"Lungo la rotta che di pace non ne ha avuta mai"

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view post Posted on 30/10/2017, 13:41
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"Non puoi sentirlo / ma ho bisogno di dirlo"
Concorso a Tema Ottobre 2017: Lettere

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Non so cosa sto facendo, Dewie. Questa lettera non la leggerai mai e non so perché la sto scrivendo. Ma se non parlo con te esplodo, Dewie. Se non parlo con te, adesso, spacco tutto a forza di calci e di Reducto. E allora lo faccio, anche se non mi risponderai. Perché tu sei morto. E io ero troppo lontana per proteggerti. Mi sono sforzata di non piangere sulla tua ultima lettera. Non voglio che sbiadisca. Quanto tempo prima di morire me l'hai scritta, Dewie? Poche ore? Soltanto una manciata di minuti? Quanto ci ha messo quel tuo vecchio gufo spelacchiato ad attraversare il mare d'Irlanda? Doveva essere sull'orlo del collasso quando alla fine è arrivato a Belfast. A casa mia. Ma io non ero più là. Da quanto ero partita? Ero appena uscita? Ero già sulle coste scozzesi? Stavo già abbracciando Jules? Non mi ha trovata, il tuo gufo, e allora dev'essere ripartito, si sarà riposato un po' magari, e alla fine mi ha raggiunta qui. Non mi ha trovata, perché un altro gufo è stato più veloce.


owlarrivesIl bubolare sommesso che dal giardino entrava in casa attraverso la finestra aperta fece voltare tre teste verso la cassetta della posta, su cui era appollaiato un gufo marroncino. Maude perse la concentrazione sul proprio impeccabile Manina, facendo cadere la saliera nella zuppa; Adam perse la presa sulla piuma e arricchì la complessa mappa astronomica a cui stava lavorando con uno sfregio di inchiostro che collegava impropriamente Vega ad Antares; Elizabeth perse di vista il rametto di saggina spezzato che doveva rimuovere e rischiò di tagliarne uno sano.
Kevin, guanti da giardiniere e cesoia alla mano, si affacciò da quella stessa finestra: «È per te, Liz.» comunicò prima di tornare all'amato roseto.
Elizabeth ripose le forbici nel loro astuccio, si alzò, appoggiò delicatamente la scopa allo schienale della sedia e uscì.
Il gufo portava, legata alla zampa sinistra insieme alla lettera, una targhetta che lo identificava come messo dell'Ufficio Postale di Hogsmeade. Elizabeth prelevò la busta e, bacchetta alla mano, appose sulla targhetta il segno che avrebbe confermato l'avvenuta consegna della missiva. Mostrò al rapace le mani, come a scusarsi di non aver portato nemmeno un pezzettino di bacon per lui, e questi la guardò sdegnato e spiccò il volo.
Espletati i passaggi burocratici, Elizabeth osservò la lettera. Veniva da Jules. Strano che non l'avesse mandata con Lame, che il vecchio gufo fosse finalmente passato a miglior vita? La busta era spiegazzata e macchiata e ciò convinse Elizabeth a non aprirla sotto gli occhi dei coinquilini. Fece il giro della casa e si fermò nell'angolo del giardino dove la panca di pietra svettava tra le erbacce: nessuna finestra si affacciava su quel punto.
Lacerò senza alcuna grazia la busta e dispiegò il foglio che vi era contenuto. L'elegante grafia di Jules era a malapena riconoscibile nei caratteri sconnessi che si dipanavano tra cancellature e macchie di inchiostro.


Ma è il motivo, Dewie, il motivo per cui mi avevi scritto a rendere tutto così grottesco. Immagino la tua faccia quando Jules te l'ha detto: scommetto che hai spalancato occhi e bocca e hai fatto un sorriso storto e tremolante e ti sei passato la mano sinistra tra i capelli e infine, quando hai interiorizzato, sei scoppiato a ridere e l'hai abbracciata e sollevata di peso in quel tuo modo irruente. E poi avrete preso carta e penna per scrivere a noi tutti e dirci che dovevamo assolutamente raggiungervi. Spero che gli altri l'abbiano saputo dalle vostre parole emozionate. Io no, io l'ho saputo quando Jules ha detto che non l'avrebbe chiamato come te perché avrebbe fatto troppo male e mi si è gelato il sangue e le ho chiesto di chi parlasse ed è stato allora che ha iniziato a piangere e il momento più bello della sua vita ha dovuto raccontarmelo così, tra i singhiozzi.


letterElizabeth crollò pesantamente a sedere sulla panca. L'impatto le avrebbe procurato qualche livido e la pietra era dura e fredda, ma lei non se ne curò.
Stringeva spasmodicamente il foglio, peggiorandone ulteriormente le condizioni.
Protesa in avanti, le spalle curve, gli occhi scorrevano veloci le righe e si colmavano di lacrime, una per ogni lettera di quel testo straziante. Quando furono troppe, una prima goccia salata abbandonò il rifugio delle ciglia, rotolò lungo la guancia, rimase sospesa qualche istante tra mento e mandibola e infine precipitò e andò a fondersi con l'inchiostro, trasformando in una macchia indistinta la parola "Mungo". Anche "tardi" divenne illeggibile e così "nulla" e molte altre.
Elizabeth si portò alla bocca una mano tremante e se ne premette il dorso sulle labbra, a soffocare un singhiozzo che le scosse le spalle.
Busta e lettera le sfuggirono di mano e planarono nel vento leggero fino a posarsi su un cuscino di trifogli e nontiscordardime. I colori vivi del giardino generavano un contrasto sgradevole con il dolore che emanava dalla lettera: quel sentimento avrebbe trovato una dimora più consona nella brughiera scozzese, nel cui terreno arido crescevano solo cardi e felci ed eriche.
La brughiera che circondava Hogsmeade, la brughiera dove da adolescenti si nascondevano a bere e a fumare, la brughiera che aveva visto confidenze e risate e litigi.
Elizabeth si strinse le braccia sul ventre e si ripiegò su se stessa, gli occhi semichiusi offuscati dalle lacrime, la bocca aperta in un pianto senza suono.


Mentre Jules si lavava, questa mattina, sono uscita. Sono andata nella brughiera, quel posto con quei massi dove ci sedevamo sempre, e ho bruciato la sua lettera. Non volevo che l'ultimo ricordo di te in mio possesso fosse la notizia della tua morte. Ho fatto presto, Dewie, sono tornata prima che Jules si accorgesse che non c'ero, non rimproverarmi: non l'ho lasciata sola. Quando sono rientrata Lame era lì ad aspettarmi: mi ha consegnato la tua lettera e si è precipitato sul suo trespolo, con l'aria di non volersene allontanare mai più. È troppo vecchio quel gufo, sono anni che te lo dico. A Jules la lettera non l'ho fatta vedere, ho pensato che sarebbe stato un colpo troppo forte per lei. L'ho messa in tasca e per tutto il giorno mi è sembrato scottasse, tale era la mia ansia di leggerla. Ora che Jules si è addormentata l'ho potuta aprire. Non ci ho trovato il sollievo che speravo. Non so cosa farmene, adesso, di tutti questi fogli pieni di segni che hanno perso qualsiasi significato. Ogni parola, ogni sillaba, ogni lettera ora è solo dolore.

 
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view post Posted on 30/11/2017, 16:07
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Fuori niente è cambiato


day1

Il vento gelido sferzava la fortezza avvolta dalla nebbia, i flutti si infrangevano con una furia disperata sui muri impassibili. La grossa barca levitava a qualche metro dalla superficie dell'acqua, al riparo dalle alte onde grigie.
L'interno era, se possibile, ancora più cupo e freddo.
Una minuscola elfa domestica piagnucolava raggomitolata in un angolo della sua cella: «La signora era buona con Hokey, Hokey non voleva».
Un ragazzo dalla barba incolta fissava il vuoto seduto sulla branda. Digrignava i denti. «Ecco la tua preziosa conoscenza, Al. È colpa tua.»
Solo poche ciocche unte rimanevano sul capo coperto di croste di un uomo che urlava aggrappato alle sbarre: «Muori, sudicio babbano, per l'onore di Salazar Serpeverde».
Elizabeth smise di guardarsi intorno. Le mani martoriate strette dalla catena, i capelli scarmigliati, gli occhi spalancati, avanzava reticente lungo il corridoio di Azkaban.
A stringerle il braccio destro, un Antimago dai lineamenti cesellati che stridevano con la violenza con cui la trascinava. A sinistra, l'altro Antimago si passò disinteressato una mano tra i capelli a spazzola ormai brizzolati.
Si fermarono davanti ad una porta di metallo. Solo una scritta scrostata sullo stipite, una X e una I maiuscole, la distingueva dalle altre. L'Antimago più vecchio avanzò di un passo, aprì la porta. L'Antimago giovane spinse Elizabeth dentro la cella. Con un tonfo, la porta blindata si chiuse alle sue spalle. Le catene ai polsi svanirono: non c'era più il rischio che scappasse. Elizabeth rimase immobile, le mani ancora raccolte in grembo, lo sguardo fisso sulla finestra. Era notte e lì era buio: per vedere la luna e le stelle bisognava allontanarsi almeno qualche miglio dalla prigione. Però c'era una finestra e l'indomani il sole avrebbe illuminato la cella. Di poco, forse, ma bastava. Un sorriso tremante si fece largo sul giovane volto sporco e graffiato.


day2

Si rigirò, raccolse le gambe al petto. Non trovava una posizione comoda. Aveva freddo. Allungò il braccio sinistro, in cerca della coperta. Non la trovò. Tastò più a destra, poi a sinistra. Solo mattoni freddi. Spalancò gli occhi, già pieni di lacrime. Non era il suo letto nella Torre, quello, né il divano di un'abitazione amica. Era una nuda panca di pietra. In una cella. Elizabeth si alzò a sedere, appoggiò i piedi nudi sulla gelida pietra del pavimento. Si asciugò occhi e naso con la manica della sbiadita divisa a righe. Era ancora buio, doveva aver dormito solo poche ore. Poche dopo quasi tre giorni di veglia forzata. Eppure non si sentiva stanca: no, solo la bocca secca e una sorta di intorpidimento, come quando si dorme troppo a lungo e sembra che il cervello debba ricordarsi come si fa a funzionare. Si alzò, mosse qualche passo.
«Hokey non voleva.»
«È colpa tua. Tua.»
«Muori, sudicio babbano, muori.»
Ma non dormivano mai? Non si dormiva lì?
Raggiunse la finestra. Era una sua impressione, o il grigio della nebbia era diventato più chiaro? Elizabeth trattenne il respiro. Sollevò le mani, si aggrappò alle inferriate. Espirò. Era giorno. E in quella cella l'unica luce era ancora quella delle torce in corridoio.
«Che ora è?» sussurrò Elizabeth. «Che ora è?» gridò. Un brivido le percorse la spina dorsale, dalla nuca giù fino in fondo. Si voltò lentamente. Una figura incappucciata era ferma oltre la porta della cella. Elizabeth non ne vedeva gli occhi, ma era certa che la stesse fissando. Si appiattì contro la parete. Una mano scheletrica, ricoperta di pelle in putrefazione, si allungò attraverso le sbarre. Elizabeth urlò.


day3

A gambe inrociate sulla branda, i palmi aperti posati sulle ginocchia, la schiena dritta contro il sostegno della parete scrostata, la testa reclinata all'indietro, gli occhi chiusi, Elizabeth respirava lentamente.
Inspirare. Andava tutto bene, poteva gestirlo.
Espirare. No, non poteva, erano troppi, troppo forte.
Inspirare. Aveva letto dei Dissennatori: era tutta una cosa psichica, un condizionamento mentale. Bastava concentrarsi.
Espirare. Concentrarsi un paio di pluffe. Chi l'ha deciso poi che la cosa psichica è meno peggio di quella fisica.
Inspirare. Come si chiamava quell'oscurologo da strapazzo? Appena uscita di lì l'avrebbe trovato e gliele avrebbe polverizzate, le pluffe.
Espirare. Non sarebbe mai uscita da lì, se non morta o completamente pazza.
Inspirare. Che sciocchezza. Lei li conosceva quei giochetti: era una vita che provavano a farle credere di essere pazza.
Espirare. Ma nessuno stava provando a convincerla di niente. Era soltanto lei. Lei con quel nodo nel petto che non andava né su né giù e che neanche l'aria riusciva a raggiungere.
Inspirare. Cosa diceva quel libro, cos'era che funzionava contro i Dissennatori? I pensieri felici.
Espirare. Un paio di pluffe anche i pensieri felici. Quali pensieri felici? Non esistevano pensieri felici, solo tristezza e angoscia e-
Inspirare. Pensieri felici. Un logoro cappello nero che le copre gli occhi. Il vento d'alta quota tra i capelli. Un gruppo di sassi nella brughiera.
Elizabeth aprì gli occhi. Il Dissennatore si allontanava lungo il corridoio.


day4

Il vassoio si materializzò in mezzo alla stanza. Immediatamente, Elizabeth lo raccolse e lo spostò sulla branda: aveva imparato il primo giorno l'importanza di essere più veloci dei topi. Poi raccolse da terra un pezzo di intonaco e tracciò una quarta tacca sul muro. Quando aveva scoperto che avrebbe avuto un solo pasto al giorno e in che cosa quel pasto consisteva, si era sentita morire: in mezzo ai tanti drammi della sua vita, il nutrimento almeno non le era mai mancato. Non aveva nemmeno finito di formulare quel pensiero, che tre Dissennatori erano già accorsi alla porta della sua cella. A liberarla dalla loro presenza e dal sentimento che li aveva chiamati, era stato il realizzare che, quantomeno, quella privazione le avrebbe permesso di contare i giorni, di monitorare il passare del tempo. Arrivava il vassoio, una nuova tacca si aggiungeva sul muro e lei si sentiva meglio, quasi felice di poter avere il controllo su quella piccola cosa.
Mollò di nuovo a terra l'intonaco e si sedette a gambe incrociate di fronte al vassoio. Afferrò il cucchiaio, lo riempì della poltiglia grigiastra che colmava fino a metà il piatto, lo avvicinò al viso, aprì la bocca. La richiuse. Sospirò. Aveva lo stomaco completamente chiuso. Lasciò ricadere la sbobba nel piatto, la rigirò pigramente per qualche secondo prima di mollare il cucchiaio. Staccò un piccolo pezzo di pane raffermo e lo mise in bocca. Masticò lentamente, di malavoglia. Lo mandò giù a fatica, gli occhi le si riempirono di lacrime. Non ce la faceva più. Le veniva da piangere. Le veniva da vomitare. Quattro giorni e già non ce la faceva più. Fissò con occhi vacui il Dissennatore che già si era avvicinato alla cella. Inspirò. Strinse i denti. Non riusciva già più a richiamare alcun pensiero felice, ma se si lasciava vincere dallo scoramento loro arrivavano ed era peggio. Questo l'aveva imparato. Si asciugò le lacrime sulla manica con un gesto rabbioso. Rilasciò il fiato in un respiro tremolante. Non ci doveva pensare. Non doveva pensare. Impugnò il cucchiaio. Doveva concentrarsi sulle azioni, sulla realtà fisica. Aprire la bocca, masticare, ingoiare. Aprire la bocca, masticare, ingoiare. Ai Dissennatori la realtà fisica non interessava. Aprire la bocca, masticare, ingoiare. Aprire la bocca, masticare, ingoiare. Il Dissennatore si allontanò.


day5

Cominciavano a dolerle mani e braccia, ma non mollò la presa. Seduta sulla branda, ne stringeva il bordo con forza tale da sbiancarle le nocche. I piedi erano saldamente appoggiati sul pavimento gelido: era un freddo buono, quello, un freddo reale, che la distraeva dal freddo emanato dai Dissennatori. Non si sarebbe più lamentata del freddo, mai più, non dopo aver provato quello. Il freddo dei Dissennatori non assomigliava a niente che Elizabeth avesse provato nella sua vita. Il freddo dei Dissennatori si diffondeva sotto la pelle e raggiungeva l'anima. Non c'era coperta che potesse respingerlo, non c'era fuoco che potesse mitigarlo. Quel freddo, i Dissennatori, te lo tiravano fuori da dentro. Non importava quanto fossi felice e in pace con te stesso: tutti hanno un po' di freddo dentro e loro te lo trovavano e ti ci avvolgevano e anche se di quel freddo dentro non ti eri mai accorto improvvisamente era lì, intorno a te, dappertutto. E poi succedeva che avevi più freddo, dentro, e più avevi freddo dentro più loro potevano usarlo e più lo usavano e più tu avevi freddo dentro. Finché dentro di te rimaneva solo il freddo e allora, forse, sarebbero stati sazi.


day6

Uno, due, tre, quattro, cinque, sei, sette, otto, nove, dieci, undici. Muro.
Avrebbe potuto riprodurre in uno spazio aperto l'esatta superficie di quella cella, per quante volte l'aveva percorsa avanti e indietro.
Uno, due, tre, quattro, cinque, sei, sette, otto, nove, dieci, undici. Muro.
Doveva aver macinato chilometri.
Uno, due. Peccato che non avrebbe mai avuto occasione di farlo, perché non avrebbe mai più visto uno spazio aperto.
Tre, quattro. Le risuonavano ancora nelle orecchie le parole di quell'Antimago, quello giovane, quello simpatico come un Inferius: "Lo sai cosa si dice di questo posto, ragazzina? Che sai quando ci entri, ma non quando ne esci." le aveva detto ridendo dopo averla spintonata dentro la cella. Era chiaro che ci godeva, quello come minimo visitava la fortezza ogni due giorni solo per vedere i detenuti soffrire. Elizabeth ci si sarebbe giocata-
Cinque, sei. Niente, ci si sarebbe giocata, ecco cosa. Non le rimaneva neanche nulla da giocarsi. Cosa poteva puntare? Beni materiali? L'unica cosa che possedesse al momento era quella divisa a righe che oltre ad essere sbiadita cominciava anche a puzzare. Gli affetti? Perduti irrimediabilmente. La libertà? Neanche a parlarne. La vita? Non aveva più valore.
Sette, otto. Non sarebbe stata neanche tanto lunga la sua vita. Non là dentro. Sarebbe morta presto e nessuno sarebbe venuto a reclamare il suo cadavere sporco e calvo.
Nove, dieci. O forse sarebbe andata peggio, forse un Dissennatore avrebbe accantonato le regole e l'avrebbe baciata. Si fermavano davanti alla sua cella sempre più spesso e ogni volta si trattenevano più a lungo.
Undici. Non sarebbe mai uscita da quell'inferno.


day7

Era in piedi in mezzo alla cella, così il vassoio si materializzò ai suoi piedi. Si piegò flettendo le gambe, afferrò saldamente i due angoli del vassoio più vicini a lei e lo ribaltò. La ciotola si schiantò un metro più in là dopo una breve parabola e la sbobba grigiastra che vi era contenuta si sparse sul pavimento in una chiazza contornata da una galassia di schizzi di ogni forma e dimensione. Il pane raffermo rimbalzò fino ad una parete e lì si fermò, immediatamente raggiunto da un grosso topo spelacchiato. Il bicchiere cadde sul posto e, svuotatosi nella caduta, rotolò in tondo sulla pozzanghera d'acqua per diversi secondi. Elizabeth lo osservò rallentare e quindi fermarsi e, con un calcio, lo fece volare attraverso la stanza.
Era il settimo giorno che si vedeva recapitare quella roba e finalmente aveva capito: la tenevano in vita solo per prolungare la sua sofferenza. Non era vita, quella. Era peggio della morte. Meglio morire d'inedia dopo poche settimane che di una morte ben peggiore dopo anni di tortura. Elizabeth si voltò verso la porta, guardò i Dissennatori fermi oltre le sbarre. Che si nutrissero pure di lei, finché ne avevano la possibilità: lei poteva ancora decidere quando porre fine al banchetto.


day8

Basta. In piedi, le braccia abbandonate lungo il corpo, Elizabeth appoggiò la fronte sul muro freddo. Il nodo nel petto era diventato un macigno. Non ce la faceva più. Staccò la testa dalla parete di qualche centimetro per poi lasciarla ricadere in avanti. Il dolore dell'impatto le fece aggrottare le sopracciglia. Ripeté il gesto. Poche lacrime si formarono agli angoli degli occhi, ma non caddero. Elizabeth si raddrizzò, fece un passo indietro. Un metro alla sua sinistra, otto tacche bianche rompevano la monotonia dell'intonaco ingrigito. Non ce la faceva più. Basta. Avrebbe dato qualsiasi cosa per uscire da lì.
"Deve solo fare i nomi e sarà libera", così le avevano detto durante l'interrogatorio, prima di portarla al carcere.
No, non qualsiasi cosa. Quello no. Mai.
Si morse il labbro inferiore. Sarebbe morta lì dentro. Dopo appena otto giorni non ce la faceva più. Appena. Otto. Giorni. Otto giorni erano un'eternità, se ci si trovava all'inferno. Si sentì mancare il fiato. Ruotò le spalle per spingere all'indietro il braccio destro, piegato e perpendicolare al corpo. Sferrò un pugno al muro e un altro e un altro ancora. Gli occhi le si riempirono di lacrime. Sull'intonaco spiccava una macchia rossa, prova e testimone di quel gesto disperato. Elizabeth guardò le proprie nocche spellate e insanguinate. Strinse la mano ferita in quella sana e le portò entrambe allo stomaco, piegandosi in avanti. Le gambe le cedettero e si accasciò in ginocchio a terra.


day9

Era rannicchiata nell'angolo più lontano dalla porta da ore, ormai. Da poco meno, due Dissennatori si erano stanziati davanti alla sua cella. Elizabeth si abbracciava le ginocchia, le spalle scosse dai singhiozzi. Le faceva male il petto. Le faceva male tutto. Era stanca, troppo stanca. Si sforzava di non pensare, ma i suoi peggiori ricordi le affollavano la mente. Le cene silenziose della sua infanzia. Piccole pillole bianche e gocce trasparenti che sporcavano il suo latte del mattino. Grosse lumache che sgorgavano dalla sua bocca mentre lei, prostrata sul pavimento della Sala Grande, cercava di nascondere il proprio volto rigato di lacrime di umiliazione. Le sue membra immobilizzate mentre un ago incantato incideva quella parola sulla pelle sottile di quattordicenne. Gli sguardi derisori in classe, quelli di compatimento in Sala Comune. Urla rabbiose e una porta che sbatteva alle sue spalle. Una rete argentata che la stringeva e le chiudeva ogni via d'uscita, la sua bacchetta che improvvisamente non funzionava più e che le veniva strappata di mano. La fortezza che svettava sul mare in tempesta e il freddo che già le si insinuava sotto la pelle. Il presente.
Il presente era il ricordo peggiore di tutti.


day10

Osservava con sguardo spento i topi affaccendarsi intorno al vassoio che lei aveva lasciato intonso là dove era comparso. Avevano ridotto il pane in pezzi più piccoli e li avevano portati via: chissà se li portavano ad altri topi o se erano provviste per i tempi di magra. La sbobba invece la mangiarono subito, radunati in cerchio intorno alla ciotola, sollevati sulle zampe posteriori mentre con quelle anteriori s aggrappavano al bordo e il muso era chino all'interno. Infine rovesciarono il bicchiere e si rotolarono nell'acqua, come per lavarsi. Beati loro. Elizabeth si grattò la testa, staccò una piccola crosta di sporco. Si rigirò carponi e gattonò fino alla branda. Piantò gli avambracci su quello che solo con una fervida immaginazione si poteva descrivere come un materasso e vi si issò. Tirò su a fatica le gambe e crollò distesa. Aveva il respiro pesante, il battito accellerato: quel piccolo sforzo, di muscoli e di volontà, le aveva tolto ogni energia.


day11

Non sapeva da quanto tempo fosse in quella posizione. Stesa su un fianco sulla branda, le ginocchia strette al petto, le mani inerti davanti alla bocca. Immobile.
Rumori secchi di metallo contro metallo accompagnarono l'apertura della porta blindata, alcuni passi risuonarono nella cella. «Miss Ashton.»
La prigioniera non si mosse.
«Miss Ashton, è libera.»
Un peso leggero si posò appena sopra la sua testa, stoffa a sfiorarle i capelli.
«Si vesta. La aspetto in corridoio.»
Passi che si allontanavano.
Elizabeth sollevò appena la testa. Allungò una mano, tastò la stoffa con le dita screpolate. Suoi. I suoi vestiti. In un attimo fu in piedi. Si appoggiò al muro, inspirò profondamente. Le girava la testa. Si sedette, si liberò della divisa a righe ormai lurida. L'aria fredda sulla pelle la fece rabbrividire. Prese dal mucchio di vestiti la maglietta, l'indossò. Si alzò di nuovo in piedi. Pantaloni. Felpa. Scarpe. Un passo dopo l'altro, raggiunse la porta della cella, esitò e infine la varcò. L'Antimago era lì. Le fece strada lungo il corridoio. Le parlava, le spiegava la sua situazione, cosa sarebbe successo, ma lei non ascoltava: denti e pugni stretti, tentava di tenere a bada la paura che da un momento all'altro l'uomo le dicesse che c'era stato un errore, che doveva rimanere lì.
«Miss Ashton.»
Non voleva, non voleva restare lì un giorno di più. Non poteva. Undici giorni erano passati e undici giorni era il massimo che Elizabeth potesse sopportare. Oltre, sarebbe impazzita.
«MISS ASHTON.»
La strega si girò verso di lui.
«Mi deve dire dove vuole andare.»
Elizabeth lo guardò smarrita.
L'Antimago sospirò. «Arriverà in barca fino alla terraferma, dove troverà una passaporta. Deve decidere una destinazione.»
Varcarono il portone di Azkaban. Il vento gelido sferzava la fortezza avvolta dalla nebbia, i flutti si infrangevano con una furia disperata sui muri impassibili. La grossa barca levitava a qualche metro dalla superficie dell'acqua, al riparo dalle alte onde grigie.
Cosa diceva quel libro, quello dell'oscurologo da strapazzo? Parlava di un incantesimo, il solo efficace contro i Dissennatori.
«Al British-» Elizabeth si schiarì la voce, arrochita dai troppi giorni di silenzio. «Voglio andare al British Magic Museum.»




I tre prigionieri di cui Elizabeth sente le voci il primo e il secondo giorno sono, chiaramente, riferimenti a personaggi della Rowling. Ben lungi da considerarli esistenti ongdr, il mio vuole essere solo un omaggio ai personaggi minori della saga.

Mi sarebbe piaciuto postare contemporaneamente a questo testo l'apprendimento retrodatato (previa richiesta di via libera al master, naturalmente) dell'Incanto Patronus, purtroppo vari impegni e contrattempi mi costringono a rimandare.
 
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view post Posted on 31/12/2017, 12:39
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The pictures tell the story

Elizabeth si chiuse alle spalle la porta del minuscolo bagno. Rabbrividì: anche nel tepore di casa, la t-shirt che la copriva appena fino ai fianchi era indubbiamente troppo poco per gli ultimi giorni di dicembre. La strega depositò il morbido asciugamano sullo sgabello accanto alla doccia e si strofinò con le mani le cosce nude, nell'infruttuoso tentativo di riscaldarle. Allungò la mano sinistra e girò decisa la manopola dell'acqua calda. La rondine sul polso fremette, come se dovesse spiccare il volo da un momento all'altro, portando via con sé l'invito che portava nel becco – Bring it on – e lasciando soltanto pelle bianca e spoglia, privata di ogni significato.


◄◄


«Chi è qui il giocatore professionista e chi l'anonima ragazzina, eh?»
Elizabeth strinse le labbra e si avvicinò all'uomo che, braccia conserte e sorriso beffardo, non mosse un muscolo. La ragazza teneva il capo sollevato per guardare negli occhi il giocatore: «Brutto pallone gonfiato, stupido troll» gli soffiò in faccia «vermicolo insignificante, se giochi come parli mi stupisce che la tua squadra non abbia fatto la fine di una casa infestata da un Bundimun. Faresti meglio ad abbassare la tua cresta da galletto arrogante prima di fare una gran brutta figura.»
Lui si chinò, incombendo minaccioso sull'esile strega: «E chi me la farebbe fare, tu? Che fai, mi picchi?»
Elizabeth si sporse, si allungò più che poteva per portare il proprio volto a pochi centimetri da quello dell'uomo: «Oh, non c'è nulla che io desideri di più. Andiamo, fatti sotto!»
L'uomo arretrò di due passi e scoppiò a ridere. Una risata grassa, di pancia, con la testa gettata all'indietro e gli occhi chiusi. Qualche altro avventore cominciò a sorridere o ridacchiare.
La ragazza lo guardò torva per qualche istante. Lentamente estrasse la bacchetta e la puntò con calma. Inspirò e mormorò l'incantesimo. La scopa abbandonata nell'angolo si librò docile nell'aria, puntando dritta verso il giocatore ancora troppo impegnato a ridere per guardarsi intorno.


►►


Elizabeth si voltò verso lo specchio che già cominciava ad appannarsi. Incrociò le braccia davanti al corpo, afferrò con entrambe le mani l'orlo inferiore della maglietta e tirò verso l'alto. La stoffa scivolò sul busto liberando i fianchi snelli, il bacino sporgente, le costole che come i pioli di una scala congiungevano la pancia al seno. Prima che quel sipario di cotone le occludesse la vista, Elizabeth si bloccò. La maglietta tolta a metà, piegò il busto in movimenti ondulatori, fissando affascinata la propria immagine riflessa: la fenice e l'obscurus si affrontavano sul suo fianco in una lotta senza quartiere. Se si torceva all'indietro in quel modo, l'obscurus sembrava prevalere, soffocare la fenice tra le proprie spire; ma se invece si piegava verso destra, un po' di più, ecco, allora era la fenice ad incombere minacciosa sull'obscurus, a respingerlo nell'abisso.


◄◄


La mamma le sistemava la nuova divisa. Elizabeth si grattò la pancia, infastidita: il maglione le faceva prurito e la gonna era troppo larga.
«Su, Beth, smettila di stropicciare tutto.»
«Ma mi prude!»
«Ci farai l'abitudine e non ti darà più nessun fastidio, vedrai.»
«Nella
mia scuola non ci facevano mettere queste stupide divise.» borbottò la bambina.
«Ora è questa la tua scuola. Abbiamo dovuto cambiarla per forza, dopo che-»
La mamma sospirò. Lasciò stare la divisa e guardò Elizabeth negli occhi, stringendole delicatamente le braccia: «Ascolta, Beth. È il nostro quarto trasloco, comincia a essere... Difficile.»
La bambina tacque. Aveva sentito mamma e papà discutere tante volte, lo sapeva che era colpa sua. Il labbro inferiore le tremò.
La mamma le ravviò una ciocca di capelli, ancorandola dietro l'orecchio. «Questa volta devi fare la brava, ok?»
«Mamma, io ci provo!» proruppe Elizabeth, la voce incrinata e gli occhi colmi di lacrime. «Ci provo, davvero.»
«Devi provarci di più!» sbottò la donna.
«S-scusa m-mam-ma. Io n-on l-loo fac-cio a-appos-ta, te lo g-giu-ro.» singhiozzò la bambina.
La mamma la abbracciò: «Va bene, piccola, ho capito, non vuoi fare quelle cose.»
«N-no m-am-ma.»
La mamma si scostò da lei, tirò fuori un fazzoletto e le tamponò il viso.
Elizabeth serrò gli occhi, li strinse più forte che poteva. La sentiva, sentiva la
cosa che cresceva: doveva ricacciarla giù, o avrebbe fatto di nuovo qualcosa di brutto.


►►


Elizabeth scosse la testa, allontanò dalla mente il volto di sua madre. Concluse il gesto lasciato a metà e lasciò ricadere la maglietta a terra abbandonando le braccia lungo il corpo. Ora poteva vedere il profilo dello sterno, il seno minuto, le clavicole che si allungavano verso le spalle ossute. Elizabeth si voltò, esponendo allo specchio il fianco destro. La fenice e l'obscurus non si vedevano più, mentre al centro della scena la pantera, acquattata sulla pelle, discendeva minacciosa verso il gomito. Elizabeth fletté il braccio per poi distenderlo davanti a sé e studiò i muscoli della pantera, tesi sotto al manto nero, guizzare insieme al suo bicipite.


◄◄


Lo stanzone era sempre illuminato a giorno grazie all'Incantesimo Atmosferico e il pavimento era incantato per simulare una dozzina di terreni diversi. Elizabeth, i piedi saldamente piantati su una porzione di cemento, fronteggiava uno dei sacchi disseminati per la stanza. Diretto, jab, diretto, schivata, montante. L'insegnante, un mago alto dai lunghi capelli grigi legati in una coda, le si accostò. Elizabeth si sforzò di non farci caso e di mantenere la concentrazione. Gancio, montante, parata.
«Ti sei scoperta con il montante e hai parato troppo tardi. Arretra, se non puoi essere più rapida.»
Jab, gancio, montante,
indietro.
«Mh.»
Elizabeth sbuffò. Avanti, diretto, diretto, montante, diretto.
«Hai anche delle gambe, te ne sei dimenticata?»
Jab, diretto, indietro, circolare medio.
«Mi sembrava di aver spiegato che un calcio circolare, soprattutto per un combattente inesperto, è più spesso controproducente che utile.»
Avanti, gancio, indietro, frontale, avanti, jab, diretto, indietro, laterale, avanti, gancio.
«Forse ti serve uno stimolo in più.»
L'uomo levò la bacchetta e la puntò sul sacco. Sciorinò una lunga formula e il sacco cominciò a contorcersi, assumendo lentamente le sembianze di un fantoccio di legno e gomma piuma, alto quasi due metri e semovente.


►►


Ripiegò il braccio e affondò la mano tra i capelli, pettinandoli all'indietro. Le catene intrecciate sull'avambraccio le passarono davanti agli occhi e, con esse, il numero che contenevano. Elizabeth non ebbe bisogno di leggerlo: quelle cinque cifre erano incise a fuoco nella sua memoria prima che sul suo corpo.


◄◄


Le catene pendevano inerti dai braccioli della sedia. Elizabeth non sapeva se l'avrebbero legata o no e lanciava ai grossi anelli di metallo occhiate ansiose, chiedendosi ogni volta se la loro posizione fosse davvero la stessa di poco prima. Di tanto in tanto si guardava intorno, percorreva con lo sguardo le panche e gli scranni: vesti e gessati ed espressioni serie, gelide, severe, disinteressate. Per lo più, Elizabeth si fissava le ginocchia. «Procedimento numero 26773» Elizabeth guardó in alto: proprio di fronte a lei, poco sotto gli scranni più alti, una donna si era alzata in piedi. Alta e magra, fasciata in un tailleur color crema, capelli corti, poche rughe sul volto, occhiali ovali calati sul naso e una pergamena tra le mani. «Imputata: Elizabeth Mary Ashton. Capi di imputazione: Uso Improprio delle Arti Magiche, violazione dei Regolamenti per il Controllo Regolativo delle Scope, organizzazione di Eventi Magisportivi non autorizzati. Presiede la seduta: Theophilus Claude Julius Bradshaw, Ordine di Merlino-» Elizabeth non ascoltò altro. Sentiva le lacrime pungerle gli occhi, così li fissò a terra. Non potevano rimandarla ad Azkaban. No. Non l'avrebbero fatto. Del resto, perché farla uscire per poi rimandarcela? Non avrebbe avuto senso. Giusto?


►►


Lo specchio ormai era del tutto appannato, l'acqua doveva essere calda. Elizabeth si voltò, si sporse nella doccia e allungò il palmo sinistro fin sotto il getto d'acqua, per saggiarne la temperatura. L'ostacolo improvviso dirottò qualche goccia sul corpo di Elizabeth, sul viso, sul busto, ma soprattutto sul braccio. Piccole perle d'acqua ricoprirono il cielo notturno e il manico di scopa sull'avambraccio: era come guardarli da una finestra in un giorno di pioggia.


◄◄


La strega si chinò in avanti, il busto quasi aderente al legno, e la scopa scattò in avanti. Una breve occhiata dietro di sé, soltanto una frazione di secondo: gli avversari più vicini erano a diversi metri da lei, i più lenti neanche li vedeva più. Elizabeth sorrise. Non importava chi fosse davanti alla partenza: lei seminava sempre tutti nel tratto tra gli alberi. Si inclinava fulminea a destra o a sinistra, cambiando la traiettoria di quei pochi gradi sufficienti ad evitare i tronchi di appena qualche centimetro. Non rallentava per evitare i rami che le tagliavano la strada: scendeva o saliva di quota di mezzo metro, oppure si capovolgeva in volo, o si raccoglieva tutta sulla scopa per sporgere il meno possibile. Nessuno poteva attraversare quel breve tratto di foresta alla velocità con cui lo faceva lei. Non senza schiantarsi.


►►


Sì, era calda. Elizabeth agganciò con i pollici gli slip, li fece scivolare morbidi lungo le gambe: bacino, fianchi, le scintille blu, cosce, la bacchetta, cosce, ginocchia, tibie, caviglie. Sollevò prima un piede e poi l'altro per liberarli dall'indumento. Elizabeth chinò la testa e i capelli le coprirono gli occhi. Raccolse le ciocche dietro l'orecchio spostandole in punta di dita e lasciò che quella carezza proseguisse lungo il collo, superasse la clavicola, scendesse fino alla sommità della coscia, a sfiorare delicatamente il disegno. Sarebbero bastate due parole, un movimento di bacchetta, per far tremare le particelle d'inchiostro, farle muovere e scivolare sulla pelle fino a comporre qualcosa di completamente diverso. Ma quelle parole e quel movimento Elizabeth non aveva mai voluto impararli.


◄◄


Aprì gli occhi e immediatamente li richiuse, accecata dal biancore asettico delle lenzuola e delle tende. L'infermeria. Agrottò le sopracciglia, si umettò le labbra secche. Improvvisamente ricordò e spalancò gli occhi. Si sollevò a sedere gettando di lato le lenzuola e poi rimase immobile, a fissare la coscia nuda. Sulla pelle candida spiccava il disegno di una bacchetta magica: non era molto accurato, ma si capiva quale fosse il soggetto. Dalla punta della bacchetta usciva un getto di scintille color zaffiro.
La tenda venne scostata, l'infermiere della scuola si accostò al letto. Elizabeth spostò su di lui gli occhi sgranati.
«Ho pensato che così fosse più carino.» spiegò l'uomo con un sorriso. Tornò serio, accostò uno sgabello al giaciglio e vi si sedette. Prese la mano di Elizabeth tra le proprie: «Mi dispiace molto, cara: purtroppo non ho potuto cancellarlo. Erano passate troppe ore e con quel tipo di magia... Ho potuto solo camuffarlo, con un Rivela Incanto riprende la forma originale. Almeno, però, non avrai sempre sotto gli occhi quell'orribile scritta.»
Elizabeth batté le palpebre per ricacciare indietro le lacrime. «Io-» cominciò. Si schiarì la voce. «La ringrazio molto, davvero. È-» Espirò, si costrinse a sorridere. «È bello, ora. Va bene. Grazie».


►►


Elizabeth entrò nella doccia, tirò la tenda e si mise sotto il getto. Lasciò che l'acqua bollente le scorresse sui capelli, sulle spalle. Chinò la testa in avanti e le ciocche bagnate scivolarono in avanti, lasciando scoperta la schiena. L'acqua martellava sulla rosa dei venti, accarezzava le rose, solcava le facce dei dadi.


◄◄


Era già in piedi nel camino, una manciata di Polvere Volante nel pugno chiuso e una sacca con le sue poche cose stretta nell'altra mano, l'indirizzo di destinazione chiaro nella mente. Il tatuaggio sulla schiena, fresco di pochi giorni, le prudeva terribilmente. Quando l'impulso di grattarsi diventava insopprimibile, seppelliva il disegno sotto uno spesso strato del composto cicatrizzante e idratante che le aveva preparato Rigel. Era bravo in quel genere di cose, se fosse andato ad Hogwarts probabilmente sarebbe diventato Medimago. Il ragazzo le stava appunto porgendo un altro grosso barattolo, che Elizabeth incastrò goffamente sotto il braccio. «Ancora?» gli disse con un sorriso. «Quello vecchio è ancora quasi pieno!»
«Non posso sapere quanti altri tatuaggi farai prima che ci rivediamo.» ribatté prontamente lui. «Scommetto che tra un anno mi implorerai di preparartene ancora.»
Elizabeth gli mostrò la lingua e Rigel sorrise e indietreggiò, tornando vicino agli altri.
Eccoli lì, uno accanto all'altro in una linea scomposta di fronte al camino che avrebbe portato via Elizabeth.
Marcie, Jules, Dewie, Shedir, Rigel, Herm.
Eccoli lì, per salutarla, tutti e sei. E con lei sette.
Sette, come le rose indelebili sulla pelle di Elizabeth.


►►




Accidenti, Horus, questo tema mi ha messa davvero in difficoltà. Mi sono esercitata per anni in una scrittura concreta, mostrata, sentirmi chiedere l'introspezione mi destabilizza! Ho rimuginato per un mese, per poi elaborare in ventiquattr'ore scarse l'ultima idea che mi è venuta dopo averne scartate davvero troppe. E così ecco questa cosa opera d'arte, con la quale non sono nemmeno certa di non essere andata fuori tema.
Comunque vada, è stato interessante scoprire qualche altro ricordo di Elizabeth e, soprattutto, scrivere di quel legame speciale che si crea tra una persona e la storia che decide di disegnarsi indelebilmente addosso.
 
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view post Posted on 31/1/2018, 16:43
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~ A cuor leggero ~

commonroom

Un delicato picchiettare costrinse Elizabeth a distogliere l'attenzione dal manuale di Trasfigurazione Avanzata. Si guardò intorno, in cerca della fonte del rumore, finché posò gli occhi sulla finestra: un gufo dall'aspetto trasandato diede qualche altro colpetto con il becco sul vetro, come se volesse confermare che sì, era stato lui a bussare. Elizabeth si sporse oltre l'alto schienale della poltrona – la sua preferita, non tanto per la vicinanza al camino quanto per come la nascondeva dagli sguardi indiscreti dei suoi concasati – per lanciare un'occhiata alle proprie spalle e sincerarsi di essere ancora sola. Possibile che ci fosse una lettera per lei? Si alzò titubante, raggiunse la finestra e si inginocchiò sulla panca incassata nel vano per aprire l'imposta. A dispetto del sole abbagliante che splendeva nel cielo senza nuvole, l'aria fredda si insinuò nella stanza e fece tremare le fiamme nel camino. Il gufo saltellò dal davanzale al braccio che Elizabeth gli porgeva. Il fardello legato alla zampa non era una vera e propria lettera, ma un ritaglio di pergamena arrotolato. La ragazza lo sciolse delicatamente e subito il rapace spiccò il volo, scomparendo in direzione di Hogsmeade: evidentemente, il mittente non voleva risposta. Una volta srotolata, la strisciolina ingiallita rivelò bordi slabbrati e un messaggio di appena due righe: una domanda, un luogo e un momento.
Elizabeth guardò il libro abbandonato sul bracciolo della poltrona. Mancavano appena due giorni al test, doveva studiare. Ripose in tasca il foglietto e chiuse la finestra, concedendosi un'ultima occhiata all'esterno, a quel panorama di fine inverno con l'erba già rinverdita e le prime gemme sui rami degli alberi. Doveva studiare, sì, eppure...
Avrebbe dovuto studiare, ma era una giornata così bella. Avrebbe dovuto studiare, ma non ne aveva avuta abbastanza di solitudine in tutti quegli anni? Dopotutto era una studentessa brillante, si era sempre impegnata, se le meritava un paio d'ore libere, no? Che differenza avrebbero mai potuto fare? Avrebbe dovuto studiare e per nessun motivo uscire dalla scuola sola e senza autorizzazione. Eppure la luce del sole sembrava chiamarla e l'invito nella sua tasca esortarla e chi mai l'avrebbe notata, comunque, se avesse attraversato con discrezione il castello e il giardino per raggiungere il villagio? Un paio d'ore soltanto, poi con altrettanta discrezione sarebbe tornata e avrebbe trascorso la serata in compagnia del vecchio Emeric Zott.
Un minuto dopo, volava giù dalle scale del dormitorio, dove aveva malamente gettato il manuale sul letto e aveva arraffato dal baule il primo maglione che aveva trovato. Attraversò di corsa la Sala Comune, lieta che non ci fosse nessuno a vedere i suoi movimenti, e scivolò agilmente fuori dal buco dietro al ritratto. Stava per imboccare il corridoio che l'avrebbe condotta alle scale quando un tossicchiare insistente la costrinse a voltarsi. La Signora Grassa la fissava sospettosa: «Dove vai così di corsa, cara?»
«In...» Elizabeth si bloccò. Voleva dire "biblioteca", la più naturale delle scuse considerato il tempo che vi trascorreva abitualmente, ma quella ingombrante pettegola sarebbe stata persino capace di abbandonare la poltrona e offrirsi di accompagnarla pur di farsi i fatti suoi. E in ogni caso, qualche altro dipinto l'avrebbe sicuramente vista uscire dal castello e l'avrebbe raccontato in giro. «...giardino.» concluse. «Alle serre: devo chiedere una cosa alla professoressa Sprite.»
«Oh.» commentò la Signora Grassa, osservando con nonchalance il proprio ventaglio nel malriuscito tentativo di mascherare la delusione. «In questo caso, buon pomeriggio.»
«Grazie, anche a Lei.» replicò educatamente Elizabeth prima di tornare sul proprio tragitto. Percorse i primi metri con ostentata calma, ma appena girato l'angolo riprese a correre. Le scale la portarono fuori strada due volte, evitò per un soffio Mrs Purr e dovette rifilare la storiella della professoressa Sprite a tre diversi fantasmi. Finalmente raggiunse l'atrio, lo attraversò circospetta e, socchiuso il grande portone, sgusciò fuori.



~ ~ ~



Elizabeth fissava quel pezzetto di pergamena recapitatole quasi dieci anni prima dal gufo che avrebbe poi scoperto chiamarsi Lame. Rilesse ancora una volta il messaggio, scritto in quella che avrebbe imparato a riconoscere come la grafia affrettata di Dewie: "Ehi Hogwarts! Non ti si è più vista, perché non molli quel tuo castello barboso e vieni a farti un giro con noi? Ti aspettiamo dietro Mielandia tra mezz'ora".
Non per la prima volta si chiese cosa avrebbe fatto, in quel lontano pomeriggio dei suoi quindici anni, se avesse potuto conoscere le conseguenze future di quella piccola scelta, in apparenza così insignificante. Se avesse potuto sapere che quella sera l'avrebbe fatta franca e sarebbe rientrata nel dormitorio con la pelle arrossata dal freddo e il riso ancora sulle labbra, ma poco più di due anni dopo quel dormitorio le sarebbe stato precluso per sempre. Che nei giorni successivi avrebbe trovato tra i cottage di Hogsmeade e gli arbusti della brughiera un luogo da chiamare casa, ma da quella casa sarebbe poi stata costretta ad andarsene. Che l'autore di quel biglietto sarebbe diventato il legame più importante della sua vita, ma l'avrebbe perso troppo presto.
Se avesse saputo quanto quella piccola scelta le avrebbe dato e quanto le avrebbe tolto.
Elizabeth prese una penna a sfera dal cassetto – la trovava tanto più comoda di piume e boccette d'inchiostro – e aggiunse poche parole, proprio sul bordo del frammento di pergamena. Un messaggio, scritto con il
senno di poi, rivolto alla se stessa del passato. Un promemoria per la se stessa del futuro.
"Nessun rimorso"

"Ai più importanti bivi della vita, non c'è segnaletica."



Non sapendo chi insegnasse Erbologia ongdr quando Elizabeth era al quarto anno, ho usato a mo' di jolly il nome della docente della saga.
 
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view post Posted on 28/2/2018, 13:43
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Blu

Ritta in piedi sulla piattaforma di cemento, Elizabeth si calò la maschera sul volto.
Mamma si sarebbe arrabbiata terribilmente quando si fosse accorta che non era rimasta buona ad aspettare che lei finisse di disfare i bagagli ed era invece sgattaiolata fino alla spiaggetta, per di più senza nemmeno prendere il costume. Questo, però, era un problema di cui la piccola si sarebbe preoccupata in seguito: al momento, la priorità era dare inizio al programma di allenamento con cui avrebbe imparato, entro il termine della settimana di vacanza, a tuffarsi di testa.
La bambina tese le mani, sovrapposte una sull'altra, verso l'acqua blu appena increspata e intorbidita da piccole onde. Inspirò a fondo e, trattenendo l'aria nei polmoni, si tuffò. Le braccia fendettero la superficie liquida, aprendo la strada a testa e busto. Subito dopo, lo schiaffo violento dell'acqua sulle cosce suggerì che qualcosa non aveva funzionato. Elizabeth riemerse e arricciò le labbra in un verso di dolore e fastidio, strofinandosi la parte lesa.
Quella sera mamma avrebbe notato la pelle arrossata e si sarebbe infuriata ancora di più.
Pertanto, era meglio fare più tentativi possibile prima di essere messa in punizione.
Si immerse per nuotare sott'acqua fino al punto di partenza. Era la cosa le piaceva di più, stare sott'acqua: si sentiva avvolta e cullata da quell'abbraccio liquido, freddo e salato, che le si insinuava nelle orecchie e le gonfiava i capelli e la sottile maglietta di cotone, amava la carezza delle correnti e la magia di luci e riflessi che un semplice raggio di sole creava in quel mondo sommerso.
Riemerse solo a ridosso della piattaforma. Piantò saldamente i palmi sul cemento e si issò a forza di braccia, stendendole lentamente. Quando furono tese, ruotò i fianchi per mettersi a sedere.
Andava molto fiera di quella mossa aggraziata: era stata l'obiettivo delle vacanze dell'anno precedente.

swimming

***

«Pensavo avessimo deciso di non portarla.» Gwen parlava al marito in tono accusatorio e gesticolava agitando la maschera blu appena strappata dalle mani della figlia.
«Io non l'ho portata, l'avrà nascosta nel suo zainetto.»
«Ma ti avevo detto di metterla dove non la potesse prendere! Possibile che non ascolti ma-»
«L'ho messa sullo scaffale più alto del ripostiglio, non so come abbia fatto a tirarla giù!»
Gwen si voltò verso Elizabeth, che ascoltava la discussione a testa china, fissando il pavimento, e non sollevò lo sguardo nemmeno nel vedere i piedi della madre avvicinarsi a lei.
«Elizabeth Mary, guardami. Guardami, ho detto! Ti sei arrampicata nel ripostiglio?»
«No, mamma.» rispose flebilmente la bambina.
«Non dire bugie.»
«Ma non è una bugia, non mi sono arrampicata!»
«No? E come ci è finita questa» le sventolò la maschera a pochi centimetri dal naso «nelle tue mani?»
Elizabeth mormorò qualcosa.
«Non ho sentito.»
«L'ho chiamata e lei è venuta giù.» ripeté la bambina in un sussurro appena udibile, portando inconsciamente una mano a proteggere il volto dalla sberla che, lo sapeva, sarebbe di certo arrivata in seguito a quell'ammissione.

 
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view post Posted on 31/5/2018, 22:14
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Sei lettere, sei sospiri, sei diverse emozioni.


Siccome ho recentemente scoperto di non essere il centro del mondo (sì, sono turbata, ma pian piano mi sto abituando all'idea), qualche breve linea guida per collocare temporalmente il brano:
Elizabeth è tornata in Inghilterra a ottobre, a causa della morte di un vecchio amico, Dewayne, e ha trovato Julia, altra vecchia amica e compagna di Dewie, incinta. Jules era a metà del terzo mese all'epoca e la bimba è nata prematura, per cui nel presente narrativo ha all'incirca tre mesi. Dopo aver trascorso la gravidanza e le settimane successive dalla sorella, in Galles, Jules è da qualche giorno ospite nel piccolo appartamento di Elizabeth, a Londra.


babyRipley

Rigirandosi tra le mani la posta appena ricevuta, Elizabeth rientrò nell'appartamento. Tendendo la gamba destra, agganciò con il piede la porta e l'accompagnò verso la soglia. Indietreggiò e con un sospiro stanco si abbandonò contro l'uscio, che si chiuse con uno schiocco. «Non ci crederai mai.» esordì alzando finalmente lo sguardo sul divano dove aveva lasciato Jules. «Ho dovuto Obliviare il-» si interruppe e si tappò la bocca con una mano. Jules, che fino a pochi minuti prima stava cercando di addormentare la figlia con una ninna nanna, si era assopita, abbandonata sul bracciolo. La piccola Ripley era stesa nella nicchia creata dal corpo incurvato della madre, con gli occhi spalancati. Come per confermare che sì, era proprio sveglia, emise un breve vagito.
In punta di piedi, Elizabeth si avvicinò al divano. «Shhhhh.» intimò alla bambina. Chissà se era in grado di capire, così piccola, che cosa quel verso volesse dire. Un secondo vagito risuonò nella stanza come un deciso “no”. «Shhhhh-shh-shhh-shh.» proseguì nel dubbio la strega «Shh-shh-shh.» appoggiò sul tavolino le buste che ancora stringeva in mano. «Shhhh-shhh-shh-shh» prese in braccio la bimba, che interruppe a metà il terzo vagito, e sorreggendole la testa si appoggiò il corpicino contro una spalla, come le aveva spiegato Jules. «Sh-sh-shhhh-sh-sh-shhhhh.» Senza interrompere la litania e molleggiando ogni passo nel goffo tentativo di cullare la piccola, si infilò nell'unica altra stanza dell'appartamento: il bagno. Si chiuse silenziosamente la porta alle spalle. Si guardò intorno, passando in rassegna ogni oggetto, e infine accettò con un sospiro rassegnato l'inconfutabile assenza di un
qualcosa che le suggerisse come intrattenere la cosina tra le sue braccia.
Piano geniale, lasciar dormire Jules. Le rimaneva solo da capire che fare, chiusa in bagno con quell'esserino minuscolo di cui le sfuggiva l'esatto funzionamento. Ok, i bambini piccoli di solito passavano un sacco di tempo a dormire, no? E Jules stava appunto cercando di farla addormentare. «Ok, Ripley,» sussurrò Elizabeth «nuovo piano: tu dormi. E per farti dormire io-» si interruppe, allontanò da sé la bambina per mettersela di fronte e incrociarne lo sguardo. «Per farti dormire io che faccio?» Prese a dondolarla ritmicamente. «Che si fa per farti addormentare?» cantilenò a tempo. Si fermò. Ma certo, il... Il... Il coso! Quella specie di trasportino ovale. Tornò a stringere la piccola a sé. Riaprì piano la porta, si sporse fuori dallo spiraglio così creato e individuò l'aggeggio che le serviva. Con qualche manovra, sistemò Ripley in modo da tenerla con il solo braccio sinistro, con la mano destra recuperò la bacchetta dalla tasca. La puntò e con un leggero movimento del polso, dal basso verso l'alto, ne fece scaturire sottili filamenti che raggiunsero l'obiettivo e lo sollevarono, per poi spostarlo dolcemente verso di lei. L'aggeggio attraversò la stanza e sbatté rumorosamente contro la porta semiaperta e poi contro lo stipite. Elizabeth imprecò a mezza bocca, con uno sforzo di volontà mantenne l'incantesimo. Lanciò un'occhiata a Jules: dormiva ancora beata, sorda al trambusto. Elizabeth sospirò sollevata. Allargò il passaggio spingendo con un piede il battente e guidò l'aggeggio all'interno del bagno, sul pavimento. Ripose la bacchetta, chiuse la porta. Si accovacciò e delicatamente, come fosse di vetro, adagiò Ripley nella conca imbottita. Tenendola con una mano, cominciò con l'altra a dondolarla. La bimba agitò gambe e braccia, girò il capo a destra e a sinistra e prese a lamentarsi torcendo il visino, senza dare segno di volersi calmare.
«Piantala.» sbottò Elizabeth dopo diversi minuti. Ripley si zittì, la guardò con gli occhi spalancati e la minuscola bocca aperta. Poi il mento, o comunque quella protuberanza del viso paffuto catalogabile come mento, cominciò a tremarle e dalla gola le uscì una specie di miagolio. «Oh no. No no no.» Pietrificata, la strega ascoltò quel lamento farsi sempre più acuto. «Ti prego, non metterti a piangere.» implorò, lo sguardo fisso sul piccolo volto contratto e arrossato. «Ti prego, ti prego, ti prego.» Sentì l'esasperazione risalirle dal profondo e il forte impulso di scappare prima che il pianto esplodesse. «Avanti, Liz.» sussurrò a se stessa. «È la figlia di Dewie, dannazione!» Inspirò a fondo, chiuse gli occhi e rilasciò il fiato in un lungo sospiro. Infilò le mani tra il corpo della bambina e l'imbottitura dell'aggeggio e la sollevò, i palmi ad avvolgerle la schiena e le dita distese a sostenerle il capo. Ripley si calmò all'istante. Elizabeth se la sistemò davanti al petto, un avambraccio a sorreggere il corpo e l'altro la testa, e si incamminò avanti e indietro nel piccolo bagno, cullandola intanto con un movimento ondulatorio delle braccia. A più riprese, le palpebre della bambina calarono a coprire le iridi azzurre, per poi riaprirsi di scatto, come se lei non volesse rinunciare a vedere ciò che le accadeva intorno. Ma la strega non desistette e, finalmente, gli occhi rimasero chiusi.
Lentamente, Elizabeth si accovacciò accanto all'aggeggio e vi adagiò Ripley. Non fece in tempo nemmeno a ritrarre le mani che gli occhi della bambina erano già spalancati e le braccine tese verso di lei. La strega alzò gli occhi al cielo, la riprese in braccio. «Io non sono proprio capace, sai? Dovrebbe esserci il tuo papà, qui, adesso, a occuparsi di te mentre mamma dorme.» Il volto di Dewie emerse prepotente tra i suoi pensieri. Aveva cercato di pensarci il meno possibile, in quei mesi, ma con quella bambina tra le braccia era difficile. Difficile non ricordare di chi fosse figlia, difficile non notare quella piccola voglia sull'avambraccio destro che suo padre aveva avuto identica. Strinse a sé quel promemoria vivente, indietreggiò fino ad appoggiarsi con la schiena alla porta. La voce canzonatoria di Dewie le risuonava nella mente:
“Fai pure la dura, sta' alla larga dai mocciosi. Tanto con i miei ti costringerò a fare la zia affettuosa. E tu li adorerai”. E bravo Dewie, alla fine era riuscito a costringerla. Nel peggiore dei modi: l'assenza. Elizabeth si lasciò scivolare a terra, un sospiro tremante le sfuggì dalle labbra. Le lacrime le rigavano il volto, esitavano qualche istante sospese sul mento o sulla mandibola e infine precipitavano nel vuoto. Ripley si agitò, si lamentò. La strega abbassò lo sguardo: le sue lacrime cadevano sulla testolina, bagnavano i capelli sottili e radi. Batté le palpebre, si asciugò il volto strusciandolo sulla spalla. Allontanò la bambina da sé, se la mise in piedi sulle ginocchia sorreggendola con le mani sotto le braccia. Le sorrise.
«E invece al posto di papà c'è la zia matta!» Stese le gambe, mosse ripetutamente su è giù le ginocchia facendo sobbalzare delicatamente la piccola. «La-zia-mat-ta.» scandì a tempo. Ripley rise, puntò i piedini. Qualunque cosa Elizabeth si aspettasse dall'avere quello scricciolo in casa, non era preparata al fiotto di tenerezza che la pervase nel vedere le pieghe del riso sul piccolo volto. Le sue labbra si piegarono in un sorriso tenue. Sospirò, rapita. Avvicinò il proprio viso a quello di Ripley. «Ma guarda come ti sei tutta accartocciata.» le sussurrò. «Ti chiamerò Ripple.»


NO ONE IS ACTUALLY DEAD UNTIL THE RIPPLES THEY CAUSED IN THE WORD DIE AWAY

 
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view post Posted on 29/6/2018, 22:51
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Niente, ho scoperto che adoro scrivere dell'adolescenza di Elizabeth. La immagino sempre molto birra e guai.



Sottobosco


Erano le sei di una domenica mattina ed Elizabeth barcollava per i corridoi nel tentativo di raggiungere il proprio dormitorio. Non le era mai capitato, fino a quella notte, di tornare così tardi da potersi ormai considerare presto e, a dispetto del proprio stato alterato, non le ci era voluto molto per notare l'evidente svantaggio della cosa: tutti i fantasmi, Gazza e persino qualche professore si aggiravano già per la scuola, il che incrementava sensibilmente le probabilità che studenti poco ligi alle regole – nella fattispecie, lei – venissero beccati.
La voce, pericolosamente vicina, di quella Manticora in forma umana solita torturare le proprie vittime dalla cattedra di Rune costrinse la giovane Strega a nascondersi dietro la statua di Andros l'Invincibile, che fortunatamente era stato in vita un voluminoso ammasso di muscoli. Così celata, Elizabeth poté godere del dubbio privilegio di udire le lamentele untuose di Gazza: «...proprio ragione da vendere, signore: un manipolo di teste calde, ma danno del filo da torcere, Le garantisco, signore. E devono aver trovato il modo di intrufolarsi nel giardino della scuola, signore, hanno cercato di entrare in una delle serre.»
Elizabeth alzò gli occhi al cielo. Avevano bisogno di foglie di Mandragola e di un Limone Zannuto per curare una brutta ferita a Shedir, che altro avrebbero dovuto fare? Mica potevano andare al San Mungo e raccontare come se l'era procurata. E, per inciso,
ci erano riusciti ad entrare nella serra.
«Lo so, Gazza, lo so. Rubano, fanno chiasso, infastidiscono alcuni dei nostri studenti più stimati.»
I più
stronzi, semmai, altro che stimati. C'era da giocarsi la bacchetta: se gli studenti "infastiditi" fossero stati Mezzosangue, o anche solo figli di famiglie meno prestigiose, Manticora non se ne sarebbe preoccupato tanto.
«Lei conosce la foresta pluviale?» proseguì l'uomo.
«La foresta pluviale, signore?»
«Precisamente. Vede, Gazza, nelle foreste pluviali il sottobosco è assai limitato, a causa della mancanza di luce. Troverebbe una situazione simile, probabilmente, anche nel profondo della nostra Foresta, se mai vi si addentrasse.»
Di che diamine parlava?
«Quando il tessuto forestale si dirada, tuttavia, il suolo viene rapidamente colonizzato da piante, liane e giovani alberi. È ciò che in zone tropicali si chiama giungla: un intreccio fitto e ostile a tutto ciò che non ne fa parte, insidioso e ingovernabile.»
La voce era ormai molto vicina ed Elizabeth trattenne il respiro. Temeva di cominciare a intuire dove Manticora volesse andare a parare.
Gazza taceva, forse troppo impegnato a non dipingersi sul volto la solita espressione stolida, così il docente proseguì indisturbato: «Quel che è interessante, Gazza, è che tutto ciò può essere letto come metafora del fastidioso fenomeno sociale rappresentato da questi giovani di Hogsmeade.»
«Oh. E con ciò, signore?» si arrischiò Gazza.
«E con ciò, abbiamo bisogno che la nostra metaforica foresta torni a ristabilire il controllo su questa città, soffocando il sottobosco indesiderato.»
Elizabeth deglutì. Non le piaceva, non le piaceva affatto.
«Domattina avrò il piacere di accogliere alcuni Ispettori del Ministero: agenti adatti a questo lavoro, scelti con cura da me e dai genitori di alcuni studenti.»
Già. Poteva ben immaginare
quali genitori di quali studenti.
«Ottima notizia, signore!» approvò allegramente Gazza.
«Confido che-»
Le voci si dissolsero, i due dovevano aver girato l'angolo.
E così, i maghi perbene classificavano lei e i suoi amici come il frutto di qualche mancanza del Ministero, il prodotto di un vuoto di potere, un gruppetto di sbandati da riportare all'ordine. Bene, gli sbandati avrebbero fatto vedere a Manticora e ai suoi Ispettori cosa pensavano del loro Ministero, del loro potere e del loro maledettissimo ordine. Elizabeth si sporse fuori dal proprio nascondiglio: via libera. Invertì la propria rotta, decisa a tornare al villaggio. Avrebbe dormito l'indomani.

- - - - - - -

Hermes fece un passo indietro, la ciotola di colore in una mano e la bacchetta nell'altra, e rimirò la propria opera. «Ho finito.» annunciò.
Elizabeth saltò giù dal muretto su cui si era seduta e si avvicinò per osservare il lavoro concluso, subito raggiunta da Shedir e Rigel.
«Possiamo eliminare tutta questa roba, allora?» domandò Jules, sottolineando la propria impazienza con un calcio leggero ad uno dei secchi di vernice che riposavano ai piedi del muro.
«Accomodati.»
La ragazza, a colpi di bacchetta, fece evanescere i contenitori vuoti, richiuse quelli ancora mezzi pieni, li raggruppò nella loro cassa, la ridusse e se la infilò in tasca: «Questi li rimetto a posto io. Sono andata a controllare la bottega del vecchio Bud poco fa, la finestra è ancora aperta.»
«Ti accompagno.» si offrì Dewie affiancandosele. Si rivolse al resto del gruppo: «Tanto non c'è altro da fare qui, no?»
Un brusio di dinieghi corali lo autorizzò ad andarsene e i due si avviarono nel buio verso il centro del villaggio.
«Me ne vado anch'io.» comunicò Hermes, già muovendo i primi passi. «Devo lavarmi, o qualcuno potrebbe notare che ho qualche litro di vernice appiccicato addosso.»
Con un ultimo cenno di saluto, scomparve dietro l'angolo.
«Direi che possiamo andare tutti, in effetti.» osservò Marcail.
Shedir scosse la testa: «Quasi.». Porse un pacchettino ad Elizabeth: «È una palude portatile, ma ho chiesto ai Weasley una piccola modifica: invece della palude, una giungla.»
Elizabeth sorrise, accettò l'involto. «Geniale. Gliela piazzo in ufficio.»
«Farai meglio ad usarla bene.» minacciò Shedir. «Ho dovuto promettere una sessione di esperimenti con uno Schiopodo Sparacoda in cambio di questo piccolo favore. Quei due sono davvero matti come Berretti Rossi.»
«E tu più di loro.» concluse Rigel. Per tutta risposta, la gemella gli assestò un pugno sul braccio.
«Andiamo, non c'è altro da fare per stasera.» concluse il ragazzo. Salutò Marcail con un cenno e un sorriso ed Elizabeth con una leggera pacca sulla spalla: «Vedi di non farti beccare.» raccomandò, prima di avviarsi con Shedir verso casa. Non erano ancora scomparsi nel buio che già si prendevano a spallate.
«Mia madre dice che hanno cominciato a fare così nella culla e non hanno mai smesso.» commentò Marcail. «Dai, ti accompagno fino alle mura.»
Elizabeth le sorrise grata. Incamminandosi accanto all'amica, si concesse un'ultima occhiata al graffito.
Se Manticora e i suoi amici volevano la giungla, ebbene: la giungla avrebbero avuto.

junglemurales


Giungla resiste :rule:
 
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DENTRO TE


«Chi sei?» chiese allarmata Elizabeth.
«Che domanda sciocca.» rispose l'altra Elizabeth. «Sono te.»
«Ma non puoi, io sono me!»
L'altra Elizabeth ci pensò su. «Hai ragione.» disse alla fine. «Sono la te che tu non sei.»
Elizabeth scattò in piedi e in un attimo le sue gambe erano in posizione di guardia, il braccio sinistro era leggermente sollevato davanti al corpo e la mano destra vagava in cerca della bacchetta.
«Lo vedi?» incalzò la sua clone sorridendo, ancora seduta in una posa rilassata. «Sei così aggressiva, cerchi subito lo scontro. Io non farei così: cercherei, con calma, di capire cosa sta succedendo.»
«Sono solo prudente.» replicò Elizabeth. «Dove accidenti è la mia bacchetta?» domandò poi, non riuscendo a trovarla. Sferrò un pugno all'altra Elizabeth e osservò con stupore la propria mano passare attraverso la testa che avrebbe dovuto colpire. Il colpo a vuoto la sbilanciò, costringendola ad appoggiarsi allo schienale della panchina.
«Sei diffidente, chiusa e a tratti quasi antisociale.» la corresse la sua sosia. «E non puoi colpirmi, non sono abbastanza reale.» spiegò. «Per inciso, non lo sono perché in tutti questi anni mi hai impedito di esprimermi, ricacciandomi in fondo al nostro subconscio.»
«Mi spiace» si sorprese a dire Elizabeth. Agrottò le sopracciglia e tornò a sedere sulla panchina.
«Nessun problema. Sono una persona piuttosto incline a perdonare.» replicò tranquilla l'Elizabeth clonata.
«Già, ci avrei giurato.» commentò acida quella vera. «Quindi, sei una parte di me rimasta inespressa? Come dovrei chiamarti?»
«Puoi chiamarmi Beth.»
Elizabeth la fulminò con lo sguardo: «Mia madre mi chiamava Beth.»
«Lo so. Sono te, ricordi?» replicò Beth con noncuranza. «Io ho fatto pace con i ricordi della nostra infanzia, così non si ripercuotono sul nostro carattere e sulla nostra vita.»
«Fantastico. Va bene se ti chiamo Miss Perfettina?»
La sua sosia le rivolse un sorriso a trentadue denti: «Come preferisci.»
Elizabeth sbuffò. Meglio cambiare discorso: «Che posto è questo?»
Il sorriso di Beth si fece, se possibile, ancora più largo: «Non te lo ricordi? È il parco dove abbiamo lasciato Finn.»
Elizabeth sgranò gli occhi: «Stai scherzando?» Si guardò intorno e dovette rassegnarsi all'evidenza: quella era la panchina su cui gli aveva parlato, quelli erano gli alberi che aveva guardato dopo aver finito per non dover incrociare il suo sguardo e quello era il sentiero con su cui lui si era allontanato perché lei non lo vedesse piangere. Inarcò le sopracciglia e fissò Beth: «Perché?»
«Come vedi, ogni tanto posso scegliere anch'io qualcosa: ad esempio, dove tenere questa conversazione.» Si piegò verso Elizabeth, abbassò la voce: «Sai, se avessi lasciato decidere me staremmo ancora insieme a lui.»
«Non funzionava.»
Beth alzò gli occhi al cielo: «Certo, perché non funziona mai niente con te.»
«Non ti sembra di esagerare?»
«Se davvero era la scelta giusta, ora dimmi che non ci manca.»
Elizabeth esitò. «Sicuramente non mi manca il suo russare.» disse infine.
«Stai divagando. Lo so come fai, appena si parla di sentimenti butti tutto sul banale.»
«Scommetto che tu invece sei una gran sdolcinata.»
«Forse, ma ti ricordi quando ci chiedeva di evocare il Patronus?»
Elizabeth rise, un lampo di tenerezza le attraversò lo sguardo: «Reagiva sempre come un bambino davanti ai fuochi d'artificio.»
«Abbiamo anche provato a insegnarglielo, ma-»
«Non c'era verso, non si concentrava e perdeva subito la pazienza.» completò Elizabeth.
Le due donne, identiche nell'aspetto e nelle movenze, si guardarono.
«Aveva quel suo modo di farmi sentire importante.» proseguì Elizabeth in un sussurro. «Mi diceva che ero un'ottima strega e che avrei potuto fare grandi cose.»
«Potremmo, se mi lasciassi fare.» osservò Beth.
Elizabeth si irrigidì e distolse lo sguardo da lei per fissare dritto di fronte a sé. «Sei così convinta che saresti migliore di me?» chiese atona.
Per pochi, lunghi minuti nessuna delle due parlò e solo il fruscio delle foglie e il frinire delle cicale rimasero a colmare il silenzio.
«Fosse stato per me, saremmo rimaste.» disse infine Beth.
Elizabeth alzò gli occhi al cielo: «Con Finn, sì, ho capito. Ti ho già-»
«No.» l'interruppe Beth. «Saremmo rimaste ad Hogsmeade. Dopo aver scontato la pena, saremmo rimaste lì.»
«Se sei me, c'eri anche tu.» osservò amara Elizabeth. «Devo ricordarti com'era? La derisione, il compatimento. Saresti rimasta lì a fare cosa? A lasciarti umiliare?»
«Avremmo potuto stringere i denti.» riprese Beth pacata. «Mettere da parte l'orgoglio e mostrare un po' di buona volontà. Ci avrebbero permesso di rientrare ad Hogwarts, alla fine. Ci saremmo diplomate e avremmo potuto fare qualunque cosa volessimo.»
«In pratica, recitare la parte della peccatrice redenta così da poter passare un anno e mezzo chiusa in quel nido di vipere.» riassunse Elizabeth. «Bell'idea. Davvero splendida.» concluse in tono pesantemente ironico.
«L'ha detto anche quel tuo signor Morgan che potremmo fare ben altro, invece di servire clienti in un negozio.»
«Non c'è nulla di male nel fare la commessa.»
«Non c'è nulla di male nemmeno nel volere di più.»
«La verità è che a te non va giù che io possa non volere la vita che quasi tutti desiderano.» sbottò Elizabeth, alzandosi a fronteggiare quell'impossibile clone che metteva in discussione tutta la sua vita. «A te piace rientrare nello schema, non è vero? Una vita tranquilla. Una carriera brillante, una bella casa, un marito, due figli e magari anche il crup!»
«E non sarebbe bello?» chiese Beth, senza perdere nemmeno una briciola della sua calma.
«Non sarebbe quello che voglio io.»
«Tutti vogliono una vita in pace.»
«Ma non tutti vogliono la noia mortale, grazie tante.» Si guardò intorno: «Cosa accidenti devo fare per andarmene di qui?»
Beth sospirò, si alzò in piedi. «Ascolta» cominciò, sollevando le mani davanti al petto e mostrando i palmi in un gesto conciliatorio. «Non dico che dovresti lasciar decidere tutto a me. Solo, ecco, io e te siamo i due estremi. Se tu volessi... Se tu mollassi soltanto un pochino la presa, ogni tanto. Potremmo essere felici, se solo trovassimo un compromesso, una strada a metà.»
Elizabeth la fissò in silenzio.
La sua copia lasciò ricadere le braccia lungo i fianchi, chinò il capo. «Per andartene» mormorò «ti basta volerlo. Sei brava a farlo: è tutta la vita che ti tieni alla larga da me, devi solo continuare.»
«Bene.» concluse Elizabeth. «Allora-» Si chiarì la voce, improvvisamente incerta. «Allora io vado.» Esitò. «Magari, ecco, potrei provare a sentire cosa vuoi fare tu, ogni tanto.»
Beth alzò lo sguardo, sorrise: «Non lo farai.»
«Non puoi saperlo.»
«Sì invece: hai continuato a usare il singolare.»


dreamcatcher

Elizabeth aprì gli occhi, batté velocemente le palpebre per scacciare l'intorpidimento del dormiveglia.
Che sogno assurdo.
Si stiracchiò, si alzò a sedere.
Era in un parco ed erano in due. Due Elizabeth. Parlava con l'altra Elizabeth e-
Scosse la testa. I dettagli del sogno già sfumavano, inutile sforzarsi.
Gettò le gambe fuori dal materasso, recuperò la bacchetta dalla mensola e imboccò la scaletta per scendere dal soppalco.
C'entrava Finn. Agrottò le sopracciglia. Finn e qualcosa sui Patronus.
Scalza, raggiunse i fornelli e puntò la bacchetta sul più piccolo: «Lacarnum Inflamare» borbottò a mezza bocca. L'amministratore del palazzo non si dava pace e continuava a chiederle come facesse ad avere un consumo di gas praticamente nullo. Ogni volta, lei gli rispondeva che mangiava spesso fuori e che amava le docce fredde. Sbadigliò, mise la caffettiera sul fuoco. Portò la mano libera a stropicciare i capelli a lato della testa.
C'era anche la scuola, nel sogno. E anche Accessori, le sembrava.
Si stropicciò gli occhi.
Niente, l'aveva dimenticato.



Note
- Specifico, per non lasciare nulla di poco chiaro, che la declinazione mista singolare-plurale nelle frasi di Beth è naturalmente voluta: utilizza il singolare per riferirsi a se stessa, quindi alla parte matura, ragionevole e pacata di Elizabeth, e il plurale per riferirsi alla persona di Elizabeth nella sua interezza e alle sue esperienze, vissute o ipotizzate.
- Il Crup, per chi non lo sapesse, è fondamentalmente un jack russell terrier con due code, allevato dai maghi come animale domestico.
 
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view post Posted on 28/8/2018, 18:44
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Sulla riva del Lago

L'alba si allungava lenta sul Lago Nero.
Nel cielo livido si trascinavano gli ultimi strascichi delle nuvole che per tutta la notte avevano oscurato le stelle.
Elizabeth strinse le ginocchia al petto, circondandole con le braccia.
Nubi grigie e pesanti, proprio la notte delle stelle cadenti: un classico.
La malinconia l'avvolse, come se quelle nubi avessero lasciato il cielo per stringersi attorno a lei.
Sapeva che sarebbe finita così, ma non aveva resistito: al tramonto, puntuale, era arrivata sulla riva del Lago, munita di due bottiglie di vino elfico, e lì era rimasta, come le nuvole, per tutta la notte.
La prima notte di San Lorenzo trascorsa da sola.
Era ovvio che le avrebbe preso la sbronza triste.

Era stato durante l'estate dei suoi quindici anni.
Per gli altri, naturalmente, era una tradizione sin dall'infanzia. La decisione di accoglierla in quella specie di rito annuale, fino ad allora strettamente riservato, era stata un suggello del legame nato solo pochi mesi prima e già divenuto incredibilmente profondo.
Da allora, Elizabeth non aveva mai più preso l'Espresso per Hogwarts: ogni anno arrivava ad Hogsmeade il dieci agosto, baule e tutto, e vi rimaneva fino al primo settembre, quando si faceva trovare alla stazione, pronta per raggiungere in carrozza il Castello.
Ad ogni notte di San Lorenzo, sette adolescenti si radunavano sugli scogli in riva al Lago Nero. Arrivavano al tramonto, armati di cibo e più bottiglie di vino elfico di quante potessero berne, e non abbandonavano la posizione prima dell'alba. Vietato dormire. Chi vedeva più stelle cadenti, per compensare la fortuna di aver potuto esprimere tanti desideri, avrebbe avuto il dubbio onore di ripulire tutto il giorno dopo e mai nessuno aveva neppure pensato di barare.
Negli ultimi anni, certo, era stato più difficile: sparsi com'erano per il mondo, non erano sempre riusciti ad esserci tutti. Eppure, la tradizione era continuata: senza bisogno di accordi o appuntamenti, ogni anno, la notte del dieci agosto, chi poteva si era presentato sulla riva del Lago, puntuale, con il cibo e le bottiglie.

Quell'anno, per la prima volta, era sola.
Se avesse visto una stella cadente, un desiderio, uno solo, si sarebbe stagliato limpido nella sua mente: averli lì, con lei.
Tutti.
Una lacrima, solitaria come quel desiderio, le aveva solcato il volto appena un paio d'ore prima al pensiero che
tutti non lo sarebbero stati mai più. Non sarebbero mai più stati interi.
Sentiva ancora sulla pelle la traccia salata di quell'unica lacrima. Forse avrebbe continuato a sentirla per sempre.
Allungò la mano, afferrò la bottiglia più vicina – l'altra giaceva vuota poco più in là – e bevve un lungo sorso di vino.
Comunque, con le dannate nuvole, quella notte di stelle non se n'erano viste, né cadenti né ferme.

Un movimento alla sua destra la spinse a voltarsi, in tempo per vedere una giovane donna flettersi sulle gambe e sedersi accanto a lei, accomodando con le mani il corto vestito estivo. Elizabeth mise a fuoco i capelli biondi malamente raccolti, i lineamenti morbidi, gli occhi azzurro chiaro, la cicatrice sulla spalla.
«Scusa il ritardo, Liz.» esordì la donna.
«Abbiamo fatto più in fretta possibile.» proseguì una voce maschile alla sinistra di Elizabeth, che si girò, stravolta dal repentino evolversi della situazione, e incrociò altri due occhi azzurri, incastonati negli stessi lineamenti, incorniciati da corti riccioli biondi e da un'ombra di barba chiara. «Per farci perdonare, abbiamo portato il miglior vino elfico della Norvegia.»
«
Io ho portato il miglior vino elfico della Norvegia, veramente.» lo corresse la donna mostrando una sacca di tela rinforzata. «Liz, ti prego, non pretendo che ci saluti, ma ce la fai almeno a chiudere la bocca prima che ti si sloghi la mandibola?»
Elizabeth obbedì, come in trance. Girò più volte la testa da un lato e dall'altro, per posare gli occhi sgranati ora sul ghigno ironico della donna, ora sul sorriso paterno dell'uomo.
«Da quando fanno il vino in Norvegia?» mormorò alla fine. Batté le palpebre e finalmente si riebbe dalla sorpresa. Un sorriso le illuminò il volto.
«Quella te la sei bevuta da sola?» domandò Rigel. Si sporse verso Shedir e, in modo che Elizabeth potesse vederlo, sillabò: «È ubriaca.»
«Secondo me è ammattita a forza di parlare da sola» sussurrò cospiratoria la gemella. Agitando l'indice a pochi centimetri dal viso di Elizabeth, le si rivolse in tono di rimprovero: «Te ne sei stata sulle tue tutto l'anno, non è vero?»
Per tutta risposta, Elizabeth le scoccò un sonoro bacio sull'orecchio, dove sapeva di darle fastidio, ottenendo l'atteso strillo oltraggiato. Si girò e ne stampò uno altrettanto plateale sulla guancia di Rigel.
Eccole, le sue stelle: precipitate lì sul finire della notte, soltanto per lei.





Inizialmente, le mie noticine volevo scriverle prima del testo. Fortunatamente ho capito per tempo che sarebbero state uno spoiler grande come una casa, quindi eccoci qui.
Rigel e Shedir sono le stelle più luminose di due costellazioni, rispettivamente Orione e Cassiopea.
Da un po' volevo rendere più concrete le figure degli amici di Elizabeth e questo tema era esattamente quel che ci voleva per i gemelli. Avrei voluto mostrare e raccontare di più di loro, dilungarmi a spiegare ciò che li accomuna alle stelle di cui prendono il nome, ma, come spesso accade, le parole alla fine hanno fatto un po' quello che volevano e ne è venuta fuori questa cosina breve, più introspettiva di quanto avessi programmato.
Va bene così: le biografie dettagliate le terrò in serbo per la prossima volta.
 
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view post Posted on 30/9/2018, 12:36
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Era un sasso di tutto rispetto, di un bel grigio screziato, grande come una mela e con pochi spigoli appena accennati a indurirne l'ovale. Con un calcio stizzito, Elizabeth gli fece attraversare tra sussulti e rimbalzi tutte e quattro le corsie della strada. Jackpot. Insoddisfatta, sferrò un colpo di uguale potenza alla fioriera di cemento dietro cui, le doleva ammetterlo, si nascondeva. La punta rinforzata dell'anfibio protesse le dita, ma il contraccolpo si ripercosse dolorosamente sul polpaccio. «Dannazione.» sbottò sottovoce.
Cos'era, la trentesima imprecazione della giornata? Forse anche la più delicata fino a quel momento: non male, per non essere nemmeno le nove del mattino. Di domenica, per giunta: si poteva concludere che il paradiso le era ormai definitivamente precluso. Sempre, certo, che il buon Dio non fosse così ostile alle streghe come si diceva, nel qual caso non aveva mai avuto nessuna speranza.
Prima che tali riflessioni prendessero una deriva ancor più blasfema, un uomo e una donna uscirono dal palazzo che Elizabeth stava sorvegliando: come si aspettava, andavano ancora regolarmente a messa, sempre alla funzione delle nove.
Arthur Ashton e Gwen Harris non avevano mai amato cambiare abitudini.
La strega li osservò voltare l'angolo, attese ancora qualche minuto e finalmente marciò rapida e decisa fino al portone.
Piuttosto che trovarsi lì avrebbe preferito studiare l'apparato digerente di un'Acromantula dall'interno, ma purtroppo non aveva scelta: dal poco che aveva capito, una sezione dell'archivio accademico era andata persa in Merlino sapeva quale casino del Ministero e, per redigere nuove copie dei documenti smarriti, i dannati burocrati pretendevano di visionare i risultati dei suoi GUFO, nella copia originale.
La quale, sfortunatamente, era rimasta a casa dei genitori di Elizabeth quando lei ne era stata cacciata.
Dopo essersi sincerata che nessuno potesse vederla, estrasse circospetta la bacchetta e la puntò sulla serratura. «Alohomora» mormorò a fior di labbra. Ripose subito lo strumento magico – c'era sempre il rischio di incrociare qualche vicino ficcanaso sulle scale – ed entrò.
Terzo piano, interno due.
Elizabeth si fermò davanti alla porta scura, ingentilita da un cuore di stoffa imbottita su cui una mano esperta aveva ricamato un falsissimo “Welcome”.
Un fiotto di bile le risalì l'esofago, spinto dalla nausea che la tormentava sin dal risveglio, e l'angoscia le annebbiò la mente. Non le era mancato affatto quel turbamento di stomaco e d'umore. Non era mai riuscita a dimenticarlo. Dopo anni, sapeva ancora riconoscere la sofferenza di trovarsi in un luogo che amava profondamente, ma da cui era brutalmente rifiutata. Per tutta l'adolescenza l'aveva provata ogni primo luglio, al ritorno a casa, e ogni primo settembre, nel ritrovare Hogwarts: se i suoi terrorizzati genitori e gli spocchiosi purosangue della scuola avevano avuto qualcosa in comune, era stata proprio la capacità di suscitarle quel malessere greve semplicemente con il loro maledetto modo di guardarla, come se fosse stata un mostro mitologico peraltro piuttosto sgradevole.
E, forse, quello era dopotutto: una creatura ibrida, una chimera con la magica coda di drago e il petto di babbanissima capra. Quanto alla testa di leone, evidentemente simboleggiava il coraggio necessario a gestire un tale miscuglio, grottesco agli occhi di entrambi i mondi che lo componevano.
Elizabeth inspirò a fondo. Un minuto. Un solo, dannatissimo minuto: sarebbe entrata, avrebbe Appellato i suoi GUFO e se la sarebbe filata. Rapido e ind- Sì, insomma, rapido.
Impugnò la bacchetta come se fosse stata un salvagente, sussurrò con voce roca l'incantesimo ed entrò.




Subito dopo si immobilizzò, un'espressione stupita e colpevole dipinta chiaramente sul volto: al centro del tappeto che occupava gran parte del soggiorno, una bambina giocava beata. Elizabeth chiuse gli occhi, sperando fuori da ogni logica che quell'apparizione inaspettata potesse svanire nel nulla.
Fu proprio l'apparizione, invece, a riportarla alla realtà con voce squillante e spaventata: «Tu chi sei?»
Ammutolita, Elizabeth si guardò intorno, cercando febbrilmente la conferma di trovarsi nel posto giusto. Come se potesse essere altrimenti: aveva visto i suoi genitori uscire e, dannazione, se lo ricordava dove fosse casa sua.
«Come sei entrata? Dimmi chi sei!» incalzò la bambina.
Il vecchio cassettone era ingombro di fotografie: il matrimonio di Gwen e Arthur, Gwen in un letto d'ospedale con una neonata tra le braccia, un battesimo, Arthur che teneva per mano una bambina bionda di forse tre anni, la stessa bambina, più grande, al mare e poi con addosso una divisa scolastica. La stessa bambina che, seduta rigidamente sul tappeto, fissava Elizabeth con gli occhi sgranati dalla paura, chiedendosi evidentemente chi fosse la muta intrusa. Del resto, non la si poteva biasimare visto che, a dispetto delle numerose cornici, di Elizabeth sembrava non esserci nemmeno una fototessera.
«Guarda che so gridare.» la informò la bambina con voce tremante.
Elizabeth si riscosse, chiuse la porta e si rivolse alla piccola con un sorriso che sperava essere rassicurante: «Mi dispiace, non volevo spaventarti. Io-» deglutì, pensando a cosa dire. «Io vivevo qui, tanto tempo fa. Mi chiamo Elizabeth. E tu?»
«Eden.»
Elizabeth si trattenne a stento dallo sbuffare. A quanto pareva, i suoi erano peggiorati: già lei si era beccata Mary come secondo nome, ma Eden, Merlino, era veramente troppo. Conoscendoli, magari speravano che un nome del genere avrebbe preservato la figlia minore dal venir su anomala come la primogenita.
«Che cos'è quello?» domandò Eden sospettosa indicando la bacchetta.
«Oh.» sobbalzò Elizabeth. «Questo. Questo è-» Cosa? Cosa poteva essere, in nome del perizoma zebrato di Merlino? «Questa è la chiave con cui sono entrata.» disse infine optando per una mezza verità.
«Non sembra una chiave.» commentò Eden, con un acume sorprendente considerando chi erano i suoi genitori.
«È un passepartout.» inventò precipitosamente Elizabeth. «Quanti anni hai?» chiese poi nel tentativo di cambiare discorso.
«Sette.»
Oh. Gliene avrebbe dati sei. Sette. Sette cambiava le cose, perché se ne aveva sette allora-
«Quand'è il tuo compleanno?» domandò bruscamente la strega.
«Il dodici dicembre.» mormorò Eden, di nuovo spaventata. «Perché?»
Elizabeth non le rispose, troppo presa dai calcoli. Eden era nata a dicembre dello stesso anno in cui lei aveva definitivamente rotto i rapporti con i genitori. A luglio, quindi, Gwen doveva essere al terzo, no, al quarto mese di gravidanza.
Lo sapevano. Quando l'avevano cacciata di casa, sapevano già di aspettare un altro bambino.
L'avevano fatto apposta? La tempistica era sospetta, senza dubbio. Non avevano mai parlato di lei a Eden, non c'erano foto che potessero incuriosirla... Troppo facile capire che volevano tenerla lontana dalla cattiva influenza della sorella perduta.
«E-Elizabeth?»
La strega, sconvolta, tentò un sorriso: «Scusami. Era solo una curiosità.»
La sua mente continuava a ronzare frenetica. Eden era babbana o era una strega? Elizabeth aveva manifestato la magia ben prima dei sette anni, lo ricordava perfettamente. Ma se anche Eden avesse dato qualche segnale Gwen e Arthur l'avrebbero contattata, giusto? Le avrebbero chiesto di stare accanto alla sorella, com'era logico, di spiegarle cosa le stesse succedendo, no? Sapendo di cosa si trattasse, non avrebbero ripetuto per la seconda volta gli stessi errori, non avrebbero cercato inutilmente di soffocare la magia, vero? Vero?
Elizabeth serrò le palpebre. Non era affar suo. Lei aveva la sua maledettissima vita e già abbastanza problemi per conto suo e, geni o no, la ragazzina lì non era altro che una sconosciuta verso la quale non aveva assolutamente nessun dovere. Riaprì gli occhi e incrociò quelli di Eden, che la fissavano smarriti.
Morgana, le somigliava. O per meglio dire, mannaggia a Merlino, era la sua copia sputata.
«Stai-» esordì la bambina. «Stai bene?»
No. No, per i maledetti porci di Circe, non stava bene affatto. Perché mentre la coda di drago si scuoteva rinnegando qualsiasi legame con quell'ambiente mediocre e malsano, la sciocca capra nel suo petto belava convinta che quel mondo era parte di lei, che quindi per un confuso principio di reciprocità era suo diritto farne parte e che d'altro canto Eden, così giovane e gentile e indifesa, Eden, strega o babbana che fosse, meritava di avere accanto la sorella maggiore.
Dannazione.
Elizabeth si voltò e, con tanti saluti al coraggio leonino, scappò: dalla casa, dagli occhi di quella ragazzina e, sperava, dal profondo turbamento che quell'incontro le aveva suscitato.

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Colpo di scena!

La sorellina ce l'avevo in serbo da mesi e se non fosse stato per questo tema avrei aspettato ancora un po' a tirarla fuori dal cilindro, ma che ti devo dire Ambere', ci stava troppo bene con la chimera mezza babbana.
Comunque, giusto per far soffrire nell'attesa i miei innumerevoli appassionati lettori (?), prevedo che ci vorrà un po' prima che Elizabeth venga a patti con questa cosa e, quindi, Eden risbuchi fuori.
 
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view post Posted on 1/11/2018, 00:33
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--- Ottobre è l'anniversario della morte di Dewie ed Elizabeth, che è una personcina allegra, fa una bella passeggiata fino al cimitero, tanto per lasciarsi cullare dai ricordi e pigliarsi malissimo ---

Abbiamo quattordici anni e ci conosciamo solo da qualche settimana. È cominciata incontrandoci la domenica, il giorno delle visite a Hogsmeade, ma è già la quinta volta che sgattaiolo fuori dalla scuola di notte e senza permesso per raggiungervi alla Testa di Porco.
Si dice che la Testa di Porco sia frequentata solo da chi ha affari loschi da sbrigare o da cui scappare; a noi piace semplicemente perché qui puoi ordinare un Whiskey Incendiario e al vecchio Aberforth non frega un cazzo che tu sia maggiorenne.
Il vecchio Aberforth, in effetti, sembra fregarsene un po' di tutto, tanto che quando alcuni avventori cominciano a urlare e spintonarsi non fa una piega e quando loro estraggono le bacchette si limita a ritirarsi dietro al bancone, pronto a proteggere botti e bottiglie.
Questa è la terza rissa che mi capita di vedere. La prima volta mi avete detto che è normale, che capita, a volte, e che può essere divertente buttarsi nella mischia. È quello che facciamo ed è vero, è la cosa migliore che abbia mai fatto. Sono lenta e impacciata, e anche tu, e anche Jules. Siamo piccoli, ancora. Ma Marcail e Hermes hanno due anni più di noi e Shedir e Rigel sono già maggiorenni. Loro ne hanno abbastanza, di esperienza, e ci tengono d'occhio, ci proteggono quando ci vedono in difficoltà. Con il trascorrere dei minuti, gli incantesimi che sfrecciano nella stanza si fanno sempre più potenti e pericolosi: le Pastoie e gli Everte Statim lasciano il posto agli Schiantesimi e a un qualche incantesimo ustionante che non ho mai visto prima. Quando vola il primo Crucio – questo no, non è normale, è la prima volta che succede – Shedir mi afferra per un braccio, un lembo della giacca, qualsiasi cosa pur di fare in fretta, e mi trascina fuori dal pub. Vedo Marcail fare lo stesso con te e Hermes con Jules, mentre Rigel casta un Protego dopo l'altro. Appena siamo in strada cominciamo a correre e corriamo finché non siamo abbastanza lontani, finché non ci sentiamo al sicuro.
L'abbiamo rischiata grossa, questa volta, ma invece di tremare e metterci a piangere per lo shock scoppiamo in un riso irrefrenabile.
Abbiamo tutta la vita davanti, la vita che ci scoppia nel petto. Non ci serve nessuna pietra, nessun Elisir: qui, in questo momento, noi siamo immortali.
È così che sarà sempre: sempre tutto un casino, sempre tutto assolutamente perfetto.

Abbiamo quindici anni e ci stiamo intrufolando nella serra numero quattro, perché so che è qui che la Sprite tiene le piante medicinali più rare. Tu rimani fuori a fare il palo, mentre io e Marcail entriamo: lei stacca, con tutte le precauzioni, un limone zannuto dalla pianta, io rovisto nell'armadio delle componenti essiccate in cerca della foglie di mandragola.
Spero che Jules e Hermes siano riusciti a trovare il sangue di fata e gli occhi di rospo albino. Abbiamo bisogno di tutti gli ingredienti, o niente Bava di Gorgol. E le ferite di Shedir sono troppo profonde per potersi rimarginare senza pozione.
A Cura delle Creature Magiche non te lo spiegano che con un Ippogrifo quasi cieco e molto arrabbiato non c'è inchino che tenga. Con una Shedir arrabbiata e decisa a fare giustizia, d'altro canto, non si può proprio ragionare. L'Ippogrifo l'hanno preso in consegna certi suoi amici, che lo libereranno in una riserva sulle Alpi svizzere. Shedir ha uno squarcio sulla coscia destra che le ha lasciato scoperto l'osso e un altro sulla spalla che si è infettato subito e peggiora con una velocità allarmante.
Abbiamo poco tempo, pochissimo, ecco perché ci siamo divisi: due gruppi e in ognuno un maggiorenne, Marcail e Hermes, che ci Smaterializzeranno indietro appena avremo tutto.
Rigel è rimasto a casa, con Shedir: le mette sulla fronte una pezza ghiacciata dopo l'altra, la copre quando lei, nel delirio, scalcia via le coperte, le fa bere il ricostituente, facendolo scivolare goccia per goccia tra le labbra screpolate. Quando tutto sarà finito negherà ferocemente di essere stato un tale modello di amore fraterno, ma per ora è molto dolce.
Shedir ha perso molto sangue e ha la febbre alta a causa dell'infezione, ma starà bene. Ha diciotto anni e ha noi: starà bene.

Abbiamo sedici anni e sto cadendo. Ero vicinissima al traguardo quando ho perso il controllo della scopa: ho fatto appena in tempo a pensare che qualcuno deve averla maledetta, per non lasciarmi vincere, poi sono andata a sbattere contro un albero e non ho pensato più. Quando tocco il suolo, sento l'aria abbandonare di colpo i miei polmoni e rimango lì, distesa, a boccheggiare cercando di convincere il mio corpo a ricordarsi come si fa a respirare. Riesco a prendere fiato dopo alcuni lunghi secondi e nel frattempo tu e Rigel siete già al mio fianco. Non ero molto in alto, per fortuna, e in anni sulla scopa ho imparato a cadere in modo da non farmi troppo male, proprio come gli stuntman babbani. Ciononstante, la spalla sinistra mi fa dannatamente male e con un filo di voce flebile e gracchiante comunico a Rigel che probabilmente è lussata. Subito le sue mani corrono in quel punto e mi sento già meglio sapendo che sarà lui ad occuparsene. Glielo diciamo sempre, che ha la stoffa del Guaritore. Lui ride, e finge di non esserne orgoglioso. Non sa ancora che tutti stiamo conservando parte dei proventi delle corse per potergli regalare una specializzazione in medimagia. Certo è comodo avere un mago come Rigel ha portata di mano quando rischi l'osso del collo in sella a una scopa. Spesso sento i miei compagni di Casata lamentarsi delle ferite del Quidditch, ma le corse sono di gran lunga più scorrette e pericolose e non ci sono spalti con un intero corpo insegnanti pronti a salvarti il culo se un bolide ti prende male. Io, Shedir e Hermes gareggiamo ogni volta e spesso maghi più vecchi, magari con una famiglia da mantenere, ci hanno chiesto chi ce lo fa fare, di rischiare la vita per qualche galeone. Ma noi non abbiamo motivo di preoccuparci: siamo giovani, siamo vivi, siamo insieme, non può accaderci nulla di male.


Abbiamo ventiquattro anni, adesso.
Avremmo ventiquattro anni se tu fossi ancora qui.
Ho ventiquattro anni e tu non ci sei più.
Sei sempre stato una testa calda – come me, del resto. Gli adulti intorno a noi forse lo sospettavano che sarebbe finita così.
Ti ricordi tua madre, come ti guardava preoccupata, come ci diceva ogni volta di stare attenti sapendo che non l'avremmo ascoltata? Tuo padre no, non diceva niente, non ti guardava neanche. Lavorava tutto il giorno e non parlava mai, tuo padre, e forse per questo ti era nata dentro tutta quella voglia di urlare. La mia non lo so da dove sia venuta fuori, ma so che adesso è raddoppiata.
Adesso che so che quella nostra certezza di poter fare qualsiasi cosa era un illusione, che mentre a pieni polmoni respiravamo liberi la morte era lì, in agguato.
Urlo per due, adesso.
Perché tu, due metri sottoterra, non puoi urlare più.



Sparsa in giro c'è qualche “e” preceduta da virgola, cosa che grammaticalmente parlando 'un se fa', ma che stilisticamente a volte è l'unico modo per dare a una frase il ritmo che si desidera.

Era tanto che non scrivevo in prima persona e non so come mai mi sia venuto questo ghiribizzo, ma tant'è. Così si chiude un po' il cerchio, però, no? Cominciavo un anno fa con una lettera a Dewie e oggi, a un anno di distanza, mi presento con questa cosa qui.

Il titolo e qualche frase sparsa nel testo sono tratti da questa canzone: non l'ho inserita nel codice perché è troppo fuori contesto, ma per correttezza la cito qui.

La foto è – incredibbbile! – mia. Facciamo finta che raffiguri un cimitero nella brughiera scozzese, ma in realtà è stata scattata alla St Fin Barre's Cathedral, Cork, Irlanda.


Infine ma non ultimo, grazie infinite a Mistake per il codice <3
 
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view post Posted on 31/1/2019, 02:07
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Note:
1 - Ho scelto di usare la grafia normale per il narrato, così da poter riservare il corsivo ai ricordi.
2 - Tutto ciò che riguarda Astaroth è ovviamente concordato con la roler. Il suo suicidio, in teoria, era narrato in un post del suo diario, ma scopro ora che questo post non c'è, presumibilmente a causa di qualche errore nell'invio.
3 - Non ho idea di quali possano essere i gradi degli Auror, né se siano illustrati da qualche parte. "Comandante" mi è parso sufficientemente generico.



LILIA

In vita sua, non era mai atterrata così malamente calandosi da una finestra. Menomale che Villa dei Gigli aveva due piani soltanto e che l'incantesimo di Astaroth per far crescere i fiori alti e rigogliosi anche in inverno era ancora attivo. Elizabeth si mise a sedere tra le bianche corolle, stordita dalla caduta e dal profumo, ma soprattutto dalla scoperta appena fatta. Sapeva che doveva esserci una motivazione forte sotto al suicidio di Astaroth, ma mai si sarebbe aspettata una storia del genere.
Si alzò dal prato e si appoggiò alla grande pietra bianca che spiccava al centro di un'aiuola.
Quando, in un uggioso mattino di fine ottobre, aveva letto sulla Gazzetta che la "bella docente di Divinazione, recente acquisto della Scuola", si era uccisa avvelenandosi con una pozione alchemica, Elizabeth era rimasta sconvolta al punto di darsi malata a lavoro. Il quotidiano non diceva nulla sulle motivazioni del suicidio e anzi dipingeva la vita di Astaroth come completa e realizzata.
Elizabeth sapeva che non era così, ma non aveva idea che la depressione della donna fosse peggiorata a tal punto. Del resto, come avrebbe potuto: avevano litigato mesi prima, quando Astaroth aveva deciso di volere quella cattedra ad Hogwarts, e non si erano più viste né sentite. Prima di allora, però, per caso o per bisogno, si erano incontrate all'incrocio di due strade disastrate e per un po' avevano camminato insieme, trovando, se non sostegno, quantomeno calore l'una nell'altra.
Così, Elizabeth si era impuntata.
Aveva scritto a Hogwarts, chiedendo risposte che non aveva ottenuto.
Era andata fino in Germania per partecipare al funerale e ascoltare avidamente il discorso del Comandante Morgenstern, un discorso che si era rivelato formale e vuoto. Aveva persino vinto il proprio ribrezzo per le divise per rivolgersi direttamente al Comandante, ottenendo solo di essere cacciata.
Esaurita ogni altra opzione, si era intrufolata a Villa dei Gigli in cerca di indizi. E ne aveva trovati, oh sì, scoprendo più di quanto avrebbe voluto sapere.

«Elizabeth, tu forse ti senti a disagio in una grande villa - non che questa sia propriamente una villa grande, comunque» proferì Astaroth con calma, carezzandosi languidamente la clavicola, «ma io di certo non ho alcuna intenzione di trascorrere la notte in un monolocale a Brixton.»

Si era sentita a disagio in quella grande villa, sì, ma ciononostante quella prima notte era stata seguita da molte altre e con il senno di poi Elizabeth fu lieta di aver ceduto, perché conoscere bene la casa le aveva permesso di introdurvisi agevolmente.
A colpo sicuro, aveva subito cominciato a frugare nello scrittoio di Astaroth. Aveva scartato a prima vista tutte le lettere indirizzate alla "Prof.ssa Morgenstern" e messo delicatamente da parte quelle della sua pupilla, Nieve. Quelle del Comandante le aveva scorse velocemente, senza trovare nulla. Aveva accantonato, sbuffando, le poche missive di Madama Rosmerta, rimaste lì chissà da quanto. Alla fine, proprio in fondo al cassetto, stropicciata, macchiata e inequivocabilmente odorosa di liquore scadente, aveva trovato le sue risposte.
Astaroth le aveva parlato di Alec, autore di quella lettera, così come di Dorian, che vi veniva abbondantemente menzionato.
Di Charles, e di come non si fosse mai ripresa dalla sua morte, le aveva parlato più volte e a lungo.
Quel che invece non le aveva detto, e che spinse Elizabeth a odiarla per qualche attimo, era che Charles fosse un Mangiamorte.
Quello che, evidentemente, neanche Astaroth sapeva e che Alec confessava in quella dannata lettera era che lui il caro Dorian avevano avuto una parte nella morte dell'amato.

Astaroth versò ad entrambe l'ennesimo bicchiere del rum speciale di Rosmerta ed Elizabeth si chiese se la locandiera si sarebbe arrabbiata, vedendo che avevano svuotato la bottiglia. Sentiva le membra intorpidite e la testa leggera. Il cuore, invece, era ancora pesante, ma non faceva più così tanto male come quando la barista l'aveva trovata dietro ai Tre Manici a sfogarsi spaccando bottiglie contro il muro. Non più sobrie da un pezzo, parlavano da ore, confidandosi, come spesso accade, riflessioni troppo intime per poter essere condivise con qualcuno che non fosse uno sconosciuto più ubriaco di chi le rivela. Elizabeth, per l'appunto, stava spiegando, concitata, che non si era mai pentita di tutto ciò che l'aveva portata ad Azkaban, che la sua folle e bellissima adolescenza valeva anche una vita in cella e che avrebbe rifatto tutto senza pensarci due volte. «Era... Non so, era la felicità che avevo inseguito per tutta la vita, senza esser capace neppure di sognarla.» disse, convinta, senza sapere perché, che Astaroth avrebbe capito. «L'avevo trovata, e scoperto che cosa fosse». Mando giù un lungo sorso di rum, si asciugò le labbra con il dorso della mano. «La felicità che mi era stata sempre negata.» concluse in un sussurro.
Astaroth non disse nulla e si limitò a rabboccarle il liquore nel bicchiere, dimostrando di aver capito davvero.
Entrambe, in fondo, desideravano poter rivivere qualcosa.
Astaroth il periodo vissuto con Charles.
Elizabeth gli anni d'incoscienza con Dewie e gli altri.
Il problema, alla fine, era che fino a un certo punto la sua vita era stata una corsa sfrenata. Poi si era fermata e lei si era ritrovata immobile. In pausa. Sola. Alla fine era prevalso quel piatto e anestetizzante trascorrere del tempo, che non infliggeva sofferenza ma neppure accendeva l'entusiasmo.
«Le persone che più amiamo sono quelle che finiscono per ferirci di più.» proclamò Astaroth di punto in bianco, interrompendo il lungo silenzio che si era venuto a creare. «Ti dicono che è l'emozione più bella, il motore del mondo, ma lo sai, Elizabeth, cos'è l'amore in realtà? È una spada di Damocle sopra la tua testa.»


La storia, in sé, era semplice: il padre di Astaroth voleva Charles morto e aveva sfruttato la propria posizione per assicurarsi che l'arresto operato oltre Manica finisse male. Nessun genero poco gradito per il Comandante Morgenstern e una bella menzione d'onore per una manciata di giovani sbirri inglesi - tra cui, a quanto pareva, Dorian Midnight. Tutti soddisfatti, insomma, tutti contenti. A parte Astaroth, che quella morte non l'aveva mai accettata. A parte Astaroth, che non aveva mai ripreso davvero a vivere. A parte Astaroth, che alla fine non aveva retto il rimorso per aver donato tanto affetto e fiducia all'uomo che le aveva portato via l'amore della sua vita.

«Lui era...» Astaroth si interruppe, come riflettendo su cosa dire. Si alzò, prese un'altra bottiglia di rum - non buono come il primo, ma non esisteva liquore scadente nel pub di Madama Rosmerta - e versò il liquido ambrato nei bicchieri ormai vuoti, riempendoli quasi fino all'orlo. Tornò a sedere e continuò: «Oh, c'erano mille motivi per cui non avremmo dovuto stare insieme, per cui avremmo dovuto fuggire l'uno dall'altra. Ma eravamo felici. È come dicevi tu: cerchi la felicità per una vita e quando la trovi cosa dovresti fare? Buttarla via, solo perché ti dicono che ciò che ti rende felice è sbagliato?»
Elizabeth annuì. «Hai ragione. Avevo il diritto di viverla, quella felicità. Dovrei rimpiangere ciò che ho fatto? Può darsi. Ma non ho rimorsi. Rimpianti, forse, ma in ogni caso nessun rimorso.»


Erano il rimpianto e il rimorso ad aver ucciso Astaroth.
Elizabeth si asciugò l'unica lacrima che si era permessa di versare per quella donna che non era stata sua amica, non propriamente, ma che l'aveva accompagnata per un po', ferita quanto lei, sorreggendola e facendosi sorreggere.
«In ogni caso nessun rimorso.» sussurrò a se stessa, incamminandosi per l'ultima volta lungo il viale dei gigli.



Alcune frasi sono tratte, seppur leggermente parafrasate, dal libro di Cacucci "In ogni caso nessun rimorso", che è stato la primissima cosa che mi è venuta in mente quando ho letto il tema.
Nella fattispecie, queste:
"Era la felicità che avevo inseguito per tutta la vita, senza esser capace neppure di sognarla. L'avevo trovata, e scoperto che cosa fosse. La felicità che mi era stata sempre negata."
"Era prevalso quel piatto e anestetizzante trascorrere del tempo, che non infliggeva sofferenza ma neppure accendeva l'entusiasmo."
"Avevo il diritto di viverla, quella felicità. Dovrei rimpiangere ciò che ho fatto? Può darsi. Ma non ho rimorsi. Rimpianti, forse, ma in ogni caso nessun rimorso."


Edited by Elizabeth Ashton - 6/12/2022, 00:48
 
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view post Posted on 28/2/2019, 23:34
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Elizabeth entrò di corsa nella sua cameretta e scivolò sul parquet, finendo per atterrare con un tonfo sul duro legno. Si rialzò senza un lamento, accese la luce e guardò l'oggetto che aveva in mano: no, non sembrava essersi danneggiato nella caduta. Reggendolo come una reliquia, se lo portò a pochi centimetri dal naso. Con l'indice sinistro ne seguì delicatamente il contorno circolare e accarezzò i fili rossi e rosa, tutti ancora al loro posto. Soffiò sui pendenti per vedere le piume e le perline ondeggiare. Ancora non sapeva soffiare per bene e qualche goccia di saliva le sfuggì tra le labbra arricciate, ma lei non se ne preoccupò e sorrise. Era molto orgogliosa di quell'oggetto, l'aveva fatto tutto da sola - beh, quasi, la maestra l'aveva aiutata un pochino - e guardarlo la faceva sentire bene. Al sicuro. Non distolse lo sguardo nemmeno mentre, a piccoli passi, raggiungeva il letto. Valutò con occhio critico il piccolo pomello che ne ornava la pediera, poi sorrise di nuovo e vi appese la propria opera. «Appaonni.» sussurrò estasiata, ripetendo il nome con cui la maestra aveva chiamato l'oggetto.
Proprio in quel momento la porta, che Elizabeth aveva chiuso con cura alle proprie spalle solo pochi minuti prima, si spalancò con tale violenza da sbattere contro il muro. La bambina si addossò al letto, spaventata, gli occhi sgranati fissi sulla madre che le urlava contro furiosa: «Cosa ne hai fatto? Dov'è?»
La donna aveva in mano lo zainetto della figlia, vuoto e spalancato e lo scuoteva, stringendolo nel pugno con tanta forza da illividirle le nocche. «Dove l'hai messo? Dove cazzo l'hai messo?»
Scrollandolo un ultima volta, gettò lo zaino a terra, ai piedi di Elizabeth che la fissava a bocca aperta, immobile.
«Lo sai, dannazione, lo sai che io e tuo padre lavoriamo tutto il giorno. Martha è così gentile da tenerti in casa sua tutti i pomeriggi e tu la ripaghi così? Rubando il pupazzo di suo figlio?»
Gli occhi della bambina si erano riempiti di lacrime. «No ho 'ubato niente, no-» provò a protestare.
«Non dire bugie!» la interruppe la madre. La sua voce si era fatta, se possibile, ancora più alta, quasi stridula, e il suo viso era sempre più stravolto dalla rabbia. «Sono giorni che tu e Tommy giocate con quel maledetto peluche giallo e ora Martha non lo trova più.»
Finalmente, Elizabeth capì. Il peluche giallo di Tommy. Ma non ci avevano giocato, proprio no. Era un peluche orribile, la terrorizzava. E Tommy, orribile almeno quanto il suo giocattolo, ne aveva approfittato, facendoglielo trovare ovunque e ridendo della sua paura. L'aveva tormentata per giorni e lei non aveva potuto fare nulla, perché Tommy era grande, aveva già sette anni, ed era più alto e più forte di lei.
Quel giorno, quando papà era andato a prenderla e lei era entrata nel ripostiglio per prendere la sua giacca e le scarpe e naturalmente il suo acchiappasogni, aveva trovato il peluche lì, su una mensola, a fissarla ghignante nella penombra. Era scoppiata a piangere, coprendosi il volto con le mani per non vederlo più. Poi papà l'aveva chiamata ancora ed era chiaro che cominciava a spazientirsi, così, con un respiro profondo e tremante, la bambina aveva aperto gli occhi, per scoprire che il peluche non c'era più. Sollevata, aveva preso le sue cose ed era corsa via.
La mamma pensava che l'avesse portato via lei. Doveva solo spiegarle come stavano davvero le cose, ecco tutto. Fece coraggiosamente un passo avanti: «No mamma» spiegò seria, la voce ferma nonostante gli occhi fossero ancora luccicanti di lacrime. «No l'ho naccotto io il peluche di Tommy. Era nel ripottijo e poi è 'parito, ma da solo!»
Per qualche istante, la stanza fu immersa nel silenzio più assoluto. La mamma aveva la faccia tutta rossa, le narici frementi e le labbra così strette che quasi non si vedevano. Poi, ricominciò a urlare: «Da solo?! È sparito DA SOLO?!» Chiuse un momento gli occhi e inspirò a fondo. Quando riprese, la voce era più bassa, ma il tono risultava molto più minaccioso: «Sarà meglio che quel peluche venga fuori entro domani, Elizabeth Mary, perché non possiamo proprio permetterci tate e baby sitter, noi, e Martha ci fa un favore enorme a tenerti ogni dannato giorno e di certo non sarà più così disponibile se è rubando che la ripa-»
«No ho 'ubato!» gridò Elizabeth, interrompendola. Un attimo dopo, le dita della mamma erano strette dolorosamente sul suo avambraccio. «Adesso basta!» proruppe la donna trascinandola sul letto. «A letto. Hai tutta la notte per riflettere su quello che hai fatto e sulle tue bugie.»
La lasciò lì sul copriletto, vestita com'era, e uscì dalla stanza. Sulla soglia, spense la luce e staccò dalla presa la coccinella luminosa che di notte proteggeva Elizabeth dal buio. Poi si chiuse la porta alle spalle e il rumore della chiave nella serratura risuonò secco nell'oscurità.
La bambina, a tentoni, riuscì a infilarsi sotto le coperte e lì si raggomitolò. Calde lacrime le rigavano copiose il volto e bagnavano il cuscino. Per quanto Elizabeth provasse ad aguzzare la vista, riusciva a scorgere solo ombre indistinte e minacciose che sembravano affollarsi intorno al suo letto. Allora serrò forte gli occhi, rannicchiandosi ancora di più su se stessa in un mucchietto tremante. Non sarebbe mai, mai riuscita a dormire, la paura era troppa.
Dopo un tempo che le sembrò infinito, la serratura scattò. Elizabeth sbirciò speranzosa sopra l'orlo delle coperte. Che la mamma avesse cambiato idea?
La porta però non si aprì. Invece, un bagliore soffuso illuminò fiocamente la stanza, rivelando un filo di fumo che stava entrando dal buco della serratura. Elizabeth si mise a sedere e si voltò verso la finestra, da cui la luce sembrava provenire. A bocca aperta, osservò le persiane, o quel poco che ne era rimasto, dissolversi a loro volta in fumo.
La strana esalazione fluttuò nella luce della luna verso i piedi di Elizabeth, che ritirò le ginocchia contro il petto e afferrò il bordo delle coperte per alzarle fino al proprio naso. Il fumo, però, non si dirigeva verso di lei, ma verso l'acchiappasogni: formò un vortice e fu risucchiato al centro dell'oggetto, tra i fili intrecciati, scomparendo nel nulla.
Elizabeth riemerse dal suo rifugio. Si asciugò il viso con una manica della maglietta e si guardò intorno. La stanza era abbastanza illuminata da permetterle di distinguere chiaramente i contorni rassicuranti dei suoi mobili e dei suoi giocattoli. La porta non era più chiusa a chiave. La bambina si lasciò ricadere sul cuscino, si distese su un fianco. Un sorriso sereno le piegò appena le labbra mentre finalmente si abbandonava al sonno.


~ ~ ~


Stava guardando quella dannata finestra da almeno mezz'ora. Elizabeth sbuffò e masticò una bestemmia tra i denti.
Quella faccenda di trascorrere ore preziose del suo prezioso tempo libero appostata fuori dalla casa in cui aveva trascorso gli ultimi, infelici anni della sua infanzia non le piaceva affatto e desiderava ardentemente darci un taglio al più presto. Un taglio bello netto, come quello che, potendo, avrebbe dato al senso di colpa che l'aveva tormentata per mesi al pensiero di Eden.
Se era lì, in piedi, al freddo, era anche - soprattutto - per mettere a tacere la propria indisciplinata coscienza.
Con un colpo di bacchetta, aprì la finestra di una decina di centimetri.
Abbassò lo sguardo sull'oggetto che stringeva delicatamente nella mano sinistra.
Il suo acchiappasogni.
La sua prima magia.
Non che ne avesse la minima idea, quando a quattro anni aveva visto letteralmente volatilizzarsi le persiane della sua camera.
L'importante comunque era che, per quanto ne sapeva, funzionava ancora. Proteggeva ancora, tanto dagli incubi di un sonno agitato quanto da quelli di una vita difficile.
La strega sospirò: era ora di darsi una mossa. Agitò la bacchetta e con un movimento secco del polso la puntò sull'acchiappasogni, che si sollevò in aria e volò verso la finestra. Una volta dentro, planò dolcemente sul letto dove, avvolta nelle coperte, una sagoma minuta respirava piano.
Due piani più sotto, nella strada buia, Elizabeth mormorò un incantesimo e richiuse con cura la finestra della camera di Eden.



Allora, io giuro che non l'ho fatto apposta. Non è che ho pensato "Toh, un contest di Serenity, mo le rifilo di nuovo la sorellina". È stato un caso, ok? Non è colpa mia se m'ispiri l'Eden!

Giuro anche che ho limitato al massimo il turpiloquio, mettendo addirittura la bestemmia in vergognosissimo discorso indiretto. Il mio insegnante di scrittura, dovunque egli sia, sta di certo soffrendo atrocemente in preda ai crampi senza sapersene spiegare il perché.

Comunque, il famoso peluche di Tommy è qualcosa tipo questo:
07_3153_b
Bruttino, neh?
 
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view post Posted on 27/10/2021, 18:34
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LIKE FIRE


La polvere volante era conservata in un vasetto di vetro, con un beccuccio simile a quello di certe zuccheriere dei bar babbani. Forse era effettivamente una di quelle zuccheriere, scovata tra la paccottiglia di qualche rigattiere.
Elizabeth si versò sul palmo una piccola quantità di polvere, rimise il vasetto al suo posto ed entrò nel camino, chinando la testa per non sbatterla. Quindi gettò la sostanza magica ai propri piedi e, trattenendo un colpo di tosse dovuto al fumo inalato, disse a voce alta la destinazione.

Quando riaprì gli occhi non era nel caminetto che si aspettava: in effetti, non era affatto in un caminetto. In un attimo aveva la bacchetta in mano e le spalle al muro, se muro lo si poteva chiamare: lo spazio in cui si trovava era delimitato da alte e dense fiamme. Due di queste pareti si trovavano dietro e di fronte a lei, a forse tre metri di distanza, formando una specie di corridoio. Sugli altri due lati, altre fiamme formavano bivi indistinguibili. Sopra di lei nulla, solo un cielo di un uniforme grigio cenere, senza nessun corpo celeste che potesse suggerirle la via.
Alla sua sinistra, a ridosso della parete opposta alla sua, c'era un uomo dall'aspetto trasandato accovacciato per terra. Sopra ai vestiti sporchi portava una rete, in cui erano impigliati oggetti d'ogni tipo e che si allungava fino a sparire tra le fiamme. Lo sconosciuto alzò il volto emaciato verso Elizabeth. «Solo chi lascia il labirinto può essere felice, ma solo chi è felice può uscirne.» le disse con voce roca. Poi chinò di nuovo il capo, come se fosse troppo stanco per reggere il peso dei propri pensieri.
Elizabeth si avviò nella direzione opposta, camminando di lato finché non ebbe svoltato l'angolo per non dargli le spalle. Le ci volle meno di un minuto per avere conferma di ciò che già sospettava: quella strana struttura di fuoco era un labirinto. Non aveva la più pallida idea di come ci fosse finita, né tantomeno di come venirne fuori. Si fermò. Valutò l'idea di sparare delle scintille in aria per chiedere aiuto, ma chissà chi o cosa avrebbe potuto attirare. Stesso problema con un patronus. Provare a spegnere le fiamme con la magia era fuori discussione: erano troppe e troppo alte e lei non era abbastanza potente. L'incanto quattropunti era ovviamente inutile, in quella situazione. Non restava che spremersi le meningi e sperare nella fortuna.
Aveva visitato il labirinto di una villa da bambina, quando era molto piccola e la sua infanzia non era ancora andata del tutto a scatafascio. Suo padre le aveva rivelato un trucchetto, assicurandole che funzionava sempre: "Appoggia una mano a una parete, Beth... Ecco, così. E ora vai, senza mai staccare quella mano. È infallibile: alla peggio farai il giro più lungo, ma di certo uscirai."
Si poteva legittimamente dubitare che la cosa valesse anche per i labirinti magici, d'accordo, ma valeva la pena tentare.

Vagò a lungo, con il forte sospetto di stare perdendo tempo. Ne ebbe la certezza quando ritrovò lo stesso uomo accovacciato che aveva già incontrato, arrivandogli alle spalle. O almeno, le pareva lo stesso: la rete era scomparsa, ma i vestiti e la posa sembravano identici. Si avvicinò circospetta. Quando lo sconosciuto si voltò verso di lei le sfuggì un grido e indietreggiò di diversi passi, perché il viso era cambiato: era quello di Dewie, coperto di lividi e sangue. Dewie che era morto anni prima, in circostanze di cui era riuscita a sapere troppo poco. Si girò e cominciò a correre, desiderosa solo di fuggire dallo sguardo sofferente della cosa che fingeva di essere il suo migliore amico. Si fermò dopo appena un paio di svolte e ispirò a fondo. Non le piaceva affatto, ma sapeva che la sua unica scelta era tornare indietro e andare in fondo a quella brutta, bruttissima faccenda. Ripercorse i propri passi: chiaramente il labirinto mutava nel tempo, ma l'intuito le diceva che non le avrebbe impedito di tornare dalla figura accovacciata. Anzi, era proprio lì che la voleva.

Già prima dell'ultima curva un aspro odore di erbe medicinali le raggiunse le narici. Era certa che prima non ci fosse. Girò l'angolo con la bacchetta stretta nel pugno.
La scena era cambiata: nessun uomo accovacciato, solo un corpo riverso in terra. Un corpo femminile, avvolto in un abito da sera, con lunghi capelli mogano sparsi sulla schiena lasciata nuda dalla scollatura. Non ne vedeva il volto, così lo aggirò, tenendosi a distanza. La prima cosa che inquadrò furono gli occhi, spalancati nel vuoto. Quindi percorse con lo sguardo la pelle liscia lungo il naso dritto e gli zigomi pronunciati. Arrivò infine alla bocca: tumida e vermiglia di rossetto sbavato, ne usciva un fiotto di schiuma rossastra. Astaroth, come probabilmente appariva a pochi attimi dalla morte che si era indotta.
Pur non essendo mai stata debole di stomaco, Elizabeth sentì un conato risalirle l'esofago. Si piegò in avanti, con le mani appoggiate sulle ginocchia, e sputò per terra un grumo di saliva e bile.

Quando si risollevò, Astaroth era scomparsa. Al suo posto una bambina di nove anni, in piedi. Elizabeth sapeva con certezza la sua età, anche se ci aveva parlato solo una volta, anche se la piccola non aveva idea di chi lei fosse. Era persino stata al suo ultimo compleanno, senza farsi vedere, perché da quando l'aveva accidentalmente conosciuta non era più riuscita a smettere di preoccuparsi per la sua sorelliana. E ora ce l'aveva davanti, Eden, con il visetto rigato di lacrime. Le braccia esili erano rigide lungo i fianchi e le mani, strette a pugno, crepitavano di magia repressa, lampi sempre più estesi e luminosi. Senza riuscire a impedirselo, Elizabeth tese la mano libera verso di lei, ma prima di poter fare alcunché fu accecata dall'esplosione di luce improvvisamente sprigionata dalla bimba.

Prima ancora di riaprire gli occhi, sapeva che Eden non ci sarebbe stata più. Non si aspettava invece che sarebbero scomparsi anche i muri di fiamme e il cielo grigio, né di ritrovarsi distesa su un freddo pavimento di pietra. Cercò a tentoni la bacchetta e le sarebbe preso il panico se una voce salda non l'avesse rassicurata: «Va tutto bene. È qui, ecco, vedi?»
Mise faticosamente a fuoco una mano che le mostrava il prezioso bastoncino e poi il viso a cui quella mano apparteneva e una divisa da infermiere.
<b>«Dove sono?»
riuscì a gracchiare.
«Esattamente dov'eri prima. In questi casi non è necessario trasportarvi al San Mungo, semmai anzi il ricovero finirebbe per disorientarvi di più.»
«Quali casi?» chiese Elizabeth, con voce e vista ora più limpide. Si trovava effettivamente nello stesso pub da cui era partita, o piuttosto da cui aveva cercato di partire.
«Sei rimasta incastrata nella rete dei camini. Non è frequente ma può capitare. Sai, per via degli errori. I medimaghi che hanno studiato il fenomeno pensano che c'entri anche lo stato mentale della persona, dicono che è per questo che non succede a tutti quelli che sbagliano a pronunciare la destinazione. Ora ti misurerò le pulsazioni, va bene? Cerca di restare rilassata. E se ce la fai, vorrei che mi dicessi che giorno è oggi, il tuo nome e la composizione della tua bacchetta. Non preoccuparti, è un controllo di routine.»
«Martedì.» sussurrò la strega. «Elizabeth Ashton. Frassino e capelli di veela.»
«Molto bene. Pensano anche che il luogo in cui ci si ritrova sia una proiezione della psiche, visto che cambia ogni volta.» proseguì ciarliero l'infermiere. <b>«A parte il fuoco, quello c'è sempre, ma può essere un incendio come una candela. Pare dipenda dal subconscio, o qualcosa del genere. Tu che cosa hai visto?»
Elizabeth chiuse gli occhi e non rispose, sperando che l'uomo la credesse di nuovo priva di sensi e si decidesse a tacere.
Non voleva ricordare cosa aveva visto, né voleva sapere cosa avrebbe visto dopo, se non fosse stata tirata fuori.
La prossima volta prendo la dannata metropolitana.



Noticina: ho cercato di rendere i passaggi riguardanti PNG e PG defunti chiari anche per chi non conoscesse il bg di Elizabeth, ma se così non fosse mp e passa la paura!

Noticina 2: sto pubblicando dal telefono con non poche difficoltà, perciò chiedo anticipatamente scusa per eventuali problemi nella grafica.

Partecipa al contest a tema di ottobre, "Labirinto".

Words of Magic
Body 1. Il tuo PG ha deciso di spostarsi tramite Metropolvere, solo che qualcosa va storto e sbaglia a pronunciare il nome della sua destinazione. Cosa accade?
Miscellanea 5. Unisci una delle prove al contest a tema del mese (valido ogni mese con una prova diversa; da +1PS e un altro punto in base alla prova scelta).
 
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view post Posted on 4/11/2021, 23:48
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Un po' di contesto: Elizabeth ha diciassette anni, è appena stata espulsa da Hogwarts e sta scontando una condanna penale.

Il titolo fa ovviamente riferimento al pezzo dei Casualties <3


We are all we have

Che Merlino potesse tornare dall'oltretomba con una carota al posto della bacchetta se nei dannati lavori socialmente utili non c'era lo zampino di Manticora. Oh, non che Elizabeth pensasse che l'infame professore di Rune avesse contribuito a tirarla fuori da Azkaban, ovvio che no, ma era certa che non potendo vederla marcire in una cella si fosse premurato di rendere la pena alternativa più penosa possibile.
Era uscita dal tribunale con il cuore alleggerito dalla consapevolezza che non sarebbe stata rispedita tra le braccia dei Dissennatori, ma aveva ben presto dovuto scoprire che i suoi ormai ex compagni di scuola sapevano essere torturatori altrettanto solerti.
E una delle condizioni della sua pena era che dovesse essere inderogabilmente scontata ad Hogsmeade.
Un'altra, ovviamente, le precludeva l'utilizzo della magia: la sua bacchetta le sarebbe stata restituita solo a condanna scontata. Erano ormai quattro anni che non faceva le cose alla maniera babbana, da quando aveva scoperto che la Traccia segnalava al Ministero che una magia era stata compiuta in vicinanza di un minorenne ma non denunciava chi materialmente l'avesse eseguita. Erano due settimane, invece, che imbiancava, diserbava, mattonava con le nude mani e la forza delle braccia. Come se non bastasse, da qualche giorno alcuni suoi ex compagni di scuola, gli stessi con cui già in passato aveva avuto problemi, avevano preso l'abitudine di scendere al villaggio durante le ore buche per deriderla e vanificare con la magia il suo lavoro, talvolta addirittura per procurarle piccole abrasioni e bruciature con incantucoli da primo anno che ferivano il suo orgoglio più che la sua pelle. I docenti di passaggio stavano ben attenti a non notare nulla, gli antimaghi che di quando in quando si presentavano a controllarla neppure si curavano di nascondere il divertimento.
Elizabeth strinse la mano sinistra intorno a una nuca calva e bitorzoluta e tirò fuori dal cespuglio uno gnomo urlante, il sesto da quando aveva cominciato a ripulire quel fazzoletto di terra nel centro di Hogsmeade.
«Ehi Mudblood, è un tuo nuovo amico quello?»
«Fattelo spiegare un po' da lui come si fa a non farsi acchiappare come l'ultimo tossico di Nocturn!»
«Tanto sicuramente è più sveglio di te: sarà sangue di gnomo, il suo, ma almeno è sangue puro.»
Elizabeth sbuffò e strattonò lo gnomo, facendogli mollare il ramo a cui ancora si teneva aggrappato. Non pretendeva che la smettessero, ma almeno cambiare le dannatissime battute che diamine. Afferrò con la destra una delle caviglie della creatura, attenta a tenerlo a distanza per non farsi mordere o graffiare. E non si annoiavano, i grandi maghi, oh no: ogni volta, a ogni motteggio trito e ritrito, reagivano con alte risate sguaiate, che le facevano fischiare le orecchie. Non li guardò nemmeno, mentre roteava energicamente lo gnomo sopra la propria testa. Quando ritenne di averlo stordito a sufficienza si buttò un'occhiata veloce alle spalle, una valutazione rapida di distanza e traiettoria che era piuttosto certa sarebbe passata inosservata. Infine mollò la presa, spedendo quella specie di grossa patata con le gambe a schiantarsi proprio in mezzo al gruppetto molesto. Due finirono a terra, a dibattersi per liberarsi dal loro stesso mantello. Tre, incuranti della sorte dei loro degni compari, in un attimo se l'erano data a gambe e si erano fermati solo a distanza di sicurezza. L'ultimo si ritrovò invece con i dentini dello gnomo irritato e spaventato conficcati nel polpaccio e cominciò ad urlare ed agitarsi, apparentemente dimentico delle proprie doti magiche.
«Oh Merlino, mi dispiace così tanto!» gridò sollecita Elizabeth, falsa come un galeone d'ottone, le sopracciglia esageratamente aggrottate nell'espressione più ostentatamente contrita che le riuscì di produrre.
«Allora è davvero il tuo nuovo amico» la dileggiò uno dei fuggitivi, che nel frattempo erano tornati indietro e avevano liberato gli altri, rispettivamente, dai mantelli e dallo gnomo mannaro. «Del resto non mi pare che tu ne abbia altri no?»
Ah, eccola una battuta nuova. La strega strinse denti e pugni, si costrinse a non rispondere.
«Allora, Mudblood? Qualcuno si è forse preoccupato per te, mentre languivi nella lurida cella che meriti?»
Elizabeth infilò una mano in tasca, dove da quando le era stata tolta la bacchetta conservava un coltello a serramanico.
E una frazione di secondo prima di estrarlo, fu fermata da due braccia strette intorno alle sue. Non si divincolò, perché riconobbe all'istante la voce di chi la immobilizzava: «Lizzie, non fare cazzate, non cascarci. Non possiamo perderti di nuovo». Vedendo che non reagiva Dewie allentò la presa, trasformando la stretta in un abbraccio. Il profumo di camomilla di un composto per i capelli che ben conosceva segnalò ad Elizabeth la presenza di Jules al suo fianco, proprio mentre una mano calda prendeva la sua e la accompagnava fuori dalla tasca: «Non ascoltarli: tu hai noi, avrai sempre noi. E noi abbiamo te.»
Una fattura orcovolante ben piazzata, nel frattempo, aveva provveduto a zittire lo studente: Shedir era l'unica a saperla usare, e infatti ecco la sua risata soddisfatta. Rigel fu il quarto a palesarsi, e con leggeri colpi di bacchetta guarì in un attimo tutte le piccole ferite superficiali di Elizabeth. Marcail ed Hermes avevano allontanato il resto dei bulli, a suon di minacce e attuazione delle stesse, per poi avvicinarsi a lei: «Non avrai mica pensato che li avremmo lasciati fare, spero.»
Mani che la stringevano, teste che sfioravano la sua, braccia intrecciate: erano tutti vicini a lei, di una vicinanza che si esprimeva nel contatto ma non ne aveva bisogno. Con la consapevolezza che ovunque fosse andata e qualsiasi cosa avesse fatto sarebbero sempre stati lì con lei, Elizabeth si sentì in corpo la forza di dieci streghe, si sentì capace di affrontare da sola cento bulli, mille, anche il mondo intero se necessario.
Perché sola davvero non lo sarebbe stata mai.



Parteciperà al contest a tema di Novembre.

Worlds of Magic: Miscellanea 2 (devi disinfestare un giardino dagli gnomi) e 5 (unisci una delle prove al contest a tema del mese).


Edited by Elizabeth Ashton - 30/11/2021, 19:04
 
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