| Mentre il buon Francis affidava le sue preghiere alla stanza silenziosa, Dorian era altrove. Attraversava a grandi passi il corridoio, retto come la giustizia, rigido come un’armatura in ferro. Il suo passo aveva un’autorità sufficiente ad aprire in due la muraglia dei mari. Alcuni studenti, non volendo sembrare maleducati, quando lo incrociarono all’imboccatura delle scale mossero le teste ossute in un servile gesto di saluto, che lui ignorò. Si girò verso di loro e per un breve istante radiografò una ragazzina mora fin nelle sue più intime mediocrità, poi avanzò verso l’aula. Parlavano a voce bassa, tutti sfavillanti di astio e rancore, eppure lo scrutavano di soppiatto, brillando nella sua ombra, pendendo dalla sua voce. Tra sé e sé rise. Il Sovrano era lui, attorniato dai servetti della corte, e mentre ciarlavano, consapevole della loro natura insipida e meschina, lui disponeva. Camminava senza fare rumore, come istintivamente si è portati a fare di notte. Le candele e i lampadari proiettavano ombre fantastiche sulle pareti in pietra aggettante e sui quadri vetusti. Il vento che si era levato da qualche ora faceva scricchiolare alcune finestre. Salutò il bibliotecario con un cenno regale della testa, da figura di riguardo, da padrone. Poi, giunto all'aula, rimase in piedi, con le spalle appoggiate alla porta, le braccia conserte e il sorriso sulle labbra. Durante le lezioni regnava da despota assoluto sulla moltitudine in raccoglimento. La regola era semplice: ascoltavano, prendevano appunti in silenzio e senza mai alzare la testa dal banco; lui concludeva, e loro, ossequiosi, infine se ne andavano. Ma quella sera, smarrito nell’Olimpo o trattenutosi per errore, qualcuno era rimasto lì. Nel profumo di Dorian, nelle sue palpebre socchiuse disegnate col carboncino, nel tratto agile delle sue ciglia curve, sulle sue labbra – serrate per evitare che anche un solo frammento del godimento andasse perduto – nasceva la perfidia. Silenzio di morte. Nel frattempo continuavano a parlare. Un minuto. Due. Tre. E fece il suo ingresso in aula. Li agganciò con gli occhi d’ambra, schioccando la lingua sul palato. Poi tamburellò le dita sullo stipite della porta, con una pazienza immortale, infinita, straziante. «Bene, bene, bene.» si schiarì la voce, inumidendosi le labbra con la lingua guizzante. «Perché siete in quest’aula, a quest’ora?» Li trafisse con lo strale di ghiaccio del suo sguardo, poi interrogò silenziosamente i loro volti. «Eppure, Elijah, sono certo di non averla ancora interrogata! Non è più usanza studiare al pomeriggio?». Fece un passo avanti, entrando definitivamente nella stanza, e sorrise con un candore inatteso, letale, tagliente. Era una domanda, ma anche una velata minaccia. Quei ragazzini gli erano simpatici e le loro sciocchezzuole lo divertivano piacevolmente. Prima di punirli voleva dare loro un’occasione: gli erano graditi i solisti virtuosi, voleva saggiare fin dove l’intraprendenza avrebbe potuto spingerli. «Ah... Mr. Bogdanow, giustappunto! Sa che giorno è oggi?» Lasciò il discorso in sospeso, con enfasi teatrale. «... Sbaglio o ancora non ho avuto il piacere di leggere il suo elaborato?» Inutile dire che non sbagliava mai.
Nessun timore, miei piccini. Edited by Dørian - 11/9/2017, 15:55
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