Per non smettere di correre controvento

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view post Posted on 18/2/2018, 01:29
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Non conosceva il famigerato cugino di Vagnard. Ne aveva sentito solo parlare lontanamente: un miraggio nascosto dalla follia. Non sapeva chi fosse, da dove provenisse, quali fossero i suoi sguardi sul mondo e perché aveva scelto proprio quella nebbiosa isola a Nord d'Europa per vivere, per ricercare, per studiare, per praticare e per appassionarsi. Quelle poche informazioni che aveva sulla famigerata figura arrivata nel Regno Unito della Gran Bretagna e dell'Irlanda Nord, - era un nome babbano, quello, di quell'isola, no? - riguardavano più che altro la sua professione, - un Guaritore magico, - il suo cognome, - promettente alquanto, - e il fatto che di tanto in tanto si faceva vedere alla Testa di Porco, un locale in cui l'Akuma ci era già stato più d'una volta. Se non si sbagliava, quell'edificio si trovava a Hogsmead, - una zona decisamente troppo vistosa per i suoi gusti, considerando che gli auror erano alle sue calcagna, - ed era attorniato da una fama che lo precedeva. Luogo oscuro, dove i sussurri delle ombre si mischiavano; dove gli auror non giravano e dove le persone comuni stavano lontane dalle quelle oscurità piene di segreti. Un luogo perfetto per farsi vedere dalla Madre Luna dopo quella storia.
Ancora ai tempi di scuola, quando il progetto dell'Orchestra era agli inizi e le leggi soltanto prendevano un'astratta forma nella sua mente, si era recato in quel posto per dar vita a un esercito magico che non fosse schierato con nessuno se non con sé stesso. Al tempo la sua iniziativa venne ben vista da molti, - Vagnard fra quelli, - ma il tutto dovette cadere nel dimenticatoio per numerosi e tetri motivi. Forse perché doveva crescere; forse perché di strada doveva ancora farne tanta... Ma che importava? Il tempo si prendeva comunque ciò che gli serviva, regnando sovrano sulle persone e sulle cose del mondo. E sempre il tempo concedeva le possibilità, le opzioni, gli incontri. Sempre egli tirava i fili di quella lunga storia facendo sì che le persone si conoscessero al momento opportuno, al luogo opportuno.
In realtà non sapeva che cosa quel Tristan Von Kraus vi trovava di così particolare nella Testa di Porco. Per quanto se ne ricordava Raven, era un luogo decisamente molto all'antica. Niente che richiamasse alla mente il lussuoso sfarzo delle abitazioni più conosciute. La porta scricchiolava, l'interno, - per come se lo ricordava, - era intriso di una vecchia polvere e ovunque erano presenti individui dalla dubbia reputazione. E il cibo era disastroso...
Probabilmente i ministeriali di tanto in tanto controllavano quell'edificio per evitare eventuali cospirazioni contro l'Ordine vigente. Sarebbero stati dei stupidi a non farci delle ronde oppure semplicemente delle visite in civile, tanto per sapere che aria tirava in quel che era uno dei locali più "interessanti" e "segreti" di tutto il panorama magico della Scozia. Probabilmente non vigeva alcun incantesimo anti-smaterializzazione su quell'edificio, ma nel caso Raven avrebbe dovuto... controllare. Anche se era poco probabile un'imboscata proprio lì, alla Testa di Porco, assicurarsi sull'eventualità della fuga qualora l'operazione "Reborn" non fosse andata in porto era più che necessario. Specialmente quando i manifesti con la sua faccia venivano appesi praticamente ovunque.
E poi l'Akuma voleva semplicemente vedere la faccia di un altro esponente della nobile famiglia von Kraus. Voleva sapere chi era quel Tristan che lavorava al San Mungo. E voleva sapere anche perché alloggiava al Testa di Porco e non da qualche parte insieme a Vagnard. Inoltre gli interessava la reazione che quel tipo avrebbe avuto nel vedere l'Akuma nella sua stanza. Insomma, oltre a servirsi delle sue doti da Guaritore, - doti di non poco conto, a quanto dicevano, - voleva togliersi qualche sassolino dalla scarpa e per farlo era disposto a rischiare... seppure il giusto. Non voleva mica ritrovarsi ad Azkaban prima di aver dato vita all'Orchestra al suo completo, no? A proposito dell'Azkaban l'Akuma voleva anche chiedere un piccolo "favore", - estraneo alla guarigione, ovviamente, - al signor "dottore". Un'ultima via di fuga e una fine più nobile di quella che, forse, gli sarebbe spettata.



Prima di scomparire castò su di sé un incantesimo "Séocculto", tanto da non poter essere individuato dagli occhi umani. Certo, al Testa di Porco era possibile trovare ogni genere di persona, ma difficilmente vi avrebbe trovato qualcuno sufficientemente potente da poterlo vedere nonostante la precauzione presa. L'utilizzo di quell'incantesimo lo obbligava anche ad agire in modo celere e veloce, ignorando quelle ferite che si era procurato: avrebbe dovuto raggiungere la stanza ed entrarci prima che l'effetto dell'incantesimo avesse smesso di funzionare. Per quello, non appena apparì in un buio vicolo di Hogsmead, non molto lontano dalla locanda più tetra della Scozia magica, strinse meglio a sé il Mantello di Disillusione che portava e si diresse, a passo rapido, verso il Testa di Porco. Come sempre l'ambiente intorno, considerata la tarda ora, era silenzioso, quasi morto. La costruzione stessa appariva da lontano come un macabro e buio luogo che celava in sé ogni genere di segreto. Vederlo così, per nulla cambiato da quei lontani anni studenteschi, gli diede una maggiore sicurezza in sé. Strinse con più forza la bacchetta, - l'unica arma oltre al coraggio che aveva, - e in poco tempo raggiunse la porta d'ingresso soffermandosi ad ammirarne... la semplicità. - "Nulla è cambiato..." - pensò veloce e con un gesto di bacchetta rese la porta di fronte immateriale. L'Akuma pensò bene, quindi, di nascondere i suoni dei propri passi grazie all'utilizzo dell'incantesimo Felpato. Passò attraverso la porta come, probabilmente, lo facevano i fantasmi (e sorrise al pensiero... forse il suo momento di diventare un fantasma non era poi così lontano come si credeva). Quindi, conscio del fatto che non conosceva il numero di stanza, usò la sua momentanea invisibilità agli occhi dei garzoni che vi lavoravano per entrare dietro il bancone e sfogliare il registro, - o quel che c'era al posto suo, - delle stanze occupate. Insomma, in tutte le locande che offrivano le stanze ai viandanti che ne avevano il bisogno vi era un registro simile e con un po' di ricerca l'avrebbe trovato anche Raven. Una volta che, sempre da celato, ebbe trovato il numero della stanza di Tristan von Kraus (era la numero 3), non gli rimase che percorrere un lungo e buio corridoio, trovare la giusta stanza, eseguire l'incantesimo di trasfigurazione sulla porta della stessa e passarci attraverso come aveva fatto con la porta d'ingresso.



Tristan non era dentro, nonostante la tarda ora. Al suo posto vi regnava il freddo, che non era proprio insopportabile, e il buio: un valido amico e alleato. Nessuna decorazione, nessun lusso sfrenato, niente che potesse impensierire l'Akuma o dargli fastidio. Solo il vento che soffiava al di fuori dalla finestra facendone tremare il vetro. E il Castello, in lontananza, a cui non poteva accedere e che conservava in sé ricordi indelebili e proteggeva quel mondo pieno di bugie, inganni e ipocrisie da radere al suolo a ogni costo.
Ricordandosene strinse i pugni.
"Questo tipo mi è già simpatico..."
Pensò l'Akuma ascoltando il fischiettare del vento e guardando la polvere sugli immobili nella stanza. Quest'ultima non era grandissima, ma non era nemmeno piccola; sicuramente non avrebbe mai pensato che fosse "così" una stanza della Testa di Porco. Fra tutti gli elementi dentro alla camera, l'attenzione dell'Akuma venne subito richiamata dal letto. Non riposava come si deve da moltissimo tempo. Più o meno da quando aveva deciso di smetterla anch'egli con l'ipocrisia e di dar via a quel che era l'episodio più tragicomico che il mondo magico abbia visto da un bel po' di tempo: un uomo nudo in giro per Londra ad ammazzare gente. Forse non era proprio come egli avrebbe voluto, ma era il primo passo. E forse non sarebbe stato l'ultimo.
Non sapeva chi fosse morto; non sapeva quanti ne fossero morti. Non sapeva nemmeno chi aveva fermato il fuoco maledetto e che danni era riuscito a fare questo prima di venire... sconfitto. E in realtà non glie ne importava nulla. Poteva morire tutto il mondo intorno, il castello bruciare e il Lago Nero diventare soltanto una buca d'incredibile profondità. Che glie ne importava?
Solo una persona importava per davvero.
E non era con lui in quel momento.
Per non lasciarsi indebolire, per non cadere nella tentazione e addormentarsi, per restare sempre sveglio e pronto a reagire... non si mise a letto. Non considerò nemmeno l'idea di mettersi a letto. Avrebbe dormito quando gli auror, o i mangiamorte, lo avrebbero sconfitto e del suo corpo non sarebbe rimasto nient'altro che cenere. Si mise piuttosto in un angolo, scomodo, posizionando la sua katana in modo tale da sorreggergli la testa, ma in contempo non farlo addormentare. Sarebbe stato così per il tempo necessario ad aspettare Tristan, usando solo qualche incantesimo per riscaldarsi, e fissando la stanza buia e tetra che aveva intorno. E il Castello che si vedeva dalla finestra.
Un luogo pieno di ricordi, quello, qualche chilometro più in la. Dove si erano conosciuti, dove si erano frequentati. Dove avevano imparato a sognare e combattere.
Tutti insieme.





PS: 121
PC: 352
PM: 488
Ti riporto il "quadro clinico" dell'ultimo post del QM:
"Gambe e braccia scorticate in più punti, ferita superficiale alla spalla destra. Ferita di media profondità all'avambraccio destro e alla caviglia destra."

E gli oggetti che mi porto dietro:
-Una katana con qualche kainji giapponese posizionata in modo tale da sorreggere la testa a Raven;
-Bracciale di Damocle (al braccio destro);
Anello degli elfi oscuri (dito indice della mano sinistra)
~ Anello del Coraggio: (dito indice della mano destra);
~Anello Luminoso (anulare della mano sinistra);
-Cappuccio dell'Apprendista (sulla testa);
-Mantello di Disillusione (sul corpo).
 
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Tristan von Kraus
view post Posted on 5/4/2018, 22:32




L'unica consolazione al dolore, era il bere. Non si trattava di un colore certamente fisico e neppure di qualcosa 'tangibile' dal punto di vista psicologico, quanto della considerazione che Tristan aveva ormai del mondo che lo circondava: api che ronzavano fameliche attorno alla sua testa, pronte a pungere in qualsiasi momento.; Il loro ronzio era un invito continuo a scacciarle via. Eppure il medimago ci era arrivato : sopportare fino al momento giusto per poter essere sopportato a sua volta. Non era un compromesso semplice, ma d'atronde Tristan con Kraus viveva ancora dei limiti di qualunque essere umano: un cervello, un senno (discutibile per molti aspetti, ma c'era) ed il non poter essere immortale.
Così dovette trovarsi un hobby, un passatempo che avrebbe fatto in modo da distogliere la sua attenzione dall'ente api per concentrarsi unicamente su se stesso. E lo aveva trovato!
Oltre agli alcolici, il Testa di porco era diventata la sua squadra dimora, qualora individui di dubbia moralità, necessitassero di cure mediche in cambio di denaro il più delle volte o di bevute gratis a cui Tristan non si era mai tirato indietro, naturalmente.
A voce sembrava essersi sparsa velocemente (troppo) perché negli ultimi tempi erano sempre di più gli appuntamenti non prenotati all'interno di quella stanza lugubre e marcia.
Dopo aver consumato il solito bicchiere di Ogden al bancone, con fare lento e macchinoso, Tristan si avviò su per le scale scricchiolanti e marce, fino ad arrivare alla porta contrassegnata con il numero 3. Qualcuno considerava quel numero come quello perfetto e Tristan aveva riflettuto molte volte sul come, tra le diverse stanze, fosse stata scelta dal fato proprio la numero 3. Si era dato una risposta semplice e modesta: perché in quello che faceva era perfetto.
Il gessato che indossava era naturalmente impeccabile e la borsa di cuoio colore nocciola, ricolma di tutto il necessario che poteva fare al caso suo (il San Mungo aiutava in tal senso con la reperibilità delle scorte) era stretta nella mano fredda dell'uomo.
Fatto il suo ingresso nella stanza, il tanto di umido e marcio gli arrivò alle narici molto prima che si accorgesse della totale oscurità dell'ambiente circostante. Gli bastò schioccare le dita per far sì che le candele già messe consumate della stanza, si accendessero facendo eco alla flebile luce della luna e degli esterni che si intravedevano dalla finestra illuminati tutt'intorno.
L'espressione contratta è ferma del medimago ebbe un sussulto quando, in un angolo significativamente più buio degli altri, intravide la figura di un uomo nudo rannicchiato su se stesso. Stavolta, al piano di sotto, non lo avevano avvisato che aveva visite.
L'individuo sembrava piuttosto malconcio a dargli una prima occhiata con la sola luce Delle candele che di certo non aiutava nemmeno troppo a vederlo in volto. Tuttavia, Tristan era diventato paranoico più del solito, soprattutto dopo che in un paio di occasioni, credeva di essere stato visto a trasportare cadaveri qua e la; sebbene sapesse perfettamente di cosa necessitava quell'uomo, prendere le dovute precauzioni era comunque il minimo:
-Chi sei?-
Sibilò con voce evidentemente rabbiosa e infastidita. Per quanto ne sapeva, poteva anche essere un'esca di quei dannati Ministeriali che avevano scoperto i suo illegali semi hobby.

Scusa il ritardo e scusa il post, ma i PC è morto e il tablet non è comodissimo.
 
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view post Posted on 15/4/2018, 00:22
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La stanza era sgombra quasi del tutto. Le uniche luci che vi entravano provenivano da fuori: da qualche parte in lontananza, laddove le luci di Hogsmead si mischiava fino a formare una cromaticità sola: il buio che ritrovava la luce. In quel buio, immerso nei suoi pensieri di guerra e amore, aveva ritrovato per qualche attimo la pace necessaria a pensare, capire e prevvedere. Mille opzioni si aprivano dinnanzi ai suoi occhi; tante ramificazioni di un piano comune. Come uno scacchista, non magico ma babbno, doveva essere pronto a esaminare tutti i casi, ad analizzare tutte le situazioni: a capire quale sarebbe stata la strada più dura da percorrere. Si sentì come se fosse trasportato da tutte quelle emozioni negative senza fine ed era una caduta senza fine. Sapeva che, appoggiato all'elsa della katana che gli impediva di prendere sonno, avrebbe potuto riflettere per il tempo necessario: ogni passo doveva essere esaminato con attenzione. Non perché fosse quello giusto, ma perché fosse quello più duro da compiere. Non sapeva se Sirius fosse stato d'accordo con lui. La mente calcolatrice di cui quel ragazzo disponeva andava nel senso contrario: compiere l'impresa più facile, più eclatante e in contempo la più probabile. Era un incontro-scontro strano, quello. Eppure non poteva fare a meno di dire che una voce controvento era pur sempre necessaria e ambita: gli serviva per non perdere di vista l'obiettivo finale e per non immolarsi nelle imprese che non sarebbe riuscito a compiere nonostante tutto e tutti.
Sentì lo scricchiolìo della porta e immediatamente agì: non era nella situazione giusta per potersi perdere nei pensieri per troppo tempo. Un attimo e la bacchetta fu nella sua mano destra, puntata verso il figuro entrato. Questi guardò la stanza per un attimo o poco meno, quasi assaporando la tipica atmosfera di quel luogo disperso tra le tenebre. Fu egli a schioccare le dita e aspettare che le candere sul tavolo si accendessero con un fuoco magico. La lune delle candele, però, non servì che da una piccola aggiunta alla luce lunare. Le piccole candele in mezzo alle tenebre del mondo. Quelle fonti di luce era insufficienti: lasciavano molto spazio alle tenebre che albergavano nella stanza ed era meglio così. Non lo avrebbe visto subito in volto e avrebbe lasciato tempo e spazio alla sorpresa. La domanda che seguì quel primo incontro, quando Raven si era ormai alzato, era quasi naturale: il volto nascosto dalle ombre della stanza e dal cappuccio.
La domanda era lecita; ma quale sarebbe stata la reazione? Sarebbe corso giù a chiedere i rinforzi? Avrebbe tentato di schiantare Raven? Oppure si sarebbe divertito a vederlo ferito? Era il parente di Vagnard, ma non sapeva ancora se poteva fidarsi dello stesso come si fidava di Vagnard. Insomma, era di sangue freddo o caldo? Come avrebbe accettato di avere nella sua stanza un fuggitivo?
«Non fare movimenti bruschi,» – gli consigliò con la bacchetta puntata contro di lui. - «Mi chiamo Shinretsu Raven,» – disse con la voce decisa. - «Ho scoperto che sei un medico e mi serve il tuo aiuto. Ma prima devo capire se sei davvero un von Kraus...» – Chiaro, no?



 
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view post Posted on 3/5/2018, 14:25
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Il Fato

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Numero tre, come tre morti.
Una donna, sua sorella, infine un bambino. Trucidati, spazzati via come cenere al vento, mentre ciascuna memoria veniva già fagocitata dall'onta del dimenticatoio. Cassandra sorrise, il cuore che zampillava energia allo stato puro, la furia omicida nello sguardo ancora attiva, le mani in palpitazione perenne. Passo dopo passo, sentiva il respiro divenire sempre meno regolare, a riprova del fatto che salire anche misere scale poteva costare più fatica di quanto immaginato. Si perse per un attimo soltanto in riflessioni più profonde del solito e ne fu contenta, quasi sollevata, a dare sospiro all'adrenalina che ancora scorreva tra le vene. Non era possibile stancarsi per lenti movimenti, non era possibile, non per lei. Aveva appena giustiziato tre Streghe, ma non provava né vendetta né gloria. Andava fatto, si era ripetuta. Non era seguace di nessuno se non di se stessa e il Fato aveva comunicato il suo verdetto già prima dei tempi. Cassandra lo sapeva. Cassandra vedeva. E tanto bastava per rendere meno pesante quel fardello che portava con sé, pesante e calzante, a scorticare anima e corpo di pari passo. Si concesse un altro momento di pausa, ristorandosi nel silenzio, attendendo di annullare quell'ultima breve distanza fra il punto in cui si trovava e la stanza che avrebbe dovuto raggiungere alla Testa di Porco. Vestiva di rosso, eccentrica, sibillina, lei che era profanatrice di vite. Ma le donne non erano innocenti, quelle donne non erano vittime. E vinte che furono, per Cassandra non ci sarebbe stato motivo di riepilogo, non una revisione dei conti, non una giustizia da ripercorrere in prima linea. Avanzò, un altro passo ed infine l'ennesimo, trascinandosi con gli strascichi di sortilegi e malefici che ancora avvinghiavano la sua esile figura. Il seno prosperoso, ora libero in larga parte dal tessuto spezzato, mostrava il respiro difficoltoso della donna; ed era bella, seppur semplice. Capelli lunghi, color della pece, così scuri da perdersi al buio velato del corridoio, coprivano il collo pulsante, mentre gli occhi continuavano quella frenetica lotta per mettere maggiormente a fuoco. Mancava poco, mancava relativamente poco. Mormorò una formula che si stagliò, netta e dolce, al pari di una litania, mentre le dita della mano destra sfioravano il petto: e le ferite si ritrassero, il sangue scivolò e infine si rapprese, mentre sulla fronte della donna già cadeva una perla di sudore. La bacchetta stretta nella mano libera, la sinistra, la dominante, andò a tagliuzzare con un unico fluido ed ultimo movimento il lembo di abito rosso che ancora vestiva, stracciandolo di netto. Un'altra ferita, più profonda, guazzava di sangue e attingeva al potere di morte che la Sacerdotessa aveva ancora con sé, pari ad un'ombra restia ad abbandonarla. Rinnovò il dono che le era stato concesso, ma quando la luce solleticò ambo i palmi, il sangue parve solo diminuire dalle cavità che si erano aperte dallo scontro precedente. Sembrava trascorsa un'eternità, ma era solo un'ora. E tutto era cambiato, tutto poteva cambiare. Consapevole dell'energia sempre meno attiva, a causa della prigionia magica che la fagocitava, Cassandra attinse alla parte più intima di sé e con un'ultima certezza, spinse con furia la porta che aveva davanti. «Hai le illusioni, Raven.» Divenne un sussurro, mentre piombava in stanza, percependo la tensione crescere, la bacchetta dell'altro puntata contro il suo petto. Sorrise, il gesto stesso le costò fatica. Non c'era nessun altro in camera, se non lei e l'altro fuggitivo. Non un'altra presenza, nessun Von Kraus. Illusione o meno che fosse, Cassandra era ormai in fin di vita. Sollevò la mano sinistra, ancora impugnante la bacchetta, e con l'altra la liberò dal tessuto scarlatto che copriva l'avambraccio; la porta alle sue spalle si chiuse da sola, sigillandosi. E sullo stesso, sul braccio, come in un filamento intricato, si dipanava una ragnatela minuziosa, pulsante e scura, come inchiostro colato e misto a sangue vivo. «Liberami dal sortilegio e ti presterò il mio aiuto.» Non una spiegazione, non un'informazione, nulla di più. Ma Cassandra aveva pronunciato il nome dell'altro: l'aveva sentito, forse; e Raven parlava tra sé? Oppure l'uomo - Tristan Von Kraus - era davvero apparso? Era consigliabile fidarsi di una perfetta sconosciuta? La donna rossa era palesemente ferita, l'abito che indossava la rendeva sensuale anche se stracciato in più punti. E c'era calma nel suo sguardo, c'era pace nei suoi occhi.
Cassandra moriva, e ancor viveva.


Da questo momento ti seguo io, si riparte. La role di cura diventa una Quest, da regolamento fai attenzione a non iniziare altre quest e/o duelli, apprendimenti e in generale nessun'altra role, scongiurando paradossi temporali. Nel prossimo turno scrivimi un sunto di tutti i punti da recuperare, considerando i vari danni ottenuti fino ad ora. Temporalmente consideriamoci dopo la role Mi, la Terza Nota.
 
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view post Posted on 3/5/2018, 23:32
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Nessun'ombra era passata su quel volto così simile al volto di un Von Kraus: decisione, determinazione e l'energia. Gli piacevano tutti coloro che facevano trionfare la Volontà su di ogni altra cosa e lui, almeno all'apparenza sembrava essere così: un degno membro di una nobile casata le cui radici si perdevano da qualche parte negli albori dei tempi. Il buon sangue non mente... e no se non mente. Continuò a osservarlo quanto necessario, katana e bacchetta in due mani diverse: il famigerato dottor Von Kraus. Lontani sospiri di un nome che vagava nelle tenebre. Sospiri che, volente o nolente, precedevano la sua fama; quella forza che, nonostante gli affannati respiri e una benda fai-da-te sull'occhio, egli percepiva anche a qualche metro di distanza. Anche con la bacchetta puntata contro la schiena di quel tizio poteva sentire l'aura intorno a lui. Quante persone aveva ucciso? Quant'era disposto a uccidere? Fin dove si sarebbero spinti i suoi studi? E lui stesso? Dove sarebbe arrivato?.. Tutte domande che nascevano nella sua mente nell'attesa di una risposta che arrivò, ma in un formato largamente diverso da quello che lui sperava. Laddove cercasse le risposte di Tristan, ciò che ottenne fu solo una porta che si aprì in un modo più o meno brusco. Ciò che vide era ciò che vedeva già da tempo: ombra. Un solo occhio gli bastò per scorgere i lineamenti femminili di quell'ombra densa; il suo vestito rosso a pezzi e... tante possibilità. La Provvidenza non lo abbandonava, la Provvidenza lo nutriva, lo spingeva e gli permetteva di guadagnare possibilità. Proprio la Provvidenza lo metteva dinnanzi alle strade: stava a lui scegliere quale percorrere e già da anni sceglieva solo e soltanto le vie in salita, ricche di ostacoli e mille difficoltà. Solo in quel modo avrebbe potuto aspirare a completare il suo passaggio per ritornare, finalmente, alle stelle o al vuoto: uno dei due posti da cui era venuto per capitare in un mondo ricco di falsità, inganni e bugie. Disonore, - ecco come avrebbe denominato la Terra: un posto dove l'amore e le amicizie non contavano nulla di fronte alla ricerca del potere.
Sorrise, spostando la bacchetta verso la donna. Era quella la risposta alle sue perplessità: la voce della Provvidenza in mezzo alle tenebre. Era quella la strada, - un'altra, - piena di difficoltà che doveva superare per andare oltre. Non importava quanto spesso era il muro che bisognava scavalcare; non importava quanto grande era l'ostacolo e non importava a nessuno dell'avversario che gli si sarebbe posto dinnanzi: ogni vita era soltanto un modo per andare oltre. Ogni difficoltà – soltanto uno scalino verso la realizzazione di una meta più grande. E quella figura che varcò la soglia della stanza, sembrava portarsi dietro tanti misteri e segreti che difficilmente avrebbe potuto individuare da solo. Donna semplice e bella al contempo; dallo sguardo forte, dalla mano sofferente. I seni, quasi liberi, malamente nascosti dai resti delle vesti.
Quella donna era appena uscita dalla guerra con un drago? Due occhiate lanciate qui e lì bastarono a Raven per trovare anche i capelli, lunghi e scuri, nascosti nelle ombre del corridoio.
Entrò parlando e all'Akuma piacque: rimase a osservare quella figura in tutto silenzio, mentre le dita femminili erano ormai abbassate. Vide come le ferite si guarivano e il dolore si ritraeva. Eppure era al termine della sua corsa, ormai. Il respiro affannoso, le gocce di sangue e il potere della maledizione parlavano al posto suo. Un'ombra in mezzo alle ombre; il fuoco in mezzo al vuoto: un'abbagliante luce in mezzo alle mille tenebre.



Con chi diavolo aveva combattuto?
«Stai morendo,» – confermò l'Akuma dopo aver ascoltato la sua frase, quasi come se stesse parlando a una vecchia conoscenza. Il sangue, le maledizioni, le ferite e la stanchezza non potevano passare inosservate. Lei aveva bisogno di energie. E poi...
Cosa voleva dire con quelle... illusioni? - «Sono caduto nel limbo e ancor ora non ne sono uscito completamente,» – rispose pensando ad Aquileia. Solo quella donna gli avrebbe dato modo e motivo per abbandonare il Vuoto. - «Sono circondato dalle ombre e dai vuoti; mi servono forze, occhi ed energie per continuare a correre. Sei, quella che la Provvidenza mi ha mandato?» – Le chiese ancor con la bacchetta puntata verso di lei. Osservò il resto del tessuto cadere lasciando che la maledizione sulla mano si mostrasse in tutta la sua bellezza. Non era una baledizione comune; sembrava piuttosto un cancro che prima le avrebbe via un arto e poi si sarebbe preso la sua vita e la sua anima.
Anche lei era destinata al nulla, se solo lui non avesse escogitato un modo per salvarla.
"Non male", - pensò l'Akuma osservando gli effetti di quel che a tutti gli effetti si poteva dire una maledizione non da poco. - "Perché non vede Tristan?" - Si chiese l'Akuma girandosi per vedere la sagoma, ben definita, del dottore silenzioso.
Si avvicinò alla donna nel mentre la porta alle sue spalle veniva sigillata. Nessun altro sarebbe entrato in quella stanza quel giorno.
«Chi sei e come mi hai trovato?» – chiese inginocchiandosi di fronte alla mano. Non era una situazione bellissima e lui non era un mago guaritore. Tristan lo era, ma a quanto sembrava non era interessato. O forse non era lì?
Scosse il capo. Il duello ai duellanti, il quidditch ai cercatori e le cure ai guaritori: era quello il suo motto, uno dei tanti. Eppure era anche vero che talvolta bisognava improvvisare e scambiare i ruoli lo richiedeva la Provvidenza, lo richiedeva anche la necessità.
«Conosco un incantesimo utile per fermare i sortilegi sconosciuti...» – disse cercando di attingere alle conoscenze e alle forze di cui aveva bisogno. Non era un incantesimo semplice, quello a cui stava pensando. Ma era la vita a non essere semplici e piena di difficoltà, dolori e sofferenze.
Quella era la volontà della Provvidenza.
Prese un bel respiro prima di apprestarsi a eseguire l'incantesimo. Ne aveva bisogno; così come aveva bisogno del supporto della Provvidenza in quegli istanti. Ripensò solo per un attimo agli eventi di poco prima, a tutto ciò che era successo (un pensierino andò anche a Leia), per poi concentrare tutte le attenzioni sul sortilegio. Tagliare la mano non era un'opzione; l'unica opzione per salvare la ragazza era sconfiggere la magia. E la magia poteva essere sconfitta solo con l'altra magia: era quella l'essenza dell'eterno conflitto sulla Terra. Qualcuno costruiva e qualcuno, di più forte, distruggeva. Ma sarebbe stata una sfida non da poco: lo sentiva.
"Mi piacciono le sfide," - s'infiammò quasi subito pensando a come avrebbe vinto contro quell'altro nemico. Sentì le forze salire nonostante il suo stato esausto e ripensò a tutti quegli ostacoli che aveva superato e che avrebbe dovuto superare ancora. Non ci fu il minimo dubbio in lui sulla sua vittoria: avrebbe spezzato quel sortilegio a qualsiasi costo. Anche al costo di mettere in pericolo la sua stessa vita. Conobbe la fiducia in sé, quella sicurezza che aveva già assaggiato alla Congrega e che di nuovo salì in lui a dismisura.
Si sentì padrone, dominatore; si sentì pronto a spingersi di nuovo oltre i limiti e a correre controvento, sempre. Restò concentrato, calmo, come un dominatore che sapeva di padroneggiare la situazione. Non gli serviva spronarsi, correre o lottare; né voleva distruggere o farsi distruggere: doveva solo vincere come un abile scacchista vinceva la sua partita a suon di scacco e matto. Sapeva che ce lo avrebbe fatta e nessuno, - né Camille, né Lord Voldemort, né quegli sfigati della Congrega, - gli avrebbe dato modo e motivo di dubitare di sé. - "Mi berrò il loro sangue nei calici di fuoco", - pensò focalizzando quell'energia nella sua mente. Era la stessa energia del dottor Von Kraus: Determinazione, Sicurezza, Fede e Volontà, di cui il Trionfo avrebbe fatto splendere e risplendere.
Amava i conflitti. E amava vincerli.
Il tutto immaginando come quella maledizione ritraesse fino a venir sconfitta del tutto: era la sua volontà che trionfava su quella dell'altro. Guardava nella sua mente quel che era un'immagine fissa, lucida e nitida: quasi come se fosse ciò che sarebbe realmente dovuto avvenire da lì a poco. Nessun dubbio andava a combattere quella visione; solo un eterno e continuo spingere, influenzare e aggredire. Perché quella ferita, quella maledizione non doveva che venir essere attaccata fino alla sua scomparsa completa e totale perché non ricomparisse mai più. Si sarebbe messo tutto sé stesso nella guerra alla ferita: la sua volontà contro la volontà di un altro.
Sorrise di gusto percependo dentro l'atmosfera del combattimento, della sfida. Gli piaceva. Gli piaceva vedere come quegli strani effetti del sortilegio maligno arretrassero, centimetro dopo centimetro, millimetro dopo millimetro, fino a scomparire del tutto. La sua vittoria quel giorno sarebbe stata anche la vittoria della donna; il suo trionfo sarebbe stato anche il suo trionfo. Un infinito conflitto che quel giorno trovava le energie e gli intenti di due maghi come se fossero uno solo.
Una volta fissata in mente la sicurezza della sua vittoria sull'altro sortilegio mosse la bacchetta ruotando il polso prima verso l'est, quindi verso il nord, dopo a ovest per finire con il sud. Movimenti fluidi, ma in contempo decisi e determinati, con la bacchetta ben stretta in pugno. Quindi ne seguì un secco colpo nel mezzo della figura disegnata in aria proprio davanti a quel braccio colpito dalla maledizione. Nel mentre al movimento, dalle sue labbra uscì chiara, forte e decisa la formula magica: un imperativo, questo, che non poteva essere ignorato tranquillamente, nonostante provenisse da un uomo debole, seppur infinitamente sicuro di sé.
«MÀGISTÈRIUM! » – disse a voce alta l'Akuma, senza dimenticarsi di posizionare gli accenti ai loro posti, come richiesto dalla teoria e dalla pratica.
Quindi avrebbe osservato la mano della gentile signora: avrebbe vinto o avrebbe continuato a provarci? Al pensiero si rallegrò: combattere fino allo stremo era sempre solo e l'unico motto.





Per quanto richiesto dal QM, riporto tutte le ferite e i rispettivi punti di tutto ciò che devo curare facendo un mix delle due quest in cui sono stato ferito.
-Gambe e braccia scorticate in più punti.
-Ferita superficiale alla spalla destra.
-Ferita di meda profondità all'avambraccio destro e alla caviglia destra.
-Occhio destro esploso; al suo posto dopo le cure una cavità.

In tutto ho perso:
PS: (338-125 per la Quest di Londra) e 318-203 ps (La Terza Nota) e ne ho persi 25 a public enemy, quindi in totale ho perso: 213PS+115PS=318 PS. Le mie statistiche ora, quindi, dovrebbero essere: 18/361 PS
PM: 50 persi nella Quest di Londra, 66 in Public Enemy, 55 in La Terza Nota (in tutto 171). Quindi le stat di mana dovrebbero essere 324/494 PM
PC: Ne ho persi 44 a La Terza Nota e 43 a Londra e 30 a Public Enemy. In tutto 117 PC. Quindi le stat ora dovrebbero essere 242/359 PC.
Il tutto già contato con le nuove stat assegnate dal QM, che non riesco ad aggiungere alla scheda per problemi con il pulsante di modifica.
 
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view post Posted on 7/5/2018, 20:04
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Lo sguardo della Strega soppesò la figura dell'altro, studiandone i lineamenti, percependone una sofferenza silenziosa, che cozzava in eterno con una gloria, un ideale, una speranza più profondi di qualsiasi altra cosa. Sorrise, perché tutto in quell'uomo suggeriva fiducia, tutto in quello sconosciuto irradiava un potenziale senza misura, senza eguali, vinto dalla certezza del cambiamento. Ma avrebbe avuto tempo necessario? Avrebbe saputo superare mille e più ostacoli sul suo percorso, più di quanti già Raven non avesse già annullato? Una stretta vigorosa delle dita, le une contro le altre, un pugno che plasmava energia, forza, resistenza. Cassandra agiva senza ideali, solo per dar prova e forma ad un'identità del tutto personale, la stessa che aveva scelto fin dai primi anni dell'età adulta. E il limbo fra passato e presente diveniva una costante di interventi, omicidi, prove di grande risonanza, di altrettanto valore: non esclusivamente per lei, non per i suoi cari, non per l'uomo che aveva appena incontrato. Socchiuse gli occhi, inclinando il capo leggermente verso sinistra, lo sguardo che già indagava con malcelata curiosità, forse insistente più del dovuto, la mancanza della vista totale dell'altro. Era una ferita, un premio, un riconoscimento di un vincitore in battaglia o di un caduto, uno tra tanti, uno tra molti, uno di quegli spiriti sì nobili, eppur dimenticati? Cassandra ne fu estasiata, non una scintilla di ribrezzo pervase il suo corpo, al contrario un rinnovato equilibrio - pace, stasi, autocontrollo - serpeggiò in tutta la sua figura, circondò il collo, discese tra i seni fino all'avambraccio mutilato, sul quale già la ragnatela tesseva la sua oscurità. Offrì dunque l'intero braccio all'altro, accettando in silenzio il suo discorso, così come il suo aiuto. Avrebbe avuto l'asso nella manica che avrebbe fatto la differenza tra la vita e la morte? E se anche così non fosse stato, quell'incantevole Donna sarebbe stata soddisfatta del suo operato? Aveva ucciso, l'aveva fatto, più volte di quante potesse ricordarne; aveva giustiziato, aveva stravolto l'innocenza, aveva portato ristoro, dolore e altrettanto sollievo. Una questione di prospettive, sempre e comunque: la guerra sarebbe scoppiata di lì a breve, lo sentiva. In modi diversi, forse non usuali, senza esplosioni, in contesto diplomatico: era evidente, era palese, era limpido per chi aveva Occhi per mirare. Abbozzò un altro sorriso, le labbra tinte di rosso, piene, già in dissapore con l'incarnato pallido del suo volto. Quando la bacchetta magica agì con la Volontà dello sconosciuto, Cassandra calò le palpebre e attese, paziente, senza aggiungere una parola, senza tremito. Attese, com'era sempre stata in grado di fare. Non era forse quella la virtù migliore, più intensa, più difficile da ottenere? Lei che ne era seguace e discepola, tuttavia, avrebbe saputo coglierne il valore più di chiunque altri. Il Magisterium evocò un'invisibile aureola protettiva, dissipò gli screzi e gli strascichi di un attacco ormai già dimentico, lo stesso di un'anima che aveva tentato il tutto e per tutto, in ultima sfida, nei confronti di una Strega palesemente più forte, più capace, di certo molto più abile. Strisciò via, si ritrasse, si espanse, fino a che sul braccio rimase un'unica perla scura, color della pece: Cassandra aprì gli occhi, ma il punto oscuro era ormai sparito, attirato da una magia più grande, più determinante.
E fu buio, improvvisamente, senza ragione. La stanza già scarsamente illuminata piombò nel regno plutonico, fin quando la mano della Strega, un attimo prima pronta ad essere divorata dall'offensiva che la governava senza alcun rimedio, si strinse con energia attorno quella di Raven. Bloccò ogni repulsione, ogni movimento da parte dell'altro: se anche avesse provato, se anche avesse desiderato, l'ex Corvonero non avrebbe avuto potere per nessun intervento. Inerme, a sua volta, si ritrovò come partecipante di un repentino calo del sipario circostante: non più mobilio, non più umidità, soltanto buio. La Testa di Porco non offriva riparo in quel momento, e come avrebbe potuto al cospetto del Tempo? Così la Donna estrapolò le sue memorie, invase la mente dell'altro, fin quando furono intatti e collegati allo stesso modo, alla stessa frequenza: in lontananza qualcuno gridò, un Elfo Domestico fu cacciato in malo modo dall'ingresso di quello che a primo impatto dava l'idea di essere un locale familiare; un altro urlo, disumano, feroce, vinto dalla rabbia, mentre una pattuglia di figure in nero, vestite di abiti lunghi, sospinti dal vento, spiccava di corsa verso l'apertura appena creatasi dalla forza. Non più un ostacolo dinnanzi al gruppo, i cinque uomini avanzarono, le bacchette strette ognuna tra le proprie mani - destra, sinistra, non aveva importanza - per poi passare tra i tavoli, per poi intimare il silenzio. E già qualcuno incantava un'antica litania magica, evocando barriere, interrompendo la Materializzazione, così come la sua altra variante: nessuna via di fuga, una soffiata, un'esplosione. Le scale tremarono, la stanza di quel Dottore, Von Kraus, apparve come un ologramma, mentre un numero bruciava, esplodeva, incendiava con energia i pensieri di entrambi i Vedenti. Numero tre, come tre morti. Numero tre, ancora una volta.
Cassandra aprì gli occhi e finalmente espirò.
Il buio si dissolse come cenere al vento, le mani si rilassarono nella presa ferrea, l'una contro l'altra, liberando Raven. Avrebbe colto quanto accaduto, avrebbe colto quanto sarebbe accaduto? Cassandra osservò l'altro, per la prima volta nei suoi occhi c'era una nota di preoccupazione. «Arrivano. Arrivano per me.»
Oppure no?


Punti Salute 18/361
Punti Corpo 242/359
Punti Mana 324/494

Riassunto indicativo: Gambe scorticate, ferita spalla destra, avambraccio/caviglia destra feriti, cavità occhio destro. Nel corso della Quest sarà mia premura provvedere alla tua guarigione, per ora qualsiasi domanda o dubbio tu abbia, scrivimi pure per messaggio privato.
 
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view post Posted on 8/5/2018, 00:05
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Molon Labe



Il volere era potere: chiunque abbia mai pronunciato quella frase non si era di certo sbagliato, tant'è che l'unica cosa che l'Akuma tenne bene in mente nel mentre le sue emozioni venivano fuori e la bacchetta si muoveva verso i 4 lati dell'orizzonte, era propria quella: energia, determinazione, decisione. Niente era perso finché non tutto era perso: ogni vita poteva e meritava di essere salvata, finché non era morta del tutto. Probabilmente era uno degli altri motti dell'Akuma, - stupidi, avrebbe detto qualcuno, - che quest'ultimo cercava di applicare in ogni momento e in ogni occasione: solo la morte, il disfacimento completo avrebbe portato Raven a perdere. Quella sarebbe stata la sconfitta finale: tutte le altre delusioni erano soltanto dei passi indietro. Qualcosa che non avrebbe mai influito o comportato un effetto più o meno certo sulla vittoria. Non si tenne cura dei suoi occhi, né dello studio che questi facevano di lui: poteva perdere tutte le battaglie, ma alla fine dei conti vincere la guerra principale. Non badò nemmeno per un istante a quegli occhi, silenziosi nel loro essere e al contempo fugaci, vivi, accesi. Non sapeva che cosa aveva fatto; non gli importava che cosa avrebbe fatto ed era ovvio che non vi era tempo alcuno né per le domande, né per le risposte. Il tempo scorreva e insieme al tempo scorrevano via le possibilità, nascoste e bruciate dalle ombre e fiamme.
Non l'avrebbe abbandonata, non l'avrebbe lasciata: se quella donna era mandata dalla Provvidenza che ogni cosa divorava e ogni cosa costruiva, non poteva semplicemente lasciare che la donna dai vestiti strappati fosse morta: la Provvidenza glie l'avrebbe fatta pagare. Era saggio mettersi a difesa di una perfetta sconosciuta che lo aveva trovato chissà come? Ovviamente no, ma Shirentsu Raven e la Saggezza erano due binari distinti già da moltissimi anni: non seguiva più la Ragione, figlia dei pensieri e intricate intuizioni. Non gli interessava la logica, se non in determinate situazioni. Era il cuore a interessagli ed era davvero l'unica cosa che gli importava: spremere l'ultimo goccia di succo da quel muscolo pulsante. Soffrire, davvero e fino alla fine, al di là delle prove e degli ostacoli che il Destino gli avrebbe messo davanti ancora, ancora e ancora.

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Fu con quel suo cuore che recepì il messaggio e spinse la maledizione fino alla fine, per quanto necessario, mettendoci il necessario, spingendosi di nuovo oltre sé stesso e creando, creando e di nuovo creando finché ogni cosa non sarebbe stata del tutto annullata e quella macchia nera non sarebbe scomparsa senza lasciare la minima traccia. Era un'altra battaglia, un'altra sfida: ma era la battaglia finale per quella donna. Quella battaglia decisiva che dipendeva dall'Akuma: se l'avesse persa, la strada delle sofferenze e dei dolori sarebbe finita per lei. - "Avanti," - spinse i propri pensieri cercando di far scomparire quel sortilegio del tutto per lasciarsi andare a un attimo di riposo che non ci sarebbe stato finché quel nemico, - immedesimato proprio in quel braccio, - non fosse scomparso. Combattere in quelle condizioni, finito e allo stremo, sarebbe stato difficile: le ultime energie erano anche quelle che donavano all'Akuma le ultime forze e lui, a sua volta, le donava verso quell'incantesimo per niente semplice che prevedeva la sconfitta di un incantesimo sconosciuto. Ma quella era la vita fatta di guerra, combattimenti, contrasti e conflitti: una storia che durava dapprima della nascita del pianeta Terra. Era semplicemente una legge: chi non voleva combattere era destinato a morire e coloro che desideravano vivere e non sopravvivere dovevano affinare l'arte del duello fino a raggiungere la perfezione, altrimenti si sarebbe sempre trovato quello più forte oppure il Fato non sarebbe stato semplicemente così clemente con chi di dovere.
Non vide assolutamente alcun sorriso, concentrato a vedere come quella macchia diminuiva, diminuiva e diminuiva sempre di più, centimetro dopo centimetro, millimetro dopo millimetro: era importante che perdesse campo, che si annullasse, che diventasse vuota, priva di sostanza, magia e soprattutto vita. Il silenzio che regnava in quella stanza, - l'immagine di Tristan ancora lì, - non faceva che favorire quel combattimento: e Raven vinceva. Perdendo gli arti si poteva fare qualcosa per ricrescerli; perdendo gli occhi si poteva usare la magia per rimetterli a posto. Era solo perdendo la vita che non si poteva più fare nulla: la battaglia per l'esistenza era sempre quella che richiedeva il 120% invece del 100%. Osservò l'aura del suo incantesimo con una soddisfazione mista alla gioia che mai prima aveva avuto: non stava uccidendo, quella volta stava salvando. Secondo dopo secondo, millimetro dopo millimetro, succhiò via quel sortilegio come si succhiava il veleno; spazzò quella magia come il vento spazzava via le foglie autunnali: il tutto nonostante quel suo essere stanco, debole e quasi dimentico.
«Fiu,» – sospirò per un attimo solo, come se avesse appena corso una maratona o avesse preso il boccino. Era un sollievo vedere quel braccio pulito, quasi come il vedere il proprio avversario al tappeto. Inchinò leggermente la testa in avanti: la debolezza era palese, eppure le forze vitali non lo avevano ancora lasciato.
"Niente è perduto finché non tutto è perduto," - si ripeté per l'ennesima volta. Ma non riuscì nemmeno ad alzarsi da quella posizione da accovacciato, facendosi perno sulla katana stretta nella sinistra, che sentì la mano femminile prendere la sua. Era una mano decisa, un braccio pieno di Volontà: gli piaceva e non poteva negarlo. Ma cosa ne sarebbe derivato?
"Il buio," - pensò nel silenzio cercando di respirare per riprendere le forze ed essere subito pronto a un'altra battaglia, un'altra guerra: abbattere il resto degli ostacoli era la priorità, indipendentemente da quali fossero. Cosa gli importava, del resto? Solo la Provvidenza contava ed era prioritaria la sua Volontà: avrebbe ucciso e dilaniato e bruciato, non importava chi, se solo avesse intuito che era quella la strada su qualche camminare. Eppure la sua sete di conoscenze veniva a poco a poco soddisfatta con le immagini che, veloci, scorrevano nella sua mente come se fossero dei ricordi propri... immersi in quel buio che lo circondava e lo faceva tremare.
Sentì l'urlo nella propria mente tanto da pensare che provenisse dalla stanza vicina, vide un elfo domestico in fuga da una casa, al che seguirono altri drammi e urli. Vide degli uomini, - "auror", pensò rendendosi conto di quanto fosse assurdo quel pensiero e quanto fosse in lontananza quell'idea. Eppure li guardava correre, entrare, ognuno con le armi in mano, in mezzo ai tavoli di quel stesso locale, gridando al silenzio. Sì, il silenzio che venne colpito da quella esplosione: le schegge che arrivarono lontane, susseguite agli incanti di anti-smaterializzazione. - "Auror?" - pensò nuovamente sentendo le scale tremare e la stanza intorno apparire soltanto come un'illusione essa stessa.
Era contro dei maghi potenti ed erano 5. Troppi, decisamente. Ma aveva combattuto contro due sfidanti di Londra, contro due auror, due poliziotti e altri topi che rappresentavano unicamente la materia grigia di cui era composto il mondo. Poi vide solo il numero infuocato: un 3 di cui non conosceva né la provenienza né il significato, se non che in qualche tradizione fosse il numero della perfezione. Il buio scomparve; l'illusione prese forme reali; quelle mani si staccarono e il Corvo fu libero... ma non di fuggire, bensì di continuare nella sua folle corsa. Non ci voleva molto per capire cosa sarebbe accaduto da lì a poco, così come non ci voleva molto per capire: erano la salvezza dell'un l'altro. Osservò le sue iridi, lesse la sua preoccupazione e cercò di reprimere la preoccupazione dentro sé stesso. Avrebbe vinto o sarebbe morto combattendo, di nuovo. Non vi erano altre vie.
Ghignò.
"Arrivano per te?" - si chiese nella mente chiedendosi cos'avesse fatto di così speciale quella donna.
«Ti vogliono?» – chiese con lo sguardo puntato alla porta ancora accovacciato dinnanzia alla stessa. - «Che ti vengano a prendere...» – "Se ci riescono..." - pensò divertito, in attesa di quell'ennesimo conflitto, battaglia e guerra. Solo un'ultima occhiata alla donna prima di dedicare anima e corpo alla Guerra Eterna.
«Nasconditi dietro la porta,» – le avrebbe detto. Se quelli fossero entrati aprendola, lei si sarebbe ritrovata proprio dietro. Non l'avrebbero vista. Avrebbero visto solo lui. E lui era felice della cosa.

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Se erano intelligenti avrebbero lasciato qualcuno al di sotto, a difendere l'entrata. Ma la tattica che avrebbero usato per l'Akuma non importava niente: era la loro morte, silenziosa e immediata, prima che ogni auror fosse riuscito a raggiungerlo... quello aveva l'importanza.
"Bacchetta e Spada..." - si disse tenendo la prima nella destra e la seconda nella sinistra. Non vi era da aspettare ed egli agì ancor quando gli altri erano in arrivo. Prima di dar via all'incantesimo, però, posizionò la katana alle sue spalle, agganciata al mantelle, perché anche questa venisse inglobata nell'incantesimo.
Serviva più concentrazione che determinazione e volontà di distruggere per ciò che aveva in mente, ma se fosse riuscito nel suo intento, sarebbe anche e sicuramente riuscito a continuare la sua guerra nonostante tutto e tutti. - "Sono uno spirito...un fantasma errante..." - si ricordò egli dell'inizio di quell'avventura in tutto e per tutto particolare. Aveva deciso di diventare un fantasma e da allora non si era mai convinto del contrario: un passo avanti, zero indietro... volta dopo volta. Cercò di concentrarsi, di lasciar perdere le distrazioni esterne, di diventare gassoso egli stesso nella sua stessa mente, principalmente. Concentrato e determinato nel raggiungere il risultato, ma con i nervi rilassati e la sicurezza di raggiungere il risultato a mille, immaginò...
...di vedere come ogni cellula della suo corpo si allontanava da un'altra cellula: la base della trasfigurazione sub-molecularis. Cercò di disegnare nella propria mente il suo stesso corpo, immaginò le cellule del proprio corpo disfarsi, allontanarsi le une dalle altre, venire divise in elementi molto più semplici. Vide la composizione atomica e molecolare di ogni cellula; allontanò gli atomi in una molecola gli uni dagli altri; allontanò le molecole le une dalle altre. Le allungò, posizionandole a distanza, seppur mantenendo dei legami energetici tra di loro. Immaginò ogni tessuto del suo corpo, la lingua, il plasma, sangue, liquidi biologici secondari, cervello, ossa e i canali ossei, gli occhi e la retina, i capelli. Disfacendo il suo corpo, rendendolo immateriale nella propria mente, ma comunque "visibile", Raven non si fermò: ogni molecola di cui era composto il suo corpo venne disfatta in parti più piccole e allontanate tra di loro, compresi gli organi più grandi e quelli più piccoli; comprese parti anatomiche e fisiologiche... Ogni legame tra particelle submolecolari (la trasfigurazione submolecularis se la ricordava ancora piuttosto bene, considerando che solo in quella branca della Magia aveva ottenuto I MAGO), ogni spazio creato, sarebbe servito per rendere inconsistente il suo corpo. Per farlo divenire uno spettro, un fantasma, un ologramma, una proiezione astrale, un'immagine riflessa... Ma questo era insufficiente quella volta. Immaginatosi il corpo venire reso immateriale, passò immediatamente anche alla bacchetta: sentì la magia scorrere dentro di lui, e cercò di focalizzarla nella sua stecca magica, nel suo prolungamento, facendo in modo che vi vibrasse, che determinasse il risultato, che rendesse immateriale anche la bacchetta. Quindi, una volta che avrebbe sensibilizzato la bacchetta, avrebbe immaginato la sua scomposizione: le molecole del cedro allungarsi le une dalle altre, gli atomi non staccarsi, ma allungarsi anch'essi; tra di loro vi si creava dello spazio nella mente di Raven che veniva immediatamente o invaso dalla magia stessa. Il legno, mischiato alla polvere di artemisia, avrebbe dunque formato una "fantasma" della bacchetta: un ologramma fatto di gas. La bacchetta sarebbe rimasta visibile comunque nell'immaginazione di Raven, ma solo come "un'ombra", come un oggetto visibile, ma immateriale, trasparente. Alla sua scomposizione degli atomi e delle molecole della bacchetta, si aggiunsero anche i frammenti della zanna del basilisco, inseriti dentro il legno. Questi elementi l'Akuma li aggiunse all'immagine della bacchetta formata nella sua mente, cercando dunque di non tralasciare alcun dettaglio, e muovendo le molecole del cedro, dell'artemisia e della zanna, uniti tra di loro, distanziando e creando gli spazi: un procedimento lungo e complicato, ma necessario per la buona riuscita di quell'incantesimo per cui l'immaginazione era basilare. Non in ultimo luogo, immaginò anche la katana assumere la consistenza di un oggetto fatto della stessa materia di cui sarebbe stato composto l'Akuma, se solo fosse riuscito nella sua esecuzione. Anche in questo caso gli atomi nella mente dell'Akuma, - questa volta di puro metallo, acciaio e pelle, - si distanziavano gli uni dagli altri e i legami metallici per magia diveniva legami gassosi.
In contemporanea all'immaginazione, a cui cercò di fornire la massima nitidezza ed energia possibili, eseguì anche i movimenti magici. Era piegato, inginocchiato. Per quanto paradossale, quella era persino una posizione di vantaggio: i movimenti magici avrebbero richiesto meno tempo. Con la bacchetta tenuta fluidamente tra le proprie dita iniziò un movimento a spirale intorno al proprio capo. Dalle linee fluide, il suo disegno a spirale scese giù, avvolgendo il suo corpo nella spirale stessa. Una volta che la spirale sarebbe arrivato a livello dei piedi, toccando il punto più basso del suo corpo, sarebbe subito tornata indietro in quel che era un movimento duplice: dall'alto verso il basso e dal basso verso l'alto. Ritornando in alto Raven avrebbe disegnato la stessa spirale di prima. Una linea morbida e fluida, eseguita con una bacchetta anch'essa tenuta in maniera flessibile, quasi come se fosse un dirigente e non un mago, dal polso molle (ma non troppo)
In contemporanea con l'esecuzione dell'incantesimo, dalle sue labbra uscì la formula magica:
«Spectrum!» – Pronunciò la formula in maniera imperativa, ma comunque fluida, come un comando normale, quasi come a voler sottolineare un'altra caratteristica del gas, dello stato in cui voleva trasformarsi: la sua flessibilità, l'adattabilità, la versatilità. Una pronuncia comunque piena di potenza, desiderio, determinazione e la massima volontà possibile, ma senza alcun odio, senza essere nervoso, senza una nota di aggressività: una pronuncia che mirava a confondere.

p8



A quel punto, con la bacchetta puntata in avanti e l'Anatema Mortale sulle labbra con tanto di corpo morto nella mente, avrebbe solo puntato la bacchetta in avanti, verso la porta, posizionando la punta ad altezza cuore.
Chiunque avesse aperto per primo quella porta quel giorno non sarebbe stato un uomo fortunato: il lampo verde nell'anima.
"Posso perdere tutte le battaglie e vincere la guerra... ma non posso permettermi di perdere le battaglie d'altri"
Ghignò: la Guerra era iniziata ed egli non vedeva l'ora di portarla a termine per mezzo di sofferenze e tante lacrime.
"Molon Labe: vieni e prendi".




OT:

Complimenti per il post. Magico.

E magari spiegami se posso usare gli incantesimi e un oggetto nello stesso turno oppure no.
 
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view post Posted on 19/5/2018, 18:45
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Il Fato

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Cassandra non era affatto una donna sprovveduta, non lo era mai stata. Non aveva nobili origini, non vantava ricchezze di genere in eredità o in fortuna, ma percepiva il valore della sua vita, del suo potenziale e della sua stessa identità come qualcosa di altrettanto imprescindibile, indissolubile, di certo intangibile. Lei che non aveva amante, pure aveva amato. Lei che non aveva subito sconfitta, pure era ormai alle strette. Fu con interesse piuttosto singolare, per la prima volta da quando le capitava di condividere un'occasione tanto unica, che scoprì una reazione del tutto inaspettata. Altri sarebbero scappati, altri avrebbero spalancato ogni porta, perseguito ogni ingresso, prima di sparire in un soffio di vento. E come polvere, l'alone che avrebbero lasciato dietro di sé sarebbe apparso al pari di un'illusione, di un passaggio inesistente, di una presenza che già non era né sarebbe stata più tale. Altri avrebbero preferito sottrarsi al pericolo, perché il pericolo chiedeva la sottrazione dell'essere. Non soggetti ad alcuna legge, ad alcun dramma, ad alcuna tragedia. Non c'era tempo per ripensamenti di sorta, non c'era possibilità di esame: né della trama pronta ad abbattersi sulla realtà né, tantomeno, del proprio spirito. Andava bene così, per molti, per tutti, quel giorno per nessuno. Altri avrebbero posto e dubbi e domande, all'unisono, insieme e in ripetizione, prima che potesse essere troppo tardi. L'uomo di fronte, al contrario, aveva dato prova di un coraggio che sfociava nell'idiozia, quell'idiozia avventata, che si tramutava in pregio, in difesa e in attacco, nel tacito desiderio di non tirarsi indietro. Un solo passo, in avanti, come a mutare in vita ciò che era stasi, mentre un sorriso sincero - curioso, a tratti - increspava le labbra rosse e nuovamente piene, accese, sensuali, della Sacerdotessa. Si spinse con tutto il corpo, senza fretta, con estrema leggerezza: l'incanto di quel movimento la dipinse come ninfa tra le ninfe, come driade naturale, mentre i lunghi capelli rossi ardevano di fiamme mai domate per davvero, mentre già si riversavano, in dolce cascata, a coprire le spalle, l'incavo del collo e parte del seno. Cassandra strinse il polso di Raven prima ancora che potesse utilizzare qualsiasi forma di magia e sulla scia di un consiglio mutato palesemente in ordine, al suo pensiero, la donna scosse lievemente il capo, a dare prova di non seguire alcuna regola, non se esterna. Dal contatto si propagò una sensazione di calore unica, precisa, impavida, come spirito in estasi perenne: ma non era la vicinanza dei corpi, non soltanto, a stagliarsi netta all'attenzione dei presenti; non c'era luce nel cuore di Cassandra, e tuttavia c'era una scintilla in quella di Raven: macchiati di sangue entrambi e vicini, sporchi dell'onta della morte, perseguiti dalla giustizia scritta dall'uomo, i due Stregoni erano tanto uniti da rendere vana la sola illusione di poter distaccarsi, di spezzare quell'attimo che non aveva legami né costanza di sorta. E già la fronte del Mago si imperlava di una goccia di sudore, vinto da una stanchezza senza eguali, accumulata da giorni, da settimane, forse da mesi, perfino da anni. Fin dove si sarebbe spinto? Fin dove sarebbe arrivato davvero? Il Soldato chiedeva la condanna dell'ipocrisia, la sua legge: per se stesso, per un mondo, per un futuro migliore o forse per il puro cambiamento. Ma pretendeva di pari modo l'insonnia, perché il suo corpo restava tuttavia umano: intaccato dal demone, dall'ombra, dalla furia, restava tuttora umano. E quando la magia curativa di Cassandra si risolse come catena irreparabile lungo l'intero avambraccio; quando la sensazione di chiudere gli occhi, di lasciarsi cullare da un dolce tepore così a lungo rinnegato; quando le prime ferite, le più profonde, si rimarginavano come sangue rappreso, invisibile eppure ardente in ogni punto; solo allora, quando la mano della Donna si strinse maggiormente alla pelle dell'Uomo, imprimendo energia, realizzando l'antica magia di cui era adepta e testimone; solo allora Raven aprì gli occhi, solo allora da Carne divenne Spettro e il suo incanto, mai in vera e propria attesa, si spinse dalla volontà più intima alla realizzazione più viva. Cassandra fece un passo indietro, estasiata, osservando quello sconosciuto perdere le fattezze che aveva in parte guarito. Ma c'era ancora molto cui provvedere e con l'impegno di nuovi sortilegi e di altro dispendio di forze, Raven sarebbe presto caduto a picco.
«Nascondermi» sussurrò, dolcemente, un altro ed ultimo passo indietro.
«Da me stessa?»
C'era una sottile nota di scherno in quel tono di voce basso e misterioso, così come c'era qualcosa di sottinteso dal profondo valore. La bacchetta stretta tra le dita della mano sinistra si rivolse con leggerezza verso la porta, spalancandola, aprendola, concedendo insieme fuga e libertà. «Andiamo ad accoglierli.» Con un ultimo sorriso di circostanza, lo sguardo acceso, la determinazione pure nel suo sguardo, la donna avanzò per uscire dalla camera. In basso e non più così in lontananza, un Elfo Domestico gridò con timore. Cassandra sorrise, Cassandra sapeva.



Ti ringrazio molto, per la domanda purtroppo la risposta è negativa, l'utilizzo di un oggetto corrisponde ad un'azione vera e propria.

Punti Salute 100/361
Punti Corpo 250/359
Punti Mana 324/494

Riassunto indicativo: cavità occhio destro, stanchezza, spalla destra ferita, gambe ancora scorticate.

Cure in corso: le gambe sono in parte ora guarite, l'avambraccio e la caviglia destra pure: ogni incanto che realizzi porta un dispendio di energia, non sarà mai perfetto fin quando le cure non saranno complete. Attenzione, quindi, alle varie descrizioni: non sei totalmente in forma.
 
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La storia del mondo è la storia del conflitto. Sin dalla nascita delle prime molecole; sin dalla formazione delle prime cellule: bisognava correre, combattere, agire. Chi non voleva combattere periva: non importava se era un protozoo qualsiasi oppure un organismo umano. La sofferenza, la guerra e il dolore erano incluse nell'animo umano più di quanto lo fosse stata una qualsiasi emozione positiva. La paura era ciò che salvava; il senso di sopravvivenza era ciò che spingeva a lottare sempre e comunque: l'odio non faceva altro che catalizzare quel senso, quel sentimento. Era una stessa percezione, sempre: non vi era alcuna montagna troppo grande da non poter essere scavalcata. Non vi era alcun avversario che, tramite duro lavoro e tanto sudore, non poteva venire sconfitto. E, soprattutto, non vi era alcun limite che non si poteva raggiungere: nessuna frontiera era lontana abbastanza e soltanto i duri allenamenti, 365 giorni all'anno, erano esattamente ciò che poteva trasformare un uomo in un combattente, mutando anche lo spirito di una persona qualsiasi nello spirito guerriero di cui necessitavano tutti più che sé stessi. Non vi era tempo per piangere, per lamentarsi, per inondare i saloni con le lacrime amare. Non vi era il tempo per cercare di capire, per pensare, per lamentarsi di quanto il mondo fosse pericoloso e ingiusto: chi non voleva vivere per davvero in quell'universo di paure, odio, sofferenza, dolore, ma anche di molte cose belle, poteva benissimo uscire dalla finestra della Torre di Astronomia. Sarebbe strato un gesto coerente e, soprattutto, utile: il mondo avrebbe fatto a meno di un'altra persona-inetta che non riusciva ad adattarsi alle sue regole, mentre la persona-inetta avrebbe finalmente avuto ciò che si meritava: il buio completo, il dimenticatoio totale, le ombre e un'infinita esistenza compresa in una sola caduta.
Lui si ricordava lì, in piedi su quella torre, pronto a lanciarsi di sotto. Non era sempre stato così: era anche diverso. Era stato incapace di capire che una sconfitta era anche una possibilità, oltre che una motivazione: era la vittoria quella inutile per lui; era proprio lei che calmava le acque e arrestava le corse. Dopo le vittorie ci si rilassava; dopo le sconfitte si riprendeva a lavorare con un'intensità doppia.
Non vi passò nemmeno un'ombra di dubbio quando sentì che le energie stavano ritornando a lui. Capì che non era da solo; che non avrebbe camminato da solo: uno spirito solitario in mezzo all'ombra sarebbe presto divenuto accompagnato da un'altra persona, da un'altra anima stanca di come giravano le cose in quel mondo e capace di dargli man forte al fine d'instaurare un mondo nuovo, che piacesse o meno. Ma capiva i sentimenti che la animavano: a un certo punto la preda smetteva di volersi nascondere. A un certo punto essa reagiva: puntava avanti, superava gli ostacoli e le difficoltà. Corsa. Energia. Direzione. Ma soprattutto Odio. Tanto e infinito. Derivato dalla paura di quell'elfo che urlava di sotto e che l'Akuma aveva già visto. Senza chiedersi nulla e senza porsi domande: la sopravvivenza presupponeva una qualsiasi assenza di dubbio, ma solo sicurezza. La totale volontà di annientare e uccidere: vinceva il più forte, il più pronto, il più preparato. Non si poteva fare altrimenti, né si poteva aspettare, pensare ai figli, pensare alle famiglie, alle storie, agli amori e alle biografie: sorpavviveva solo colui che nutriva tutte le radicali emozioni nella maniera più estrema e profonda possibile. Il resto... Il resto erano soltanto delle illusioni e quelle persone giunte lì per uccidere lei, minavano anche la sua sicurezza.
Nessun'esitazione, dunque, ci sarebbe stata nello spettro che, mossosi verso e oltre la porta, avrebbe condannato all'oblio chiunque gli fosse capitato sottomano tra tutti quei nemici. Non un solo movimento perso; non un attimo di esitazione: solo energia, odio, direzione, rabbia e volontà di far male e di farsi del male, come sempre aveva amato: la stanchezza era solo un fattore secondario. La stanchezza era solo un'altra illusione, lontana: non esisteva. E andava sconfitta, superata anch'essa.
Nella mente era già pronto il lampo verde; un sorriso si stampava sulle labbra.
Voleva solo trovare il nemico. Voleva solo vedere la sua figura: nient'altro gli serviva per togliere un'altra vita. E un'altra ancora. E poi ancora. E ancora. E ancora. Finché quel locale non sarebbe divenuto la tomba di molti e il vittorioso campo di battaglia di pochi.

 
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L'attesa sarebbe stata snervante più di ogni altra cosa, se solo Cassandra non vi fosse stata abituata da lungo tempo. La sua identità restava fondamentalmente segreta, pochi dettagli erano stati svelati e se gli antichi confermavano la relazione tra il nome e il proprio destino, per la Sacerdotessa c'era molto più in palio di quanto potesse credere per davvero. Nel suo sangue scorreva magia ancestrale, nel suo spirito si annidavano i semi del male e del bene, in un combattimento incessante e ancor più feroce di quello che di lì a breve, con tutta probabilità, si sarebbe svolto in loro presenza. Tentare la Materializzazione fu cosa abbastanza valida, oltre che ragionevole, ma già la bacchetta mostrava resistenza al trasporto per la donna così familiare, a riprova del fatto che più di un sortilegio di contrasto era stato evocato sull'intero locale della Testa di Porco. Si lasciò andare ad un sospiro, lieta che l'altro presente non avesse aperto bocca, senza profferire parola alcuna in un contesto ora sempre più articolato. Percepiva, da Guaritrice com'era da più anni del previsto, un velo completamente tetro, più profondo della pece e degli abissi, già calato sulla figura interessante del Mago. Il mistero aleggiava sul capo di Raven al pari di un'aureola, ma non era né angelo né santo, poiché l'emblema dei demoni aveva solcato da molto il suo cuore. Cassandra accennò involontariamente un sorriso, ripromettendosi di indagare maggiormente sul conto dell'altro, spinta da una curiosità che già mutava in ossessione perpetua. Fece un altro passo avanti, mentre la bacchetta si spingeva in alto, a disegnare un cerchio preciso, unico, lineare. Le fiamme che scaturirono dalla punta dell'arma in legno andarono ad impattare in un primo apparente momento nel vuoto, poco distante dalla Strega e dal corridoio che portava alle scale inferiori; il calore fu immane e bruciò parte dei rivestimenti delle camere circostanti, ancora in silenzio, fin quando un grido risuonò sufficientemente vicino da lasciar intendere che una prima vittima fosse appena stata intaccata. Vittoriosa di una visione che non aveva per lei eguali, Cassandra - di nome e di origine, di storia e di incanto - era partita all'azione con un anticipo delineatosi come vantaggio. Ma se il primo degli avventori era capitombolato, in preda ad una scottatura profonda, agonizzante al suolo, di certo gli alleati non tardarono a presentarsi all'orizzonte. Dal corridoio spuntarono tre uomini, tutti vestiti di un abito scuro, i volti scoperti, giovani e deformati dalla preoccupazione, dal timore e dalla furia crescente. Passarono all'offensiva senza troppi preamboli, più di un fascio luminoso - adamantino l'uno, perlaceo l'altro - si diresse rapido verso Cassandra, come se unica evidente figura di contrasto. Che l'incanto di Raven stesse funzionando, lasciandolo ancora intangibile all'apparenza? Un quarto uomo comparve alle spalle degli altri in azione, rivolgendosi con sortilegi curativi a fior di labbra nei riguardi del collega bruciante; tuttavia, il silenzio era stato infranto bruscamente, la calma pure, mentre il combattimento scoppiava all'impazzata. Al momento tre contro una, una maggioranza non solo di nemici, ma di uomini; a conferma della sua conoscenza, l'unica donna lì presente parve danzare su se stessa, portando al petto la bacchetta magica, riversando una fattura dopo l'altra in risposta al fuoco nemico. Altri sortilegi erano in avvicinamento, il fuoco stava per divampare, mentre il fumo stilava la sua cappa più oscura e più tangibile. Questione di secondi prima che gli effetti dell'uno e dell'altro incantesimo si delineassero sulla pelle di ogni combattente.


Punti Salute 100/361
Punti Corpo 250/359
Punti Mana 324/494

Riassunto indicativo: cavità occhio destro, stanchezza, spalla destra ferita, gambe ancora scorticate.

Cure in corso: le gambe sono in parte ora guarite, l'avambraccio e la caviglia destra pure: ogni incanto che realizzi porta un dispendio di energia, non sarà mai perfetto fin quando le cure non saranno complete. Attenzione, quindi, alle varie descrizioni: non sei totalmente in forma.
 
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«Dialoghi»


Se c'era una cosa che più portava soddisfazione all'Akuma di ridare nuova freschezza e rigore alle esistenze perdute, quella era di togliere le vite a coloro che potevano rappresentare degli ostacoli sul suo cammino. Pensando alla maledizione dal lampo verde non poteva pensare a nient'altro: la Provvidenza chiamava e lui rispondeva. Motti semplici per persone oltremodo semplice, il solito sottostare ai comandi di qualche forma di volontà che si trovava al di là delle concezioni umane e che infondeva ai loro termine, - amore e odio su tutti gli altri, - significati nuovi per un nuovo vigore. Fu per quello che, senza pensarci, senza meditarci, ma compiendo ciò che il destino lo aveva chiamato a compiere, avrebbe ucciso e smembrato e spezzato anime purché la strada dinnanzi non terminasse e perché la sua favola, - una favola dai toni oscuri, quasi un horror, - non terminasse prima di raggiungere la meta e l'ideale che egli si era imposto (oppure che gli aveva preimposto). E, raccogliendo le energie per lo sforzo che da lì a poco avrebbe compiuto, togliendo le vite e lasciandosi andare alla gioia totale, non poté fare a meno di pensare che quella figura che ora muoveva la bacchetta in un fine cerchio di fiamme, era stata mandata proprio da qualche forma di volontà altrui che dirigeva i fili di quel grande gioco e le cui intenzioni, forse, combaciavano alla perfezione con quelle dell'Akuma. Notò il fuoco divampare dalla bacchetta di lei e pensò che le fiamme non erano la migliore delle soluzioni possibili in una costruzione completamente di legno. Non vide nemmeno dov'era diretto quel cerchio di fiamme: il nulla più totale sembrava esserci nell'oscurità completa. Eppure lei Vedeva. Con un occhio che forse non era il suo; grazie a un talento a cui Raven non poteva aspirare, preferendo altri metodi e altre strade al talento stesso: la corsa continua, l'allenamento infermabile e un continuo temprare l'animo di sofferenza, dolore e crudeltà. Laddove Cassandra vedeva ciò che un comune occhio umano non poteva vedere, l'Akuma doveva preoccuparsi di salire ulteriormente, di superare il talento per mezzo della forza di volontà e di distruggere qualsiasi ostacolo gli si posasse dinnanzi anche se a prima vista era un muro invalicabile.
Il piacere che provò nel sentire un grido di dolore del suo nemico fu quasi erotico. Certo, niente di paragonabile a ciò che provò nella Sala dei Duellanti guardando il corpo morto del Giudice diseguale, ma era comunque già qualcosa. Le fiamme, del resto, erano il suo elemento preferito e questo lo avrebbe potuto capire chiunque semplicemente osservando in modo breve la sua biografia: fuoco qua, fiamme di là. Aveva bruciato un edificio: chi poteva desiderare da lui qualcos'altro?
La punta della bacchetta, il suo mirino, si mosse da quel corpo in fiamme ora alla base delle scale verso i suoi alleati. Erano tre: se uno era agonizzante nei pressi delle scale, l'altro dov'era? Fu quello il pensiero dell'Akuma prima di notare dell'arrivo del quarto uomo, un guaritore che ora stava per soccorrere l'uomo agonizzante e colpito dal maleficio di Cassandra. "Uccidi il medico, ucciderai il gruppo" – dicevano gli uomini saggi e per qualche volta non dicevano stronzate. Con quella convinzione e la tanta brama di mandare sottoterra più di qualcuno, allineò la punta della bacchetta con il petto di quel mago-guaritore. Gli altri sembravano non aver notato l'Akuma, il che era un vantaggio: scoperto, il medico non avrebbe avuto scampo contro una maledizione proveniente dall'oscurità, che verso l'oscurità lo avrebbe mandato. Il Nulla, alla fine dei conti, se lo sarebbe preso, abbracciandolo come un vecchio fratello e rimproverandolo, forse, per tutte le vite che aveva tolto.
Che l'Akuma avesse la netta intenzione di fare del male non vi era alcun dubbio: vedere gli occhi senza vita del nemico di lei e di lui era tutto ciò che Raven desiderava di più. Il desiderio era così forte da riportagli alla mente i dolci istanti trascorsi nella Congrega: il momento del picco; una corsa senza fine.
Meno di qualche istante gli ci volle per allineare la punta della bacchetta con il cuore del nemico; un qualche istante per fissare il suo volto morente e vedere il suo cadavere dinnanzi: una visione ricca di gioia, di allegria, di felicità, di prosperità: lui viveva e gli altri morivano. Solo le regole del mondo animale aveva una valenza: la morale era solo una debolezza umana. Vide la pelle chiara, i lividi di sangue, i segni della morte su un corpo presto diventato tale.



Quindi, tenendo il polso fermo e cercando di fermare il cuore che balzava di gioia, semplicemente agì. Agiì con forza, foga, determinazione e la piena responsabilità delle sue scelte, della sua volontà, che era anche l'unica che in quel corridoio aveva una qualche importanza per l'Akuma (oltre a quella di Cassandra, ovviamente). Agì, insomma, come aveva agitato nella Congrega, quando gli venne fatto il torto per l'eccellenza: togliere le prede dal predatore quando questi assaporava la loro fine.
Per quello, voce sicura e senza timore, agì come meglio sapeva fare nel mentre Lei danzava. Con il lampo che, forse, sarebbe scaturito, sarebbe iniziata la sua danza e sole due parole avrebbero segnato quell'inizio che era l'inizio della loro fine.
«AVADA KEDAVRA!» – Avrebbe tuonato mezzo-spettro e mezzo-demone nel buio del corridoio lasciando che la sua follia omicida si riversasse su colui che aveva tentato di danneggiare un suo allenato.
Ma non avrebbe ancora finito: perché la sete di morte era tanta e le vittime troppo poche. Subito dopo il guaritore il suo mirino si sarebbe spostato di nuovo, or-ora puntando il petto e il cuore di uno dei tre che attaccavano la Vedente. Non gli importava chi fosse: erano tutti uguali dinnanzi agli occhi della Provvidenza. Ma avrebbe senz'altro, senza perdere tempo e senza attendere oltre, fatto nascere un nuovo lampo verde nella sua mente; avrebbe di nuovo percepito la morte nel suo cuore; avrebbe di nuovo cercato la gioia dell'uccisione. Il tutto con distanza di pochissimi secondi e tenendo il polso fermo, con il mirino puntato verso l'anima della vittima: era quella che gli voleva togliere in un solo colpo.
E dopo aver di nuovo visto il suo corpo morto nell'oscurità, di nuovo quegli occhi vitrei che facevano ben sperare, un altro tuono avrebbe tagliato in due il corridoio della locanda spezzando le speranze e infuocando i desideri. Di nuovo gioia, di nuovo, di nuovo felicità, di nuovo rabbia: una continua corsa che non poteva fermarsi.



«AVADA KEDAVRA!» – Sentire dolore per infliggere dolore; provare a soffrire per regalare la sofferenza. Un motto di vita; una danza che lo avrebbe contraddistinto. Perché poco importava il dolore, la stanchezza, la sofferenza e il dover sempre uccidere per sentire la felicità. Poco importavano i cadaveri che si lasciava dietro: di fronte aveva l'idea di un mondo senza diseguaglianze, senza schiavitù, senza ministeri, senza ministri, senza Lord e senza segreti tra maghi e babbani. Un luogo di reciproca crescita per cui era pronto a morire.
E a uccidere.



Uso il potere del Bracciale di Damocle che mi fa castare due incanti in un solo turno.
 
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Le fiamme si espansero in un boato che anticipava il Caos assoluto, la devastazione unica, distruzione ultima di un luogo innocente, fuorviato dal combattimento che mai avrebbe chiamato al suo appello; in un fascio luminoso che si avvinghiò, pari a tentacoli, attorno le gambe della Strega e al braccio più intangibile del Mago, le scottature divennero costanti ed energiche, memorie attive di come la guerra avesse i suoi lati negativi, sempre evidenti (- 10 PS). Né la prima singolare goccia scarlatta sul Demone né il rivolo incessante di sangue che macchiò la sacrilega Sacerdotessa, tuttavia, furono da freno perpetuo alla loro offensiva, a quella sete di frenesia difficile da dominare, così come da domare per davvero. Fin nel profondo, fin nella parte più sicura e sincera di sé, Cassandra era ben consapevole di quanto quel momento guastasse il suo spirito, inondandolo di un piacere a lungo mai del tutto sopito. Si diceva di essere nata per quello, di essere pronta a morire per quello, non una volta aveva rinnegato ciò che era, ciò che sempre sarebbe stata. Il potere più segreto che celava ai più si innalzò a barriera protettiva in un fluido movimento del braccio e là dove le ferite di poco prima avevano solcato l'epidermide di entrambi, della coppia governata da furia e scintilla di empietà non più tanto scontata, finalmente le cure permisero alle stesse un rimargino immediato, tanto repentino quanto di eccelsa utilità (+ 30 PS +20 PC +10 PM). Come se rafforzato, ormai rinvigorito del corpo che faceva da tempio ai suoi ideali più singolari, Raven si rivelava al pubblico, forse volontariamente, forse non in modo totale, eppure la Voce si alzò in volo al pari del fascio di un verde intenso, tanto accecante quanto dimentico della vita di cui si faceva giustiziere. La morte si affacciò come compagna di vecchia data, inizialmente timida alla porta già scardinata del corridoio immolato a teatro di combattimento, infine strappando alla radice l'ultimo sospiro e dell'agonizzante Mago bruciato in precedenza e del suo salvatore d'eccezione. Caddero, l'uno sull'altro, in un abbraccio e contatto fraterno, corpo contro corpo, come trottole senza più possibilità di carica né di movimento in gioco perenne. Il ricordo di un aiuto di soccorso immediato, la consapevolezza di non essere solo alla fine dei giorni, la certezza di essere andato, per sempre, da vincitore e non da codardo, tutto quello fu il pegno pagato, tutto quello e tanto altro ancora fu il prezzo guadagnato. Scivolarono in un limbo di pace, estrema estasi, fin quando gli occhi persero luce e furono vitrei, spenti, ormai vuoti.

Sorgono ora le Anime dei primi caduti,
l'uno vinto, l'altro vincitore,
di quella Giustizia, di quella Grazia concesse.

Temono ancora le Anime dei restanti.
Tremano ancora.



L'atipico Demone forse non era del tutto perso, non in partenza, non come creduto. C'era il fuoco ad ardere nel suo petto, mancava l'acqua a temprarlo a giusta, a corretta misura. Perché inconsapevolmente, trasportato da una furia disumana, a tratti impavida, il Guerriero aveva offerto ristoro all'avversario già avviluppato dal corpo carbonizzato, dalla fine peggiore. Era stata clemenza, forse casualità, chi avrebbe potuto effettivamente dirlo: uscire indenni dalla situazione era prerogativa costante, senza dispendio di energia né di tempo di sorta, così il duello non si arrestava, non avrebbe potuto. Già il grido disperato dell'Amico perduto, tacciato ed infine sopravvissuto, si perdeva nell'aria danzante di fuliggine, di calore, di magia. La bacchetta tracciò un disegno circolare tanto preciso e con quell'emotivo scacco di classe dato dal momento, a tal punto da evocare uno sciame di pugnali, tutti diretti contro i nemici. Restavano in due, restavano in tre, fazioni l'una opposta all'altra: Cassandra e Raven, il trio superstite. Le prime due pedine cadute da un lato della scacchiera, la partita era tuttavia in gioco. Uno dei pugnali andò a conficcarsi in volo alla caviglia destra della Strega, impattando con forza, così da spingere la donna ad inginocchiarsi in assenza di equilibrio. Il sangue riversò ad ondate il suo colore più acceso, bagnando l'abito già rosso di suo, infine il pavimento che ancora, impavido, reggeva la scena. Ma se Cassandra era stata compromessa per un solo attimo, Raven sembrava illeso per il momento: i pugnali diretti al suo cuore erano vicini, sempre di più. La profezia di morte doveva ancora compiersi.


Punti Salute 120/361
Punti Corpo 270/359
Punti Mana 334/494

Riassunto indicativo: cavità occhio destro, stanchezza, spalla destra ferita, scottatura di primo grado al polso destro.


Cure in corso: gambe, avambraccio e caviglia destra totalmente guariti.
 
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Gli piaceva uccidere. Gli piaceva vedere come i nemici crepavano. Gli piaceva guardare i loro occhi privi di vita e quei corpi del tutto malandati: stesi dinnanzi alla furia, dinnanzi al sapore della morte, dinnanzi a colui che era più forte e che non si faceva scrupoli. Gli piaceva pensare di poter uccidere ancora e ancora e ancora e ancora e ancora, senza alcun rimorso, nonostante tutto e tutti: e in quella forma lo poteva fare. Lo poteva fare bene. Lo poteva fare così bene che anche i più grandi assassini del mondo avrebbero potuto trovare in lui, - nel suo ardore, nel suo odio, nella sua costante voglia di tradurre ogni proprio movimento, ogni tendenza, ogni sorriso, - una costante fonte d'ispirazione. E lui se ne compiaceva soltanto: perché i cadaveri sarebbero rimasti cadaveri. I loro corpi sarebbero stati portati via dalla corrente, laddove nessuno mai sarebbe riuscito a prenderli; perché le loro anime lo avrebbero atteso nei più profondi e bui meandri del Nulla, ove finalmente si sarebbero potuti ritrovare dallo stesso lato delle barricate: nel Vuoto contro il Vuoto. Ma in quel momento, in quel frangente, guardando i lampi verdi andare a segno e la quantità dei nemici praticamente dimezzarsi, l'Akuma non poteva proprio fare a meno di volere ancora più sangue, di voler vedere ancora più dolore, per cercare ciò che egli voleva di più: dare il Dolore e ricevere il Dolore in quel che era un continuo funzionamento dell'universo delle cose. Non poteva fare altrimenti; non sarebbe potuta andare altrimenti: le regole erano regole. Era la sua natura. Era la natura di colui che voleva il sangue su ogni altra cosa. Che voleva agire, muoversi, correre, infliggere dolore e riceverlo; torturare ed essere torturato; uccidere, per essere ucciso. Almeno in quegli istanti di pura lotta, del combattimento più definito, 3 contro 2, con 2 nemici ormai andati fuori dai giochi e Cassandra che cercava di combattere come poteva... l'Akuma non riusciva proprio a fare a meno di quell'estasi della distruzione, - una vera e propria sinfonia, - che aveva appena ricevuto. Era un regalo: un po' come se qualcuno avesse appena dato due grandi torte a un bambino che le adorava. Era la sua Musica! Il concerto che amava! Ciò per cui viveva! Come si sentiva bene! Come voleva che quell'istante non fosse mai finito!
Ma l'odio non si placava; l'odio cresceva e il tempo scorreva. E insieme all'odio cresceva anche la rabbia: la costante volontà di andare oltre e di migliorarsi, sempre e comunque, per uccidere ed essere ucciso e in contempo per restare in vita il più possibile... solo per rivedere Lei. Fu per quello che guardando con la coda dell'occhio come un pugnale colpì alla gamba la propria Alleata, la furia dell'Akuma salì di grado e di misura. Non poteva rilasciare tutta la propria volontà di Dolore in quel stretto corridoio, ma avrebbe senz'altro fatto tutto il necessario perché ogni ferita inflitta a un proprio alleato fosse ripagato sette volte tanto. E vide anche come dei pugnali li passavano attraverso, finendo lontano sul muro circostante. Miravano al suo cuore? Volevano la sua anima? Che venissero a prenderla...
Senza aspettare, senza un secondo oltre, sentendo i pezzi della sua anima vibrare come se fosse la prima volta e assaporando quel Divino, - davvero Divino, - istante in cui l'anima sarebbe di nuovo salita ai suoi picchi più alti, spostò a stessa verso il Nemico che gli era più vicino. Non gli importava chi fosse, non gli importava se era lui ad aver lanciato i pugnali contro l'Akuma. Solo la morte; solo quella importava per davvero. Solo il mandarlo all'inferno, il gettarlo in un lago di lava, perché abbandonasse quella strada e quel luogo... sparendo. Di nuovo il Magico Lampo Verde nacque nella sua mente, figlio di quella potenza distruttrice, di quella volontà di vedere il suo corpo senza vita; di osservare, - no, ammirare! - come la luce si spegneva in quegli occhi! Nella sua mente, lontano nella sua immaginazione, nei profondi meandri dei pezzi della sua anima guardava quel tizio già morto. Disintegrato. Distrutto. Fatto a pezzi. Sbriciolato. Con il suo cuore gettato nel fango e fatto mangiare ai porci. Lo vedeva annegato, soffocato e bruciato. Per tutto l'odio che sentiva voleva che morisse non una volta, ma 100... in contempo. Voleva osservare i suoi organi interni e godere osservando come i suoi organi interni ne abbandonavano il corpo. Vedeva la sua pelle ormai completamente morta: bianca, con i segni della morte su di essa. E vedeva anche la sua essenza, il più profondo di ciò che rappresentava quel nemico, anch'esso distrutto e denigrato, mandato all'inferno. Voleva buttarlo dalla torre di Astronomia e portarlo in alto, verso le nuvole, per poi gettarlo nella lava dei mille vulcani. Voleva annullarlo in tutto e per tutto e poi far fuori tutta la sua famiglia, senza eccezioni. Perché desiderava vedere nei suoi occhi la disperazione, il terrore, la paura e volontà di non morire: eppure la sua testa, il suo cuore, la sua anima sarebbe stata sua. Perché dopo essersi preso la sua vita, si sarebbe preso anche il suo onore. Perché laddove un animale assaggiava il sangue di una preda, che voleva subito passare al sangue dell'altra in quel che era un continuo vorticore di vite e ricerche. Sentiva che era quella l'energia che lo guidava, che lo portava verso quella decisione, che lo spingeva ad allineare la punta della propria bacchetta contro il centro del petto di quel tizio di cui voleva la distruzione completa, senza se e senza ma, perché giacesse sul posto, privo di futuro e di speranze. Quel giorno nessuno avrebbe abbandonato quel corridoio senza essere ferito o ucciso: era quello il Caos, l'habitat di Shinretsu Raven, il fiume naturale in cui si ritrovava a proprio agio come nessun altro. Perché quando intorno volavano i pugnali, le fiamme e i raggi non restava altro da fare che proseguire, correre, spezzare, mutilare e uccidere. Non restava altro da fare che immaginare quel cuore pulsante nel suo petto... spegnersi. Come si spegneva la sua vita di merda nell'immaginazione e nei desideri dell'Akuma. Non uno, ma altri cento di quei tizi avrebbero abbandonato quella Terra se solo la Provvidenza glie lo avesse permesso in quel che era un continuo tornado di Odio per i nemici e di Amore per gli Alleati. Come aveva osato, lui, a ferire lei?.. Li avrebbe sterminati tutti e 3. E una volta che sarebbero morti, avrebbe raccolto le informazioni su di loro. E dopo ancora avrebbe cercato i loro mandati. E loro famiglie. E le famiglie dei loro mandati. Avrebbe ucciso tutti coloro che avevano messo lo zampino. Tutti quelli che avevano provato a ostacolarlo. Tutti coloro che volevano vedere la sua morte sarebbero stati, invece, uccisi a loro volta e il loro fegato se lo sarebbero mangiato i cani.
Gli occhi spenti, il respiro assente, il battito a livello zero e quei pugnali ficcati laddove non batteva il sole: li avrebbe usati per sviscerare i loro corpi. Non ci fu alcun altro movimento, ma solo la grandissima volontà di mandarlo all'altro mondo che prestò si tramutò di nuovo in due sole parole che, - se avessero colpito chi di dovere, - avrebbero presto riportato le cose al proprio status quo. Due parole accompagnate da una pura maschera di odio, nella volontà di vedere la morte, ancora, ancora, ancora e ancora. Perché lo voleva. E avrebbe accettato volentieri un'eternità di sofferenza per guardarlo morire ancora, ancora e ancora. Uno, dieci e centomila volte si sarebbe giocato ciò di che più importante aveva pur di poter guardare come i suoi Nemici crepavano. Due parole, insomma, che sarebbero state con Odio e Determinazione unite nella volontà di far male più di quanto mai sia stato fatto. Un lampo verde, una voce... e la fine. Proprio come gli spettava.

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«AVADA KEDAVRA!» - Un urlo come un'esplosione si sarebbe stanagliata nel corridoio nel mentre quella sensazione a dir poco orgasmica, un lampo verde, si espandeva nel suo corpo e nella sua anima. Un'energia primordiale che traeva le proprie radici agli albori dei tempi: le forze della Creazione, della Guerre e della Negatività.
"CREPA! CREPA! CREPA! CREPA! CREPA E DI NUOVO CREPA BRUTTO BASTARDO!" E se lo avesse visto cadere, se loo avesse visto morire... di nuovo il suo cuore avrebbe danzato nel petto e la felicità gli avrebbe riempito l'anima. Ma la guerra continuava; essa era eterna. E non vi era spazio e tempo per le troppie gioie: dopo una soddisfazione doveva subito venire l'altra.
 
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