Cracks., Post "Il Nuovo Mondo"

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view post Posted on 3/8/2017, 15:17
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Horus R. Sekhmeth
Tassorosso ▾ Primo Piano, Aula Storia della Magia ▾ 17 QfL0uUO "Wash the poison from off my skin, show me how to be whole again."
Aveva lasciato che il dolce tocco di lei gli carezzasse la pelle fredda e non aveva risposto alla sua voce. Non subito. Si era lasciato cullare da quella rassicurazione e benché avesse provato quella stilla pungente d’irritazione, ora che l’aveva davanti, ora che la vedeva stringersi nelle spalle con tutta l’innocenza del mondo a dipingerle il viso pallido, Horus aveva sospirato. Di quel lieve nervosismo che aveva intorbidito la sua preoccupazione non c’era nient’altro che sollievo nel vederla lì. Poi l’aveva guardata a lungo, sentendo sulle proprie spalle il peso dell’evocazione di Hagalaz. La Runa taceva, come del resto aveva sempre fatto, ma il glifo ormai sbadito e difficilmente riconoscibile gli premeva sullo sterno, mozzandogli il respiro. Aveva raggiunto la consapevolezza che quell’eredità non era così malvagia, ma l’Infermeria, e colui che aleggiava in quel luogo come un fantasma, gli ricordarono sgradevolmente degli eventi che stava sforzandosi di rimuovere dalla propria memoria. Rabbrividì vistosamente.
« Non vuoi davvero saperlo… » Mormorò con voce flebile, sfiorandole una guancia con le dita graffiate. Quando avevano trovato la strada sbarrata dall’esercito spagnolo, Horus si era detto di non aver scelta. Aveva chiesto ad Emily di farsi da parte, ma una paura ancestrale gli aveva impedito di metterla al corrente del suo piano, del suo potere. Le aveva taciuto il suo piano, ma si era detto in cuor suo che lei avrebbe visto e che quello sarebbe valso più di mille parole, per quanto orribile, per quanto crudele. Si era detto che le avrebbe spiegato il motivo che l’aveva spinto, quella sera di tanti anni prima, sulle rive del Lago Nero dove lei l’aveva sorpreso addormentato. Mentre docilmente si faceva trascinare da Emily —scoprendo in lei un’autorità che quasi lo fece sorridere e gli faceva dimenticare i suoi timori—, le guardò le spalle che lei gli rivolgeva mentre la cascata di capelli rossi le ricadeva sulla schiena, agitandosi come fiamme crepitanti. In fondo, pensò guardandola, tutto era iniziato per colpa di Hagalaz, perché non parlargliene? L’avrebbe mai notata se non si fossero incontrati quella notte? L’avrebbe scrutata, studiata, cercata inconsapevolmente e poi amata, se quella sera lui non si fosse sentito tanto esausto da rifugiarsi nella calma della Natura? Qualcosa gli disse di sì, che in qualche modo lui ed Emily si sarebbero conosciuti, avrebbero intrecciato le loro vite. Non era necessario, in fondo, che lei sapesse del suo potere, pensò mordendosi un labbro distrutto. Per quanto avesse accettato Hagalaz e la sua stessa natura di assassino, fu quasi grato dell’orgoglio di lei che l’aveva spinta a spostarsi, evitandole di assistere all’ecatombe. Ora che erano distanti secoli da quell’evento, nel silenzio in cui il Castello dormiente era avvolto, l’insana voce della sua coscienza ritornava a galla e gli sussurrava: “Sei davvero sicuro di averla controllata, la Runa? Non hai ucciso? Sei sicuro di non aver mutilato come hai mutilato Eugene?”. E quando la voce pronunciò il nome di Eugene, questi gli tornò alla mente come il volto gonfio di decomposizione e dalle orbite vuote che Horus aveva visto quella notte. Questa volta il brivido che lo scosse fu violento ed il Tassino strinse la mano di Emily con forza.
« No! » Esclamò con più irruenza di quanto avesse voluto. L’eco della sua voce rimbombò sulle pareti con una forza inaspettata e per un attimo Horus credette di aver svegliato l’intero piano. Abbandonò lo sguardo da lei per posarlo alla propria destra, osservando con un’espressione sconvolta la pavimentazione di pietra del corridoio.
« No, Ly… » Ripeté con tono più basso, tremante. Per quanto desiderasse abbandonarsi semplicemente al risposo, al profumo di pulito di biancheria immacolata dopo essere scivolato in un caldo bagno, Horus arrestò il passo e impresse tutta la sua forza per rimanere immobile, impedendo alla ragazza di avanzare ancora. Non lasciò andare la mano di Emily, ma non riuscì ad alzare il viso. La terra ed il sangue che gli sporcava le vesti e la pelle assumeva ai suoi occhi una forma diversa. Centinaia di parassiti che gli camminavano sulle membra venivano assorbiti dalla carne mentre l’istinto di grattare via tutto quanto lo portava a tremare come un bambino sotto la pioggia. Chiuse gli occhi, ma nel farlo rivide la tomba violata, sentì nelle narici l’odore nauseabondo della morte e gli effluvi marcescenti del cadavere, il suo volto paonazzo, i liquami che impregnavano Eugene. Eugene che l’aveva curato, che l’aveva toccato con quelle mani lorde e l’Infermeria, il suo reame… Riaprì gli occhi, il fiato corto, consapevole del proprio atteggiamento. Guardò Emily spaesato, aggrappandosi alla sua figura, al suo profumo. Ora non era Hagalaz ciò che lo preoccupava, ma qualcosa che non aveva mai ammesso neanche a se stesso e che sentiva di dover spiegare a lei. Ma come, pensò sconvolto, irrigidendosi e sforzandosi di concentrarsi sulla Serpina. Doveva mettere sulla bilancia i suoi due più grandi terrori, scegliere quale potesse sacrificare per proteggere l’altro, ma vedendo il viso preoccupato di lei, sentendo ancora sul proprio collo la stretta delle sue mani, il dolce peso della testa di lei sul suo petto, Horus fu certo di non riuscire a nasconderle altro.
« Ascolta, io… devo parlarti. » Non avevano compiuto più di qualche metro e l’angolo vuoto dentro il quale si erano rifugiati sembrava distante miglia e miglia. Con grande sforzo, avvertendo i malevoli pensieri che strisciavano su di lui e lo avvolgevano come viscosi tentacoli, Horus si guardò intorno. In fondo al corridoio si intravedeva l’ampio pianerottolo che collegava le scale principali ai vari piani. Nei dintorni, l’unico luogo dove rifugiarsi era l’aula di Storia della Magia situata all’imbocco del corridoio del Primo Piano. « Vieni. » Le disse velocemente, cercando di riprendere il controllo e scuotersi dalla paralisi del terrore. Mentre macinava con disperazione i brevi passi che li superavano dalla grande porta scura della classe, Horus impiegava in quei gesti tutta la propria concentrazione. Un’azione fisica che avrebbe compiuto distrattamente in altri contesti, ora richiedeva uno sforzo immane poiché anche solo muovere un passo era per la sua mente distorta un rischio. Si ripeteva che andava tutto bene e ad ogni parola ripetuta le sue dita stringevano spasmodicamente quelle di Emily. Quando giunsero davanti l’aula, Horus aprì la porta e si infilò nell’aula vuota e polverosa; la luce della Luna proveniva dalle ampie finestre e rischiarava candidamente l’interno della stanza. Solo a quel punto Horus lasciò andare Emily, chiudendosi la porta alle spalle e appoggiandosi al legno, sfinito. Si portò le mani al volto, respirando piano, cercando di riordinare i pensieri. Da dove cominciare?
« Non mi sono mai piaciuti gli ospedali, né i Medimaghi, i Guaritori, tantomeno gli Infermieri. » Esordì a fatica dopo qualche breve momento di silenzio, lasciando scivolare le mani ed osservando, con sguardo vacuo, la lavagna sporca di gesso. C’erano segnate numerose date legate ad eventi che Horus non conosceva; probabilmente quella lezione apparteneva al programma del Quinto Anno.
« E… mi piace ancora di meno O’Sullivan. » Ribadì, alzando poi le iridi su di lei. Doveva dirle quello che aveva scoperto su di lui? « Lui è… sporco. » Sputò fuori quella parola come se fosse stato un grumo incastrato nella sua gola. « È contaminato, lurido, pieno di… Oh Amon. » Incapace di proseguire, chiuse gli occhi e alzò il capo. Prima di continuare, fece un profondo respiro. Tutto questo è ridicolo, pensò.
« Credo di avere un problema con… con tutto ciò che è sporco. Non la polvere, ma qualcosa di diverso… Lo so che è ridicolo! » Aggiunse con enfasi dettata dalla vergogna, sentendo l’infamia dell’imbarazzo tingergli le guance e le orecchie. La stanchezza che prima lo aveva quasi cullato in un’arrendevolezza confortante, ora si abbatteva su di lui, sbriciolando qualsiasi difesa e misero tentativo di appellarsi all’autocontrollo. « Non lo so da cosa deriva, ma lui… maneggia cadaveri emi ha curato e mi ha toccato con quelle mani, e cos’altro avrà toccato in Infermeria. Io, io non posso sopportarlo, Emily, non ce la faccio, non posso andare lì, non posso. »
Non si era mai reso conto della reale entità del suo problema. Aveva sempre considerato le sue piccole manie come dei rituali sciocchi dovuti ad un eccessivo zelo per la pulizia. Spolverava tutto, riordinava tutto, lavava le mani molto più spesso di una qualsiasi altra persona normale e si sentiva mancare in un luogo non perfettamente pulito. Molti lo prendevano in giro bonariamente per quei tratti, per quell’atteggiamento forzato, ma necessario: Camillo non si risparmiava mai qualche battutina, Mya si era divertita così tanto a prenderlo in giro che anche lui, all’epoca, aveva cominciato a prenderla a ridere. Semplicemente nesuno, lui compreso, ci aveva mai dato peso. Ma tutto era peggiorato dopo Highgate. I suoi ricordi erano ancora confusi, ma Horus non aveva dimenticato la carne viva che lui stesso aveva scavato via dal proprio collo, il ricordo degli incubi notturni fatti da bambino che lo portavano a svegliarsi pieno di ferite e tutto ciò che aveva sepolto dietro quegli apparentemente banali rituali. Sprofondò nel silenzio, incapace di dire altro, il viso trasfigurato da quei pensieri. Era bastato solamente uscire da quel recinto illusorio che si era costruito intorno, andar fuori dai rassicuranti binari delle proprie imposizioni, per mandare all’aria mesi di sforzi nel dimenticare l’accaduto. Alzò per l’ennesima volta le mani ferite al viso, nascondendo ad Emily il terrore che gli sfigurava la faccia. Avevano affrontato Ombre, soldati, Mangiamorte, Golem, Incantesimi Oscuri, ma lui aveva una paura incondizionata della sporcizia, della decomposizione. Ed ora che l’ammetteva a se stesso e ad Emily per la prima volta se ne vergognò immensamente.

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OT: Non siamo ancora in infermeria per motivi... logistici. :ihih: Ayumo ti chiedo di pazientare un pochino prima di intervenire. Ti mando io un pm, grazie mille :fru:
 
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view post Posted on 7/8/2017, 19:57
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Emily Claire Rose
Serpeverde | Ateniese | 17 4bdecbff8677197af6e526a85a177745 "Hold on to your decency, I'll make you whole and we'll be free"
Aveva compiuto pochi passi, soddisfatta; solo pochi passi eppure, esser riuscita a convincere Horus ad andare in infermeria, le aveva non solo donato una buona dose di gratificazione ma, soprattutto, la Serpina si sentiva estremamente tranquilla. Stanca quanto doveva esserlo il ragazzo che seguiva il suo debole avanzare, ferita e allo stremo delle forze, non vedeva l'ora di raggiungere le calde acque ammorbidite da bolle di sapone ed il fresco tocco del letto che profumava di lenzuola pulite. Un'unica pecca di tale desiderato ristoro riguardava il dover raggiungere per l'appunto l'Infermeria: per tutte le volte che v'era stata e v'aveva inventato strane scuse alla base delle proprie ferite, Emily si era più volte chiesta come mai O'Sullivan non l'avesse ancora bandita da quel luogo. E fu proprio il pensare a quel volto niveo contornato da soffici fiamme rosse che la Caposcuola si domandò se non fosse il caso di seguire a ruota il capriccio di Horus e curarsi con metodi meno convenzionali.
Cerca solo di ignorare le sue istigazioni ed andrà bene, si disse; ma sarebbe riuscita nel suo candido intento? Infondo, sapeva la risposta, sapeva bene che scontrarsi verbalmente con Eugene era come buttare del combustibile su fiamme già vivaci. Sentendo stringere con forza la mano che Horus le teneva, dimentica per un attimo di star dubitando proprio dell'ordine che aveva impartito,
Emily arrivò velocemente alla conclusione che, con Ra al suo fianco, sarebbe stato certamente più facile non cedere ad immaturi battibecchi e quasi si sentì confortata da tale pensiero se il Tassino non l'avesse spaventata palesando, con un'unica, irruenta olofrase, che c'aveva ripensato e no, non sarebbe andato in Infermeria - proprio ora che, lei stessa, s'era convinta ch'era la cosa più giusta.
Quando Emily si voltò a guardarlo, la fronte aggrottata nella confusione e stanchezza, non trovò il suo sguardo, proiettato invece verso la nullità della pietra umida.

Perché no?
Chiese a bassa voce, inspirando profondamente non per frustrazione ma per lo spavento che il suo improvviso urlò deciso le aveva procurato. Calmati dunque i nervi già tesi per la guerra che avevano affrontato, Emily si avvicinò di qualche passo sostenendo, stoica, la morsa in cui era chiusa la sua mano ed anzi, lei stessa strinse più forte le dita di Horus poiché aveva compreso che il ragazzo stesso vi stava trovando del conforto, si stava aggrappando a lei mentre pensieri spiacevoli tormentavano la sua mente al punto tale che per lui era difficile sostenere lo sguardo della ragazza.
Ra...
Aveva mormorato prima ch'Egli prendesse nuovamente la parola, preoccupata ed avvilita dall'incapacità di comprendere cosa affliggesse il compagno.
E finalmente, lui la guardò ed in quel momento, nell'istante in cui gli occhi cinerei del giovane incontrarono la confusione nelle iridi di lei, il peso del dispiacere arse con prepotenza all'altezza del petto e la tristezza le adombrò per un breve attimo il viso niveo. Non v'era pena nel suo sguardo, né compassione ma desiderio di comprendere da cosa fosse scaturito un tale tormento, quel malessere che torturava i suoi alti, fieri zigomi ed incorniciava il volto che tanto amava nella sevizia.
Senza aggiungere nulla, lo seguì in silenzio e mentre lui le mostrava la strada illuminata dalle poche lanterne, stringendo convulsamente la presa sulla sua mano, Emily gli portò la destra sul dorso e vi chiuse con fermezza le dita affusolate: non riusciva a vedere l'espressione che adombrava i suoi perfetti tratti ma nell'inquieto gioco di luci ed ombre che s'alternavano, la Serpina seppe che, anche in quel momento, lui si stava aggrappando a lei.
E se non fosse stata in grado di aiutarlo?
Piegando le iridi argenteo sulla presa della sua mano, la ragazza venne mossa da un naturale quanto inutile dubbio.
Cosa doveva dirle?
Cosa era successo?
E la rabbia, verso lo sconosciuto nemico, colui di cui ancora le venivano taciuti essenza e volto, prese il posto del tormento che sentiva di condividere insieme a lui. Fu proprio questo forte sentimento che la spinse ad allontanare velocemente lo scetticismo che s'era attecchito alla corteccia di una mente troppo stanca: se era capace di provare rabbia verso un obiettivo ignoto, se l'ira si impossessava di lei nel vedere Horus soffrire per un anonimo motivo, allora sarebbe stata anche in grado di combattere per lui, tentare l'impossibile per porre fine a qualsiasi tortura lui stesse subendo.
E con tale consapevolezza, con un improvviso spasmo e prepotenza, strinse forte il dorso della mano che Horus le tendeva nella loro fuga.
L'aula era più calda; il fuoco aveva forse bruciato fino a tardo pomeriggio, lasciando i carboni ardenti a spegnersi dinanzi l'arrivo della sera. La polvere, prerogativa di quella stanza, non tardò a pizzicarle le narici ed Emily, portando velocemente le mani al volto ora che Horus aveva mollato la presa per chiudere la porta alle loro spalle, soffocò tacitamente uno starnuto. Maledire gli acari fu qualcosa da cui riuscì a stento a trattenersi e difatti, alzato lo sguardo bagnato da un lieve imbarazzo, cercò Horus sperando che non si fosse accorto di quella breve, per lei fastidiosa, distrazione. Lo vide, tuttavia, portarsi le mani al volto e subito tentò d'avvicinarsi ma seppe, quasi all'istante, che non v'era nulla di più sbagliato: se lo avesse fatto, per lui sarebbe stato impossibile proseguire. Per tale motivo, stringendo le braccia al ventre, Emily rimase immobile fissando la punta dei suoi stivali logori e gli diede il tempo di trovare le giuste parole, accantonando - almeno per il momento - il forte desiderio di stringerlo a sé.

*O'Sullivan. Ovviamente.*
Pensò felice d'udire che l'antipatia verso l'infermiere non era un problema che riguardava solo lei; ma c'era di più. Le battutine di cui il giovane uomo era capace, il suo fare tranquillo ma sempre alla ricerca di una malata soddisfazione, passarono improvvisamente in secondo piano: Eugene faceva... Cosa? E solo allora, alzando lo sguardo su Horus, ritrovò il ragazzo a guardarla.
Aveva letto l'improvviso stupore che aveva illuminato il suo viso contratto dalla precedente preoccupazione?
Aveva colto il disgusto prendere lentamente il via dal modo in cui le sue labbra si piegavano e le iridi venivano strette come colpite da un'improvvisa luce?
Dovette farlo poiché passarono solo pochi attimi prima che il Tassino tornasse a coprirsi il volto come colto da una celere vergogna.
inclinato di poco il capo, Emily sciolse le braccia lasciandole scivolare lungo i fianchi graffiati e macchiati da vari, violacei lividi. Lo stupore per quanto aveva appena udito ancora colorava il granito del suo sguardo ma la rabbia, crescente, insieme al disgusto provato per quell'esile figura che, sicuramente, si trovava a pochi passi da loro, prese il sopravvento e così, non curandosi del fatto che Horus volesse ancora aggiungere qualcosa, si avvicinò velocemente a lui e stringendolo alle spalle, lo condusse a sé.

Non è ridicolo.
Gli sussurrò con la fermezza dettata dalla lucida rabbia.
Lo strinse più forte passando la sinistra tra i mossi capelli e portandogli il capo vermiglio contro la propria spalla.

Non lo è. Ognuno di noi viene tormentato da qualcosa e non v'è nulla di cui vergognarsi in ciò che tu definisci un "problema.
Credeva realmente in ciò che diceva; mai, mai aveva notato delle incontrollabili convulsioni da parte di Horus e non comprendeva il motivo per cui, improvvisamente, ciò divenisse un problema per cui provare imbarazzo o disagio. Che vi fosse dell'altro? Qualcos'altro a cui tale timore era correlato?
Ti ho visto inginocchiarti nella terra, stringermi quando i miei vestiti erano sporchi ed il mio viso era macchiato di sangue... Non è qualcosa di compulsivo. E' Eugene. E' Eugene che è malato. Che è sporco. E chiunque... Chiunque sapesse quanto sai tu e fosse stato toccato da quelle luride mani, non vorrebbe avere nulla a che fare con lui.
Non volle sottovalutare ciò che Horus provava in quel momento ma doveva dirgli ciò che realmente pensava o non gli sarebbe stata affatto d'aiuto, non sarebbe stato giusto.
Ascolta, non voglio sminuire ciò che senti dinanzi al tuo "problema" ma non voglio che tu gli dia troppa importanza e potere solo perché hai scoperto la verità di un sudicio pazzo.
E con queste ultime parole, avrebbe preso il volto di lui tra le mani cercando il suo sguardo, soffermandosi sulla voglia rossastra che tanto le piaceva per poi sorridergli dolcemente.
Lui è sporco, hai ragione, ma ciò non vuol dire che lo sia anche tu. Non c'è nulla di cui vergognarsi. Nulla che non possa esser tenuto sotto controllo. Sei la persona più forte che io abbia mai conosciuto, Ra.
Gli sussurrò carezzandogli la guancia con una mano mentre l'altra scendeva sul suo petto per stringere con veemenza la camicia sgualcita.
E Eugene... Me ne occuperò io, te lo prometto. Farò in modo che non ci sfiori nemmeno con lo sguardo.
Asserì decisa sperando, lei stessa, di non rivederlo quella sera o poco avrebbe risposto delle sue azioni.
Con quale permesso esercitava nel Castello?
"Maneggia cadaveri"; le parole di Horus le tornarono in mente ed il ribrezzo l'assalì la gola, fremente.
No, non vederlo non sarebbe bastato.
Lui doveva lasciare Hogwarts, doveva metterlo alle strette e far sì che le sue luride mani abbandonassero il Castello.
Accantonando solo per un momento l'impellente necessità di trovare un modo per allontanare O'Sullivan dalla scuola, si avvicinò ancora di più al ragazzo per poi sfiorargli la fronte con un bacio.

Fidati delle mie parole.

Fidati di me.




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Horus R. Sekhmeth
Tassorosso ▾ Primo Piano, Aula Storia della Magia ▾ 17 QfL0uUO "Wash the poison from off my skin, show me how to be whole again."
La luce della luna penetrava dalle finestre polverose e bagnava la sagoma di Emily. Le si stagliava di fronte, nonostante il divario di più di venti centimetri a separarli. I suoi grandi occhi liquidi, contornati da ciglia rosse come i capelli, lo guardavano con dolcezza e le sue labbra piene mormoravano parole che scivolavano nelle orecchie di lui ed addolcivano il suo instabile cuore. Eppure, per quanto volesse aggrapparvi a ciò che Emily gli diceva, Horus scosse il capo con veemenza, serrando gli occhi, sfuggendo lo sguardo della Serpeverde. Le viscere furono attanagliate da un senso di disagio acuto e per la prima volta Horus tentennò davanti Emily, incapace di dar voce ai propri pensieri. Si fidava di lei e anche in quel momento avrebbe voluto farlo ma qualcosa di più grande si annidava nel suo petto e risaliva alla gola. L’istinto di ficcarsi le dita nella carne, all’altezza della trachea, fu tale che le mani di lui per sfuggire a quell’ignobile impulso, s’afferrarono alle dita di Emily. Il cuore pompava vigoroso il sangue e la tachicardia di cui andava soffrendo aumentava il ritmo come un tamburo di guerra che scandiva una disfatta che costringeva il suo Ego a contorcersi su se stesso. Emily non aveva capito, ma come poteva biasimarla? Seppe, nel silenzio che calò su di loro, che avrebbe dovuto andare più a fondo in un argomento che non solo lo imbarazzava, ma che lo terrorizzava nel profondo e che aveva sfuggito nei suoi più reconditi anfratti dell’animo. Paradossale come lei avesse portato in esame qualcosa di pertinente ma che, stranamente, non lo turbava quanto concetti assai più vicini alla terra e al fango. Riaprì gli occhi a fatica, portando lo sguardo sulle proprie gambe: la divisa dell’Ars Arcana era irriconoscibile. I pantaloni bianchi erano strappati in più punti all’altezza delle cosce, rivelando graffi, ustioni da contatto ed ematomi: ormai di candido non era rimasta neanche la fibbia delle cinte che stringevano le gambe. Gli stivali di cuoio, alti fino al ginocchio, erano inzaccherati, opachi e polverosi e giacca e camicia condividevano lo stesso, sporco destino. Horus rabbrividì e in quel gesto involontario si costrinse a riportare le iridi argentee su Emily, abbandonando il contatto con le sue mani. Non sapeva come definire l’angoscia che provava, come acciuffarla per la collottola e portarla all’attenzione di lei, né sapeva come sviscerarla, come fare per rendersi lui stesso conto dell’origine di quella fobia.
« Non è la terra il punto. Non è nemmeno il sangue, per quanto sembri illogico tutto ciò.» Si costrinse a non pensare al cruore viscido e pungente che l’aveva macchiato quando aveva ucciso il Mangiamorte con Hagalaz. « Tu esuli da tutto questo. Non esiterei un istante a gettarmi nella polla più marcescente, se potessi trarti in salvo. Non ho problemi a toccare te e sei l'unica di cui mi fidi. Il punto è che… » I pensieri che gli ronzavano nella testa erano così tanti, così confusi che Horus fu costretto a tacere di nuovo nel tentativo di trovare le parole giuste. L’incapacità di trovare un filo logico, un nesso da cui partire era tale che la frustrazione lo portava a tendere i muscoli per il nervoso. Serrò la mascella e voltò il capo, osservando con sguardo vacuo i banchi disposti ordinatamente in fila. Inquadrò il suo: prima fila a sinistra, vicino la finestra. Era sbeccato in un angolo ed ogni tanto, quando la sonnolenza cominciava a giocargli un brutto scherzo, Horus carezzava le fibre del legno con l’indice in un gesto ripetitivo che lo teneva sveglio. E nel ripensare a quell’abitudine, le dita si mossero in automatico ed il ragazzo abbassò gli occhi sul proprio pollice. Senza rendersene conto e approfittando inconsciamente di ogni momento in cui le mani stavano ferme, l’unghia dell’indice scavava la carne del pollice, procurandosi una ferita piccola, ma fastidiosa. Una minuscola goccia di sangue stillava dal taglio e la sua vista lo turbò. Era un pensiero totalmente assurdo visto che in più punti, all’altezza della schiena e del petto, il sangue rappreso aveva tinto indelebilmente la stoffa.
« Non è solo Eugene. » Si costrinse a proseguire, alzando la testa verso l’alto ed appoggiando il capo alla porta, fissando il soffitto di travi.
« Non so da cosa derivi. Forse devo aver subito un trauma da bambino, ricordo un sogno, ma nulla di più. » Horus corrugò le sopracciglia, incapace di ricordare gli estremi di quell’incubo di cui possedeva solo frammenti di memoria. « Ma ho paura della decomposizione, ho paura di ciò che è invisibile e può penetrarti nella carne. Avevo imparato a gestirlo, perché sapevo di poter porre rimedio con la Magia e con l’acqua. L’ho arginato e l’ho sottovalutato. Sapevo di poter controllare e sistemare prima che qualcosa mi penetrasse nella carne e mi divorasse. » Gli costò evidente fatica pronunciare quelle che sapevano essere stupide paranoie. E nel pronunciarle, nel sentire la sua stessa voce rimbombare nell’aula vuota, Horus provò un moto di rabbia per se stesso. Sapeva, tuttavia, di aver cominciato un discorso che andava terminato e che Emily doveva comprendere quanto in realtà si celasse dietro quella che era una punta d’iceberg. Del resto, lei stessa lo aveva incoraggiato a non vergognarsi e fu per la fiducia che lei gli aveva infuso, che Horus parlò di nuovo.
« So che chiunque rimarrebbe orripilato da quel che ho visto fare a Eugene, ho visto il disgusto sul tuo viso e non ti biasimo. Ma non è questo il punto. Mi sentivo… mi sento contagiato. Come se quello che temevo mi fosse entrato dentro. Pensare che la Magia possa aiutarmi non mi tranquillizza più e talvolta provo il desiderio di strapparmi via la pelle. Pensare a lui, pensare all’Infermeria aumenta questo impulso. » Un’espressione sofferta gli deformò il viso quando, piegando il collo da un lato, mostro una porzione di pelle ad Emily. Le dita della mano sinistra si fecero largo nel colletto della camicia ed indicarono un punto all’altezza della carotide. Ad un primo sguardo, Emily non avrebbe notato nulla di strano, troppo poca era la luce che cadeva su di Horus. Ma poi, il ragazzo si spostò sotto il fascio di luce e laddove la pelle nivea veniva imbiancata dal lucore lunare, una leggera discromia apparve agli occhi di Emily se solo si fosse avvicinata. Piccole e slabbrate cicatrici solcavano il collo di Horus in verticale, così chiare da essere visibili solo ad un contatto ravvicinato. Non era difficile collegare gli sfregi alla disperazione di quella notte ad Highgate, quando, fuori controllo, Horus si era scorticato la pelle del collo nell’inutile tentativo di togliersi di dosso ciò che Eugene gli avrebbe ipoteticamente lasciato. Una sottile vena pulsava in quel punto ed Horus, a disagio, distolse lo sguardo e deglutì a fatica.
« Non è solo Eugene, Ly. Sono io. » Confessò, la fronte aggrottata e le palpebre serrate.
Diglielo Ra.
Diglielo.
« Io… » La voce gli si spezzò in gola ed Horus dovette prendere l’ennesimo, strozzato respiro. Cercò di rimuovere dalla testa le immagini che gli tornavano a galla nella mente, ricordandogli il suo errore più grande, un passo falso dettato da uno sciocco, superficiale desiderio.
Guardala.
E mosso dall’ordine silenzioso che lui stesso si era impartito, Horus aprì nuovamente gli occhi e guardò Emily. Le mani gli tremarono e ricaddero lungo i fianchi, inermi.
Guardò la curva del suo naso e delle sue labbra rosse, le guance graffiate, la pelle macchiata di terra per poi specchiarsi nei suoi occhi cristallini. Anche così, arruffata, infangata, ferita, era bellissima.

« Prima che tutto cominciasse fra me e te… ho baciato Eugene, la sera prima di assistere a quell’orrore. Prima di capire che Eugene era… è… un necrofilo. »
Ed il suono di quella confessione rimbombò grave nell’aula e lo schiacciò alla parete; gli sembrò quasi di vedere, in fondo alla stanza, il fantasma del putrido cadavere che molte notti aveva sognato di abbracciare, prima di risvegliarsi urlando madido di sudore, pieno di ferite che lui stesso si era procurato nel sonno.

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Guardami.
Guardami, Ra.
Avrebbe voluto chiedergli ma non lo fece. Per l’ennesima volta Horus aveva distolto lo sguardo, forse in preda alla vergogna per quanto la sua voce rotta si sforzava di portare alla luce. Per un istante Emily credette di avvicinarsi alla comprensione ultima; posso comprenderlo, posso immaginarlo, si disse sapendo fin da subito che ciò era lungi dall’esser vero ma, al più, era quanto avrebbe voluto. Desiderava capirlo, capire quanto tormentava il compagno senza che lui fosse costretto a raccontarlo, bramava sondare quel suo sguardo chiaro e sfuggente per comprendere ciò che lo angustiava, sviscerarlo fin nel profondo dell’infido epicentro e sconfiggerlo, pulirne la macchia che, contro le deboli forze di Lei, andava allargandosi facendo annaspare il giovane. Fu per tale motivo che, quando Horus si aggrappò alla stretta delle sue mani, Emily strinse con ancora più veemenza come a volerlo trascinare a riva, impendendo a quel putrido mare di trascinarlo nei suoi orridi abissi.
Scoprì di non riuscirci, scoprì che le parole non sarebbero bastate e che nemmeno lei, per quanto volesse salvarlo, avrebbe potuto far molto se non l’avesse lasciato proseguire e l’unica cosa in suo potere, ridotta a mera ascoltatrice, era dargli forza di continuare, fargli capire che andava bene, che sarebbe servito, che sarebbe stato – forse – un po’ più libero.
Horus abbandonò il contatto con le sue mani e mentre lasciava cadere la sinistra, debole e sconfitta, lungo il fianco martoriato e ferito, anche Emily distolse lo sguardo, deglutendo affranta poiché incapace di prendere a pugni quel dannato malessere.
Tieni duro, si disse, Tieni duro un altro po’, ascoltalo. Puoi farcela. Lui può.
Era estremamente difficile. E strano.
Non si era mai ritrovata a voler salvare qualcuno, non così. Non aveva mai condiviso un tale dolore che, per quanto sconosciuto, si insinuava familiare sotto la morbida pelle strisciando fino ai vasi sanguigni per mischiarsi al cruore e raggiungere cuore e mente. Non capiva cosa esattamente imbarazzasse e terrorizzasse a tal punto Horus ma quasi poteva toccare con mano quella condanna poiché era diventata parte di sé e non riuscendo a carpirne la provenienza o l’estremo significato, la sua mente ne risultava confusa, arrabbiata, sfinita.
Ah, il fardello dell’essere empatici in un mondo fatto di persone di cui non ci è mai importato nulla, è tra i più pesanti da sopportare. Non si è consapevoli di un tale maledetto dono fin quando non si incontra qualcuno con cui condividerne il Destino e giunti a tale punto di non ritorno, ci si rende conto che niente e nessuno ci aveva preparato a tale momento. Per tale motivo, non si sa come affrontarlo e la pena ed il dolore spartiti, risuonano con maggior forza e le loro urla di desolazione e tortura riempiono le nostre orecchie tanto da ottenebrare la Ragione e nulla, nulla possiamo fare se non assorbire tale supplizio, stringendo la mano del martire e lasciando che ci pervada per poterlo affrontare insieme.
Eppure Emily sapeva di doverne sapere di più e per tale motivo, infreddolita nella distanza che ora si era creata, piegò a sua volta il capo volgendo lo sguardo spento alla luce delle flebili fiamme che bagnavano la fredda ed umida pietra.
Per assenza di fessure da cui l’aria fresca potesse penetrare, le lingue di fuoco sembravano immobili, come assoggettate a qualche incantesimo. Contro le pareti, tuttavia, il loro fulgore tremolava, instabile, macchiando l’oscurità con un incerto ritmo. Era così che doveva sentirsi Horus, era così che appariva: forte, sicuro di sé mentre dentro di sé combatteva, silente e fiero, contro qualcosa che minava costantemente la sua compostezza tracciando ombre incerte contro la porta ove il capo era poggiato.
A quel pensiero, Emily si sentì incredibilmente orgogliosa di lui e volle stringerlo a sé, cullarlo nella rinata tranquillità del suo cuore ma si trattenne poiché la voce del giovane bagnò di nuovo il silenzio e lei rimase a fissare le fiamme che, per un solo attimo, furono scosse da rapidi quanto impercettibili movimenti oscillatori per poi tornare immobili, alte e fiere.
Avrebbe voluto gioire per quanto aveva appena sentito, prima del leggero tonfo a cui seguì una fugace occhiata e che portò Emily a scrutare il viso di Horus nella penombra mentre teneva il viso alzato ed i morbidi capelli poggiati contro il vecchio legno. Ancora una volta rimase in rispettoso silenzio senza indugiare più del dovuto sui perfetti tratti del suo volto, sulla tonalità eterea di quegli occhi che sapevano scrutarla fin nel profondo e dinanzi ai quali, col tempo, avrebbe imparato a non nascondersi, a non occultare paure e sentimenti.
Sentire nominare Eugene una seconda volta costrinse Emily a porsi, con più enfasi, il dubbio che Horus conoscesse il giovane uomo più di quanto potesse uno studente che s’intrattiene formalmente con un semplice infermiere della scuola. Cosa c’era, dunque, che le sfuggiva? Come faceva Horus a sapere i segreti di O’Sullivan? Non le era mai parso uno stolto, l’infermiere sembrava una persona molto consapevole di sé e non un incapace incauto. Le parole del Tassino la costrinsero nuovamente a prestargli attenzione ed Emily cercò di captare ogni singola informazione, qualsiasi cosa che potesse aiutarla in modo tale da riuscire ad affrontare e combattere quella sevizia.
Quando Horus tornò a rivolgersi a Lei, fu impossibile non rialzare lo sguardo su di lui. Le iridi, duro granito, reggevano un’espressione neutra poiché la Serpina non voleva che qualsiasi suo gesto o parola venisse frainteso. Era così semplice leggere erroneamente dell’orribile pena sul su un volto affranto ed Emily voleva invece mostrarsi forte, capace di far fronte a quel momento. Difatti, fu solo nell'istante in cui il ragazzo portò la sinistra al collo, indicando un lembo di pelle nivea e scoperta, che riuscì a rivolgergli nuovamente lo sguardo e a notare ciò voleva mostrarle. Lì, alla flebile luce delle candele, stagliandosi contro il candore della liscia pelle, la nebbia dei suoi occhi raggiunsero piccoli sfregi ormai guariti, squarci sottili ma abbastanza profondi da lasciare il segno. Senza rendersene conto si era avvicinata così tanto che il suo corpo avrebbe quasi potuto sfiorare quello del ragazzo. Cercò i suoi occhi ma il Tassino distolse nuovamente lo sguardo e, a fatica, Emily l’accettò poiché sempre più vicina era la comprensione.

Non è vero. Non sei tu.
Avrebbe voluto ribattere convinta più di quanto non lo fosse prima ma sapeva che v’era altro, che doveva attendere per risolvere quelle domande che la razionalità aveva posto sopraffacendo, per un attimo, le emozioni e la confusione. Sentì il bisogno di guardarlo, di fermare il suo sguardo nei propri occhi e costringerlo a solcare il suo volto perché, arrivati a quel momento, ne aveva bisogno e non poteva, nemmeno lontanamente, tentare di condurlo a riva se lui non si fosse aggrappato a lei.
Rispondendo alla tacita necessità, ritrovò il suo sguardo e l’espressione neutra che varcava le sue iridi d’argento s’indolcì. Chinando il capo, lunghe ciocche vermiglie bagnarono le guance arrossate e schiudendo le labbra, si rese conto che il suo respiro s’era fatto improvvisamente più pesante così come difficile risultava respirare.

Dillo.
E così fece.
La sorpresa non derivò dal sentire cosa v’era stato tra i due ma dalla celere consapevolezza di averlo già compreso in precedenza, quando il dubbio e la Ragione s’erano alternati in una strana danza per trovare la soluzione a quell’incomprensibile dilemma.
Non la Gelosia offuscò i suoi pensieri ma l’Ira e stringendo forte i pugni, fino a far sbiancare le nocche e sentire le unghie solcare pericolosamente i palmi, Emily abbassò lo sguardo non pensando al malinteso a cui ciò avrebbe potuto portare. Riaprì le mani per poi ripiegare le dita e riconoscere i piccoli solchi appena lasciati contro la pelle morbida.

Controllati, ordinò a se stessa.
Controllati, Claire.
Socchiudendo gli occhi, ritrovò il suo mantra, quello che spesso utilizzava per calmarsi ma che raramente funzionava. E di nuovo mosse le braccia, incrociandole al ventre e di nuovo riaprì i palmi per poi stringerli forte contro gli avambracci lasciando profondi segni di quella morsa.
Quanto avrebbe voluto raggiungere l’Infermeria e prendere quel dannato necrofilo per il camice e sfogare su di lui la sua rabbia. Aggrottando la fronte tentò di allontanare quell’immagine con tutte le sue forze ma il volto di Eugene, sovrapposto al cadavere del Mangiamorte steso in una pozza di sangue, le diede una gradevole quanto orripilante soddisfazione. Ancora una volta stava ripulendo il pavimento dal corpo e dal cruore ma non v’era pena o lacrime mai versate in quel gesto meccanico, solo compiacimento.
Una lacrima di rabbia le solcò la guancia prima che lei potesse fermarla o trattenerla e la collera era ormai visibile su quel piccolo volto costernato da efelidi. La sinistra raggiunse le gote prima che la goccia salata potesse raggiungere le labbra tormentate e la scacciò via come si fa con un insetto ostinato. Riaperti gli occhi su Horus, lo sguardo corrucciato e lucido, Emily trovò in quel tormento, in quell’odio verso Eugene e se stessa, la forza di muoversi.
Abbandonando ogni forma di razionalità o lucidità, l’istinto mosse le dita affusolate che raggiunsero i lembi della giacca di Horus costringendo il ragazzo a venirle incontro.
Con controllata decisione, raggiunse le sue spalle tenendo la logora stoffa tra le piccole mani e la spinse oltre la schiena, scoprendo in parte il suo corpo ferito. Raggiungendo le maniche per sfilare l’abito prima di gettarlo sull’insulso pavimento, Emily si soffermò sulla ferita appena nata sulle sue dita ma non fece nulla se non evitare che il logoro indumento sfiorasse il rosso sangue.
Incomprensibile nelle sue azioni, Horus lasciò che la ragazza continuasse e la Serpina non si chiese nemmeno per un istante il motivo di tale remissività nonostante potesse significare una sola cosa ed una soltanto: Horus si fidava di lei. E così, lasciando all’impulso carta bianca, Emily rispose, arrendevole, ad ogni suo richiamo, operando in suo volere.
Le piccole dita, tremanti ma paradossalmente sicure, si posarono sui bottoni della camicia e con chirurgica minuzia e lentezza, li aprì senza tentennamento alcuno. Scoperto il torace, più candido dei vestiti ridotti a meri stracci ma che conservava i traumi delle percosse da poco subite, Emily si rese conto di non aver mai visto il suo corpo, non in quel modo, e la fiamma dell’imbarazzo bruciò la sua pelle lasciandola arrossire alla luce tenue del fuoco. Eppure non si fermò. Gli occhi argentei scrutarono la pelle candida, scivolando sulle linee perfette dell’addome fino a risalire, con un’espressione curiosa e preoccupata, lungo la cicatrice che si stagliava in diagonale dal fianco alla spalla opposta.
La sinistra vi si avvicinò, nel tentativo di sfiorarne i contorni ma arrestatasi in una brusca indecisione, si ritrasse ed il viso della Serpina tornò a rilassarsi come se, improvvisamente, si fosse ricordata di quanto doveva portare a termine. Così, ora che aveva costretto Horus a sé, con le mani che sfioravano la pelle delle sue larghe spalle per spogliarlo dell’ultimo straccio, inclinava la testa da una parte o dall’altra, con innaturale lentezza per ammirare i piccoli passi della sua avanzata verso una meta non precisa.
Sapeva che era giusto; sapeva che per una situazione estrema dovevano essere utilizzati mezzi estremi ma mai, mai avrebbe immaginato di poter adottare una tale teoria, usata in battaglie e guerre, per affrontare una simile situazione.
Nemmeno per un secondo aveva alzato gli occhi su Horus, più alto di lei e più forte ma sentiva di essere osservata così come lo era lui, in ogni sua probabile incertezza o spasmo. Quando la camicia seguì lo stesso destino della logora giacca, Emily impugnò la bacchetta di Salice e finalmente alzò lo sguardo su di lui; non v’era più una traccia della precedente rabbia sui tratti dolci del proprio volto, né pena o dolore ed anzi – se solo il Tassino l’avesse guardata – avrebbe ritrovato un’innaturale tranquillità ad adombrarle il viso e una rassicurazione di cui peccava in precedenza.
Come una tacita danza, seguendo note silenziose, il legnetto ondeggiò nella penombra evocando questo o quell’incantesimo in una manciata di minuti che le sembrarono lunghi un’eternità. Con precisione e particolare attenzione ai dettagli, la punta dell’arma si posava ora su questa ferita ora su quella macchia cercando di ripulire ogni piccolo centimetro di pelle, di porre rimedio ad ogni piccolo graffio o profonda ferita, pulendo ogni incrostazione di terra e sangue e disinfettando le lacerazioni che gli occhi, attenti, intravedevano.
La bacchetta venne abbandonata sul piccolo cumulo di luridi stracci, ormai inutile, ora che il compito era terminato ed il torace, come spalle e schiena perfettamente ricurva, non conservavano nulla dello sporco e del sangue che l’aveva macchiati. Ematomi e graffi erano ancora visibili ma, grazie ai piccoli incantesimi elementari, avevano assunto una sfumatura più innocua, niente di peggio di un allenamento di Quidditch.
Un piccolo tonfo sul pavimento di pietra nuda accennò che il Salice era scivolato dalla piccola e lurida piramide, ricadendo in una piccola fessura umida e nel medesimo istante in cui il legno toccava la superficie, Emily aveva compiuto un passo verso Horus ed i suoi occhi, arrossati e lucidi cercarono quelli di Lui. Le sue piccole mani, anch’esse candide e ripulite, sfiorarono le sue spalle e la destra andò a ritrovare le piccole ed invisibili cicatrici sul collo mentre i polpastrelli già ne sfioravano i contorni scivolando lentamente lungo la carotide fino a raggiungere il petto.

Se così fosse, se hai qualcosa dentro, hai contagiato anche me da un pezzo. Non credi?
Mormorò, la voce rotta dall’imbarazzo che la fanciulla tentava di tenere a bada e dalla paura di parlare dando potere ai suoi impulsi. Sorrise, però; un piccolo sorriso colmo di tenerezza, speziato dall’ombra impercettibile dell’arroganza, arricciò l’angolo delle sue labbra.
È solo un Demone e noi lo uccideremo.
Continuò prendendogli delicatamente volto tra le mani.
Non c’è nulla che sia entrato nella tua pelle. Nulla che abbia potuto contagiare il tuo corpo. Si è insinuato nella tua Mente. È solo lì e lì soltanto. Il tuo sangue è puro. Tu sei puro.
Si avvicinò a lui, alzandosi sulle punte e se solo, a quel punto, gliel’avesse concesso, le sue labbra avrebbero solcato gli alti zigomi, sfiorando le gote, scendendo sulla pelle appena ruvida del collo per raggiungere le piccole linee di luce, reliquie di ferite che il giovane si era inferto.
È vero, lui è sporco e maledetto. E lo hai baciato. Ma hai baciato anche me, più di una volta. Non puoi dirmi che ciò non ha mai cancellato nulla di tutto ciò.
Sussurrò lasciando la presa sul suo viso.
La destra, poggiata ricaduta ora sul suo fianco, risalì fino al braccio del ragazzo per poi scendere con lentezza fino alla mano ferita facendo attenzione alla ferita che si era premurata di non curare.
Portando delicatamente il dorso alle labbra, risalì fino all’incavo tra indice e pollice, fermandosi solo quando incontrò il sapore metallico ed amaro del suo sangue. Se ne bagnò le labbra con un bacio ed una strana sensazione scosse le sue esili membra, una sensazione che, contro ogni aspettativa precedente, nulla aveva a che fare col il disgusto.
Con gli occhi socchiusi e i canini che afferravano un piccolo lembo delle proprie labbra, lasciò andare la mano di lui portando le braccia lungo i fianchi e rialzando il capo per ritrovare il suo volto. I contorni del corpo di giovane donna sfioravano il busto nudo del ragazzo ed una strana ansia, come preoccupazione, s’annidò nel petto della fanciulla, insieme all’irrefrenabile desiderio di stringersi a lui se solo, così facendo, non avesse compromesso il lavoro che aveva fatto fino a quel momento.

Credi che di esser stato contaminato, che il tuo sangue lo sia. Quindi ora guardami, Ra…
Guardami.
Cosa vedi? Lo sono anche io?
Gli chiese.
Se qualcosa era entrato dentro di lui, contagiandolo, ora che aveva saggiato il suo sangue, così avrebbe fatto con lei. Ostinata, si disse che non gli avrebbe permesso di provare oltremodo quella sensazione, non avrebbe permesso a quel Demone di manipolare la sua mente e giocare con le sue paure, insinuandosi nei suoi pensieri e paranoie.

Troveremo l’Ombra che ti perseguita. Non le permetterò di spingerti a farti ancora del male. Ma per ora…
Si allontanò da lui poggiando la destra sul suo volto per evitare che sfuggisse nuovamente al suo sguardo, affinché capisse che non v’era nulla di cui vergognarsi.
Eugene non ha fatto nulla. Lui non ha questo potere.
E non farà mai nulla, si disse mentre solo per un istante si ritrovò a dover cacciare via l’immagine di lui che baciava Horus. Lui, con i suoi perfetti ricci vermigli ed il volto stanco e tormentato mentre poggiava le sue labbra su quelle del Tassino e….
Lui non ti ha fatto nulla. È solo nella tua mente.
Aggiunse accennando ad un altro, delicato sorriso.
Troveremo una soluzione a tutto. Io sono qui. Noi siamo qui.
Le dita si mossero in una tenera carezza sul suo volto mentre le iridi cineree scivolarono ancora una volta sulla bellezza dei contorni del viso, innamorandosene anche in quel momento, anche in quella situazione.
Solo Noi.
Ribadì come a voler scacciare la viva, irreale immagine delle sue Paure che avrebbero potuto dargli la caccia anche in quel momento, in agguato in un angolo, così come facevano con Lei.


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view post Posted on 28/8/2017, 22:58
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Horus R. Sekhmeth
Tassorosso ▾ Primo Piano, Aula Storia della Magia ▾ 17 QfL0uUO "Wash the poison from off my skin, show me how to be whole again."
Non colse la lacrima di Lei, ma vide sul suo volto di porcellana l’Ira che, tingendo a sprazzi i suoi lineamenti, cancellava l’infantilità che ancora decorava il viso di Emily, privo di trucco. Vide la Rabbia, la stessa che, in fondo al cuore, Horus aveva covato a lungo verso se stesso, Eugene e la sua devianza. E non riuscendo a sostenere quegli amati occhi che ora gravavano su di lui come lame di ghiaccio, il ragazzo chiuse i propri, serrando le palpebre come un infante dinanzi ai mostri nascosti sotto al proprio letto, cercando di non naufragare nell’eco dei suoi ricordi. Cancellò dalla propria mente quella sera ad Hogsmeade, che ancora odorava d’Idromele e foglie bruciate dal sole, e ricacciò con ostinazione l’immagine dell’Infermiere coperto di sangue, il lembo di orecchio che formava una chiazza grumosa e rivoltante sul tappeto di foglie su cui Eugene giaceva riverso dopo l’attacco di Hagalaz. Horus respirava piano, incapace di trarre da ogni inspirazione l’ossigeno di cui aveva bisogno e avvertendo, così, la testa vacillare. Completamente incapace di far fronte alla reazione di Emily, Horus si sentiva svuotato da quella confessione, lasciando che si insinuasse tra loro l’ombra agghiacciante del disgusto. Strinse i pugni, affondando le unghie nei palmi e sentì la viscosità del sangue infilarglisi fra le dita. Non credeva possibile che il Silenzio potesse dolere così. L’aveva bramato, l’aveva cercato quando nelle sue orecchie risuonavano le sue stesse isteriche urla ed ora che finalmente era stato benedetto da quell’assenza di suoni, Horus ne era terrorizzato. Arrivò persino ad ambire gli schiamazzi dei corridoi che solitamente rumoreggiavano durante il giorno, desiderò il canto delle ghiandaie e dei pettirossi, lo stormire delle foglie, lo scricchiolare dei mobili antichi, il sussurrare dei fantasmi; eppure, persino il timido fuoco nel camino giaceva silente, consumando l’aria pregna di quel silenzio.
Ti prego, parla, Ly.
Strinse le palpebre nell’implorarla, come se quel gesto potesse raggiungerla. E tuttavia Horus era incapace di dar voce a quelle parole poiché le labbra si rifiutavano di aprirsi e la gola, secca, perdeva la sua funzionalità. Era stato uno sciocco, si rimproverò: si era detto pronto ad affrontare le conseguenze di ciò che celava nel proprio animo, ma se lui per primo aveva vacillato nel udire la sua stessa confessione, come aveva anche solo potuto pensare di riuscire ad accettare la reazione di Emily? Per quanto in quel momento si fosse sforzato di reagire, di parlare e di non cedere ai timori e alla vergogna, non era nient’altro che un burattino, un patetico involucro di carne ed ossa di cui s’ammantava la mano del Terrore che s’insinuava dentro di lui. Si chiese se quell’inusuale arrendevolezza derivasse dal proprio timore di scoprire il giudizio di Lei o dalla consapevolezza delle proprie azioni. Come avrebbe reagito, lui, se fosse stata Emily a confessare ciò che aveva pronunciato la sua voce? Se avesse visto e fatto ciò che aveva fatto lui?
Lei non è come te.
Cosa avrebbe fatto nel saperla così deviata , tanto da scorticarsi la pelle per una paura irrazionale?
Lei non è come me.
Chinò il capo, sentendo l’amarezza riempirgli la bocca e fu tentato di scappare per la prima volta in vita sua. Aveva passato quei pochi anni della sua breve esistenza a dimostrarsi forte, molto più di quanto era realmente, sostenendo sulle proprie spalle il peso di infiniti scrupoli, interminabili terrori che sconvolgevano la sua esistenza. L’aveva fatto così a lungo che era divenuta un’abitudine e le sue spalle, dapprima fragili, s’erano rafforzate e si erano allargate sotto quel carico. Ora, invece, gli sembrò quasi di sentire lo strisciare mefitico dell’entità sconosciuta che regolava il suo animo in quei momenti di follia e sentì le mani gelide di Seth premere sulla sua gola, schiacciandogli la laringe.
E’ illogico, così illogico.
E quella futilità, quell’irrazionalità lo inabissavano insieme al ricordo dell’alcol sulle labbra di Eugene e della sua borsa così pesante. Quella stessa borsa che lui si era buttato su una spalla con superficialità per deridere la fragilità dell’infermiere e che la sera dopo aveva trovato abbandonata ai piedi della cassa, ingombra di metallici strumenti che rispondevano brillando al bagliore della luna piena. Lame, uncini, punte, seghe, martelli: armi che Eugene aveva tenuto fra le dita guantate, quelle dita che avevano sfiorato la sua bocca, il suo collo, i suoi vestiti, i suoi pensieri.
Non più, non più, non più, non più!
Si ripeté nella testa, resistendo alla tentazione di premersi i palmi sulle orecchie per non sentir più il ronzio del Silenzio.
Eppure non furono le sue mani ad afferrarlo, bensì quelle di Emily. Sentendosi strattonare dal bavero della giacca, Horus spalancò gli occhi e, colto alla sprovvista, la sua immobilità si infranse. Costretto a portare un piede in avanti per non perdere l’equilibrio, quel semplice passo annullò la distanza che lui aveva creato fra sé ed Emily. Sorpreso per quel gesto rude ed improvviso, Horus la guardò.

« Emi…ly? » Mormorò con la voce roca di chi si era imposto di non udire la propria voce. Quando Emily spinse oltre le sue spalle la giacca logora e sgualcita, Horus serrò la mandibola e sentì il cuore impennare nella gabbia toracica, spazzando via il Silenzio dalla sua mente. La sorpresa si sovrappose all’ansia che lo andava logorando ed Horus si concentrò su Emily e su i suoi gesti mirati ed inaspettati. Non parlò più, per sua scelta, né domandò alla Serpina l’origine di quell’audace gestualità e, docile, lasciò che Emily si muovesse, osservando le sue piccole mani scivolare sul risvolto della camicia e aprire, con terribile lentezza, i bottoni che la chiudevano. Intuì solo idealmente che anche quell’indumento avrebbe fatto la fine della giacca appallottolata ai suoi piedi, ma non s’indagò oltre e, scosso e confuso, studiò la fanciulla indugiare sul suo abito. Notò il lieve tremore che muoveva le dita di lei sulla stoffa ed alzò gli occhi chiari sul suo volto concentrato. Il fuoco morente nel camino alla propria sinistra giocava con i colori del volto di Emily, bagnando d’oro il profilo del naso che si incurvava appena, e lasciando che la luce si insinuasse nella morbidezza dell’arco di Cupido delle sue labbra piene.
Dio, pensò incapace di distogliere gli occhi da lei, com’era
dolorosamente bella. I capelli le ricadevano disordinati sugli abiti impolverati e, nel muoversi concitata, una ciocca ribelle si era liberata dalla chioma e le era scivolata sulle gote. Troppo presa dal proprio operato, Emily non se ne avvide e quando l’ultimo bottone fu liberato dalla sua asola, Horus trattenne il respiro. Quando la camicia frusciò oltre le sue spalle, liberando il suo busto dal fastidioso avvolgere della stoffa lisa, Horus tremò appena e non fu per il freddo. Si chiese se lei potesse sentire l’impetuoso battere del suo cuore impazzito, così rumoroso alle sue orecchie da rimbombare in tutta l’aula vuota. La vide poi arrossire intensamente quando i suoi occhi si posarono sul suo busto nudo ed Horus fu certo che non fu un gioco di luce a trarlo in inganno. Così ne sorrise ed Emily gli sembrò, in quel momento, così innocente che il brivido che percorse il suo corpo, quando le mani di lei sfiorarono la sua pelle scoperta, lo fece vergognare. Socchiuse gli occhi un istante nell’inutile tentativo di riprendere il controllo sul proprio corpo e sulla propria mente, ma non ne fu in grado. Il petto si alzava e si abbassava a ritmi irregolari e se solo Emily vi avesse posato la mano, avrebbe sentito la cassa toracica venir sconvolta dai battiti.
Nonostante la bassa temperatura che caratterizzava le sue membra e sebbene fossero ancora nel più rigido degli autunni scozzesi, la sua pelle ardeva come la brace che avvampava nel focolare.
Incapace di formulare alcuna ipotesi, sentendo solo il rombo del proprio sangue nelle orecchie, Horus si costrinse a guardare ancora Emily e seguì le sue dita titubanti avvicinarsi alla cicatrice che attraversava in diagonale il suo corpo in una linea slabbrata ed irregolare. Non aveva idea di quale fosse lo scopo di lei, cosa cercasse sotto la stoffa della camicia, ma scoprì di non volerlo sapere e, vivendo solo quell’istante, la scrutò mentre lei, curiosa, piegava la testa e ritirava la mano dalla cicatrice senza osare sfiorarla. L’osservava mentre, attenta, studiava il suo corpo ed Horus, immobile, deglutì piano, rendendosi conto che essere guardato da lei gli piaceva e non lo metteva a disagio come accadeva se qualcuno lo fissava troppo a lungo. S’era sempre vergognato di quello squarcio che, terribile come una pennellata frettolosa in un quadro altrimenti perfetto, deformava la sua pelle. Ricordò con quanta premura, in quel ballo d’estate, aveva coperto i segni della Battaglia d’Ottobre affinché nessuno potesse scorgerli e rimembrò quando Emily aveva fissato, incuriosita, quel poco di cicatrice che si intravedeva sotto gli orpelli e la stoffa del suo abito elaborato. All’epoca se n’era vergognato e le aveva voltato le spalle con una scusa, in difficoltà di fronte quell’imprevisto; questa volta, però, non lo fece. Lasciò che lei lo guardasse, senza provare più alcun imbarazzo bensì uno strano ed immotivato desiderio di baciarla. Emily aveva sondato ogni centimetro del suo busto, ogni imperfezione, ogni cicatrice, graffio o livido, ma mai, neanche per un istante, aveva incrociato il suo sguardo. Non aveva mai alzato il capo verso di lui.
*A cosa pensi?* Le chiese nella propria mente, mentre quel desiderio cominciava a diventare così importante da annebbiargli la mente e mozzargli il respiro. Perché, guardandola, sapeva che non era disprezzo quello che le solcava i lineamenti delicati; non v’era disgusto per le sue parole né v’era un qualsiasi giudizio ad intorbidire le sue azioni. Il rossore di quelle guance non poteva appartenere alla furia ed Horus seppe che tutto ciò che lui aveva temuto cominciava a decadere, nient’altro che immotivati pensieri che si ergevano come palazzi dentro la sua anima e che crollavano uno dopo l’altro. Fu sconcertato quando lei gli puntò contro la bacchetta, ma ancora una volta lasciò che lei disponesse di lui, fidandosi del suo operato. La vide quindi agitare l’arma nell’aria, frustando lo spazio e disegnando invisibili figure, movimenti che lui conosceva fin troppo bene e che erano impressi nelle sue conoscenze. La Magia gli solleticò la pelle lesa e a poco a poco la terra ed il sangue raggrumato sparirono dai numerosi tagli e graffi che screziavano il candore del suo corpo. Attonito per aver finalmente compreso l’origine dei gesti di lei, gliene fu grato quando sentì un insospettabile sollievo rinascere laddove i contorni puliti delle ferite si facevano visibili e in rilievo. Fu come immergersi in una vasca d’acqua pura e, rendendosi conto solo in quel momento del disagio che quella sciocca sporcizia aveva instillato in lui, Horus sospirò. Sapeva bene che qualche Medeor Vulneratio non avrebbe cancellato né i suoi timori, né la scomodità della verità che lui stesso aveva dovuto ammettere, ma quel richiamo simbolico aveva cancellato la patina umida e lercia che avvolgeva le sue paure più profonde. Lasciò che lei lo sfiorasse, sentendo nel profondo del proprio corpo venir attraversato da infiniti spasmi simili a scosse; sebbene non fosse la prima volta che Emily lo accarezzasse, quello delle sue dita era ora un tocco nuovo, sconosciuto ma non per questo fastidioso. Pensò che Emily era come il fuoco che mondava le ferite e, al contempo, le infiammava mentre le sue parole penetravano in lui come lingue di fiamma. Lui non abbandonò mai il suo sguardo e ad ogni ammissione, ad ogni tacita promessa il suo cuore aumentava la sua folle corsa, mentre la comprensione cresceva e diveniva sempre più forte e tangibile, distruggendo tutto ciò che c’era di malato e corruttibile. Grazie ad Emily, Horus vide ciò che aveva sempre avuto sotto gli occhi e che non aveva mai compreso realmente. La Forza di quella Realtà assomigliò al primo vento mite di primavera che spazzava la neve dai nudi rami degli alberi addormentati; fu come la pioggia che, purificatrice, mondava le ceneri di un campo devastato. Qualcosa dentro di sé gemette e si accartocciò mentre una rinnovata ed insospettabile Speranza la dilaniava. Com’era semplice la fine dei suoi quesiti, com’era naturale l’esito di quelle Paure. Come aveva fatto a non pensarci prima, si chiese spalancando gli occhi, incredulo per la facilità di quella risoluzione. Emily era sempre stata la Risposta e, nel ripeterlo a se stesso, un peso sembrò lasciare per sempre la presa sulla sua anima. Quelle spire che lo avevano soggiogato, ora, venivano strappate via dalla sincerità di lei e fu il suo viso a sovrapporsi all’orrore che l’aveva costretto a nascondersi. Non v’era più alcun fantasma agli angoli della stanza, v’era solo Lei; Lei con il suo tocco gentile ed incandescente, con il suo sorriso dolce e presuntuoso. La vide portarsi la sua mano ferita alle labbra e le dita di lui ebbero un minuscolo, appena percettibile, spasmo. Quando la pelle ferita sfiorò la bocca di lei, Horus si morse l’orlo inferiore del labbro ed un’espressione smarrita e spiazzata si dipinse sul suo volto senza che lui potesse fare nulla per frenarla. Spogliandolo di quegli abiti logori, Emily lo aveva spogliato anche delle sue stesse difese e lo aveva messo a nudo di fronte ad un’emozione nuova e bruciante che poco a poco comprendeva ed accettava.
*Non farmi questo…* Pensò, mentre le iridi si posavano dal viso di lei, all’orlo delle sue labbra imporporate dal sangue, tentennando a quella vista quando lei se ne afferrò un lembo da mordere, forse stupita dal suo stesso gesto. Per l’ennesima volta, Horus arrestò il respiro e, sussultando appena quando la voce di lei gli impose di guardarlo, alzò lo sguardo in sua direzione sentendo un vago senso di colpevolezza all’altezza del petto, ritrovando i suoi occhi, liquidi ed attenti, a scrutarlo. Così vicina, il suo corpo esile e minuto sfiorava il suo facendo sì che l’odore della sua pelle gli entrasse nei polmoni, spingendo al limite il suo cuore. Fu una sensazione mai provata prima e l’attrazione che sentiva per lei si unì all’amore che provava, sfociando in un nuovo sentimento che lo consumava dall’interno, alimentando una fiamma che finora aveva solo sfiorato il suo cuore e che in quel momento, invece, sembrava volerlo incenerire.
« No… » Rispose alla domanda di lei con un sussurro, sentendo in quella negazione la sua logica venir completamente demolita dalle parole di Emily. No, come poteva Lei essere intaccata dal veleno di cui credeva d’essere intriso? Come poteva, Lei, venir contagiata dall’orrore che aveva portato Eugene? Lei, con la sua risata cristallina e gli occhi così malinconici; Lei, con i capelli di fiamma e le stelle sul viso; Lei, dallo sguardo maturo ed innocente al tempo stesso: come poteva mettere Emily sullo stesso piano di Eugene, come aveva fatto a non crederla tanto potente da poter spazzare via e cancellare ogni traccia di torbidità con ogni suo bacio, con ogni sua carezza?
Sorrise, alzando solo in quel momento le braccia per cingerla all’altezza della vita e stringerla a sé.

« No, non lo sei. Sei limpida come l’acqua. » Ripeté, chiudendo gli occhi ancora una volta quando la mano di Emily gli accarezzò il volto. Accettò, allora, i mostri che ancora vivevano nascosti nella sua mente. Quegli stessi demoni, che intervenivano quando la sua sanità vacillava e narravano di come il suo corpo sarebbe stato corroso dalla decomposizione, assunsero una forma e non avevano né il volto di Eugene, né quello del misterioso sconosciuto violato. Avevano il suo viso, ma nonostante la grottesca immagine che quegli spauracchi provocavano nella sua testa, guardando Emily Horus seppe che sarebbero scomparsi prima o poi perché, in fondo, tutto ciò che restava alla fine erano Loro due. Quel pensiero profumava di una libertà che mai si sarebbe aspettato di sentire e lo rinfrancò d’un sollievo e d’una felicità che sminuì qualsiasi dubbio. E così, liberandosi dall’immobilità che l’aveva fermato sino a quel momento, Horus si chinò su di lei e la baciò come non aveva mai fatto prima. Com’era accaduto alle carezze di Emily, anche quel bacio aveva un sapore nuovo. Se prima era sempre stato quasi trattenuto dal pudore, ora, lentamente e senza alcuna fretta, sbocciava con più intensità. Ne assaporò le labbra con la punta della lingua, quasi indeciso a tratti dalla risposta, ma sentendo dentro di sé il desiderio per lei incenerirlo come Icaro col Sole e che lo spingeva fino al punto di non ritorno. Temette di venir allontanato, ma incapace di fermarsi, lasciò che quei sentimenti parlassero per lui. La desiderava intensamente e più lo faceva, più l’amava; più l’amava, più il tocco delle sue dita si faceva febbrile e scivolava dalla vita sottile ai fianchi, aggrappandosi alla stoffa degli abiti di lei con mani tremanti poiché era l’unico modo per poterle dire quel che provava. La strinse a sé, indietreggiando di un passo e appoggiando la schiena al muro affinché lei non percepisse il tremore che l’agitava; abbandonò quel bacio per sfiorare con le labbra dapprima la curva del suo mento delicato e poi la linea del collo sinuoso, che lambì nuovamente, inebriato dal suo profumo. Le dita furono tentate di liberare il corpo di lei dall’ingombro del pullover logoro per poter indugiare sulla curva dei fianchi e nel desiderarlo furono percorse da un fremito che portarono Horus a cingere maggiormente la stoffa della maglia, ma, improvvisamente si trattennero. Conscio del limite che avrebbe varcato, consapevole del rispetto che le doveva, Horus si fermò e discostò le labbra dal collo di lei senza tuttavia alzare la testa.
« Vorrei restare qui, con te. » Mormorò con voce accorata, poggiando la fronte bollente nell’incavo della sua piccola, forte spalla.
In quell’attimo Horus capì che, in realtà, era lui il Fuoco.


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Emily Claire Rose
Serpeverde | Ateniese | 17 4bdecbff8677197af6e526a85a177745 "Hold on to your decency, I'll make you whole and we'll be free"

Quando la Paura ci assale, possiamo fare due cose: dimenticare tutto e fuggire oppure affrontare tutto e rinascere. Come bambini piccoli che si nascondono nell’ombra del genitore più grande o si costruiscono una fortezza fatta di calde coperte per nascondersi alla vista del buio, per affrontare il panico notturno con le proprie forze.
Quando si è piccoli, la Paura ha uno strano effetto su di noi. Sembra provenire dall’esterno, da una minaccia a cui diamo un nome ma resta sconosciuta, grande, forte, impossibile da sconfiggere. Allora ci creiamo dei piccoli nascondigli, delle piccole fortezze ove crediamo di poter restare al sicuro almeno per un po’. Non sempre si cerca l’aiuto del più grande poiché spesso, l’uomo non comprende quanto reale sia la minaccia che avvolge il nostro piccolo cuore e la mente, innocente e pura, escogita piccoli tentativi di sfuggirle.
Si costruiscono piccole capanne effimere ed invalicabili, dove rannicchiarsi, lì dove, circondati dal Buio, l’Oscurità non può infiltrarsi. Sotto le quattro mura di calde coperte, ci si addormenta e ci si dimentica delle proprie ombre, almeno per una notte. I bambini sfidano la Paura molte più volte di quanto facciano i grandi, i bambini non comprendono quanto loro stessi siano gli artefici del proprio angusto panico e si chiudono difronte a questo, credono di potergli sfuggire, di potersi nascondere davanti a quel Mostro Nero che assume diverse sfaccettature. La capanna diviene presto una vera e propria fortezza di alte mura che accoglie solo un ospite, il proprio creatore e “qui non potrà raggiungermi, posso addormentarmi, non mi vedrà”. Così credono di averlo sconfitto, quel Mostro, ancora una volta, ancora una Luna, perché incapaci di realizzare che, in realtà, il Nero si nasconde dentro di loro, che al tavolo lungo di quell’immenso, robusto Castello, non sono soli perché la Paura siede accanto a loro, sedata ma presente, pronta ad attaccare il giorno dopo per costringere il piccolo ad aprire le porte di quel Castello e lasciarla entrare, lasciando che le mura, silenti, marciscano lentamente al cospetto della sua Presenza, per avvelenare quel nascondiglio affatto sicuro e rendere ogni tentativo di fuggire e nascondersi vano, inutile.
Emily ebbe come l’impressione che Horus si fosse nascosto fin troppo a lungo, credendo di essere in grado di far fronte ai suoi Mostri da solo, di potervi sfuggire dimenticandoli, mettendoli a tacere rinchiudendosi nella sua fortezza. Fiero, orgoglioso e forte ecco come le appariva il giovane eppure la Serpina mai per un momento aveva dubitato che nulla potesse scalfire quella superficie d’amianto e ciò, quasi paradossalmente, la rendeva ancora più fiera di Lui e della sua forza.
Ma tutti noi nascondiamo dei Mostri al cospetto della nostra tavola, tra le mura solide di quel crediamo un rifugio sicuro e questo, Emily che fin troppo spesso affrontava i propri e a sua volta credeva di potervi sfuggire, lo sapeva bene.
Fu forse per tale motivo che, quando Horus la strinse finalmente a sé, appagando solo in piccolissima parte il forte desiderio che covava per lui in quel momento, la Serpina avvertì con incredibile gioia un senso di soddisfazione offuscarle la mente già provata a causa del contegno a cui si stava sforzando per non perdere la poca, arrancante lucidità che serbava.
Era riuscita, in quel credeva gesti azzardati e folli, ad alzare le coperte del suo rifugio e a mostrargli che fuori da quel Castello errante non v’era nulla di cui temere e che, anzi, la Paura si nascondeva proprio lì dove lui credeva di essere intangibile. Gli aveva porto la piccola, flebile eppur forte luce di una fiamma che aveva illuminato l’Oscurità tanto temuta ed i contorni di ciò che prima si nascondeva sotto le mani infide del suo Mostro, s’erano colorati della sua lucente ombra mostrando nient’altro che innocue forme, rischiarandosi nella loro materia.

Visto? Non c’è nulla di cui aver paura qui. , gli aveva infine detto con voce materna accendendo la luce. E così avrebbe fatto ogni Notte, mostrandogli che non v’era nulla da temere, fin quando le sue paure non fossero sparire del tutto ed alcuna fortezza di piume fosse stata necessaria. Avrebbe cullato i suoi sogni tormentati, gli spasmi di panico prima di chiudere gli occhi e l’avrebbe fatto sentire al sicuro anche distruggendo il suo effimero castello ove, ora si rese conto, aveva fatto breccia.
Horus incrociò il suo sguardo ed Emily capì che le colonne avevano ceduto, che dietro di loro, in un posto lontano e dalle cui ceneri sarebbe rinato, la Fortezza stava cedendo non perché indebolite dalla Paura che l’aveva resa marcescente ma perché di lei non v’era più bisogno.
Lui sorrideva e Lei si rese conto di amarlo, di amarlo in un modo che non credeva possibile. Un sentimento nuovo le colorò il volto già accaldato e più difficile sembrò respirare. Il cuore accelerò pericolosamente il proprio battito ed Emily ne avvertì il fastidioso frastuono nelle orecchie insieme al rumore del proprio respiro affannato.
Il freddo della stanza si infrangeva contro il calore del suo corpo e quando Horus finalmente alzò le braccia per stringerla a sé mormorando una semplice risposta, Emily credette di poter morire incenerita da tale calore. La sua voce, il suo sussurro riecheggiò mille e mille volte ancora nella stanza e le sembrò, dopo gli interminabili attimi di silenzio, di udirla per la prima volta.
E parlò ancora, chiudendogli gli occhi ma questa volta l’eco si spense suggellato da un bacio.
Stretta al suo corpo, si beava del suo calore e profumo, lasciandosi bruciare perché nessuna morte, si ritrovò a pensare ormai completamente assoggettata a nuove, incomprensibili emozioni, poteva dirsi più piacevole e pura che ardere tra quelle fiamme.
Strinse le braccia attorno al suo collo e sentì il proprio corpo ribellarsi alla stoffa che lo dividevano da lui. Strinse forte per avvicinarsi ancora un po’ di più, in un obiettivo impossibile che tuttavia donava conforto a quel nuovo desiderio.
Cercò il suo volto ancora ed ancora, ripercorrendo gesti di lui che le avevano piacevolmente turbata in precedenza, mordendo le sue labbra e baciandole con nuovo ardore mentre i sentimenti, ancora sconosciuti, prendevano forma e significato e Lei, la cui mente ancora riusciva ad afferrare del pudico imbarazzo, li accettava così come accoglieva di buon grado quanto quell’Amore aveva in serbo per loro.
Piegò il capo all’indietro e strinse forte lembi della sua pelle lasciando docili segni intorno alle spalle. Gli occhi, socchiusi, potevano intravedere la sagoma di Lui piegata sul proprio collo, lì dove, ad ogni bacio, credeva che avrebbe lasciato indelebili scottature. Sentiva le sue mani scivolare sul suo corpo come carezze di fiamme ardenti in grado di bruciare i logori stracci che avvolgevano le sue membra ferite.
Il fuoco spense ogni dolore e contusione e il suo tocco divenne purificatore come se, ad ogni sfiorarsi, fosse in grado di incenerire ogni danno.
Si appoggiò con un lieve tonfo contro al suo corpo, sulle punte per cercare l’incavo della sua forte spalla e nell’istante in cui Horus urtò delicatamente contro la parete, Emily si rese conto dei piccoli tremori che l’avevano scosso fino a quel momento ma che ora venivano tramutati in una stretta più salda e forte.
La sinistra raggiunse le morbide onde infuocate dei suoi capelli e strinse forte perché tale era il desiderio di raggiungere le labbra posate ora sul suo collo nudo.
Avvertì, come nota stonata in una appassionante melodia, il Tentennamento e l’esili dita lasciarono appena la presa mentre il corpo, accaldato, restò immobile, scosso soltanto da leggeri, quasi puerili, tremori. Stava forse esagerando, si disse? Stava, forse, sbagliando?
Ma come poteva essere sbagliato, amarsi?

È solo perché Ti Amo, Ra. Perché Ti Amo anche così, anche in questo modo.
Avrebbe voluto dirgli, forse per scusarsi.
Smise di respirare, trattene il fiato insieme alla sua piccola paura e riaprì gli occhi dinanzi alla lucidità che lentamente riaffiorava dai meandri bui dove l’aveva abbandonata.
Sentì il tocco delle labbra di Lui affievolirsi contro la pelle ed in quell’istante temette che il fuoco di cui si stava beando, il fuoco che riscaldava il gelido abisso delle sue acque, si spegnesse con atroce lentezza.
Quando finalmente Horus parlò, dopo secondi eterni, Emily trattenne un doloroso sospirò ed il suo cuore afferrò il significato di quelle parole prima che queste risuonassero nella sua mente.
La sinistra allentò del tutto la presa e sofferente, Emily si allontanò facendo leggera pressione con i palmi sul suo petto, il cui tocco, in quell’attimo in cui la ragione le donava il contatto con la realtà, la obbligò ad un leggero spasmo.
Cercò il suo sguardo e senza sfuggirlo, una volta raggiunto, col volto rilassato e privo della precedente preoccupazione, portò ambo le mani intorno alla maglia che le copriva il busto. Se ne liberò con la frustrazione di chi si libera da catene troppo pesanti e quando lo gettò sul pavimento insieme a tutto il resto, ispirò l’aria ardente della stanza come respirando per la prima volta. L’ossigeno le annebbiò i sensi ma l’espressione matura sul volto dolce, che ancora conservava innocenza, non mutò nemmeno quando le sue gote presero a bruciare nuovamente per l’imbarazzo.
Le mani scivolarono sui lacci del bustino di cuoio e se liberò con facilità lasciando che l’unica provetta rimasta tintinnasse contro al pavimento di pietra nuda.
Ricongiungersi alla pelle nuda di lui, con la sola camicia rovinata e strappata a coprirle la pelle ancora accaldata, bastò affinché il desiderio offuscasse nuovamente la ragione e non trattenesse la propria voce.

Ti Amo, Ra. E voglio restare qui con te.
Sussurrò, le parole rotte da un sicuro imbarazzo ma ben nascoste dal bacio che seguì.
Stringendosi a lui, cercando nuovamente il calore del Fuoco, premette forte le proprie labbra contro quelle di lui e lo strinse a sé. E come lui gli aveva detto, si sentì limpida come
Acqua lasciata ad ardere su bramose fiamme, lasciata ad asciugarsi, a morire in una danza di fumo e stille di fiamme.
Fuori la notte ed il freddo, l’Oscurità e le loro sconfitte paure illuminate da una quasi assente Luna. E l’alba, a cui Emily invocò di tardare poiché l’unica Luce a cui voleva appartenere era quella in cui stava bruciando.

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Horus R. Sekhmeth
Tassorosso ▾ Primo Piano, Aula Storia della Magia ▾ 17 v1E21gj "Wash the poison from off my skin, show me how to be whole again."
Se fino ad un attimo prima aveva avuto dei pensieri, una coscienza, questi erano spariti in un soffio, spazzati via dal respiro caldo di lei.
Stringendola fra le braccia, sospirando appena nel sentire le sue unghie penetrargli nella carne nuda della schiena, Horus si rese conto solo in quel momento di quanto avesse desiderato Emily. L’amore, che era sbocciato silente e timido nel suo cuore, era d’un tratto diventato doloroso, in fiamme. Così come in fiamme era il suo viso e la sua pelle, accarezzati dai baci di lei. Ma mai, mai nemmeno per una volta lo aveva sfiorato il pensiero che fosse sbagliato provare quei sentimenti. Nonostante il luogo in cui si trovavano ed il pericolo che aleggiava sopra di loro come una spada di Damocle, mai Horus si sarebbe pentito di ció che sarebbe venuto dopo, né della consapevolezza appena raggiunta. Aveva osservato le mani di lei muoversi con drammatica flemma, le dita sottili che scioglievano i lacci del bustino. Lo vide cadere con un fruscio sul pavimento di pietra, ed il profilo esile del suo corpo, in controluce, appariva effimero sotto la stoffa impalpabile della camicia rovinata. Le braci nel focolare indoravano gli orli del suo viso, accendevano di fuoco i suoi capelli e i suoi occhi lucidi e in quella breve stasi, Horus capí come ogni centimetro del suo corpo e della sua anima la bramavano, nel modo più assoluto. Il cuore, che batteva forte nel petto, doleva, bruciava. Con l’ultima stilla di lucidità, prese la bacchetta dalla tasca e con un rapido gesto chiuse a chiave la porta -nessuno avrebbe dovuto sapere- ed evocó una fiamma che prese vita nel camino, alleviando i brividi di freddo che avevano scosso il suo corpo. Poi, la lasció cadere a terra e la fedele compagna, da cui mai si sarebbe separato, produsse un sordo e distante tintinnio sulla pavimentazione. Ma quel suono non giunse alle sue orecchie perché lui aveva afferrato i polsi di lei e l’aveva attirata a sé, riappropriandosi delle sue labbra morbide, incapace di restarne lontano anche solo un instante. Avidamente, la bació mentre le sue mani tremanti infrangevano quell’ultima barriera di stoffa e, lentamente, senza alcuna timidezza né fretta, carezzavano quei fianchi minuti, perfetti per le sue dita. Le mani di lei, insinuate fra i suoi capelli, lo spinsero a reclinare il capo, ed Horus si morse un labbro per trattenersi, quando lei sfioró il suo collo.
Non poteva negare di averla sognata e di averla desiderata a lungo. Non era più un bambino, e aveva ormai fatto i conti con la propria natura di giovane uomo. Se n’era vergognato, all’inizio, ma poi, a poco a poco, aveva accettato tutto quanto come parte del suo amore per lei. Eppure, vivere quel momento aveva un sapore nuovo, un aspetto rinnovato e quella timidezza, quell’inesperienza di cui entrambi erano figli, giocava con l’audacia e la sincerità di quel desiderio che entrambi condividevano. Aveva sempre temuto di venir rifiutato, di non essere amato mai davvero, mai completamente; una colpa, quella, che Mya aveva contribuito a rafforzare, con la sua freddezza, con i suoi silenzi, il segreto da mantenere. Ma le carezze ed i baci di Emily gli fecero dimenticare ogni timore. Il calore del suo corpo, avvinghiato al suo, era un richiamo: doveva essere sua, e lui doveva essere suo.
Così, sorridendo malizioso, riprese il controllo e, scoprendo con la mano lo scollo della maglia, bació un lembo della sua pelle, mordendola e giocandoci finché non ne rimase un pallido segno. Non fu una sfida, ma un bisogno, la dichiarazione che lui non aveva più paura del resto del mondo; qualsiasi cosa avesse voluto fare Emily, lui gliel’avrebbe permessa.
Non pensó minimamente a quanto Eugene gli aveva fatto e, anzi, quel marchio indossó una veste nuova, sincera. Soddisfatto del proprio operato, trovó allora il coraggio di guardarla negli occhi e, questa volta, le labbra si incurvarono in un’espressione indecifrabile. Gli occhi, di argento liquido, brillavano di quel sentimento che l’animava ed il fuoco accentuava il rossore sul naso e sulle gote. Non disse nulla: in risposta alla dichiarazione di Emily, lui l’aveva stretta a sé con forza, con quella stessa disperazione con cui l’aveva cercata, con quello stesso amore che lo consumava. Ancora appoggiato al muro, si lasciò scivolare sul pavimento portando Emily con sé. Le bació il collo sottile, le clavicole chiare, le spalle costellate da piccole efelidi e prima di rendersene conto, le sfiló la camicia. Si concesse un solo attimo per guardare il suo corpo minuto, la sua pelle lattea indorata dalla luce e poi, afferrandole le mani, le guidó al proprio petto, stringendole la vita. Con un sospiro, allora, la strinse nuovamente a sé, tenace, ma con la stessa delicatezza che si riserva al più prezioso, intimo tesoro.

Quando la luce della luna piena aveva ferito gli occhi, Horus si era svegliato con molta più difficoltá di quanto avesse previsto. Il pavimento era scomodo e la schiena gli doleva come se fosse stata attraversata da mille spilli; ma quando i suoi occhi guardarono la schiena nuda di Emily che dormiva silenziosa al suo fianco, sotto le coperte che avevano evocato per non cadere preda del gelo notturno, Horus si sentí genuinamente felice per la prima volta da tanto tempo. Si chinó su di lei, soffermandosi sulle ciglia dorate e sulle lentiggini che -aveva scoperto- ricoprivano il suo corpo, e le sfioró con un bacio la curva morbida di una spalla. Lei mormoró qualcosa di buffo e lui soffocó una risata, chiedendosi come potesse, lí fuori, nascondersi qualcosa di brutto per loro.
Sapeva che avrebbero dovuto tornare ai propri dormitori, prima che qualcuno li avesse scoperti. Ma la notte era ancora lunga, pensò mentre si sdraiava di fianco a lei e affondava il viso fra i suoi capelli; il suo profumo lo inebrió ancora una volta, scatenando in lui la tentazione di svegliarla, un desiderio cui resistette a fatica. In fondo, non c’era nulla di male nel rimanere ancora così, su quel freddo pavimento: solo un altro po’.


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Edited by Horus Sekhmeth - 28/9/2018, 16:50
 
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