«Zhè bùshì rènhé yītiān, nǐ zhīdào de hěn hǎo!»Nan non si era mai sentita così indispettita in tutta la sua giovane vita da venticinquenne. L'espressione furiosa ad un tratto, l'indice della mano destra rivolto verso il suo stupido interlocutore di fronte, un vassoio di tempura di pollo sghignazzante nell'altro palmo libero, una ciocca di capelli color dell'inchiostro sfuggita al classico ordine cui l'acconciatura intera era quotidianamente sottoposta, tutto quello e tanto altro ancora andava a rifinire una descrizione non propriamente allegra di quel momento. Sbuffò per l'ennesima volta, utilizzando la sua lingua madre per rispondere per bene, senza giri di parole né difficoltà di chiarezza per via dell'ostico Inglese, all'altro cameriere la cui targhetta appuntata sulla divisa carbone ad altezza petto ne identificava il nome con "Jiqui". Come poteva essere così maledettamente superficiale? Per quale assurdo motivo non era ancora stato in grado di afferrare una stilla di coraggio e farsi avanti, una sola volta e per sempre? L'appuntamento previsto tra i due quella sera era sfumato. Di nuovo, tanto per cambiare. Quando Jiqui aveva cercato una scusa labile, una tra tante, per Nan era stata la conferma ultima ed irreversibile di quanto quella relazione potesse ormai essere definita come vana. Forse per Jiqui lei non era abbastanza, forse una cameriera non era abbastanza per un cameriere che sognava di tornare in terra natia, in Oriente, con un bel gruzzolo da parte, alla ricerca e la scoperta degli antichi misteri di Nanchino, l'antica Capitale del Sud della Cina. Non avrebbe saputo dirlo con certezza, con ogni probabilità - si disse - non avrebbe sprecato più di una manciata di minuti per rendere propria, ancora e ancora, quella rabbia repressa mista a risentimento allo stato puro. Mise a tacere la tempura destinata al tavolo contrassegnato con il numero cinque, scuotendo il piatto con tale vigore da far schizzare via qualche gocciolina di salsa agrodolce direttamente sul pavimento. *Pulirà Jiqui*, pensò con una punta di vendetta che apprezzò più del previsto. Girò sui tacchi, pensando all'epilogo già triste, anche sbagliato, di quel giorno. Era il suo venticinquesimo compleanno, festeggiava sul posto di lavoro; aveva una cena in programma per quella stessa sera, ma Jiqui aveva rimandato tutto. Peggio ancora, Jiqui si era dimenticato di farle addirittura gli auguri.
Nan non impiegò molto per riprendersi totalmente. Aveva ultimato la consegna della tempura, pentendosi di non essere stata cordiale con i clienti serviti, come suo solito; né lo era stata, ma poco importava, con la tempura stessa. Odiava quella risatina a stento trattenuta, quello sghignazzare divertito che soltanto la salsa agrodolce avrebbe potuto concedere al piatto vero e proprio. Come potevano gli acquirenti mangiare una tempura quasi parlante, almeno per finzione ma pur sempre all'apparenza, per Nan continuava ad essere un mistero. Il ristorante in cui aveva scelto di lavorare era molto in voga, Londra era una miniera d'oro per gli affari; per quanto fosse in buoni rapporti con il proprietario, il signor Himiko, la bella Nan sapeva di certo che nulla di quel locale potesse anche solo immaginare di reggere il confronto con i luoghi artistici, culinari, sorprendenti della sua nazione d'origine. Il suo paese, la Cina, trasudava magia senza freni di alcun genere; un'imitazione come quella del pub inglese in questione, seppur soddisfacente, restava sempre e soltanto un'imitazione. Si premurò di stamparsi un sorriso in volto, ben delineato, rinnegando per i successivi momenti ogni preoccupazione, risentimento e triste pensiero; non era il caso di essere poco cordiale nei confronti dei clienti, non meritavano un simile trattamento per colpa dei suoi turbamenti emotivi. E soprattutto, Nan necessitava quel lavoro per poter tornare in Cina e far partire l'attività culinaria cui da tempo aveva rivolto le sue più grandi speranze. Si avvicinò ad un tavolo nel reparto giapponese, occupato da una coppia molto affascinante, in apparente affinità l'uno verso l'altra. *Questi potremmo essere noi, Jiqui, se solo volessi*, si disse tra sé e sé, mentre con un sospiro che le parve eterno riusciva nuovamente a tornare con i piedi per terra. I menù erano già sul tavolo, aveva atteso per farli leggere senza fretta, ma prima di parlare ai due clienti, sollevò la mano destra ad altezza bocca e vi soffiò sopra. Improvvisamente, dal palmo vuoto fino ad un istante prima apparve una polvere rossa, color del fuoco, che Nan soffiò via in un turbine di scintille, al pari di un braciere con tizzoni ormai spenti. La polvere si riversò sulle sedie occupate dalla coppia e i Draghi già trasfigurati dalle postazioni si appisolarono con un verso basso e profondo, simile ad un ringhio: le ampie teste comode, imbottite da tessuto morbido e soffice, penzolarono sospese di poco da terra e ai due clienti parve ad un tratto di volteggiare attorno al tavolo, senza che le sedie incantate si spostassero chissà dove. Nan sorrise, finalmente.
«Jiù gòule, xiāofáng lóng!»L'accento armonioso, tipico del Sud della Cina per l'ascoltatore attento ed esperto. Un comando semplice, un invito alle Teste di Drago di stare a bada, senza creare problemi. Parlò poi in Inglese alla coppia, limpida e scorrevole, i suoni della sua lingua melodiosa che si intrecciavano a quelli della Gran Bretagna in nuove parole e forme.
«Così i Draghi non disturberanno.» Indicò i lunghi baffi delle creature animate, puramente decorative e non reali.
«Benvenuti da Himiko's Taste! Cosa posso portarvi?»