Offuscato, Privata.

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view post Posted on 26/6/2018, 15:01
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«Frescopino.»
Scandì a chiare lettere la parola d'ordine, in un sussurro tuttavia appena accennato, mentre la porta del Bagno dei Prefetti si spalancava alla sua attenzione. Un colpo leggero alla superficie d'ingresso e fu al suo interno, lasciando che l'intenso alone di profumo dei vari bagnoschiuma lì presenti si sospendesse come in un ritrovo piacevole, stringendolo in un abbraccio meritato, in una danza che sapeva di migliori aspettative. Chiuse gli occhi, per un istante soltanto che parve infinito, richiudendosi alle spalle l'accesso a quel luogo privato, che aveva imparato ad apprezzare fin dal giorno della sua prima nomina. Quando aveva sufficiente tempo a disposizione per una pausa abbastanza efficiente, Oliver si intrufolava tra quelle ampie mura, si lasciava cullare dai cristalli di rubinetti incastonati di gemme preziose, ladre di bagliori e scintillii colorati, fin quando non sollevava lo sguardo verso l'alto, di poco, a rimirare quella figura gentile e così artistica di una Sirena appena abbozzata. Era più bella di qualsiasi altro dipinto in tutto il castello: la chioma scendeva fluente in capelli simili ad onde, che di tanto in tanto la Creatura lasciava carezzare dalle mani sottili, gentili, preda di una dolcezza infinita. Creava disegni in trecce e nodi, assorta in un passatempo che rendeva i tratti del suo volto ancor più umani di quanto già non fossero per davvero; la figura femminile era tripudio di un fascino senza eguali, mentre dissipava la curiosità di ogni osservatore con la sorprendente rivelazione di un corpo marino, rivestito di squame dalle tempre accese, fino ad articolarsi in una coda vera e propria. Era meravigliosa, lo era davvero. Ma Oliver aveva imparato a percepirne la sottile differenza che la realtà anticipava: quell'opera d'arte era frutto di una fantasia di un essere umano, di un incredibile architetto, pittore, scultore che fosse. Eppure, le Sirene erano ancor più particolari, erano diverse, erano autrici di un incanto che avrebbe potuto spaventare, lasciarsi disprezzare, oppure affascinare, come era accaduto al Caposcuola Grifondoro. Il ricordo di Kàhla lo accompagnò durante l'intero percorso dalla soglia d'ingresso alla prima vasca più grande, dove i rubinetti attendevano soltanto di essere azionati; il ragazzo rivolse un'espressione cordiale alla Sirena, si chiedeva di continuo come potesse essere la sua Voce, come potesse suonare. Non l'aveva mai sentita parlare e forse, a buona ragione, non avrebbe potuto. Differiva dalle tele che adornavano il castello intero, ma era forte di un bagliore speciale, che Oliver sapeva bene attingere alle sue memorie più dolci. Non aveva dimenticato la promessa fatta alla sua Sirena, non l'aveva fatto, non avrebbe potuto. Contava i giorni in cui si erano divisi, a riprova di quanto la loro distanza scottasse come fuoco ardente sulla stessa pelle. In un colpo di bacchetta, leggero e repentino, un accappatoio color panna si sospese dal punto laterale della sala e libratosi fino alla figura del Caposcuola, vi si avvolse con delicatezza, dopo essersi spogliato della divisa scolastica, della cravatta, delle scarpe, di ogni cosa, restando in costume. Al collo scivolava ancora un amuleto, unico superstite di quel momento, ed era un simbolo tribale - serpentesco, adamantino, perlaceo - che ne rendeva la superficie regale: una runa antica, portavoce di un Dono, di Luce, di Tenebre. Si portò fino al rubinetto centrale della vasca, girando la manopola sulla destra, spingendo la seconda accanto sulla sinistra, mentre lo sciabordio dell'acqua si espandeva tutto intorno. Fu poi la volta della schiuma, dell'essenza, dei profumi: lavanda tra tutti, eterno regnante su ogni altro piacere, infine vaniglia, come sposalizio di singolare scelta. Andava bene così, per il momento. Respirò profondamente, inebriato, sazio di quella calma e di quell'anticipo di riposo che non provava da tempo. Ancora avvolto nell'accappatoio di tela, statua immobile al bordo della piscina in marmo candido, Oliver rimase in quella posizione, in silenzio, in attesa. Non c'era nessuno al di fuori della Sirena. Ed era taciturna, a sua volta, mentre intrecciava le ciocche di capelli chiari con gentilezza, lentamente, senza fretta alcuna. Quando l'acqua giunse al bordo della vasca, quasi superandola di alcuni centimetri, Oliver bloccò i rubinetti, ma non la schiuma dal profumo intenso di fiori. Lasciò carezzare la superficie perlacea con la punta di entrambi i piedi, immergendoli fino alla caviglia, ancora seduto al bordo della vasca. Si strinse maggiormente nell'accappatoio, preda di un brivido di freddo, una sensazione che gli donò piacere, involontariamente, quasi con curiosità. Schiuse le labbra in un sorriso, cenno tra cenno dei più comuni, fin quando reclinò il capo di poco e si lasciò andare, di lato alla Sirena, ad un canto leggero, intenso, quasi dolceamaro. C'era tristezza in quella musica, ma c'era al contempo attrazione. Parlava di intrecci, parlava di scontri, parlava di abbandono e di ritrovo; parlava di Terra, accennava agli Abissi. Era un canto allo stato grezzo, rivestito di frasi piuttosto elementari, ma era sorprendente, a tal punto da interrompere per la prima volta la Sirena di vetro, di silenzio e di anonimato, dalla routine quotidiana. Un movimento di coda in un bagliore cristallino, tra una cornice di maiolica preziosa, come se attratta dal nuovo arrivato. Le ricordava un'infinita bellezza, un'infinita tristezza.

Cantava di amore, cantava di nostalgia. Cantava di Kàhla.
Cantava in una lingua che soltanto la Sirena avrebbe compreso.
 
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view post Posted on 27/6/2018, 16:31
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Lavender Lily Lovecraft

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E
ra iniziato tutto con quella spilla. Non le veniva in mente nessun modo migliore per inaugurare quella sua nuova carica. Per quanto in un primo momento l’avesse spiazzata e le avesse fatto venire dubbi sulla sua capacità di poter davvero essere una guida per gli altri ragazzi, l’idea di mettersi in discussione le stuzzicava la curiosità. Aveva accettato, quindi, non solo per vanità ma perché doveva tanto alla casata che l’aveva accolta.
Lei, un prefetto! Proprio lei, che doveva ancora imparare a tenere la bocca chiusa quando era necessario.
Aveva anche scritto ai suoi genitori, ma era già passato qualche giorno e non era arrivata nessuna risposta. Forse non sapevano affidare le lettere ai gufi, chissà. Fatto sta che quella carica aveva destato in Lavender un nuovo orgoglio, e allo stesso tempo una leggera ansia per quelle che ora sarebbero state le sue responsabilità. E quale miglior modo per lavare via l’ansia se non con un lungo bagno rilassante? E quale miglior posto dove fare un bagno ora che poteva avere accesso al Bagno dei Prefetti?
Aspettò che le lezioni del giorno fossero concluse e, assicuratasi di non avere altri impegni al momento, posò quaderni e libri per munirsi di un costume da bagno - indossato preventivamente sotto la l’uniforme - e filare dritta al quinto piano prima che qualcuno potesse vederla e fermarla per fare quattro chiacchiere. Di solito succede sempre così: ti fermano sempre quando vai più di fretta.
«Frescopino.»
La parola d’ordine per accedere al Bagno dei Prefetti era semplice e facile da ricordare, perfino per una smemorata come Lavender. Non era una novità per lei rimanere chiusa fuori dalla propria Sala Comune per aver dimenticato la parola d’accesso, e le conversazioni con la Signora Grassa diventavano sempre più surreali di volta in volta, e non era raro che ci scappasse anche un duetto.
Arrivata al bagno, non ebbe nemmeno il tempo di aprire uno spiraglio nella porta che l’odore di lavanda la colpì in pieno viso, invadendole le narici: non era solo lavanda, avrebbe potuto giurare di sentirci anche il biancospino e la rosa, mescolati in un profumo intenso e avvolgente, per niente stucchevole. Però era la lavanda il perno principale di quel profumo, e questo non potè fare a meno di riportarla indietro nel tempo, ad un campo di lavanda in cui si era ritrovata una mattina senza nemmeno sapere come ci fosse finita. Chissà per quanto tempo ci era rimasta, aveva profumato di lavanda per un mese.
Ma non fu solo quello a colpirla, perché quello che stuzzicò la curiosità del suo naso era quasi niente rispetto a quello che sentivano le sue orecchie.
Sentiva una voce cantare, una voce d’uomo, in una lingua che non conosceva. Era una lingua melodiosa, magica, che non sembrava appartenere a questo mondo ma che stranamente sembrava trascinarla verso il basso, dentro l’acqua.
Sapeva che la cosa più sensata da fare sarebbe stata richiudere la porta e tornare più tardi, quando il bagno sarebbe stato vuoto, ma quello era uno dei momenti in cui mandare all’aria il buon senso e seguire la curiosità fino in fondo, per cercare di capire a chi appartenesse quella voce.
Entrò in punta di piedi, lasciando che gli occhi si perdessero lungo quella vasca fatta completamente di marmo, dove già iniziava a formarsi una leggera schiuma colorata. Il ragazzo cantava alla Sirena, con dolcezza, e per quanto quest’ultima non fosse una vera creatura marina ma solo una replica animata, sembrò gettare uno sguardo alla ragazza che se ne stava ferma poco lontano dalla porta, a spiare.
Lavender non capiva il senso di quelle parole, ma quel canto iniziò a giocare con le sue emozioni come un gatto che fa le fusa e pretende le carezze. Non le capitava quasi mai di emozionarsi, non in quel modo. Sapeva di dover andar via, prima di essere scoperta, ma era come impietrita ad ascoltare quel canto, dolce e nitido, senza nemmeno rendersi conto che aveva iniziato a trattenere il respiro come fosse sott’acqua.
Le bastò un secondo per rendersi conto che era cresciuta troppo in fretta, che non aveva mai goduto appieno dei giochi dell’infanzia e che era sempre stata occupata a tener d’occhio gli altri, perché nessuno doveva star male, non sotto la sua guardia. Anche quella spilla glielo ricordava, perché nonostante avesse solo tredici anni aveva ricevuto l’onore di essere una guida, di essere più grande, senza mai dover usare le proprie forze per prevaricare sugli altri. In questo Lavender era brava, aveva sempre messo tutti gli altri al primo posto.
E fu quel canto così pieno d’amore a farglielo capire: dopo aver amato così tanto gli altri non aveva mai amato abbastanza se stessa; non abbastanza da negarsi, non abbastanza da proteggersi, ed era per questo che era cresciuta.
Chiuse gli occhi e inspirò profondamente il profumo che aleggiava nel bagno, e quando li riaprì riuscì a distinguere perfettamente la fisionomia del ragazzo che cantava non troppo lontano da lei: era Oliver.


«You are not a child.»
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Al centro del diario in pelle che aveva acquistato da Ars Arcana tempo addietro, a Diagon Alley, Oliver vi aveva lasciato in sospeso un fiore tra tanti, uno tuttavia dei più accesi, colorato di arancio e di ocra fino all'ultimo petalo segreto. Una calendula, che più preferiva in assoluto, a plasmare con il profumo dolciastro quelle pagine di carta, ancora assenti eppure di inchiostro. Quando aveva deciso di scrivervi qualcosa, qualsiasi cosa, la piuma di fagiano che stringeva tra le mani si era presa letteralmente beffa di lui, del suo sguardo, della sua pigrizia, del suo blocco vero e proprio. Tra i pensieri c'era soltanto l'incomprensione, quel vuoto che da lungo andare aveva fatto capolinea alla sua attenzione, si era spinto fin nel profondo come la spina più sottile, infida e velenosa di sempre. Non ne soffriva, non come avrebbe sperato, perché anche quella sensazione sarebbe stata tuttavia concreta; ne era invece vittima inerme, senza considerazione, non un'azione a fare da contrasto, non una a fare da appendice. Oliver si lasciava trasportare dall'indifferenza, che mai aveva saputo stimare né riconoscere, fin quando aveva percepito quell'alone fin nella parte più profonda di sé. Dove sarebbe finito, dove si sarebbe diretto? Come avrebbe dovuto sfuggire a quella percezione del tutto impavida, come avrebbe dovuto ripristinare quella parvenza di veridicità, di autenticità, di carattere che tanto in passato lo contraddistingueva? Restava impeccabile, studente modello, ruolo su ruolo a fare da cornice alla sua figura; ma in segreto, quando tutti dormivano, quando i concasati già erano al caldo delle loro coperte, al riposo meritato, lui spalancava gli occhi in modo nitido; la vista si abituava al buio, mentre la Vista - secondaria e già primaria insieme - svegliava ogni parte di sé, fino a scuoterlo alle fondamenta, distillando goccia dopo goccia quel disturbo d'insonnia prettamente familiare. Con il trascorrere dei giorni, il fisico del Caposcuola ne aveva risentito e si scorgevano, ad occhi d'amici e d'attenti conoscenti, i sintomi peggiori: più smunto, zigomi alti, un velo ad imperlare quella tinta accesa, smeraldina, delle sue iridi, fino a percepire qualcosa di malcelato, di singolare, di preoccupante. Oliver era l'emblema del contrasto: rivestiva fiducia in se stesso, così come nel prossimo, ma fino a quando sarebbe andata avanti così, senza possibilità di controllare, ordinare, avere forma sul potere che lentamente lo stava divorando? Volti su volti, misteri ancora da necessitare una scoperta vera e propria, si procedeva per sfregio alla sua persona, per strazio al suo stesso cuore. La voce di Kàhla era stato l'unico sentiero a donargli limpida consapevolezza: era nitida, era chiara, era pura. Cristallina come la superficie del Lago Nero, intensa come i suoi Abissi più sconosciuti. L'incontro con la Maride aveva aperto la porta a più di un vantaggio, così come a più di una speranza: alla sua vicinanza, Oliver non aveva vissuto alcun attacco da parte della Vista, non uno scorcio sul Futuro al cospetto di un Presente tanto sorprendente. Accanto a Kàhla, si sentiva meno perso.

Il Canto del Maridese si dissolse lentamente, nota dopo nota, mentre le parole scivolavano via e già lontane, senza chiarezza, peccaminose di una sintassi inesatta, di più errori grammaticali di quanti il ragazzo potesse credere di aver fatto. Non era un esperto e non era detto che potesse diventarlo per davvero, ma a quel punto - in quel momento - non gli importava più di tanto. Non era la sua prerogativa principale, non quando il cuore, finalmente libero, si era lasciato andare ad un sospiro sollevato, riportando all'attenzione della stanza vuota quella costernazione ultima che ancora vacillava nel petto del giovane Mago. Dischiuse le labbra in un cenno di sorriso, appena abbozzato, quasi allo stato grezzo; si accorse di aver reclinato il capo leggermente all'indietro, le mani pure, aperte ora a palmo al freddo contatto con il pavimento in marmo sul quale sostava. L'acqua profumata della vasca lo raggiungeva con carezza ormai fino ai polpacci e bastava semplicemente spogliarsi dell'accappatoio in tela per immergersi completamente, in modo assoluto, bagnando l'intera figura in una ricerca di salvezza, di stasi, di assenza. Fu allora che la vide. Prima della Sirena, prima del fascio di sprazzi colorati dal mosaico in movimento del Bagno, prima di chiunque e di qualsiasi altra cosa. Gentile, dolce, sorpresa: l'aveva scelta di persona, per meriti, per impegno, per fiducia. L'aveva scelta per una sensazione che superava ogni ragione umana, per l'istinto originario che la Vista gli aveva concesso e che la stessa Vista, spezzata di volta in volta, compattava ancora. La vide con quell'incanto che non sapeva di rivestire con nonchalance, con delicatezza, con la bellezza tipica di un fiore appena sbocciato. Quando aprì gli occhi, quasi parve al Caposcuola di sentirne i passi leggeri sul pavimento gelido. «Ti aspettavo.» Rivolse il capo alla sinistra, sospinto da un soffio di vapore dalla vasca vicina, accennando un sorriso. «Subito dopo essere stato nominato Prefetto, sono venuto anch'io qui.» Lo ricordava, lo ricordava come se fosse accaduto soltanto il giorno prima. Non c'era accusa, c'era gentilezza, quasi piacere nel tono di voce del ragazzo. «Non è meraviglioso, Lavender?»
Il Bagno, la Sirena, il Profumo, quell'incontro o ancora altro: era una domanda difficile.
 
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view post Posted on 29/6/2018, 11:13
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L
e parole del ragazzo l’avevano colta di sorpresa: si aspettava una ramanzina coi fiocchi, una di quelle che ti imporporano le guance per la vergogna a distanza di mesi, ma non era arrivata. Non che le fosse mancato il tempo di tornare sui suoi passi; con un pizzico di incoscienza si era resa conto che lei voleva essere trovata lì.
L’aspettava? Come poteva aspettarla, se lei stessa aveva deciso di andare a fare un bagno solo poche ore prima senza farne parola a nessuno?
Quell'incontro era uno di quelli che avrebbe definito la strada che la strega avrebbe percorso da quel momento in avanti. Oliver era un ragazzo da ammirare perché risultava essere sempre impeccabile sul piano scolastico, ma ancor di più su quello umano: non c'era stata una volta in cui il caposcuola non l'avesse aiutata quando ne aveva bisogno. Eppure, a vederlo lontano dalle solite stanze e spogliato dei suoi abiti, sembrava più fragile di quello che Lavender avesse immaginato. Solo che questo non lo sminuiva agli occhi della ragazza, bensì il contrario. Era un'occasione rara incontrare qualcuno di così angelico come Oliver, anche quando sembrava faticare a rimettersi in volo.

«Meraviglioso, dici?» Si diresse a passi lenti dietro le sue spalle, camminando sul bordo della vasca come un’equilibrista che non produceva il minimo rumore con i piedi a contatto con il marmo freddo e compatto. Iniziò a spogliarsi lentamente dell'uniforme scolastica, lasciandola scivolare sul pavimento umido e lasciandola vestita solo di un costume verde marino che aveva portato con se da Guildford.
Negli ultimi tempi una leggera inquietudine nasceva ogni volta che guardava il suo corpo con attenzione: stava mutando, senza lasciarle il diritto di scelta; era leggermente più alta, i capelli più lunghi che le arrivavano al petto leggermente più ricci sulle punte, e le curve iniziavano a farsi più morbide, diverse. Era la clessidra che continuava inesorabile a far cadere granelli nella sua parte inferiore: presto il tempo sarebbe terminato, e Lavender non sapeva cosa fare, così come non sapeva far fronte a nuove emozioni e sensazioni che sembravano invaderle il petto.
Avrebbe potuto chiedergli di non sbirciare, ma sapeva che non correva pericoli. Non riusciva a sentirsi a disagio, non con lui. Con un ultimo tocco della bacchetta fece levitare fino a se un accappatoio bianco e morbido che sulla pelle sembrava soffice e caldo come una nuvola che si gode i raggi del sole in una mattina di Maggio. Improvvisamente tutto sembrò al posto giusto.
Gli restituì il sorriso solo dopo essersi seduta non troppo lontano da lui e aver trovato i suoi occhi. La schiuma le solleticava le caviglie mentre i piedi si immergevano nell'acqua calda e sondavano le profondità della vasca come due sottomarini che viaggiavano ad una vicinanza allarmante. «Sì, è meraviglioso.»
Forse non si era soffermata troppo su quella risposta, molto più ragionata di quanto credesse. Il cervello elaborava meccanismi incerti per tenerle nascoste le informazioni più preziose, ma se c'era qualcosa di cui Lavender si era sempre fidata era del proprio istinto. Quell'incontro era meraviglioso, quella casualità così peculiare era meravigliosa, quegli occhi così anomali e preziosi erano meravigliosi. Una vocina nella sua testa la rimproverò, come un picchio che inizia a scavarti un buco nella mente: “Comprendilo. Salvalo.”. Ma la strega non avrebbe avuto il coraggio di dirlo ad alta voce, così come non avrebbe avuto il coraggio di sollevare una mano per lasciare una carezza sul viso del ragazzo. Era tutto nuovo, erano due persone diverse ora.
«Fai così tanto per gli altri, che a volte mi chiedo se sia tu ad avere bisogno di qualcosa.» Fu tutto quello che riuscì a dire, in modo troppo ingenuo, senza mai staccare gli occhi dal viso di Oliver. Si rese conto di guardarlo come di solito guardava i suoi quadri, quelli riusciti meglio, con quell’ammirazione e quella meraviglia che si conserva solo per l’arte, quell’arte che riusciva a suscitarti emozioni senza nome. «Ci siamo imbattuti spesso l’uno nell'altro e a volte abbiamo chiacchierato, ma non abbiamo mai parlato per davvero. E-e…lo vorrei.»
Ora la sua voce si faceva incerta, dubbiosa: non nutriva dubbi sulle sue parole, ma sulle proprie intenzioni. Convinta di non aver mai portato maschere che celassero il suo vero essere agli altri, una mano invisibile si era levata pochi istanti prima e l’aveva privata dell’unica protezione che possedesse. Forse anche fingere di stare bene quando non era così alla lunga poteva diventare una maschera, uno scudo, e forse una delle più difficili da togliere.
Avrebbe voluto sfilare via l’accappatoio e tuffarsi in acqua, sotto il velo di schiuma, per nascondersi dallo sguardo del ragazzo, ma si sentiva così stupida e persa. Abbassò lo sguardo e sbuffò impercettibilmente, sorridendo in modo imbarazzato e strano. Che cosa le stava succedendo? Perché il suo cuore sembrava tormentarla in quel modo? Perché l’acqua la chiamava?
«Oooh!» Sbottò improvvisamente, senza nemmeno dare al giovane un po’ di preavviso. «Perché hai scelto me, Ol? N-non ne sono capace! E perché mi aspettavi? Io…» La sua voce si perse tra le bolle di sapone e il profumo floreale, non sapeva più cosa dire o cosa chiedere, o forse erano così tante le cose che avrebbe voluto dire che le si incastrarono in gola senza darle scampo.
Era una ragazza impulsiva, incredibilmente emotiva, e quel ragazzo così vicino eppure così lontano aveva l’aria di un mistero che non riusciva a svelare.


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Avrebbe potuto socchiudere gli occhi - lentamente, leggermente - e comunque non l'avrebbe persa. Avrebbe potuto calare le palpebre, avvinto dal buio più compatto, continuando a vederla. Ancora, ancora una volta. Di nuovo, per sempre. Il sorriso che si dischiuse sul volto parve intenso, eppure triste, carico di un'emotività che non aveva precedenti, ma che avrebbe potuto aprire porte, sentieri, percorsi a parole dette, ad altre celate, ad un discorso che non avrebbe avuto inizio; non avrebbe avuto alcuna fine. Mai come in quel momento, al calare del sole all'esterno del castello, all'intrecciarsi dei vapori e dei profumi all'interno del Bagno dei Prefetti, il giovane Mago si sarebbe concesso interamente, libero per davvero, senza una rimostranza che potesse dirsi unica, tale, limitante. Lasciarsi andare: un monito, quello, che attingeva alla parte più intima di sé, che invocava attenzione e rispetto, elementi che la vendetta del tempo avevano rinnegato, eliminato, ridotto a brandelli. Così appariva il Caposcuola di Godric: impeccabile e già non più tale, radioso e già più segreto, in tutto e per tutto spezzato. Fin da bambino aveva saputo tessere su di sé la maschera del teatro, della finzione, della retorica: la parola al posto giusto, la corretta espressione al viso trapunto di stima, in un caso o nell'altro l'eleganza a fare da cornice alla sua intera descrizione; dalla punta dei capelli alla pianta di ambo i piedi, Oliver avrebbe potuto essere felice, agli occhi del prossimo, là dove il cuore soffriva come mai prima di allora. Avrebbe potuto essere cortese, al cospetto di un ospite, di qualsiasi ospite, là dove la pazienza era ormai futile, illusione tra poche, incertezza tra tante. La morte di Loras lo aveva ferito fin nel profondo, intaccando lo spirito, frantumandolo a più non posso, per poi ricostruirlo, plasmarlo, fortificarlo con un vigore senza eguali, senza paragone, senza rimostranza alcuna. Lo aveva rivestito di una corazza pari ad una piramide, interamente di pietra, mutandolo in granitico aspetto per una consapevolezza vera e propria: Oliver sapeva essere chiunque, poteva essere chiunque, e non una sola volta avrebbe rinnegato se stesso. L'arte dell'espressione e dell'apparire, senza peccare nell'incanto dell'essere: mai contrasto sarebbe stato più vivido, più spettacolare. Erano poche le volte che il baule accoglieva la maschera, sepolta tra strati di ricordi, pensieri, riflessioni; per una frazione di tempo, breve o lungo che potesse essere, calava il sipario, chiudevano i battenti, si annullava il palcoscenico di vita. Era in quei precisi attimi che le peggiori incrinature sorgevano, si presentavano, si concretizzavano. Il Veggente, coraggioso per natura innata e primordiale, fuggiva come il più grande dei codardi. Rinnegava il riflesso, ne aveva paura, ne era profondamente scosso da cima a fondo. Correva lontano, senza muoversi. Correva lontano, correva così lontano.
«Oh Lavender.» Un soffio divelto in parole, un nome che aveva imparato ad apprezzare, a cercare e ricercare, fino a renderlo tassello di una scelta di grande valore. La vide senza osservarla, senza voltarsi, attendendo che la giovane ragazza vi si sedesse accanto. Non c'era tristezza nella sua voce, c'era incanto. «A volte c'è il rischio di mostrarsi vulnerabili, quando si parla. Ed essere vulnerabili è ciò che più odio in assoluto.» Sorrise, di nuovo. Dolcemente, con trasporto emotivo, reclinando il capo ancora più, all'indietro, come a perdersi nello sguardo del soffitto annebbiato dai vapori della vasca sotto di loro. «Ti ho scelta per questo, Lavender. Perché sei l'antitesi di ogni mio dubbio, la conferma di aver fatto la cosa giusta. La tua tempra, la tua determinazione, il tuo impegno» - piegò il capo, volgendosi alla ragazza - «rappresentano soltanto la superficie di ciò che sei.» Gli occhi si erano leggermente socchiusi, infine aperti, come a voler assorbire tutto in quel luogo, la visione del suo Prefetto e la gentilezza del suo volto, la bellezza del suo aspetto e la consapevolezza di essere fortunato, più di tutti, ad averla accanto. «Io vedo tutto, Lav.» Una confessione che non sarebbe stata afferrata al volo, nella sua interezza, ma che suonava come autrice autentica, veritiera, che finalmente lasciava il fiato sospeso, la pelle scottata, in una speranza appena sopita: eccomi, sussurrava il Veggente; eccomi, intendeva l'Augure. «Vedo i miei concasati, conosco i loro nomi, le loro lezioni, le loro preoccupazioni. Vedo il loro timore di un esame alle porte, il pensiero di un'interrogazione, l'evocazione di un sortilegio oscuro, pacifico, dalla trasfigurazione ad ogni altro elemento. Vedo l'amore distrutto, la cotta di ogni ragazzo, lo sguardo sognante di ogni ragazza. Vedo Herbelia che si pettina distrattamente i capelli, maniacale, con ossessione; vedo Timothy spezzare i suoi Scacchi Magici e poi ricostruirli a suon di Reparo; vedo Fred che profuma di dolci, quando torna da Mielandia; vedo te, Lavender, in tutta la meravigliosa bellezza che ti appartiene, in quella semplicità che ti invidio, con l'affetto di una persona più grande, una persona cara che ti vuole bene.» Si strinse l'accappatoio, percosso da un brivido improvviso. «La mia famiglia, i miei amici, la mia Casata. Vedo tutto, Lavender. Vedo tutto, senza lasciarmi vedere. Non è triste?»
 
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view post Posted on 4/7/2018, 19:43
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A
veva già sentito parlare di quel dono, prima. A volte aveva pensato a come potesse essere, avere qualcosa che tutti gli altri non possedevano e che forse non avrebbero mai potuto capire. A volte era semplicemente meglio essere normale, non dover sopportare il peso di essere qualcosa di diverso che difficilmente avrebbe trovato il proprio posto. Lo vedeva in Oliver, ora: il peso di un dono che ti rendeva diverso, anomalo, eppure allo stesso tempo estremamente prezioso.
Quello che Oliver possedeva era un potere che nelle mani sbagliate avrebbe potuto provocare danni senza fine, eterni. Era un bene che fosse lui il padrone di quelle visioni, era un bene per chiunque gli stesse intorno, ma forse non per lui. Iniziò a chiedersi cosa avesse visto di lei, ma non fece a lui quella domanda perché qualsiasi fossero state le immagini che la sua mente aveva scorto appartenevano a lui, e nessuno aveva il diritto di ficcanasare senza che lui si sentisse pronto a parlarne da solo. Era già tanta la fiducia che le stava concedendo in quel momento, e forse fu quello a far capire a Lavender che poteva fare lo stesso.

«Quando avevo dieci anni sono caduta in un pozzo abbandonato. O meglio, mi ci hanno spinta. Bulletti, sai?» Una risatina imbarazzata le sfuggì dalle labbra mentre cercava di riportare a galla le immagini di quei ricordi seppelliti nelle profondità della sua memoria. Si era sempre detta che in qualsiasi circostanza quel ricordo doveva rimanere sepolto dove non potesse più tormentarla, ma il vaso era stato aperto e ora quelle scene tornavano a galla senza lasciarle scampo. «Stavo sempre antipatica a tutti, e non era la prima volta che mi facevano qualcosa, ma quella fu la volta in cui segnarono la mia strada. Ero andata nel bosco a raccogliere delle nocciole perché la mamma voleva fare una torta. Non mi ero accorta che mi seguivano. Quando mi avvicinai al pozzo e guardai dentro, giusto per curiosità come facevo sempre, due mani mi diedero una spinta tale da farmi precipitare giù. Non mi feci male cadendo, se non contiamo qualche graffio, e l’acqua mi arrivava solo ai fianchi ma eravamo a Febbraio ed era fredda.» L’unico motivo per cui non aveva mai parlato a nessuno della propria infanzia era che, semplicemente, si sentiva come se non avesse mai nulla di allegro o felice da raccontare. Certo, in casa non aveva problemi, ma ogni volta che voleva provare a farsi degli amici finiva sempre male. Lavender non aveva filtri, e quando gli altri bambini ti escludono dai loro giochi di solito cresci prima. «Urlai. Cercai aiuto ma tutto quello che riuscii a sentire furono le loro risate. Quelle risate…» Le mani poggiate sul grembo si erano tramutate in due pugni chiusi così saldamente che le unghie iniziarono a scavare la loro forma nella pelle delicata. «Urlai fin quando la mia voce me lo concesse, ma nessuno passava mai di là. Io ci andavo solo per le nocciole, e…» Un sussulto le scosse le spalle e il petto, mentre nascondeva lo sguardo agli occhi dell’amico. «Mi ritrovarono quando era già buio. I miei genitori si erano spaventati a non vedermi rientrare ed erano preoccupati da morire. Mi tirarono fuori con una corda. Tremavo come una foglia, ero sotto shock e i piedi erano diventati viola e gonfi. Strano che il viola sia il mio colore preferito, no?» Un’altra risata dolorosa, un’altra fitta al petto. «Ti racconto questo perché, se miracolosamente tu fossi passato di lì quel giorno, anche quando non avevo più voce, mi avresti visto. L’avresti saputo e mi avresti aiutato.» Si liberò dell’accappatoio scuotendo la testa, scacciando quel pensiero che andava a sbatterle contro con violenza. “Tanto non ti vede mai nessuno, Lily. È come se non esistessi.” Se l’amico sembrava rabbrividire, lei stava di nuovo provando quelle fiamme che animavano gran parte delle sue decisioni.
«Quindi triste? No, non è triste. È duro, quello sì. A guardare i tuoi occhi credo proprio che lo sia. Ma…» Tornò a guardare il volto del ragazzo, senza aver più paura di mostrare gli occhi rossi e le guance troppo calde. «…forse nessuno meglio di me sa quanto questo mondo abbia disperatamente bisogno di persone come te, Oliver Brior. E io mi sento incredibilmente orgogliosa di averti qui, con me…»


«You are not a child.»
«I never was.»

 
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Every morning keeps returning at my window
And it brings me to you and I won't just pass through
But I'm not asking for a storm


Era così bella.
Come un bocciolo appena in fiore, superstite di una vita recisa al suolo, diretta, infelice, spezzata. Immaginava un campo di calendule, le sue preferite, in una distesa che non aveva né inizio né fine, che non aveva limiti di alcun genere; e vedeva un petalo, uno soltanto, come autentico giustiziato, una condanna perpetua, che non avrebbe avuto precedenti, mai più. Lavender era il suo segreto peggiore: la vedeva intensamente, parte integrante ed attiva di un mistero che mutava repentino in realtà, la stessa che mai avrebbe voluto ripercorrere, la stessa realtà che aveva fatto di tutto per dimenticare davvero. Ed era bella, era così bella. Come la porpora sulla tavolozza di colori di sua madre, come una tempera che non aveva valore, non per l'osservatore comune, non per tutti. Ma lui la vedeva. La vedeva più di chiunque altri, la vedeva al suo fianco, alla sua destra, come figura rivestita di un manto unico, prezioso, dall'emblema puro di una fiducia che non avrebbe saputo rinnegare. La vedeva. Ed era bella, era la sua Dannazione, era la sua Fortuna. Più l'ascoltava, più si rendeva cautamente partecipe del discorso che il suo Prefetto stava tessendo con partecipazione, più il Veggente si poneva domande, e poi dubbi, e poi riflessioni senza esclusione di colpi. La confessione di poco prima, in un intreccio di espressioni poco chiare, aveva forse spinto la ragazza ad una conclusione diretta, palese, autentica, una di quelle che potessero dirsi tale? Aveva forse rivelato più di quanto fosse stato intenzionato a fare? E se anche fosse stato così, se anche avesse lasciato intendere un punto aggiuntivo, maggiore, speciale, Oliver si chiedeva per quale motivo non ne provasse rimorso. Al contrario, come se trasportato interamente, anima e cuore, ne percepiva una giustizia quasi personale, tangibile, palpabile al battito costante a solleticare il proprio petto. Ed era indomito, invincibile, incontrastabile. E lei era triste, ma era anche così bella.

bBUWlOx
Tu mi avresti visto.
Fu uno schiaffo, forte e profondo, a misurare il dolore di un cuore spezzato fin dall'infanzia. Una ferita, quella, che non si era ancora rimarginata e che probabilmente mai l'avrebbe fatto. Le labbra si schiusero in un gemito, ma non aveva suoni per cantare, non aveva suoni per parlare. La Voce, al confine di epoche e destinazioni fugaci, si era spenta; si era spenta per sempre, lo sapeva. Apparve così, all'improvviso, come spettro di un passato mai lontano, mai dimentico, mai perduto. Le palpebre furono pervase da stanchezza, la Vista si annebbiò del tutto, gli occhi si chiusero lentamente, come veli sul proprio Presente, sul proprio Futuro. Il pozzo più stretto e più scuro, il cunicolo di cemento e mattoni divelsi dal grido di un bambino. Sono qui. Lo sentiva, ed era vicino. Sono qui, vi prego. Sono qui. Una richiesta d'aiuto, un'offerta impossibile. Non aveva energie, non aveva potere, non aveva magia. Desiderava la bacchetta della sua mamma, della sua zia, del suo papà: un movimento, uno svolazzio veloce, e Loras sarebbe stato di nuovo al sicuro, libero, a giocare nel prato accanto casa, nello spiazzale delle calendule, alla ricerca di un leprotto dal muso sporco di terriccio. Sono qui, per favore. Sono qui, sono qui. Urlava, il piccolo Loras. Urlava, urlava a più non posso, e non uno riusciva ad ascoltarlo, non uno riusciva a sentirlo. «Ma io potevo.» Gridava, il bambino dai riccioli d'oro. E più si dimenava tra le pareti della prigione alla quale era stato involontariamente costretto, capitombolato alla rinfusa, per colpa di una lepre più veloce di lui; più si dimenava, più le vertigini aumentavano, più il respiro si spezzava, si infrangeva, si annebbiava.
«Ma io lo sentivo.» Sono qui. Sono qui, per favore. Sono qui. Ancora una volta, ancora una, senza fine. Tremava da capo a piedi, come alle porte di un Inverno inesplorato, impossibile, disumano tra le strade acciottolate della Contea di Cork. Iniziava a rabbrividire, ad avere freddo, fino a sentirsi preda dello strazio del suo stesso amico. Loras, sussurrava. E gli mancava la voce, gli mancava la forza.
E gli mancava.
«Ma io lo vedevo.» In un pozzo a cielo spento, in un campo a cielo aperto; e l'uno e l'altro luogo si alternavano, si plasmavano insieme, si confondevano. Aprì gli occhi e Loras era lì, al suo fianco, tra le braccia il leprotto dal nome tedesco, Linsen, lo stesso che avevano deciso insieme poche settimane prima. Era lì, era ancora lì. E se chiudeva gli occhi, lo vedeva nel pozzo, in anticipo, in uno scorcio di un Futuro che a quel tempo, a quell'età, il piccolo Veggente non avrebbe mai potuto capire.
Si accorse di aver trattenuto il respiro, di aver parlato ad alta voce, di aver mormorato quei tre ordini senza motivo. Intrappolato com'era tra ricordi, sensazioni e scatti emotivi cui mai si sarebbe potuto sottrarre, la storia di Lavender aveva spalancato libero accesso su qualcosa che aveva vissuto in prima linea, in prima persona. Così si rivolse alla ragazza, intrecciandosi - spezzato ancora infinitamente - all'ultima sua confessione. Il corpo si piegò di lato, come in connubio al desiderio di avvicinarsi alla concasata, mentre il telo che vestiva continuava, gentile, a graffiare la pelle scoperta. «Soffro di claustrofobia dall'età di sette anni, il mio migliore amico è morto in un pozzo e ne sono responsabile, ne sono sempre stato responsabile.» Atono, deciso, serio: c'era l'Assenza nel cuore del Veggente; c'era l'assenza, c'era l'assenza perenne. Ed era triste, era così triste. «Non l'ho visto, Lavender. Non sono riuscito a salvarlo. Ed ora è una presenza costante nella mia vita, un fantasma al mio fianco, talvolta lo sento, talvolta lo percepisco. Ma non lo vedo, Lavender.» Sospirò. «Non lo vedo più.» Il respiro si spezzò di netto, di scatto, senza preludio. Un gemito, un dolore che saliva dal cuore a coinvolgere il corpo, il viso tumefatto dal dispiacere, infine gli occhi, quegli occhi color di smeraldo appena spenti della luce più viva, della luce tipica di Oliver Brior. La mano destra si spinse lontana, sfilandosi dalla manica dell'accappatoio in stoffa, a cercare anonima, eppure visibile, quella del Prefetto. Quando parlò, Oliver era ancora girato alla sinistra, ad affidarsi alla Sirena di Vetro nello specchio più alto sulla vasca profumata. «Ti prometto di non perderti mai, Lavender. Io ti vedrò. Ovunque sarai, in ogni difficoltà, io ti vedrò. E potrai contare su di me.»

Le dita aperte, il palmo dischiuso.
Un intreccio, una promessa, una certezza.
Ed infine il Canto più triste, il Canto più bello.
La Sirena sgusciava tra le danze tribali di colori e sfumature, mosaico d'eccezione di un luogo comune; il Veggente restava, al contrario, tra gli effluvi di vapore e lavanda e cannella in essenza dolciastra, mentre lontano un bambino piangeva, gridava, moriva. Dove si era appena spinto?
 
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view post Posted on 15/10/2018, 16:11
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Lavender Lily Lovecraft

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E
rano state parole dure da mandar giù, ma quello che più la distruggeva era il dolore che non riusciva a placare.

«Guardami.» La sua voce era dura ma mostrava sfumature di dolcezza che raramente aveva mostrato a qualcun altro.
La sua mano trovò quella di Oliver senza esitazione, lasciando che le dita si intrecciassero senza paura, ma in un istante il colore delle sue guance divenne più acceso. L’altra mano cercò il viso dell’amico, posandola con una ferma delicatezza che voleva attirare il suo sguardo, per farsi ascoltare attentamente. Non avrebbe lasciato quel bagno senza aver almeno in parte alleggerito il peso sul cuore del ragazzo, anche a costo di doverne prendere una parte per sè. «Questi poteri che abbiamo, non li abbiamo chiesti noi. La magia che ci scorre nelle vene non ci rende responsabili per qualsiasi cosa accada. Ci sono adulti che non riescono a controllarli, come puoi pretendere che un bambino possa essere responsabile di una simile tragedia?»
Un canto flebile di rabbia le suonava nel petto e accese i suoi occhi, incurante dell’effetto che le sue parole avrebbero potuto avere sull’amico. C’erano troppe cose di cui i bambini si sentivano responsabili, ma la morte non poteva, e non doveva, essere una di quelle. Era una cosa così atroce da farle sentire le emozioni galoppare senza sosta in ogni angolo della mente.
«Non puoi, Ol.» A differenza della fiera rabbia nei suoi occhi, la voce continuava ad essere dolce, tradendo fin troppo l’affetto che continuava a segnarla minuto dopo minuto. «Non puoi fare questo ad un bambino, e non puoi fare questo al tuo migliore amico. Soprattutto a lui. Se lo senti accanto a te come puoi fargli vedere tanta sofferenza?» I suoi pensieri andavano continuamente al piccolo Oliver, intrappolato in un senso di colpa che non doveva appartenergli. Proprio lei che aveva conosciuto la cattiveria dell’infanzia, non poteva sopportare che un bambino tanto dolce potesse covare un dolore così forte. E quel bambino era ancora intrappolato lì, nell’animo dell’amico, ma non poteva offrirgli la spensieratezza che meritava.
La carezza su quel viso stanco si fece più sicura e protettiva, mentre i riccioli del ragazzo iniziavano a solleticarle i polpastrelli. Era la prima volta che soffermava lo sguardo per così tanto tempo sul viso del ragazzo, e per un momento dimenticò le parole che avrebbe dovuto dirgli. Aveva solo diciassette anni ma si potevano già vedere i segni di una sofferenza che dall’interno si stava facendo strada sulla facciata di quel quadro meraviglioso, senza però intaccarne la bellezza.
La cosa più saggia da fare in quel momento sarebbe stato uscire in fretta e furia da quel bagno, prima di ritrovarsi risucchiata in sentimenti più grandi di lei, ma non riusciva a staccarsi. Non voleva farlo. Era forse la prima volta nella sua vita in cui si concedeva un momento così intimo, umano, e in cui si rendeva conto di aver perso la bambina dentro di sè, o forse di non averla mai conosciuta per davvero. Era come percorrere il tempo al contrario. E lui, anche in tanto dolore, era una delle cose più belle e più pure che avesse mai visto.

«Non farti questo, Ol...» La voce si era fatta bassa e insicura, come a voler proteggere un segreto che era fatto solo per loro due, uno che nemmeno la sirena avrebbe dovuto ascoltare. «Non portare questo peso nel cuore. Se c’è una colpa, non è da imputare a te. Eri solo un bambino, non potevi sapere...» La rabbia aveva lasciato il posto ad un velo di paura, come se il ragazzo si fosse potuto sgretolare tra le sue mani da un momento all’altro. Ma questo non le impediva di stringergli la mano con più forza, cercando di cancellare i segni di tanto dolore dal suo viso con il pollice dell’altra. «...perché credo che se continuerai ad affondare in tanta sofferenza ti perderai. E il tuo amico ti perderà. Non pensi a quanta sofferenza stia provando lui, ora, al pensiero di averti causato tanto dolore? Non pensi sia egoista portare nel cuore tanto senso di colpa senza renderti conto che si riflette anche su di lui? Forse è per questo che non lo vedi, perché non vuole farsi vedere così triste. E poi io...» Si morse la lingua prima di fare un passo falso, prima di sbilanciarsi, senza sapere che ormai gli occhi e le mani avevano iniziato a parlare al posto suo, una lingua diversa che ancora non sapeva di conoscere, e che forse era presto per esplorare. Non era mai stata una buona amica per nessuno, forse perché non aveva mai avuto buoni amici che le mostrassero l’affetto incondizionato che l’essere umano aveva da offrire. Ma certe cose non si imparano, si vivono nell’inesperienza di oggi e nei ricordi di domani, e ci si chiede se tutto ciò sia mai stato abbastanza. Lavender non si era mai sentita abbastanza per nessuno, nè per i genitori che lodavano il comportamento esemplare del fratello, nè per i vecchi amici che preferivano chi riuscisse ad abbassare la testa acconsentendo a tutto. Ma Oliver per lei era abbastanza, era tanto, e forse era molto più di quello che riusciva ad intravedere, in entrambi.
Eppure si era aperta una porta che la strega aveva paura di attraversare.


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view post Posted on 3/12/2018, 05:52
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Fu dolce la possibilità di lasciarsi andare: interamente, pienamente, consapevolmente; per la prima volta, Oliver non si sarebbe tirato indietro, nessun passo falso, nessun timore, nessuna reverenziale preoccupazione. Accolse l'intreccio della propria mano con quella dell'altra, l'indice a solleticare appena il palmo della ragazza, mentre la carezza di Lavender risvegliava ogni suo torpore più triste: non era così colpevole, gli aveva detto; non era stata una sua scelta, non una sua conseguenza, non un cruccio di cui si era macchiato, dannato, spezzato fin nel punto più profondo del suo cuore. E tuttavia, le sue parole riuscirono a scalfire una superficie già più marcata, segnata ormai da lungo andare: perché avrebbe voluto annuire, confermare, crederle pienamente, là dove quella ricerca disperata di aiuto, una richiesta velata, formala ed autentica, avrebbe significato per lui salvezza assoluta. Non meritava nulla di tutto quello: il suo potere, la sua abilità, quella maledizione che calava come una Spada di Damocle ancora attiva sul suo capo, tutto avrebbe avuto un senso, ad occhi aperti, a spirito pronto, alla razionalità che fin da bambino gli mancava, poiché spazzata via da una fervida fantasia. Perché, lo sapeva bene, se anche avesse aperto bocca a quel tempo, in ogni caso non sarebbe stato creduto. Il Profeta violato, il Veggente bugiardo, il Miscredente: è solo immaginazione, gli sarebbe stato detto; è solo uno dei tuoi tanti giochi, gli avrebbero precisato. E tra l'accusa di essere ritenuto un folle, un autore di menzogne, un bambino particolare, anche a quel modo avrebbe scelto la Normalità, fitta di prassi e di convenzione, vinta da peccati e da incomprensione. Lavender avrebbe saputo apprezzare chi ormai sapeva di essere diventato? Avrebbe saputo essere per lui la confidente, l'amica preziosa, la persona che necessariamente sapeva di trovare? Socchiuse gli occhi, abbassò la fronte, il volto leggermente inclinato sulla destra; e in quel silenzio, in quella confessione, in quel momento di stasi e dinamismo insieme, di cuore aperto ed emotività intensa e pura, la più bella in assoluto, aprì bocca ad una rivelazione ultima. «Io vedo il Futuro, Lavender, dove nessun altro può farlo.» Si accorse di aver trattenuto il respiro l'istante successivo. Sollevò la mano libera ad accogliere, in contatto unico, quella sulla sua stessa gote. Così Lavender entrava a far parte della schiera dei sapienti, dei pochi fidati amici cui Oliver aveva, volente o nolente, saputo esprimere il suo segreto peggiore, il suo segreto migliore. Non ci sarebbero stati più dubbi, a quel punto, e le cose dette - le cose non dette, addirittura - avrebbero avuto senso e propria esistenza: la fiducia, dono primario, era l'offerta più viva cui potesse pensare. «Ed è la condanna di un viaggiatore, il sognare mete, vederle e mai raggiungerle in tempo. Perché le trame sono fitte, sono così preziose e volubili, e non siamo altro che pedine in questo eterno gioco.» Si spinse all'indietro, delicatamente, interrompendo ogni vicinanza ad eccezione delle mani: ancora intrecciate, ancora unite, presenti, sicure. «Chi farà la prima mossa? Quale pedina riuscirà ad avanzare? E chi ad arretrare?» Visioni avverate, visioni infrante: spiriti spezzati, corpi in tumulto, strazio estremo, felicità ultima. Era tutto quello e tanto altro ancora: si perdeva così, il buon Oliver, nell'oblio più disparato e in quello più disperato di sempre. «Scacco matto, Lavender. Lì si esaurisce e realizza ogni cosa. E spesso a fare l'ultima mossa è qualcun altro, il Tempo stesso, e le sue conseguenze sono esclusive ed estreme al di là di ogni cosa.» Le strinse maggiormente le dita. «E tu, Lavender?» Sospirò, un accenno di sorriso triste, mentre la Sirena - ancora vicina - in tacita attesa custodiva il suo Canto più vivo. Si riallacciò alla frase spezzata dalla ragazza, ad invito fiducioso di continuare per lui, per lei, per chi erano e per chi sarebbero sempre stati. Insieme, in consapevolezza.
«Tu quale mossa scegli di fare?»
 
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