L’espressione di Astaroth si addolcì quando udì la candida ammissione della donna: «Ne ho svuotata ben più di una ultimamente.» Poi, un po’ alla volta, comprese. I vestiti neri, il viso smunto, sciupato, il sorriso tirato, dettato unicamente dalle circostanze.
I contorni del viso della sconosciuta iniziarono a sfuocarsi sotto lo sguardo di Astaroth, che, dal canto suo, si fece vitreo. La pioggia, le bottiglie di vetro, il fango, gli anfibi marroni scomparvero, dileguandosi per lasciare spazio a quattro pareti completamente bianche. La figura nerovestita, in cambio, riprese concretezza e tornò ad assumere un aspetto solido e reale, ma qualcosa, rispetto a prima, era cambiato. I capelli castani ora erano mogano; il viso squadrato si era smussato in un ovale perfetto, mantenendo però il colorito cereo; gli occhi marroni divennero verdi.
La Strega batté le palpebre un paio di volte. Era di nuovo nel vicolo dietro ai Tre Manici. La sconosciuta, però, aveva mosso qualche passo nella sua direzione. Astaroth ricambiò il sorriso della donna, un gesto automatico, una risposta meccanica: una parte della sua mente pareva essere rimasta bloccata nei ricordi.
«Oh, figurati» la rassicurò; la sua stessa voce le arrivò estranea. «Nella peggiore delle ipotesi, potresti aver disturbato solo le bisce che ci sono da queste parti» commentò sovrappensiero, poi, dopo aver riascoltato mentalmente le parole pronunciate, aggrottò la fronte. «Forse, non proprio da queste parti» aggiunse. Cercò di mettere a fuoco un ricordo recente.
Nieve era venuta a trovarla, un pomeriggio, dopo il lavoro, per chiederle un consiglio. Astaroth le stava impartendo una lectio magistralis di seduzione, quando, ad un certo punto, la ragazza si era fiondata fuori dal pub di corsa, senza darle una spiegazione; dieci minuti dopo, aveva fatto ritorno con un flauto in mano: la sua protetta aveva trasfigurato una biscia nello strumento musicale, e aveva iniziato a suonarlo, sotto lo sguardo incredulo della donna.
Nieve tendeva a prendere un po’ troppo alla lettera certe allusioni della maestra, ma Astaroth, in ogni caso, apprezzava l’impegno e la creatività. In quel momento, si pentì, in ogni caso, di non averle chiesto dove diavolo avesse trovato una biscia. Sarebbe stato un argomento di conversazione interessante.
Alzò lo sguardo verso il cielo plumbeo e, istintivamente, si strinse di più nel mantello, sfregandosi le braccia per scaldarsi. La pioggerella era costante e, per quanto leggera, penetrava nelle ossa, umida e ghiacciata. La prospettiva di un bagno caldo allettava più di ogni altra cosa la barista. Astaroth si morsicò appena il labbro inferiore, titubante. Riportò lo sguardo sul volto della donna e, prima che potesse ripensarci, le disse:
«Bisce o non bisce, sommare il raffreddore alla tristezza non è la migliore delle strategie.» Si guardò la punta degli stivaletti e storse il naso alla vista del fango che era schizzato sulla pelle nera. «Propongo di entrare» disse. E, senza aspettare risposta, si voltò verso l’uscita del vicolo, da dove era arrivata. Proseguì: «Rosmerta ha ordinato, su mio suggerimento,» ci tenne a precisare «un nuovo rum.» Sollevò il mantello per non rischiare di sporcarne l’orlo. «Scende giù che è una meraviglia e, con questo tempo, riesce persino a farti dimenticare il freddo.»
Di fronte all’ingresso del pub, la pesante porta di legno bagnata dalla pioggia, la donna fece un respiro profondo; dentro avrebbero trovato caldo, nessuna compagnia indesiderata e il migliore rum che si potesse reperire in Gran Bretagna. Spinse la porta con la punta delle dita ed entrò nel locale. Si voltò, finalmente, verso le proprie spalle, continuando a tenere la porta aperta. Sorrise.