Astaroth Morgenstern |
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| La prima volta che mi è morto un gatto ero alle elementari. Non era nemmeno il nostro gatto, ma un randagio anziano che da un po’ di tempo aveva preso l’abitudine di entrare in casa e dormire sul tappeto, con grande disappunto della nostra gatta di allora, Meo. Quella notte ero stata svegliata da pianti e miagolii strazianti. Ricordo di aver provato a tapparmi le orecchie, nel tentativo di ignorare quel lamento di morte che mi faceva stare male. Ho sperimentato poche cose strazianti come il pianto angosciante di un animale vicino alla fine. Ho avuto tantissimi gatti nella mia vita, così tanti che temo di non ricordarli tutti, e non a tutti ero ugualmente legata. Ho assistito gatti malati: alcuni si sono salvati, altri no. Ma solo di recente, un paio d’anni fa, ho visto e toccato un corpo inanimato. È un’esperienza strana: c’è una sorta di curiosità malsana nei confronti della morte, che mette da parte per un istante i sentimenti e le emozioni, e spinge per essere soddisfatta. Non è toccare un cadavere l’esperienza più destabilizzante, almeno per quel che mi riguarda, bensì l’immobilità totale. Non si muove più una vibrisse, un pelo, un muscolo, ma in una maniera tale da non essere assolutamente confondibile con il sonno, per quanto profondo. È un’immobilità agghiacciante. Ieri ho perso, dopo settimane di alti e bassi, di speranze e di paure, un altro gatto. Un micio a cui ero estremamente affezionata, nonché il preferito del mio ragazzo: stava cercando, da anni, di convincere i suoi genitori a lasciarglielo portare a casa. Forse, se l’avesse fatto, Nino non sarebbe morto. Mia madre ieri aveva da fare: un suo amico è venuto a mettere le maniglie ai nuovi mobili in cucina, e a fare alcuni lavoretti. Quando ha visto che il gatto si stava agitando, mi ha chiesto di rimanere con lui. Nino ha iniziato a piangere – quel pianto – ed era irrequieto: voleva uscire. “I gatti vanno sempre via, lontani da casa, quando sentono la morte vicina”, mi ha detto l’amico di mia madre. Ed è vero: molti dei nostri gatti se ne sono andati e non sono più tornati, senza nemmeno darci la possibilità di dir loro addio. Dunque, Nino stava piangendo, stava faticando a respirare. Mi sono messa a piangere e mi sono tappata le orecchie, senza riuscire a guardare. Cosa avevo paura di vedere? Non volevo vederlo smettere di muoversi. Temevo che da un momento all’altro l’addome macilento avrebbe smesso di sollevarsi con ogni respiro. Ormai era inevitabile che succedesse: non potevo restare a guardare. Me ne sono andata continuando a piangere. E così, ho perso anche lui.
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