| Una pioggerella leggera batteva contro i vetri della finestra. Erano giorni, ormai, che continuava a scendere incessante, come se qualcuno si fosse dimenticato di spegnerla. Il cielo era ricoperto da spessi strati di nuvole bianche, chiazzato qua e là da striature più scure: sembrava che in quei punti si fossero incastrati tutti i pensieri del mondo, forse troppo pesanti per oltrepassare le trame di quel biancore, quasi innaturale. Non c’erano stati temporali, nelle ultime ore, né la loro minaccia incombeva all’orizzonte; soltanto una pioggerella fine, silenziosa e ostinata, impregnata dell’odore di terra e di erba fresca, continuava a cadere, senza mai stancarsi. Atena sedeva su uno dei divanetti celesti al centro della stanza; aveva un libro tra le mani e l’espressione assorta; una ruga le solcava la fronte. Quel pomeriggio non aveva alcuna lezione in programma ed era stato con sollievo, quasi con avidità, che si era immersa nello studio di alcuni testi. Era uno dei vantaggi della sua professione: poter attingere in qualunque momento alle radici della Conoscenza; senza dover rendere conto a nessuno, senza dover fare alcuno sforzo. Di tanto in tanto, dalla sua postazione, si sporgeva in avanti, intingendo la piuma nell’inchiostro denso e annotando qualcosa su una pergamena bianca. Altre volte, invece, alzava lo sguardo dalle pagine del libro, portandosi l’indice alle labbra: inseguiva un ragionamento o ascoltava semplicemente il silenzio, cibandosi di quell’assenza come se fosse stata aria. Amava il silenzio. Ne aveva sempre avuto bisogno, sin da ragazzina, come si ha bisogno di una tana in cui rifugiarsi. I pensieri, da soli, facevano troppo rumore, e lei aveva l’impressione che ogni altro suono, aggiungendosi alla voce chiassosa di quei pensieri, provocasse una sorta di stridore fastidioso, alla pari di unghie contro il muro. Eppure, era strano, da quando era ad Hogwarts capitava spesso che dal vuoto lasciato da un momento di silenzio riaffiorassero i fantasmi del passato. Prendevano forma davanti a lei, come ombre o echi di ricordi lontani. Così vividi da sembrare quasi reali - voci, profumi, risate, carezze sulla pelle. Talvolta la coglievano talmente alla sprovvista che sembrava la colpissero allo stomaco, proprio lì, all’imboccatura, dove ti toglie il respiro. Tuttavia non li rifuggiva. Una parte di lei, anzi, forse li cercava addirittura: unico filo sottile, trasparente, che ancora le diceva che un passato c’era stato. *Sei silenzioso, oggi*. Willy non rispose, i polpastrelli le accarezzavano il braccio, risalendo, fino a scostarle i capelli dal collo. "Ho visto una stella cadente" disse poi. Atena alzò istintivamente lo sguardo al soffitto: le due Lune erano ancora al loro posto, come sempre; di stelle, invece, ne mancava qualcuna, ma a loro piaceva cambiare, di tanto in tanto. *Si, ultimamente succede spesso, sai* le labbra si inclinarono divertite, nell’accenno di un sorriso. Lui rise sommessamente, scuotendo la testa. Chiuse gli occhi. Silenzio. Poi ci fu un colpo alla porta, deciso. Qualcuno aveva bussato. Le ombre svanirono, come fumo spazzato via dal vento e lei tornò con la mente al momento presente.«Avanti!»SI schiarì la voce, riponendo la piuma nella boccetta e chiudendo il libro sulle ginocchia. Si voltò verso l’uscio. Non appena l’ospite avesse fatto il suo ingresso, Atena avrebbe riconosciuto nel giovane il neo Prefetto Serpeverde, Elijah Matthew Sullivan: un ragazzo alto, dai capelli chiari, studente del terzo anno del corso di Astronomia. Aveva corretto il suo compito appena il giorno prima e le risposte dell’elaborato erano ancora vivide nella memoria della Docente. Il compito stesso, in quel momento, si trovava insieme agli altri nella pila riposta ordinatamente in un angolo del tavolino. Sopra la pila era posato un recipiente in vetro trasparente, dai bordi alti e ondulati, contenente alcune stelline di carta - era solita tenerne sempre una scorta a portata di mano, da quando erano iniziate le lezioni.«Signor Sullivan, prego si accomodi» accolse il ragazzo con un cenno del capo e con un gesto della mano gli fece segno di prendere posto sul divanetto di fronte a lei. «Lascia che ti offra qualcosa – mi concedi di darti del tu?» chiese, sorridendo educatamente, mentre con cortesia avvicinava al giovane un piccolo vassoio con alcuni cioccolatini. Il cioccolato era rigorosamente fondente, come piaceva a lei – non sopportava il sapore dolciastro dello zucchero che si appiccicava alla gola, quasi graffiandola. «A cosa devo la tua visita?» avrebbe infine concluso, una volta terminati i convenevoli di rito. "AND LET THY FEET BE SET IN MIDST OF KNOWLEDGE"
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