«Vi sono piatti talmente rari e raffinati la cui tentazione alimenterebbe la nomea di un buongustaio, anziché sminuirla» sussurrò a sua volta, accarezzandogli appena il collo con le labbra. Un contatto provocatorio, lungo appena il tempo di percepire il suo sapore, mischiato all’odore della pioggia di quella notte. «Per quanto mi riguarda, sono piuttosto esigente. Amo i gusti particolari, di tutto il resto faccio volentieri a meno». Forse, se non fossero stati sull’orlo di uno scontro o nel mezzo di una ronda, avrebbe potuto chiudere gli occhi e lasciare che il suo profumo le inebriasse i sensi, trasportata dal suono caldo e suadente della sua voce. Semplicemente abbandonarsi, come l’ultimo respiro esalato di chi apre le braccia e si lascia annegare, cullato dai flutti delle acque più profonde. Ma non era il mero soddisfacimento di un desiderio qualunque che cercava. La banalità la tediava, l’essere grigia mediocrità la infastidiva. Aveva un che di scialbo, come un piatto riscaldato. Non bastava allungare la mano per afferrarla e disdegnava a sua volta allungare la mano per afferrare il piacere facile. Insipido, insulso, frugale, inconsistente. La seduzione era un gioco più appassionante, una danza di intelletto, gesti misurati, complicità. Il poter fissare lo sguardo negli occhi dell’altro e scorgere al di là di essi qualcosa di celato, di intimo e - si - incredibilmente fragile. Allora sarebbe potuto durare anche solo un’ora o un minuto, avrebbe potuto restare solo una semplice provocazione e nulla di più, ma ne sarebbe valsa la pena.
Sempre attenta, alzò lo sguardo da sopra la spalla di Dorian. Anche lo spilungone aveva sfoderato la bacchetta. Il bagliore intermittente dei lampi lanciava riverberi di luce sul ghigno maligno dell’uomo, lasciando intravedere i lineamenti contorti in un’espressione stupida e insolente. Pensava davvero di avere qualche possibilità di vittoria contro di loro?
Il rumore di uno schiocco si andò ad aggiungere alle crepe dei fulmini nel cielo d’inchiostro e al brontolio dei tuoni sopra le loro teste. Un lampo di luce bianca passò accanto a loro, un attimo prima che i due Auror si separassero. Il teatro dello scontro aveva alzato il suo sipario. Il primo attore a meritarsi l’attenzione del palcoscenico fu Dorian. Schierato davanti a lei, lo osservò parare i colpi del proprio avversario, schegge sibilanti che fendevano la pioggia. I suoi movimenti erano rapidi e sicuri. Dorian era un professionista, lo sapeva, si fidava delle sue capacità come quelle di pochi altri. Bastarono un paio di incanti ben castati a mettere fuori gioco il nemico. Il pubblico applaudiva. Atena sorrise, fece un inchino con la testa. Era il suo turno.
Con un movimento fluido schivò alcune scintille che le passarono pericolosamente vicine, muovendosi quel tanto che bastava a schivare il loro raggio d’azione. L’avversario era piuttosto lento e la mira imprecisa, con un gesto rapido la giovane Auror si portò il braccio verso la spalla, una scoccata e la successiva luce rossa bastarono per disarmare il nemico. Il legnetto schizzò via, tintinnò sul freddo selciato, rotolò inerme sulla pietra, annegando infine in un rigagnolo d’acqua ai margini della strada. Varie emozioni si susseguirono allora sul volto dell’uomo, illuminate di volta in volta da un lampo di luce, in una lotta su chi tra di esse avrebbe vinto sull’altra. Dapprima venne la sorpresa - le sopracciglia alzate, gli occhi spalancati e la bocca aperta - ; poi fu la volta di un iroso risentimento, i muscoli divennero tesi, gli occhi socchiusi, i denti serrati; infine, la consapevolezza di essere disarmato prese il sopravvento. Le pupille si spostarono veloci vagliando le possibili vie di fuga, il labbro inferiore tremolò, e l’istinto di sopravvivenza ebbe la meglio su qualunque altra emozione. Intimorito, tentò quindi la fuga gettandosi verso un vicolo secondario, incespicando nelle vesti bagnate. «Uno schiantesimo sarebbe troppo banale, non trovi?» disse al collega, dopo essersi goduta lo spettacolo di quelle maschere alternarsi sul viso dell’avversario. Senza indugiare oltre, con un movimento esperto puntò la bacchetta contro una delle tante statue angeliche che sorvegliavano la zona. Era una statua malridotta, in alcuni punti sgretolata dal tempo e dalle intemperie, annerita dal fumo e dall’incuria. Si trovava in una posizione più alta rispetto a loro, ma abbastanza vicina da permettere la buona riuscita dell’incantesimo, se la mira del castante fosse stata precisa. E lei lo era. Il polso si mosse elegantemente disegnando un cerchio in direzione della testa marmorea, un vortice risvegliò i pensieri assopiti, perduti nelle pieghe del tempo, assoggettandone la volontà; fluidamente proseguì con una stoccata decisa verso il cuore, un colpo in grado di scuotere la fredda pietra, infondendole un alito di vita. L’angelo aprì gli occhi, le ali fremettero al tremito del primo respiro degli immobili polmoni. Ma l’incanto non era ancora concluso. Senza distogliere né lo sguardo né l’attenzione, proiettò con sicurezza la bacchetta verso il fuggitivo, come la scoccata letale di una frusta. La statua si staccò dal suo piedistallo, obbedendo prontamente al comando. Un battito d’ali e come Angelo dell’Apocalisse in quel turbinio di pioggia e lampi, fu presto sopra l’uomo. Bastò un colpo ben assestato e quello cadde a terra, privo di sensi. Compiuto il suo dovere, l'angelo tornò a vegliare dall’alto quel luogo ormai desolato e privo di qualunque compassione celeste, un alito di vento portò con sé il soffio di vita che l’aveva animato e la statua tornò ad essere rigida pietra, occhi fissi verso il vuoto. Alimento del tempo.
Atena abbassò la bacchetta, rilassando i muscoli del viso. L’ultima nota dell’orchestra era stata suonata, lo spettacolo era concluso. Lo sguardo si posò di nuovo sul collega.
In quel momento il rumore di alcuni ciottoli che rotolano attirarono la sua attenzione. I colpi poco precisi degli avversari avevano provocato buchi e crepe nei muri intorno a loro e un cornicione - dalla parte opposta a quella in cui si trovava la statua angelica - stava per crollare su di loro.