiché, agitando appena la mano, le strusciò la stoffa praticamente sulla faccia; se non altro il fazzoletto profumava di pulito.
« Scusa! » Sghignazzò « Tieni, mettitelo sulla bocca o ci rimani secca. Se non funzionano le Canarine ad intossicarlo, sono sicuro che chiuderlo qua dentro potrebbe essere un’ottima alternativa. » Giudicò, incrociando le braccia e spostando il peso da una gamba all’altra. Da quanto tempo erano lì dentro? Non dovevano esser passati più di quindici minuti, eppure gli sembrava di esser rinchiuso in quell’anfratto dimenticato da tutti da una vita. Che alternative aveva? Frugare nel ciarpame della slavina alla ricerca di qualcosa che avesse la forma di un martello, bacchetta, ariete? Oppure ritentare, questa volta con una spallata, col rischio di starnutire pure la milza? Stava misurando quanto massiccia fosse la sua scapola in confronto al legno della porta quando la voce di Nieve ed il tocco fresco delle sue mani lo fecero sobbalzare.
« Cos… » Esclamò piuttosto ottusamente, senza collegare inizialmente il motivo per cui lei gli stava tappando le orecchie. Chiuse gli occhi ancor prima che potesse ribattere, sentendo il grido acuto attutito dalle dita della ragazza infilarsi nei timpani. D’istinto, portò le proprie mani sopra quelle di lei, isolando maggiormente l’udito da quelli che sembravano essere decibel insopportabili per qualunque essere vivente. Odiava i suoni eccessivamente acuti ed i toni di voce elevati, motivo per cui lui per primo manteneva spesso e volentieri una tonalità bassa nel parlare. Nonostante la protezione di quattro mani, però, Horus sentì Nieve gridare ancora e ancora e gli scappò un sorrisetto che mal si accostava alle circostanze. Se in un primo momento l’idea di far sapere a tutta la Scuola che era rimasto chiuso in uno sgabuzzino non lo solleticava affatto, ora s’era inevitabilmente arreso all’evidenza di non avere alternative. Così, immaginando le reazioni di coloro che avrebbero aperto la porta trovandoli così, impolverati e malridotti, proprio non riusciva a fare a meno di sghignazzare a più riprese.

E se Horus poteva contare sull’aiuto di Nieve per poter sopravvivere alle sue urla spaccatimpani, altrettanto non si poteva dire dei due disgraziati Tassorosso che per poco non ci avevano lasciato le penne nel passare dinanzi la porta. Uno dei due saltò sul posto e scappò via inciampando sulla propria veste, lasciando indietro il compagno che, invece, si era turato le orecchie con i pugni.

« Ooooohhhh ma dove vaaaaai torna quaaa!! » Aveva urlato il ragazzino al fuggitivo, salvo poi accostarsi, con timore, all’entrata del ripostiglio. « NoooON TI PREOCCUPAAAARE ORA CERCO QUALCUNOOOOO!! » Aveva gridato poi di rimando, chinandosi all’altezza della serratura e urlandoci dentro.
« CAPOSCUOLA SEEEEEEEEKHMEEEEEEEEEETHHH!!! » Se n’era andato quasi ululando ed il diminuir della sua voce mentre si allontanava dal ripostiglio sembrava più simile al sibilo del vento, che ad una ricerca d’aiuto.
Horus, che aveva allontanato le mani dalle orecchie nell’udire in lontananza altre urla che si sovrapponevano alla sonorità di Nieve, sospirò:
« Siamo fregati. »
E quasi a voler sottolineare quella fatalità, uno strano rantolo giunse dal fondo del ripostiglio.
« … Che hai fame? »

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Nieve Rigos
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«Dazie! Ba sdai danguillo che dod modiamo guì.»

La frase che giunse alle sue orecchie, restituitale dall'eco di quell'infimo, piccolo locale dimenticato da Merlino, suonò ben diversa dal "Grazie, ma sta' tranquillo che non moriamo qui" con cui aveva sperato di rassicurare l'altra presenza che aveva, in parte, allietato e, in parte, peggiorato quel pomeriggio di punizione. Nieve afferrò con una certa urgenza il fazzoletto fornitole da Horus, seguendone le indicazioni con solerzia quasi maniacale: non le era mai capitato di subire in modo tanto acuto gli effetti della polvere e ciò nonostante fosse cresciuta in condizioni igienico-sanitarie a dir poco precarie. Neppure quella volta in cui era stata rinchiusa per ore tra le mura stantie di una casupola che cadeva in pezzi, locata ai margini del quartiere più fatiscente del villaggio, il suo corpo si era ribellato con tanto vigore al lerciume di cui era circondato. Ỳma era giunta in suo soccorso col buio della sera e l'aveva trovata addormentata sul pavimento polveroso, rannicchiata su se stessa per preservare il calore corporeo e con i sentieri tracciati dalle lacrime ormai asciutti sugli zigomi pronunciati a causa della denutrizione; ma, in fondo, non le era accaduto nulla. Che diavoleria era mai quella che aleggiava sullo stanzino del primo piano per rendere l'aria sempre più insopportabile a mano a mano che i minuti scorrevano? Per un brevissimo frangente, prima di fare sfoggio delle sue capacità liriche, Nieve immaginò la (più quieta) versione del suo pomeriggio, quella che avrebbe avuto luogo se Pix non avesse costretto entrambi a condividere l'aria che residuava in quel minuscolo spazio vitale. Con un sorriso appena accennato, inspirando con ingordigia sotto la protezione del fazzoletto che profumava di buono, la Rigos convenne con se stessa di dovere un favore al poltergeist: Pix non poteva saperlo, ma, benché Horus l'avesse quasi fatta fuori - perfino a più riprese nella sua mente -, aveva trasformato la trama della sua storia in maniera piuttosto sensibile.

Le mani del ragazzo rafforzarono la presa protettiva che già Nieve aveva sperato di fornirgli, quando aveva posto le sue attorno alle orecchie di lui senza sentire il bisogno di annunciarsi. In seguito, quando si fosse trovata, linda e splendente, tra le coperta del suo letto, avrebbe ripensato alle modalità con cui si era svolto il loro incontro e avrebbe sorriso nel ripercorrere le piccole, sparse espressioni gestuali di cui si era resa protagonista: proprio Nieve, che rifuggiva il contatto fisico perfino con le persone che aveva care fintanto che non era indispensabile, aveva ceduto alle lusinghe del tatto con un perfetto sconosciuto; l'avrebbe fatta sorridere perfino più ampiamente, quando avesse scoperto quanto piacente fosse Horus al di là della barriera di oscurità che le impediva di apprezzarne la virile, eppure delicata bellezza che si acuiva nel contrasto dei colori. In quel preciso istante, tuttavia, la medesima fortuna non ebbe a graziare i due giovani Tassorosso che si trovavano a passare di lì, sprovvisti di protezione alcuna e del tutto impreparati. L'urlo penetrante di Nieve raggiunse il proprio scopo, attirando l'attenzione dei soli che potessero salvarli dalla situazione penosa in cui si erano involontariamente cacciati entrambi.


«Santa zuppa!» L'esclamazione di giubilo le uscì di bocca con un entusiasmo che sarebbe morto di lì a breve. Mentre allontanava entrambe le mani dalle orecchie di Horus e teneva il fazzoletto stretto tra le dita della sinistra, il sorriso che le aveva inclinato le labbra fu costretto a spegnersi nel realizzare cosa stesse accadendo. «No, no, no, no, no. Fermati!!!» Poggiò le mani sulle spalle larghe del giovane, scuotendolo appena come a volerlo incalzare. Non poteva starsene lì, impalato e zitto. «Horus è qui... Diglielo che sei qui!» Ma sarebbe stato inutile! La voce del presunto salvatore era già un ricordo lontano e la porta si frapponeva ancora con imponenza tra i due e la libertà. «Non posso crederci...»

Affranta, con gli occhi arrossati e l'animo frustrato, Nieve si lasciò andare ad un sospiro e chinò il capo in avanti finché la fronte non ebbe a poggiare sull'unica cosa che avesse davanti: Horus stesso. Quasi che l'atipicità della loro condizione avesse del tutto annullato le ordinarie pretese da lei stessa avanzate nel coltivare una nuova conoscenza, la giovane non si rese conto della familiarità di quel gesto. Se ne stava lì, esile e sconfitta, con le mani che ancora indugiavano sulla curva bassa del collo del giovane e il capo che premeva sul torace di lui. Non fosse stato per il rantolo proveniente da un punto indistinto alle sue spalle e per la domanda con cui Horus finì per apostrofarla, sarebbe probabilmente rimasta in quella posizione finché Gazza non si fosse ricordato di lei e della vendetta che intendeva reclamare... Sempre che non fosse stato troppo tardi! Invece, il capo di Nieve scattò verso l'alto, l'espressione accigliata mentre cercava (invano!) il viso di Horus.

«Cosa credi che abbia nello stomaco, uno Yeti?» La flebile indignazione seguita a quella domanda, tuttavia, non sopravvisse a lungo, sostituita ben presto dalla morsa del sospetto. Voltandosi parzialmente nella direzione dalla quale era provenuto quel suono, tentò di frugare nell'oscurità senza ottenere, è chiaro, alcun risultato. L'ennesimo sospiro lasciò le sue labbra, mentre richiamava alla mente ciò che ricordava di aver visto dello sgabuzzino prima che la luce venisse spenta. A parte scope, scatoloni e polvere, non aveva scorto alcuna possibile minaccia. Che, tra le cianfrusaglie riversate dal Tassorosso su di lei e sul pavimento, si fosse celato qualcosa di vitale? Le scappò una risata a mezza bocca. «Qualunque cosa tu sia,» fece con un sentimento a metà tra lo scettico e il guardingo, mentre ritirava le mani per portarle a pendere mollemente lungo i fianchi, «sappi che lui è più grosso e saporito. Ti consiglio di cominciare dal basso ed evitare la testa, se preferisci le cose tenere: quella è parecchio dura.»


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Horus R. Sekhmeth L’infantile e affranto abbraccio a cui Nieve si abbandonò lo stupì. Si irrigidì inevitabilmente, sorpreso da quel gesto intimo, tipico di un’amicizia che non poteva (ancora?) riguardare loro due, perfetti sconosciuti fino a qualche ora (era?) prima. Eppure non lo infastidì: provò un moto di empatia e non poté che constatare che vicende come quelle, in qualche modo, ti uniscono. Nieve, al di là della sua vena decisamente violenta, gli comunicava una forte simpatia e la curiosità per lei, per l’origine del suo insolito nome, fu come una ventata d’aria fresca che lo spingeva a voler scoprire il suo volto e aumentava il bisogno di uscire. Chi era il Prefetto Grifondoro che l’aveva quasi ucciso solo perché aveva urlato e che ora abbandonava la testa sul suo petto con tanta arrendevolezza, esponendosi con tanta semplicità?
Nel buio dello sgabuzzino, sorpreso per quella
fiducia, Horus ne sorrise. Rilassò i muscoli e la mano sinistra cercò il capo di lei, carezzandole i capelli con fare fraterno. Erano morbidi e lievemente profumati, sottili, ma folti. Di che colore erano? Era un contatto curioso, quello: stava volutamente accarezzando la testa di qualcuno di cui ignorava tutto al di fuori del nome come se fosse la cosa più naturale del mondo.
« Ti farò uscire da qui te lo prometto. » Le disse con voce roca, pur non avendo la minima idea di cosa fare. Nonostante ciò stava quasi cominciando a sentire un certo ottimismo pervaderlo come un raggio di sole nella rigidità infernale, quando l’orribile consapevolezza che lo sconosciuto rumore non provenisse dallo stomaco di Nieve, ma da una fonte altrettanto enigmatica, lo incenerì. Con un vago senso di panico a risorgere dalle ceneri di quell’ottimsmo, Horus deglutì.
« Come no? » Le chiese incredulo, guardando fisso un punto dinanzi a lui. Il rantolo stava raggiungendo un crescendo molesto alle sue orecchie e, agitato, Horus si guardò intorno nell’inutile speranza di poter scorgere qualcosa. Cosa si poteva nascondere in un ripostiglio chiuso? Dei Nargilli, dei pipistrelli, persino un Molliccio. *Un germe gigante.* Qualunque cosa fosse, senza bacchetta era praticamente nudo. *Beh non proprio…* La mano, abbandonando il capo di Nieve, sfiorò il petto, stringendo fra le dita la morbida stoffa della camicia. Aveva Hagalaz, gli disse una vocina, ma il pensiero di fare di Nieve uno spiedino non l’allettava particolarmente. A quel punto l’idea di sfondare a pedate la porta non era poi un’opzione così bizzarra. In primo luogo, però, doveva calmare l’ansia che saliva vivida a stringergli lo stomaco. Per nulla desideroso di voler scoprire cosa si celasse con loro e volendo attribuire il rumore alla propria suggestione che attecchiva nel terreno fertile quale era la mente della Rigos in quel momento, Horus scrollò le spalle.
« Forse è solo un altro…. EHI! » Esclamò improvvisamente a metà fra il riso e l’offesa, dimentico per un momento di quel buon proposito. « Coso, non so se ti conviene mangiare prima me, dopo aver mangiato questa qui ti converrebbe un digestivo contro l’acidità di stomaco! » La canzonò per ripicca, portando le mani ai fianchi e voltandosi verso l’ignota fonte come se “il mostro” fosse realmente lì, seduto a cavalcioni su una mensola polverosa con la bava alla bocca e col bavaglino al collo. Rise seguendo l’eco di lei, divertito prima che inquietato dalla situazione sempre più assurda che li vedeva come protagonisti (dubitò che se ne sarebbe mai dimenticato), ma quando qualcosa gli palpò palesemente il sedere, Horus non rise più.
« HOLY CRAP!*» Spaventato da quell’improvviso risvolto, non s’avvide di aver dimenticato l’inglese e, sobbalzando vistosamente e voltando immediatamente la schiena verso il muro (verso un punto sicuro), spalancò gli occhi nel buio. « Nieve ti prego dimmi che me l’hai pizzicate te le chiappe, giuro non m’arrabbio, ma dimmi che sei stata te e… » Con un’evidente nota isterica nella voce, Horus indietreggiò per quel poco che gli era concesso, arrestandosi bruscamente quando avvertì ciò che rimaneva del cumulo di cianfrusaglie pungergli fra le scapole. Alle sue orecchie giunse un fruscio sospetto che nulla aveva a che fare con loro e tutto con il misterioso compagno di sgabuzzino che tanto Horus aveva negato.
Immersi nell’oscurità da indefinito tempo, i sensi s’erano ormai acutizzati per far fronte alla mancanza della vista e quindi non solo quel brusio risuonò sorprendentemente tonante, ma Horus riuscì a percepire anche un vago odore di… fritto. E sugo. Ciò che però il Tassorosso non poté vedere fu l’arcana presenza che, non avendo più sostegno delle sue chiappe, era giunta ad avviluppare una gamba della Grifondoro.

« N-Nieve? » La voce di Horus risuonò in un bisbiglio angosciato e nella testa orribili figure lovecraftiane prendevano vita nella sua vivida immaginazione. Non era mai stato un ragazzo facilmente impressionabile: la Logica correva sempre in suo soccorso ogni qualvolta il timore irrazionale giungeva ad angustiarlo. Ma l’assurda situazione che stavano vivendo, la consapevolezza di essere completamente disarmato e quelle due dita fredde che gli avevano pizzicato le natiche stavano seriamente minando la sua integrità mentale.
*Ora urlo come una donnetta.*


In fondo al corridoio, ancora lontani dall’udito di quei due poveri disgraziati imprigionati, giungevano rumori di passi e strambi pigolii gorgolianti.

❝Anger is one letter short of Danger❞SCHEDA 17 nervous breakdown ▴ code © psìche



*= In inglese la lingua utilizzata dai Sekhmeth (che non è arabo :B).
 
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view post Posted on 17/9/2017, 15:59
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entropia.

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Nieve Rigos
Grifondoro | Prefetto | 13 Anni Emma-Swan-once-upon-a-time-32675127-500-266 "Canarine a chi vuoi, nello sgabuzzino son mazzi tuoi"
Horus aveva una capacità di mandare i timpani all'altro mondo a dir poco notevole. Da qualunque cosa dipendesse quella portentosa capacità dei suoi polmoni di espandersi (predisposizione genetica? malformazione congenita? ispirazione momentanea?), Nieve seppe soltanto sobbalzare sul posto e indietreggiare appena quando l'imprecazione isterica del giovane la travolse, costringendola a chiudere gli occhi nel buio e ad esporsi - involontariamente - più di quanto non fosse alle mani nemiche. Il cuore, che già da diverso tempo si era lanciato in un trotto sostenuto, s'imbizzarrì e prese velocità, mirando dritto alla gola della Grifondoro. Se c'era una cosa che avrebbe ricordato senz'altro in futuro nel ripensare a quel pomeriggio, era l'insolita dislocazione assunta dai suoi organi interni ad ogni nuovo, inaspettato, cruciale evento gentilmente offerto loro dallo sgabuzzino. Oltre che il dolore delle botte prese, il ronzio alle orecchie dovuto alle grida sovrumane di Horus e la rapidità con cui entrambi parevano in grado di passare dalla violenza alla tenerezza reciproche in un pizzico di natiche battito di ciglia, s'intende.

«Certo, certo. Come no!» Portò le mani ai fianchi, quasi senza rendersene conto, mentre percepiva lo spostamento del corpo di Horus e il suono metallico di un oggetto non meglio identificato rotolare appena sul pavimento. «Non solo sono un grizzly affamato dalla bocca schiumosa. Ora, sarei pure una maniaca sessua-»

Come altre volte era accaduto in quell'angusto spazio di due metri per due, le parole di Nieve non videro mai il buio la luce, trasformate in un'inspirazione sgomenta e seguite dal più grave e denso dei silenzi. Un tocco gelido e, a modo suo, carezzevole si palesò in tutta la sua inquietante consistenza: strisciava lento e quasi sinuoso sulla pelle morbida del polpaccio come un serpente che, saggiata la resistenza della preda, si arrischi a finirla di una violenza studiata e, tuttavia, per ciò solo non meno letale. Nieve sussultò, dapprima sorpresa da una carezza che non si era aspettata; poi, fu il momento della realizzazione, giacché comprese - ancora una volta in ritardo - l'origine delle accuse di Horus; infine, giunse l'istinto e portò con sé l'azione. Ne aveva abbastanza di quel posto e delle stranezze che vi abitavano dentro, almeno quant'era stanca di essere in balia dell'oscurità e dell'incapacità di trovare soluzione alcuna ai loro problemi che non consistesse nell'accusarsi a vicenda. Mentre un brivido, originando dal basso della gamba arpionata, si diramava lungo tutta la spina dorsale, Nieve prese la decisione di scagliarsi contro la porta. Non le importava di sfondarla, invero, e regalare a se stessa e al Tassorosso la libertà, benché conoscesse il potere della disperazione e la forza che si accompagnava ad esso. Desiderava soltanto colpire la creatura che le stava cingendo la gamba senza dover allungare la mano per liberarsene. Se questo avesse significato spiaccicarsi sulla superficie di legno che aveva davanti e provocarsi qualche contusione, avrebbe corso volentieri il rischio. Se, finalmente, la fortuna avesse deciso di baciarli e il trambusto generato dalla sua carica fosse riuscito ad attirare qualcuno, suggerendo l'urgenza della condizione nella quale si trovavano, ancora meglio.

Dunque, così fece. Senza alcun preavviso, consapevole del fatto che Horus fosse fuori dalla sua traiettoria, Nieve scattò in avanti e si scontrò con la salda imponenza di una porta che nemmeno quel metro e ottanta (di gnoccaggine) al suo fianco era riuscito a muovere di un centimetro. Una volta, due volte, tr... No, no, no. La terza occasione non ebbe mai modo di realizzarsi. Mentre la giovane, col viso piegato in un'espressione di risolutezza e terrore, spiccava il volo come la più squinternata delle studentesse, l'uscio si aprì e Nieve si librò in aria in un fascio di luce quasi accecante per chi, come loro, aveva vissuto nel buio più assoluto l'ultima ora. Colta alla sprovvista, ebbene, la Grifondoro non ebbe tempo e modo di cercare alcun appiglio. Si lasciò andare in avanti, presto consapevole della fine che avrebbe fatto, finché le sue membra non toccarono il suolo e scivolarono su di esso fino a raggiungere la parete che stava dirimpetto. Gazza - e tutto ciò che rimaneva dell'effetto delle crostatine canarine - era sopraggiunto nel momento decisamente meno propizio a liberarli dalla prigionia. Nieve stava, adesso, scompostamente stesa su un fianco, con le voluminose onde argentate a incorniciarle il viso contratto in un'espressione di sofferenza e gli occhi serrati per proteggersi dalla luce.

«Maledizione,» fece piano, mentre portava la mano sinistra all'altezza del viso per offrirsi un minimo riparo dal tagliente attacco della luce, il fazzoletto di Horus ancora stretto tra le dita. Con cautela, sbatté le palpebre una, due, (stavolta anche) tre volte. Il sollievo della realizzazione la colse solo in quel momento, nel pulsante dolore che avvertiva alla spalla sulla quale era atterrata e nel piacere recuperato della vista. Di scatto, volse il capo in direzione dell'ingresso dello sgabuzzino per cogliere la sagoma confusa di Gazza che stringeva tra le mani la sua bacchetta. Una sensazione sconcertante nella sua forza calò su di lei, spingendola ad alzarsi a fatica. «Tu! Maledetto, stupido, pazzo pollo!!!»

Prese ad avanzare verso di lui, furiosa.

PS: 115 | PC: 70 | PM: 69 | PE: 7
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