Horus R. Sekhmeth Dopo la rivelazione della propria identità seguì un breve ma intenso silenzio. Horus fissava il punto dove presupponeva vi fosse l’ingombro della Grifondoro e fu grato della mancanza di luce poiché involontariamente si morse il labbro, nervoso e a disagio. Si aspettò una sonora risata dritta in faccia e, conscio di meritarsela, se ne restava lì, impalato come un gargoyle a fissare quello che per lui, fino a quel momento, era stato un ectoplasma composto in gran parte da ironia e da una certa propensione alla violenza. Ma la gogna, per quanto metaforica, non arrivò. Nieve registrò il suo nome, facendolo suonare sulla lingua come un ammonimento, ed Horus alzò gli occhi al soffitto. Non sapeva niente della Rigos, a dirla tutta. Non aveva mai scambiato molte parole con gli altri Prefetti non per cattiveria, quanto più perché tutti i suoi colleghi, lui compreso, gestivano egregiamente i loro compagni e raramente capitava occasione che il Caposcuola di un’altra Casata comunicasse con Prefetti diversi. L’aveva vista forse un paio di volte ed ora che il suo particolare nome gli aveva solleticato la memoria, non poteva escludere del tutto l’idea di non averla mai vista. Nonostante ciò, consapevole dei propri limiti, non poteva azzardare un riconoscimento efficace, tanto che non avrebbe mai saputo accostare il nome della ragazza ad un viso specifico. Ad aggiungersi a ciò era terribilmente strano parlare con qualcuno che gli occhi non riuscivano ad identificare. Venivano a mancare tutti i fattori basilari di un’osservazione standard, necessaria ai fini di una conoscenza fra esseri viventi, portandolo a rapportarsi con una sconosciuta nel più completo senso del termine. Non sapeva, quindi, se fuori di lì Nieve fosse andata in giro a raccontare la stupidità del Caposcuola Tassorosso, ma quando la Grifondoro gli rivelò la sua sfortuna, Horus sorrise impercettibilmente. Al di là dell’essere sulla stessa bagnarola bucata, si sentì di dare fiducia alla Prefetta. Non seppe bene perché, ma qualcosa gli disse —dalla peculiarità di dettagli che lei si premurò di raccontargli— che Nieve non l’avrebbe sputtanato a destra e manca. Ma perché aveva così a cuore l’idea che qualcuno potesse dire in giro che era stato un fesso? Nel corso di tutti quegli anni di voci sul suo conto se n’erano sentite tante, alcune lusinghiere, fin troppe, invece, decisamente infamanti, ma mai vi aveva prestato attenzione più del necessario. Allora perché, si indagò, aveva così a cuore che quell’esperienza rimanesse nel privato? Forse perché l’idea di lui che dormiva in un’aula vuota, alla mercé di chiunque potesse giungere, non gli piaceva affatto. Camille gli aveva detto che era ormai entrato nel mirino del Signore Oscuro: oltre la paranoia, era ormai chiaro che la Scuola non fosse un luogo sicuro. Non era stata lei stessa a dirgli di prestare attenzione ovunque si trovasse? *E qua torniamo a quanto io sia un idiota.* Pensò, cercando di scacciare l’inquietudine dalle proprie membra scrollando le spalle. Fu una fortuna che il racconto di Nieve si insinuò nei suoi pensieri, poiché l’effetto che ebbe il rievocare le immagini di quanto aveva udito fu davvero paradossale. Mentre la figura grottesca di un Mangiamorte abbandonava la sua vivida fantasia per tramutarsi in qualcos’altro, nella testa cominciò a galleggiargli l’immagine di un pulcino con la faccia di Gazza che prendeva a beccate il criminale. Senza volerlo, Horus prese a ridacchiare in un crescendo sempre più vigoroso, mentre il racconto di Nieve gli stimolava nella testa bucoliche immagini dell’anziano uomo che si fiondava sul Mangiamorte-Crostatina con fare rapace. Gli partì persino la colonna sonora, una di quelle arie classiche d’orchestra con una voce in sottofondo che commentava la ferocia predatoria dell’Argus Gazza. Quell’immagine per poco non gli fece andare di traverso la saliva e, premendosi una mano sullo stomaco, cercò di ricomporsi. « Credo tu sia nei guai più di me, ma se usciamo di qui giuro solennemente di Obliviarlo, così potrò dirmi perdonato per averti quasi uccisa. Ma… mi immagino Gazza e… Dei, che darei per averlo visto. O forse no, è meglio così. » Aggiunse l’ultima osservazione proprio mentre il riso andava spegnendosi ma poi l’infingardo Gazza-Pulcino ricominciò a zampettargli nella testa, le braccia piegate ad angolo e agitate in su e in giù. « Secondo me gli hai fatto un favore. » Biascicò nuovamente in un eccesso di riso, cercando di riprendere il controllo di sé. Riprese fiato, lasciando la risata spegnersi a poco a poco e per liberarsi di quelle immagini, Horus scosse il capo: il Gazza-Pulcino venne sballottato di qua e di là nella sua immaginazione finché con un acuto “piiiiiioooo” non finì fuori campo. *Sto impazzendo, non c’è dubbio.* La mano lasciò la bocca dello stomaco per massaggiarsi le guance indolenzite dall’ilarità e mentre tornava padrone di sé, l’irriverente voce di Nieve tornò a farla da padrona. Fu forse per la sua proverbiale ingenuità ed incapacità di comprendere le battute altrui che Horus non comprese la sottile ironia di quella domanda. Con sorprendente innocenza per un ragazzo di diciassette anni, fece scivolare le dita sulla nuca.
« Mmm… » Mormorò con serietà, mentre i polpastrelli sfiorarono quello che, senza alcun dubbio, era un bernoccolo che spuntava proprio laddove la latta del secchio l’aveva colpito in pieno.
« A giudicare da.. ahi… dal monte Fato che mi è spuntato sulla nuca, oserei dire che quel dannato coso è stato forgiato da quel famoso Troll gambizzato. Forse è la madre di Gazza, non so. » Ipotizzò sovrappensiero, allontanando la mano dal punto leso. Senza premurarsi di nascondere la propria preoccupazione per la loro sfortunata situazione, Horus sospirò, ruotando il viso in direzione della porta. Una sottilissima lingua di luce proveniva alla base dell’uscio, ma la feritoia era troppo stretta per infilarci una mano, figuriamoci un piede (qualcuno avrebbe notato un arto spuntare da sotto una porta?). E poi il fioco lucore che giungeva bastava a malapena per illuminare i profili delle loro scarpe. « Al di là della sua resistenza granitica, dubito che il secchio possa aiutarci. Le alternative sono due. » Spiegò, tornando a guardare (o almeno così supponeva di fare) Nieve. « O gridiamo come due disperati, consapevoli che chi verrà a tirarci fuori non ce la farà passare liscia oppure… sfondo la porta. Io dico di sfondare la porta. Perciò… scusa ma… » Allungò le mani con cautela dinanzi a sé, alla ricerca della ragazza. Trovò la testa (o era una spalla molto pelosa), e, oculatamente, presuppose la posizione della spalla dove adagiò la mano destra. « Ti devi togliere da qui. Da questa parte magari, dove non ci dovrebbe essere qualche altro secchio abbandonato pronto ad inglobarti. » Quindi con delicatezza ma con altrettanta fermezza, la condusse laddove una volta esisteva la famosa torre di ciarpame. Essendo il punto dove s’era infilato poco prima, c’era decisamente spazio per una figura più minuta della sua. « Bene. Ed ora… » Fu consapevole dell’azzardo della sua mossa, ma la disperazione era tale da spingerlo a compiere atti sconclusionati. Fece dietro front, portandosi dirimpetto alla porta e compì un passo all’indietro, occupando la precedente posizione di Nieve. Quindi, prendendo un bel respiro (era una sua impressione o l’ossigeno stava cominciando a diminuire?), caricò la gamba destra e… SBAM. Tirò un poderoso, potente calcio all’uscio che, di tutta risposta, tremò pericolosamente sotto la suola della sua scarpa. Tuttavia chi doveva aver costruito quel maledetto sgabuzzino doveva tenerci particolarmente alla sicurezza delle scope, perché il legno della porta era così robusto che per poco Horus non barcollò. Si riprese per miracolo con somma delusione dipinta sul volto imbronciato, ma, di tutta risposta, un inquietante rumore di oggetti giunse dalla parte opposta alla loro, facendolo impallidire. La vibrazione di quel colpo doveva aver smosso qualcosa: uno strofinio di stoffa, a tratti metallico (cosa cavolo era?), provenne da un punto imprecisato dello sgabuzzino e s’arrestò dopo qualche secondo di pura angoscia. Poi l’inevitabile frullo di polvere che scivolava giù da un interstizio si frappose all’inquietante silenzio, tanto che spinse Horus, col naso pizzicante, a gorgogliare un eloquente: « Oooh no… ».
❝Anger is one letter short of Danger❞SCHEDA ▴ 17 ▴ nervous breakdown ▴ code © psìche