Dare un nome alle emozioni è sempre stato complicato, come è sempre stato complicato riuscire a colmare quel vuoto che si sente nel petto e che sembra voler risucchiare tutto, incessantemente. Che poi sono emozioni quelle vibrazioni che senti nel corpo e che nel giro di ore riescono a farti sentire un’aquila, potente e in cima a tutto, e dopo poco ti costringono a sfracellarti per terra?
Ti ritrovi aggrappata in una montagna russa emotiva, non sai mai cosa succederà dopo e la repentinità è l’unica certezza che ti rimane. Hai paura di cadere ma allo stesso tempo non puoi e non vuoi scendere, continui a chiederti come hai fatto a salirci ma sai che sei lì seduta da tutta la vita. Allora cerchi conforto nelle persone, cerchi negli altri le risposte che non trovi, cerchi di tenerteli vicini e di riempire quel vuoto con la loro presenza o condividendoci solo una notte. Ma poi cambi idea e li allontani, perché la paura che ti abbandonino prima loro è troppo grande, perciò è meglio prendersi avanti.
Poi finalmente ci riesci, credi di aver trovato un equilibrio distante dalle tentazioni, distante dalle sostanze che ti permettono di dissociarti e di smetterla di sentire tutto e di sentirlo così forte e vivido. Vuoi divertirti, vuoi fare festa e non ti importa di domani perché il domani non esiste più. E quando finalmente pensi di esserci, sai che ce l’hai fatta, la mente inizia di nuovo a sabotare tutto. Ricominci a sentire e allora l’istinto ti dice di correre, di scappare, di allontanarti e nasconderti. Ti blocca, ti ferma, ti spaventa.
Arrivano le notti in cui sei piena di idee e dormire non ti serve, perdi peso perché la fame non ti appartiene più e il tuo corpo è iper attivato, il mondo diventa un parco giochi ricco di stimoli che la tua mente deve assolutamente cogliere. Sei invincibile.
Crolli di nuovo.
La spirale autodistruttiva ti riabbraccia e ti ricorda che non sei invincibile, che non sei e basta.
Sei compensata, sei funzionale.
Come se bastasse.
Come se davvero servisse questa consapevolezza a cambiare le cose, a darci un senso, a darci un nome. Ti guardi indietro e vedi che tutto quello che hai fatto ti è costato fatica, troppa fatica. Le persone non si rendono conto di quello che hai dentro, e questo è un bene perché vuol dire che a volte funzioni, ma non ti basta. Torni giù.
Sei troppo dicotomica.
Vedere il mondo solo in bianco e nero, ignorare le sfumature. Quando inventeranno un paio di occhiali che permettano di vedere anche i grigi?
Scrivi come ti senti. Scrivi quello che ti passa nella mente.
Ok, lo scrivo. E dunque? Serve davvero? Ad ordine eseguo ma non ne capisco la finalità, però va bene, facciamolo. La paura del giudizio altrui prende il sopravvento, perciò cancelli quello che hai appena battuto e ci rifletti.
Fai una lista delle cose belle che compongono la tua vita, ripetendoti di essere fortunata: un numero cospicuo di amici, una morosa, una famiglia, un tetto sopra la testa, un lavoro, una macchina, una vita sociale attiva, un buon numero di interessi. Sei fortunata ma stai male ugualmente e ti senti in colpa perché sai che dovresti essere felice, sai che dovresti essere grata, ma non ce la fai. Cerchi persone che sappiano cosa voglia dire vivere così, ottieni comprensione da quelli che ti circondano, sguardi d’affetto, di tenerezza, ma non capiscono. Comprendono ma non possono condividere.
Nel frattempo le montagne russe ripartono per l’ennesimo giro e ti metti in attesa, cercando di prevedere se ci sarà una salita o subito una discesa.
Comunque il buon Paolo Fox me l’aveva detto che non sarebbe stato un weekend semplice.