| But I'm holding back, that's the strength that I lack Every morning keeps returning at my window And it brings me to you and I won't just pass through But I'm not asking for a storm Era così bella. Come un bocciolo appena in fiore, superstite di una vita recisa al suolo, diretta, infelice, spezzata. Immaginava un campo di calendule, le sue preferite, in una distesa che non aveva né inizio né fine, che non aveva limiti di alcun genere; e vedeva un petalo, uno soltanto, come autentico giustiziato, una condanna perpetua, che non avrebbe avuto precedenti, mai più. Lavender era il suo segreto peggiore: la vedeva intensamente, parte integrante ed attiva di un mistero che mutava repentino in realtà, la stessa che mai avrebbe voluto ripercorrere, la stessa realtà che aveva fatto di tutto per dimenticare davvero. Ed era bella, era così bella. Come la porpora sulla tavolozza di colori di sua madre, come una tempera che non aveva valore, non per l'osservatore comune, non per tutti. Ma lui la vedeva. La vedeva più di chiunque altri, la vedeva al suo fianco, alla sua destra, come figura rivestita di un manto unico, prezioso, dall'emblema puro di una fiducia che non avrebbe saputo rinnegare. La vedeva. Ed era bella, era la sua Dannazione, era la sua Fortuna. Più l'ascoltava, più si rendeva cautamente partecipe del discorso che il suo Prefetto stava tessendo con partecipazione, più il Veggente si poneva domande, e poi dubbi, e poi riflessioni senza esclusione di colpi. La confessione di poco prima, in un intreccio di espressioni poco chiare, aveva forse spinto la ragazza ad una conclusione diretta, palese, autentica, una di quelle che potessero dirsi tale? Aveva forse rivelato più di quanto fosse stato intenzionato a fare? E se anche fosse stato così, se anche avesse lasciato intendere un punto aggiuntivo, maggiore, speciale, Oliver si chiedeva per quale motivo non ne provasse rimorso. Al contrario, come se trasportato interamente, anima e cuore, ne percepiva una giustizia quasi personale, tangibile, palpabile al battito costante a solleticare il proprio petto. Ed era indomito, invincibile, incontrastabile. E lei era triste, ma era anche così bella. Tu mi avresti visto. Fu uno schiaffo, forte e profondo, a misurare il dolore di un cuore spezzato fin dall'infanzia. Una ferita, quella, che non si era ancora rimarginata e che probabilmente mai l'avrebbe fatto. Le labbra si schiusero in un gemito, ma non aveva suoni per cantare, non aveva suoni per parlare. La Voce, al confine di epoche e destinazioni fugaci, si era spenta; si era spenta per sempre, lo sapeva. Apparve così, all'improvviso, come spettro di un passato mai lontano, mai dimentico, mai perduto. Le palpebre furono pervase da stanchezza, la Vista si annebbiò del tutto, gli occhi si chiusero lentamente, come veli sul proprio Presente, sul proprio Futuro. Il pozzo più stretto e più scuro, il cunicolo di cemento e mattoni divelsi dal grido di un bambino. Sono qui. Lo sentiva, ed era vicino. Sono qui, vi prego. Sono qui. Una richiesta d'aiuto, un'offerta impossibile. Non aveva energie, non aveva potere, non aveva magia. Desiderava la bacchetta della sua mamma, della sua zia, del suo papà: un movimento, uno svolazzio veloce, e Loras sarebbe stato di nuovo al sicuro, libero, a giocare nel prato accanto casa, nello spiazzale delle calendule, alla ricerca di un leprotto dal muso sporco di terriccio. Sono qui, per favore. Sono qui, sono qui. Urlava, il piccolo Loras. Urlava, urlava a più non posso, e non uno riusciva ad ascoltarlo, non uno riusciva a sentirlo. «Ma io potevo.» Gridava, il bambino dai riccioli d'oro. E più si dimenava tra le pareti della prigione alla quale era stato involontariamente costretto, capitombolato alla rinfusa, per colpa di una lepre più veloce di lui; più si dimenava, più le vertigini aumentavano, più il respiro si spezzava, si infrangeva, si annebbiava. «Ma io lo sentivo.» Sono qui. Sono qui, per favore. Sono qui. Ancora una volta, ancora una, senza fine. Tremava da capo a piedi, come alle porte di un Inverno inesplorato, impossibile, disumano tra le strade acciottolate della Contea di Cork. Iniziava a rabbrividire, ad avere freddo, fino a sentirsi preda dello strazio del suo stesso amico. Loras, sussurrava. E gli mancava la voce, gli mancava la forza. E gli mancava. «Ma io lo vedevo.» In un pozzo a cielo spento, in un campo a cielo aperto; e l'uno e l'altro luogo si alternavano, si plasmavano insieme, si confondevano. Aprì gli occhi e Loras era lì, al suo fianco, tra le braccia il leprotto dal nome tedesco, Linsen, lo stesso che avevano deciso insieme poche settimane prima. Era lì, era ancora lì. E se chiudeva gli occhi, lo vedeva nel pozzo, in anticipo, in uno scorcio di un Futuro che a quel tempo, a quell'età, il piccolo Veggente non avrebbe mai potuto capire. Si accorse di aver trattenuto il respiro, di aver parlato ad alta voce, di aver mormorato quei tre ordini senza motivo. Intrappolato com'era tra ricordi, sensazioni e scatti emotivi cui mai si sarebbe potuto sottrarre, la storia di Lavender aveva spalancato libero accesso su qualcosa che aveva vissuto in prima linea, in prima persona. Così si rivolse alla ragazza, intrecciandosi - spezzato ancora infinitamente - all'ultima sua confessione. Il corpo si piegò di lato, come in connubio al desiderio di avvicinarsi alla concasata, mentre il telo che vestiva continuava, gentile, a graffiare la pelle scoperta. «Soffro di claustrofobia dall'età di sette anni, il mio migliore amico è morto in un pozzo e ne sono responsabile, ne sono sempre stato responsabile.» Atono, deciso, serio: c'era l'Assenza nel cuore del Veggente; c'era l'assenza, c'era l'assenza perenne. Ed era triste, era così triste. «Non l'ho visto, Lavender. Non sono riuscito a salvarlo. Ed ora è una presenza costante nella mia vita, un fantasma al mio fianco, talvolta lo sento, talvolta lo percepisco. Ma non lo vedo, Lavender.» Sospirò. «Non lo vedo più.» Il respiro si spezzò di netto, di scatto, senza preludio. Un gemito, un dolore che saliva dal cuore a coinvolgere il corpo, il viso tumefatto dal dispiacere, infine gli occhi, quegli occhi color di smeraldo appena spenti della luce più viva, della luce tipica di Oliver Brior. La mano destra si spinse lontana, sfilandosi dalla manica dell'accappatoio in stoffa, a cercare anonima, eppure visibile, quella del Prefetto. Quando parlò, Oliver era ancora girato alla sinistra, ad affidarsi alla Sirena di Vetro nello specchio più alto sulla vasca profumata. «Ti prometto di non perderti mai, Lavender. Io ti vedrò. Ovunque sarai, in ogni difficoltà, io ti vedrò. E potrai contare su di me.»Le dita aperte, il palmo dischiuso. Un intreccio, una promessa, una certezza. Ed infine il Canto più triste, il Canto più bello. La Sirena sgusciava tra le danze tribali di colori e sfumature, mosaico d'eccezione di un luogo comune; il Veggente restava, al contrario, tra gli effluvi di vapore e lavanda e cannella in essenza dolciastra, mentre lontano un bambino piangeva, gridava, moriva. Dove si era appena spinto?
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