I paesaggi scorrevano rapidi in un turbinio di colori dal finestrino del treno. Il verde e l’oro della brughiera si mischiavano all’azzurro del cielo e al bianco delle nubi. Qua e là qualche chiazza grigia annunciava la presenza di un temporale lontano. Non aveva mai prestato particolare attenzione agli scenari che scorgeva quando era in treno. A dire il vero, non aveva mai prestato particolare attenzione a nulla nella sua vita, se non a quelle poche cose che riteneva davvero importanti: la conoscenza, la bellezza e la tensione continua e quasi maniacale che lo spingeva a voler essere perfetto. Adesso, che la scure di un nuovo, insostenibile dolore gli si era abbattuta sul capo, per un errore, come cercava di considerarlo – o come voleva considerarlo – era la sua stessa indifferenza a sgretolarglisi addosso, in un paradosso che si rifiutava perfino di considerare. Si morse il labbro, trattenendo le lacrime e provando a respirare, a tornare almeno padrone del proprio corpo, così incapace di scacciare dalla mente quei pensieri che lo aggredivano prepotenti, come quelle labbra, come lei.
La musica si diffondeva dalla cima della cattedrale, in una nenia cupa e penetrante che ora innalzava, ora avviliva l’animo dei partecipanti alla funzione. La melodia era talmente bella e malinconica da far pensare al lamento di un angelo. A tratti, mutava. Si faceva dura. Solenne. Disperata. La sofferenza cresceva, evocando nelle menti degli ascoltatori tutte le pene che in vita avevano straziato il cuore della ragazza. Dorian non piangeva. Non più. Il suo sguardo si perdeva nel chiaroscuro della cattedrale gotica, tra le statue dei santi, tra le calle – bianche come l’incarnato della morta – e tra i crocifissi trapunti di gemme, le cui ombre disegnavano sagome confuse sul pavimento nero della chiesa. Emma – eterea figura dai riccioli di oro ramato e grandi occhi di miele – era lì con lui. E si struggeva. Spoglia dell’impalpabile veste bianca con cui il suo corpo era stato fasciato, era salita sulla guglia più alta della cattedrale, senza ricordarsi quanto l’altezza un tempo la spaventasse. Era al centro della spirale musicale. Si fissava attorno. Lo vedeva. Aveva lasciato le membra malate e si godeva la pace, per pentirsene solo quando, libera dall’incantesimo delle note del violino, lo scorgeva dall’alto e si rammentava di essere un angelo, niente più di una particella di polvere nella luce. Sembrava così piccolo e sottile, da lassù; i riccioli scuri gli ricadevano attorno al volto, coprendo la sua pelle candida, quasi trasparente, come fili di raso sulla testa di porcellana di una bambola. Incavati nel viso, i suoi occhi non esistevano: erano vuoti. Privi di anima, di sensazioni; si erano ridotti a semplici orbite vacue in cui non risplendeva più nulla. Dorian la odiava. Perché era stata beffarda; perché se n’era andata – lasciandolo solo – e non avrebbe dovuto. Ma Emma, ormai trasformatasi in un ricordo, in un corpo fatto d'aria, alla fine lo aveva abbandonato. Non era riuscito a leggerle nell’animo, non era riuscito a svelare il suo segreto in tempo. Una donna gettò indietro i capelli rossi; inspiro profondamente e cantò. Il violino tacque. Non aveva mai compreso perché ai defunti piacesse sentir cantare. In fondo, la voce umana non era in grado di varcare le soglie dell’aldilà. Eppure, quando qualcuno cantava, la gente sembrava dimenticare ogni cosa. Imploravano e chiamavano quel Dio a cui il loro cuore era devoto, continuando ad invocarlo incessantemente. E si sentivano liberi, come solo uno sciocco può sentirsi quando si illude di partecipare alla sinfonia d’Amore voluta dal Signore. Per lui, quel canto era semplicemente un urlo. Un lento e prolungato grido che spandeva la propria eco per tutta la chiesa. Lo inquietava. Avrebbe voluto ingiungere alla donna di smetterla, a costo di alzare la voce, se necessario, ma le parole gli morirono in gola. Non gli restava che ascoltare. Ascoltare e ammutolire di fronte all’insignificanza di quella musica generata dalla vibrazione delle corde vocali, dal gretto legno di uno strumento umano, che nulla poteva contro la morte. Il suo viso indugiò sulla croce. Fissò il Cristo con i suoi occhi dorati. Lo scrutò. Si sentì penetrato da quello sguardo serio e distante. Strinse un pugno, ferendosi con il castone dell’anello d’argento. «Et iterum venturus est cum gloria, iudicare vivos et mortuos.» La sua voce era bassa, come la musica. Era un sussurro, e nessuno avrebbe potuto percepirlo. La messa si era fatta più triste e malinconica.
Emma gli si avvicinò. Scese sulla terra e gli prese la mano. Le parole del sacerdote sancirono la fine della cerimonia, mentre lui, con le sue belle labbra, pronunciò la sentenza: «Me l’hai tolta.» «Sei pieno di rabbia, Dorian.» «Ma nulla è per sempre, neanche la morte.» «La rabbia non ti aiuterà.» «Mi hai voltato le spalle, ed ora sarò io a voltarle a te. Lo prometto.» Negli anni avrebbe ricordato quel momento così come la più importante delle tante promesse rivolte al diavolo. Urlò senza poter essere udita, Emma, scorgendo la profezia oscura contenuta in quelle parole. Sapeva che le ali di cera del ragazzo erano destinate a sciogliersi sotto il calore del Sole, poiché come molti altri che si erano sottratti alla mano protettrice del Signore, anche lui sarebbe stato bruciato dalle fiamme. Mentre la bara veniva inserita nel forno crematorio, l’inferno gli dischiuse le porte davanti; ma in quel caso, il caldo che fondeva la flebile colla del legno e che gli bruciava il viso, era di tutt’altro genere.
«Chi sei?» «Mi hanno dato molti nomi. Sono stato chiamato Hathor dagli egizi; ho indossato le vesti dorate di Apollo per i romani e i panni della musa per i greci. Sono l’aspirazione di ogni essere umano. Vogliono assomigliare all’Altissimo, ma non vi riescono e possono raggiungere soltanto me. Sono il desiderio; sono l’appagamento… sono tutto ciò che si ambisce e il suo contrario. Sono gioia e sono perdizione. Io sono te.»
Il treno continuava il suo viaggio, allontanandolo da quel ricordo confuso, fatto di preghiere, di morte e di promesse abominevoli, indelebili come impronte di sangue sulle mani di un bambino. Sussultò quando la voce tenorile del capotreno annunciò che erano finalmente giunti a King's Cross. Non si era accorto del tempo trascorso, né della lunghezza del viaggio. Si infilò la giacca congedandosi dagli altri prefetti con un cenno, afferrò la valigia e si diresse verso la porta d’uscita, ricongiungendosi a Christopher e Urania proprio mentre il treno frenava stridulo sui binari. Il mondo sembrava andare al rallentatore. Troppo lento, troppo. Eppure l’anno che aveva trascorso ad Hogwarts era passato così veloce, così rapido da dargli l’impressione di non essersi mai mosso dalla città familiare che scorgeva attraverso il vetro della porta. «Dorian…» Non si apriva. La pesante maniglia in ottone era incastrata. La abbassò impaziente e i secondi che ci mise a spalancarsi parvero ore. Si tuffò fuori dal treno prima che il passaggio finisse di spalancarsi. «… ricordati che non sei solo» la voce di Urania, nitida e dolce, si perse nel tepore di quel pomeriggio d’estate. Mentre l’austista gli apriva la portiera inspirò a fondo l’odore del vento. Alla fine, le lacrime che aveva trattenuto a lungo e che si erano mutate in dolorosi puntelli di vetro negli occhi, sgorgarono. In mezzo a quelle persone tutte uguali, tutte identiche – gli stessi visi sorridenti; gli stessi sguardi divertiti; la fretta gioiosa di tornare a casa, di ricongiungersi ai genitori – gli parve di sentire il profumo di Emma. Ormai il suo scheletro scarno e curvo era diventato polvere; ma il suo profumo – quell’odore che conosceva così bene e che mai, mai avrebbe dimenticato – riusciva a purificare persino i veleni dello smog e il tanfo dei corpi sudati.
ψ Libera nos a malo
Si lasciò cadere stancamente sul divano. Aveva cenato presto quella sera, in solitudine, e aveva congedato i domestici prima del solito. Prese una sigaretta dal prezioso cofanetto che Christopher gli aveva regalato per Natale e la accese. Aspirò il fumo, cercando di rilassare la mente. Udì dei passi su per le scale, poi l’elfo aprì lentamente la porta: «Sta bene, signore?» «Oh sì, Henry – sorrise Dorian increspando le sue magnifiche labbra – ora sì.»
Era accaduto per caso, qualche giorno prima, mentre ascoltava la madre raccontare come la delegazione di spezzaincantesimi che aveva spedito a Praga avesse reperito il libro in una catacomba sconsacrata. Aveva tenuto gli occhi dorati fissi davanti a sé, per evitare che la donna potesse accorgersi del suo interesse eccessivo; era egocentrica, ma di quell’egocentrismo carismatico di chi sa attirare le persone e valutare puntualmente le loro reazioni. Sapeva bene che il figlio era sensibile ai misteri della sua professione, sempre attento quando si lasciava sfuggire un dettaglio, soprattutto in relazione ad argomenti che non era bene venissero divulgati. Dorian, d’altro canto, era curioso in maniera insalubre e quando apprese del manoscritto faticò a tenersi in disparte com’era solito fare. Per quanto lo amasse, Medea aveva sempre l’impressione di dare il suo affetto ad un involucro vuoto che impediva a chiunque di accedere ai suoi pensieri. Ogni tanto pensava che il giovane, forse a causa dei suoi prolungati viaggi e delle assenze del marito, avesse sviluppato più testa che cuore. E la cosa non le faceva piacere. Ma era una madre, prima di essere una studiosa: lo amava e basta. Se essergli vicina significava parlargli del proprio lavoro – a costo di peccare di ingenuità – poteva permettersi qualche trasgressione. «E’ magia così diabolica, ammesso che non si tratti di un semplice falso, che persino io mi faccio degli scrupoli a tenere in casa una simile mostruosità, se finisse nelle mani sbagliate... non oso immaginare! In ogni caso è in latino, sono fortunata. Tradurrò in fretta l’essenziale, giusto per sincerarmi che non sia realmente pericoloso, poi farò in modo che sia riposto in qualche stipo dell’Ufficio Misteri e dimenticato.» Lo disse con un sorriso così asciutto che pure lui, più che mai bramoso di informazioni – nella concitazione si era artigliato con le mani sottili al velluto azzurro dei braccioli della sedia – fu costretto al silenzio. La strega si alzò da tavola e fece per avvicinarglisi, voleva baciarlo prima di ritirarsi per la notte, ma questi si ritrasse prima che potesse sfiorarlo. Aveva fatto apparire il gesto come puramente casuale, alzandosi a sua volta per lasciare che i domestici sparecchiassero, ma il suo corpo teso mandava il chiaro segnale che non desiderava essere toccato, neanche da lei.
«Mi è giunto all’attenzione che la signora ha portato un libro dal suo ultimo viaggio in Europa» fece spallucce, fumando con l’espressione indifferente ed annoiata che lo caratterizzava. L’elfo riuscì a reprimere un gridolino e si torse le mani venate d’azzurro. La paura lo colse all’improvviso. «Portamelo, Henry. So che puoi farlo» tagliò corto Dorian, venendo subito al dunque, e l’oro delle sue iridi mutò in una cupa sfumatura nera, come se un grosso squarcio di tenebra si fosse improvvisamente aperto in un cielo stellato. «Ma padroncino… Lei sa che ci è proibito accedere a quella stanza…» L’elfo avvertì una scarica di tensione salire rapida lungo la spina dorsale mentre parlava; si inchinò al giovane, riconoscendo quel sentimento di reverenza come dovuto alla sua persona. Quando il ragazzo esplose in una risata calda e avvolgente, con la grande stanza che gli faceva coro, intuì che la sua osservazione doveva essere stata presa per una sciocchezza e si disperò senza darlo a vedere. «Mia madre non è una sprovveduta, non ho il potere di violare le protezioni del suo studio – per ora. Dovrai farlo tu per me. Portami quel libro, Henry. O giuro su Dio che ti caverò il cuore con le mie stesse mani.» Il servitore sentì lo sguardo del padrone su di sé, ma non alzò la testa. La vista di quel volto spaventoso lo uccideva. Era come guardare in un malefico dipinto che gli ricordava giornalmente quanto gli esseri umani potessero essere belli e quanto, al tempo stesso, fossero capaci di una crudeltà terribile. Aveva sempre avvertito la diversità di Dorian, eppure, quando era tornato da Hogwarts, quell’anno, qualcosa di diabolico ed indefinibile era penetrato in lui, qualcosa che lo spingeva con maggiore intensità a maledire di giorno in giorno la propria condizione di servo. «Presto rincaserà mio padre; domani notte a New York il Magico Congresso degli Stati Uniti d'America darà una festa per celebrare la collaborazione tra le nazioni. Sono invitati i Capi di Stato e i delegati maggiori.» Velocemente l’ombra si ritirò dal suo sguardo d’ambra, come un orrendo verme che si dissipa nella terra, e un raggio di luna gli illuminò il bel volto, ora disteso in un sorriso squisito. I suoi occhi sembravano pieni di allegria, di genuino interesse. «Agirai nel momento stesso in cui lasceranno la tenuta; staranno via per qualche giorno e faremo in modo che il libro sia là ad attenderli al loro ritorno» spiegò, pacato. «E’ tutto.» Lo congedò a bassa voce e tirò un sospiro di gioia quando sparì oltre la porta.
Dipingi il ventre del cielo con il sangue sulle dita. La volta cupa si intride di porpora accogliendo il sacrificio in uno scambio dannato di favori. È Lui che ti vuole, non sei tu a volerlo. Sarà la figura in catene che appare dal nulla a guidare la tua mano. Egli riscuoterà il prezzo di quella vita arsa dal fuoco. Ti sarà ancora necessaria l’anima quando il contratto verrà siglato e sprofonderai negli abissi della terra, in cui ogni cosa si dissolve, Dorian? Il principe invitto ti sorride maliziosamente, anche i serpenti si ritirano nella sabbia. Cosa nascondi oltre quella maschera così bella? Hai scelto tu la tua strada, ma ora sei pronto a percorrerla? Forse, la vita vale l’anima e non il contrario. Egli ti ha ingannato, lo fa sempre. Sei caduto nella trappola. Ma è tardi; sorridi del tuo sbaglio e ti offri a Lui. Se solo potessi tornare indietro… ma non si può vincere a scacchi con il diavolo.
Quella parte del bosco era particolarmente fitta, e anche le stelle che fino a poco prima splendevano brillanti tra le fronde erano oscurate. Dorian non rabbrividì. Si sfregò le mani, cercando di cacciare indietro la sensazione di gelo che lo aveva colto. Con passo rapido sorpassò gli alberi che segnavano il confine della radura; chiuse gli occhi d’ambra, cercando di lasciarsi guidare dalle proprie percezioni. Era abituato a muoversi in quella grande foresta che circondava la tenuta. Fin da bambino gli era parso di saper avvertire ogni singola pulsione vitale, ogni sospiro degli esseri viventi che vi dimoravano. Eppure, quella notte non riusciva a percepire nulla, se non morte e desolazione. Gli alberi, la terra, il vento e le piante gli trasmettevano il loro orrore, senza riuscire a trasformare in parole le loro grida di angosciante sofferenza. «Non devi temere, Emma». Pensò, alitandosi sulle mani gelate per farsi forza. Il fuoco, con i suoi bagliori incandescenti, rischiarava lo spiazzo coperto dall’erba nera, cuscino naturale sulla terra sconsacrata. L’aria era più calda, ma un gelo sinistro gli penetrava nelle ossa; non c’era un filo di vento e gli animali tacevano nelle tenebre. Aprì il vetusto codice con timore, dischiudendone la copertina in pelle; le mani vacillarono impercettibilmente. Sapeva che ogni grimoire possedeva una propria anima e un proprio spirito a seconda dell’indole del mago che lo aveva scritto; chinò il capo con una certa deferenza, perché l’autore aveva infuso nelle parole un potere che si perpetuava ben oltre la sua dipartita. Aprì la pagina e si sentì trascinato dall’energia che la intrideva. Ebbe l’impressione che il libro fosse vivo e pulsasse in risposta alle sue suppliche.
Come puoi, bambino sciocco, convincerti ciecamente delle cose? Se solo fossi stato meno avventato, ti saresti reso conto che un numero di segreti, infiniti come le stelle dell'universo, trascende la portata della tua comprensione.
Nel profondo della foresta buia, insieme alla sua natura morta, congelata, cristallizzata nell’orrore di quella notte, qualcosa si muoveva con lentezza e dedizione. Si spostava cautamente, cercando di eseguire alla perfezione i movimenti di quella danza, creata ancor prima che l’umanità disponesse delle conoscenze per accettare la sua esistenza. Persino il fuoco aveva paura di ciò che Dorian stava provando a fare; ardeva guardingo intorno alle braci della sua eternità, più silenzioso e pallido del solito. «Lucifer, dominus aurorae! Magnum opus est mihi auxilio tuo: ex umbra surge!» la sua voce, arrocchita dallo sforzo, risuonò all’improvviso alta tra gli alberi della foresta come il ruggito di una bestia. Sigillò il grande pentacolo davanti a sé con le ultime gocce di sangue, le più preziose, le proprie; e il cerchio, mentre Dorian si inginocchiava nel proprio, si richiuse, per salvarsi o per salvarlo. Agitò la bacchetta, le erbe e le essenze che aveva predisposto si incendiarono, chiamando l’oscurità nelle loro dense spire di fumo intossicante. Le fiamme che lambivano i margini della radura parevano ora soldati della notte pronti a distribuire paure e incubi, a uccidere amori e sogni. «Iblīs, Princeps Tenebrarum, omnia quae agis, mihi agis! Do tibi gratum nuntium: apta dies sacrificio visa est!» alzò le mani verso l’alto e le parole, come un sussurro portato dal vento direttamente all’inferno, risuonarono di una forza malefica che raramente era stata udita in quel mondo. Scoprì la coppa d’argento e si bagnò le dita nel sangue; poi si unse la fronte, tracciando la croce rovesciata. Quel simbolo gli avrebbe permesso di trarre energia dalle sue pene, torturandolo nel sonno, nella vita e nella morte. Per tutti i lunghi anni della sua esistenza, poco lontano dal per sempre. Il liquido scarlatto gli colò sul viso come una calda onda sciabordante. Prese il cuore – ancora umido e caldo – e lo gettò tra le fiamme, poi, con tutta la convinzione di cui era capace, espresse il suo desiderio. «Riportala da me». I bei lineamenti gli si contrassero come cavi d’acciaio per la disperazione e i capelli gli ricaddero sul volto, come le spire delle serpi di medusa. Improvvisamente non si trovava più nella radura, bensì in un mare oscuro e profondo. La pressione del liquido lo schiacciava e gli impediva di respirare. Si divincolò per sfuggire alla presa soffocante dei flutti; l’acqua gli entrò nei polmoni, ma non era più acqua: era sangue. Un potere dal sapore dolce e salmastro, oscuro come la pece e di simile consistenza. Entrò in lui come veleno. Poteva percepire il suo scorrere sotto la pelle; sentirlo che gli irrorava le vene. Combatté contro quell’energia che voleva invaderlo. Era estranea, soffocante e opprimente. Una magia totalmente diversa da quella che era abituato ad usare. Ad Hogwarts si imparava che l’energia della natura era luminosa, viva, il germe stesso della creazione; quella invece era costituita dalla negazione di tutto l’esistente. Rabbrividì al contatto con quel nulla denso e vischioso. Chiamò a raccolta tutte le sue forze per allontanarla da sé, aggrappandosi speranzoso a quello che era il suo obiettivo: lui ed Emma erano destinati a stare insieme. Cos’è la morte? Il nulla? Il tutto? L’inferno? Era così lontana che quando ci pensava non riusciva a comprenderne la portata. Eppure ora capiva il senso delle parole di chi diceva che essa, quando se ne va una persona cara, si porta via anche un frammento della tua anima. Nessuno poteva separarli. Nessuno aveva possibilità contro di loro, neanche quel Dio così crudele. Prima che potesse salvarsi il sangue gli scivolò in gola, soffocandolo. Si prostrò bocconi, annaspando e aggrappandosi all’erba umida nel tentativo di restare lucido. Sussurri incomprensibili mormoravano tra gli alberi. Boccheggiò, cercando di chiamare aiuto, ma non vi riuscì. Sentì i propri battiti farsi più tenui; la morsa di una mano gelida gli stritolò il muscolo cardiaco, mentre la terra attorno a lui si muoveva, inghiottendolo. Era nel sottosuolo, sepolto senza esserlo davvero. Poteva sentire il sapore acre del terriccio in gola, nel naso… non respirava più.
Ci fu una lunga pausa di silenzio, un grande incolmabile vuoto.
Poi gli alberi ripresero a frusciare languidamente, perché nulla accadde. Dorian sentì l’odore dell’erba bagnata, lo stormire delle foglie boschive e il rumore delle vita selvatica che riprendeva il suo corso. Si lasciò annegare in quel mare di disperazione disorientate, di insuccesso, di dolore infinito; permise alla propria coscienza di staccarsi dal corpo, concentrandosi solo sui suoni della foresta, mentre il senso di impotenza lo ricopriva, corrodendogli le ossa e disgregandolo come acido. Quando raggiunse l’apice lo sentì liberarsi come un’onda al di fuori del corpo sudato, agonizzante, e perse i sensi.
Nel corso degli anni ripensò più volte a quel momento, senza riuscire mai a stabilire se si fosse trattato di un lucido incubo o di un’allucinazione. Gli era parso di vedere l’aria turbinare e agitarsi come sciroppo mescolato al centro del grande cerchio, proprio mentre una creatura di vetro trasparente iniziava a muoversi in avanti e indietro tra i mulinelli di fiamme, come a voler esplorare le sensazioni del mondo fisico. Tuttavia, le mille ombre di quella notte, così dense, impossibili da distinguere, avevano instillato in lui il dubbio su cosa fosse reale e cosa invece, solo fervida immaginazione. Quel che è certo è che Emma non gli venne mai restituita. Il libro – inutile feticcio – tornò al suo posto e Dorian non seppe mai stabilire se la donna si fosse accorta della sua temporanea sparizione. Così com’era entrato in quella casa se ne andò, e i Midnight non vi fecero più riferimento. Lui e la madre non litigavano spesso, ma raramente erano arrivati a ignorarsi come in seguito a quella notte. D’altronde, non avevano mai avuto motivo di arrabbiarsi così tanto l’uno con l’altra. Henry semplicemente scomparve. Inghiottito dal sottosuolo – sepolto nel fango, nell’acqua di palude, nella pece vischiosa – il suo corpo, privo del cuore, andò a nutrire gli splendidi narcisi di quella villa maledetta; che mai, a onor del vero, crebbero più belli.
Sospirò, mentre sentiva le viscere contorcersi per la rabbia, l’amarezza e la frustrazione. Si girò nel letto e abbracciò il cuscino, senza riuscire a prendere sonno. Da pochi giorni era tornato al castello: con la bocca ghignante, i lineamenti distorti dai fumi dell’alcol… E la risata. Quella risata bassa e gutturale, dolcissima… Quale creatura rideva a quel modo? Quale entità riusciva, con un semplice suono, a evocare i peggiori incubi annidati nell’oscurità della mente? Cos’era successo quell’estate?
«Il fuoco ti sta divorando più forte che mai. Lo senti ardere dentro di te, ardere con te e posso scorgere i suoi bagliori rossastri nei tuoi occhi vuoti, che mi cercano. Ah! Quale estasi si può raggiungere nell’avere qualcuno che contempla la tua grandezza. Ti osservo con minuziosa attenzione, pian piano ti strappo ogni brandello di carne dalle ossa, perché tu mi hai voluto accanto, pur di ottenere il potere. Piangi, bambino. Piangi. Piangi perché stai scivolando nella disperazione. E io ti divorerò. Ti evolverai dalla tua misera forma a qualcosa di perfetto, di mostruoso. Piangi, sciocco. Io mi chinerò su di te con le labbra ancora sporche del sangue che mi hai offerto e i brandelli della tua anima tra i denti. Ti bacerò, ti consolerò e ti farò mio, mentre il fuoco divorerà ogni cosa. Piangi, Dorian. Perché adesso mi appartieni.»
Le setole scivolavano lentamente sulla pelle diafana; senza fretta, tracciavano con precisione sistematica il profilo di ogni muscolo e il contorno di ogni neo. Il corpo di Dorian fremeva sotto ciascuna di quelle carezze di velluto. Inarcava la schiena senza riuscire a controllarsi ogni volta che lei, maliziosa, si avvicinava al basso ventre, sfiorava appena le ossa iliache e risaliva con una gravità che sapeva di provocazione, fino al tatuaggio sul fianco che gli costellava l’epidermide imperlata di sudore fresco. «Lo fai di proposito…», una protesta sussurrata uscì con un gemito roco dalle sue labbra. Alzò gli occhi, incrociando quelli castani della pittrice e il suo sorriso malizioso sulla bocca tumida. Il pennello guizzò sul collo; dipinse la curva definita delle clavicole e scivolò sulle braccia, accarezzando con più cautela la pelle coperta di cicatrici sopra il polso. Dorian trattenne il fiato per non darle ulteriori soddisfazioni e si sforzò di non nascondere i segni col palmo della mano. Emma e la sua dannata mania per la pittura. «Affatto», negò lei, per nulla convinta della sua stessa affermazione. Sapeva che Midnight aveva ragione: si compiaceva nel vedere che inarcava la schiena, a sentirlo gemere e a scorgere gli occhi d’oro farsi liquidi per l’eccitazione. Fece scivolare con noncuranza il pennello sopra i pantaloni della divisa; esercitò una pressione più marcata per combattere l’attrito con la stoffa e sottrargli così un’altra roca imprecazione. Con indifferenza apparente, si scostò una ciocca di capelli dal volto per non privarsi neanche un poco della visuale che aveva davanti: le spalle ampie, le gote chiare con gli zigomi un po’ arrossati per l’eccitazione, le braccia toniche e cosparse di tante cicatrici sottili tra cui spiccavano, leggermente più in rilievo, quelle sopra i polsi. Si concentrò e trattenne la propria voglia di chinarsi su di lui a baciare una ad una quelle mute testimoni di una guerra interiore troppo travagliata perché potesse essere raccontata. Dorian desiderava con tutto se stesso che Emma lasciasse perdere le sue cicatrici; sperava di dimenticare la sensazione della lama fredda, la porpora del sangue che gli scaldava il cuore con il suo piacere tiepido, la sensazione di abbandono che pian piano lo annichiliva. Anni di guerra contro se stesso che gli avevano insegnato che la vita poteva essere un gioco sadico e che si erano portati via la sua ingenuità. Emma, invece, amava ognuno di quei segni chiari sulla sua pelle, almeno quanto amava lui. Erano memoria, erano testimonianza; raccontavano chi Dorian era veramente, al di là di ogni apparenza, al di là di ogni finzione. «A me piacciono», lo aveva rassicurato. Lui non ne pareva convinto, ma la ragazza ci aveva creduto così tanto ed era stata così persuasa delle proprie parole, che aveva finito col farglielo credere. Guardò le cicatrici di Dorian illuminate dai raggi di sole che filtravano nella stanza. C’erano alcune macchie di colore sulle coperte e sul corpo del ragazzo. Anche le sue mani erano sporche di solvente e tempera. Mise da parte il pennello e lo baciò, stringendo i capelli scuri come la notte tra le dita. Godette nel sentire il suo corpo reagire immediatamente a quel bacio, nel percepirne la risposta bisognosa oltre il tessuto dei pantaloni. In un attimo, i pensieri sparirono nel vortice delle coperte.
Appoggiato alla testiera del letto, l’inguine ricoperto dalle lenzuola scomposte, Dorian guardò il quadro abbandonato che pareva riflettere il disegno delle sue cicatrici. Vedeva il proprio corpo disegnato – mutilato, deformato, ridipinto… Quante cose aveva subito quell’involucro che aveva avuto in dono eppure, ogni volta, tornava più bello di prima, eternamente uguale a se stesso. Gli occhi scuri sulla tela per un attimo brillarono di una luce sinistra e il ragazzo si passò la mano sulla fronte fresca, senza capire. Costante, un brusio iniziò ad urtare le pareti della stanza. Lui cominciò inconsciamente a rabbrividire ogni qual volta il sussurro aumentava, per poi placarsi di nuovo prima di ricominciare. Ebbe l’impressione che stesse ridendo. Con lentezza il sangue iniziò a scorrere dalle ferite di tempera, senza spiegazione apparente, e le dita di Dorian si contrassero compulsivamente per la sorpresa. Inconsapevole di ciò che stava succedendo, eppure trascinato da quell’immagine a tal punto da non riuscire a distogliere lo sguardo, iniziò a pregare. A ripetizione, come se ripetere quelle parole avrebbe reso più facile non credere a ciò che stava vedendo. «Pater noster, qui es in caelis: sanctificetur Nomen Tuum» Il ragazzo del dipinto, con le braccia completamente squarciate, si passò la lingua sulle labbra pallide, aperte in un sogghigno animalesco che faceva venire i brividi. Il suo sguardo grifagno si posò sull’addormentata al suo fianco. Improvvisamente Dorian provò un moto di paura per la ragazza. Decise di avvisarla in qualche modo, ma la voce gli morì in un colpo di tosse. Portandosi la mano al mento sentì che era sporco di sangue. «Adveniat Regnum Tuum: fiat voluntas Tua, sicut…» Tremante, alzò lo sguardo sul dipinto; l’uomo si leccava con malizia la bocca oscenamente rossa. «Lo senti come il sapore del sangue cancella quello del suo piacere?» gli domandò. «Sicut in caelo, et in terra…» rispose sussurrando in uno spasmo, come se si rifiutasse di accondiscendere a quell’illusione terrificante. «In cielo?» rise, deliziato. Un secondo fiotto di sangue scuro, denso, ferroso gli uscì dalla gola riversandosi sulle lenzuola bianche e soffocando la sua implorazione. Non poteva rispondere, non poteva distogliere gli occhi, non poteva realmente fare niente. Il dipinto era troppo poco umano, troppo poco compassionevole perché potesse interessargli davvero quello che stava dicendo. E Dorian, era consapevole che quando pregava qualsiasi invocazione era per lui – non per l’Altissimo –; quando le sue labbra scandivano parole di supplica verso il cielo, era a lui, in realtà, che si rivolgeva. Lui che adesso lo stava chiamando. Sentiva la sua risata che lo trascinava fuori dal letto, portandolo in quel luogo dove tutti i dannati si riunivano per bestemmiare. «Panem nostrum cotidianum da nobis hodie…» ripeté le parole meccanicamente, non avevano significato in quel luogo; al di là del suono non riusciva a metabolizzarne il senso, né ad assaporarle come doveva. Era solo attraverso il sangue che acquisivano sapore e consistenza nella sua bocca. Il dipinto iniziò a ridere e la sua risata, roca, malata cominciò a vibrare nell’aria. Dorian sentì la voce bruciarlo e graffiarlo, mentre gli entrava dentro. Storse appena il naso e trovò la forza di voltarsi verso la ragazza addormentata, in cerca della sua mano, in cerca del suo viso. «Adesso è mia, e te ne sono immensamente grato.» Emma, bianca come il vello di un agnellino, aveva la bocca squarciata, ricucita con filo nero in qualche modo. La sua salma affondava in un cuscino di vermi e foglie marce, i denti le erano caduti e le vene nere le spuntavano dalla pelle come mutilate mani scheletriche. L’odore della terra e della morte penetrò il ragazzo come una spada, fino alle ossa, e le lacrime gli salirono agli occhi, mentre le ferite sulle braccia si riaprivano di netto, come rose sbocciate nel sangue. Gli occhi gialli del quadro brillavano, esaltati. La canzone di morte con cui era stato risvegliato lo aveva deliziato persino di più dell’aspetto umano che aveva assunto. Le urla di Dorian erano il suo valzer. Quello che aveva composto per lui, dando ascolto alla sua preghiera; era la sofferenza che aveva invocato. Tutti i suoi desideri avevano preso vita in quel dolore. «L’ho uccisa io» si ripeté. Si fece scivolare le parole sulla lingua, gustandone il fiele. Le assaporò come non aveva mai fatto con nient’altro. Le mormorò sottovoce, le impresse a fuoco nella propria anima. Sentì una brace ardere dentro di sé. Un fuoco malefico che non aveva mai bruciato prima ma che – ne acquisì improvvisamente consapevolezza – era sempre rimasto pavido a giacere sotto un mucchio di sterpi, finché qualcuno non vi aveva soffiato sopra, facendolo divampare. Almeno qualcuno lo avrebbe amato per sempre. Il suo cuore – un piccolo e inutile ammasso di carne viva consumato dalle fiamme – batté per l’ultima volta.
Poi, aprì gli occhi di colpo.
Immobile. Gelido. Come una bambola di pezza. L’incubo, strisciato fuori dal lago come un nero serpente silenzioso, si era insinuato sotto le lenzuola fino ad avviluppare in un abbraccio umido i suoi piedi scalzi, le sue cosce tremanti, il suo torace nudo, ansimante contro il materasso. A tratti l’eco della risata risuonava ancora nella stanza, a tratti le lenzuola si macchiavano di sangue fresco. Gli artigli laceranti dell’orrore continuavano imperterriti a infilarglisi nella carne, privandolo del respiro. Sotto il lenzuolo nero, il petto si alzava e si abbassava al ritmo di un pianto silenzioso; le ciocche dei capelli erano inumidite dal sudore che le costringeva ad aderire alla fronte. A tentoni cercò la bacchetta e la vestaglia color ardesia – unico ostacolo che impediva la visuale totale della sua nudità. Rabbrividì, percependo lo sguardo freddo e affusolato come una mano che gli scivolava lungo i fianchi nudi, fermandosi solo in presenza della stoffa; poteva quasi immaginarlo mentre faceva scorrere la lingua sulle labbra di cera con aria voluttuosa.
Alla paura, al dolore e alla disperazione si sostituì l’urgenza. Doveva muoversi, doveva scappare da quella stanza al più presto. A costo di perdersi e girovagare senza meta.
Oltre il testo, le intenzioni ~Dorian, se riesce ad alzarsi dal letto, a fronteggiare la paura, a recuperare la bacchetta e la vestaglia (eventualmente anche senza?), è intenzionato ad uscire dalla stanza. Non ha una meta.
Mi chiede perché amo il dolore, dottore? Domanda sciocca, come del resto la maggior parte di quelle che mi pone. Non credo di averle sentito ancora fare un’osservazione intelligente da quando ci conosciamo e ormai ne è passato di tempo: 15 giorni, 8 ore, 39 minuti e, in questo preciso momento, 24 secondi. 25, 26, 27… Per la sua mente – la sua limitata, ottusa, fragile e insignificante mente – circa due settimane. Per me, 15 giorni, 8 ore, 39 minuti e, in questo esatto momento, 30 secondi, 31, 32, 33… Ma d’altronde, cos’è il dolore se non il bruciare del filo sottile della vita? Potrei rispondere in tanti modi a questa domanda: per Seneca è una legge che presiede alla natura umana, e quindi benevola; per i cristiani è l’unico mezzo di espiazione – li avvicina a Dio – per gli uomini come lei è una dimensione che esiste solo in quanto percepita, una condizione semplicemente da scagionare o da guarire… Per me il dolore fisico è necessità, salvezza: è una fiamma che cancella ogni cosa. Ha mai provato a recidere la vena sul braccio, dottore? Si è mai tolto quella dozzinale giacchetta di sartoria, rimboccato le maniche della camicia e sporcato le mani così rozze, per tagliare la carne e far scorrere il sangue? Sa quanto tempo impiega un corpo umano a dissanguarsi?
Circa otto ore, dottore. 480 minuti, 28800 secondi in cui una pace ovattata ti annichilisce, finché il cervello non si spegne. È facile, come bere un bicchier d’acqua – Dorian sorrise. Nell’immediato, sono le vene ad aprirsi e subito il dolore è atroce: è come se una fiamma raggiungesse la pelle, attaccasse l’epidermide, ma dopo dieci minuti – 700 secondi – è già completamente insensibile. Lei urlerebbe, dottore. Urlerebbe come un maiale che sta per essere sgozzato, avrebbe perfino lo stesso odore. Le piace la carne, dottore? Di certo. A chi non piace il gusto inebriante che si avverte non appena la brace inizia ad arroventarla e l'aroma si effonde nell’aria? Chi non ama l’odore della carne? Gli esseri umani rispondono in maniera istintiva a quella prelibatezza: la loro salivazione si intensifica, lo stomaco langue e non vedono l'ora di affondare i denti nei tessuti dell’animale che hanno accuratamente dissanguato, fingendo di non ricordare che, fino a prima, urlava.
Ma lei voleva sapere del dolore, giusto? Il mio dolore non è un accidente, una condizione transitoria. Io sono Dolore, oltre quello non esiste niente.
***
Dorian si mise in piedi e scivolò fuori dalla stanza con un movimento assai brusco, stringendo i denti per l’intenso indolenzimento muscolare. Le orecchie gli fischiavano, avvertiva delle fitte martellanti alle tempie e le braccia gli facevano male, come se qualcuno gliele avesse afferrate per tirarle con violenza e strappargliele. Nella sua testa scorrevano ancora immagini di lame, sangue e cadaveri che non sparivano nemmeno quando sbatteva le ciglia. Il sogno rimaneva lì, persistente come una maledizione. Era abituato a svegliarsi di soprassalto la notte, a causa di incubi che però rimanevano nient’altro che ombre confuse, eppure in quel momento era diverso. Corse fuori dalla Sala Comune, trattenendo il respiro come se davvero servisse a qualcosa. Si rese conto di star ansimando, per la paura, per essere stato aggredito da un terrore… senza nome. Sapeva di terra marcescente dopo un’esumazione, di dolciastro, come il corpo di un morto adagiato su un letto di vermi e fiori consunti. Come poteva percepire quell’odore? Ed esistere, esistere davvero, come se fosse lui stesso ad emanarlo? Con gli occhi sgranati, lo sguardo perso e disperato, poggiò una spalla alle pietre fresche del muro. Le torce presero a divampare davanti a lui; le fiamme brillavano scarlatte in un movimento continuo, come se fossero sangue. Sentì il labbro tremare. Lo sigillò, disgustandosi con il sapore amaro che gli invadeva la bocca, il gusto della saliva e del digiuno, per poi deglutire a fatica e lasciare che il boccone scivolasse giù nel suo stomaco dolorosamente vuoto. Alla luce soffusa delle numerose fiaccole si fissò le mani, bianche e tremanti come pallidi ragni. Iniziò a camminare, continuando a sfiorare il muro in cerca di un appoggio inesistente. E così, lui che con la sua presenza era abituato a schiacciare tutti gli altri come un martello sul piombo fuso, si era messo ad arrancare; quell’aura diversa, quella paura, fu capace persino di superare la fama di leggendaria freddezza che si era creato negli anni. Indugiò un istante e le sue sopracciglia folte si distesero, mentre il nero sembrava aver coperto ormai del tutto le iridi brillanti ed essersi espanso fin nella sclera. Allora comprese che non vi sarebbe stata pace, che non sarebbe mai scampato al male che si portava dentro, che gli avrebbe dato la caccia per tutta la vita, seguendolo come una creatura silenziosa, strisciando e nascondendosi tra le intercapedini dell'anima e tra le ombre della notte, sempre pronto a divorarlo. Si fermò e scoppiò in una risata, come un folle o un ubriaco. Per tutta risposta sentì delle unghie gelide e invisibili piantarsi nella pelle, simili a un aratro sulla nuda terra; eppure, non smise di ridere. Aveva amato le carezze di Emma, le sue mani delicate sui muscoli delineati, le sue dita leggere sulle spalle robuste, la sua lingua calda sul ventre asciutto e sui capezzoli appena accennati nel latteo mare del petto glabro; nel complesso era come se, nonostante il tempo trascorso dalla sua sepoltura, fosse tornata per vezzeggiarlo, trasfigurata dalla morte in un demonio. Quel giorno, in cui per la prima volta lo toccò da diavolo e non da angelo, Dorian capì di averla persa per sempre e di agognare disperatamente alla punizione. Meritava di essere fatto a pezzi in quel modo, dalle sue mani. Sotto il tocco di quegli artigli, che sembravano volergli squarciare la pelle, flesse la schiena ad arco, contro il muro, e contrasse i glutei sodi, esponendo il torso scoperto e abbandonandosi come in preda ad orgasmo sfiancante. Continuando a ridere, allora, comprese che l’odore era quello di lei: non profumava più di miele e albicocche, di pulito, di vestiti stirati e capelli lavati ancora impregnati di shampoo, sapeva semplicemente di morte.
«Non ho paura» «Me lo merito.» Ridacchiando si abbandonò al buio, e alle sue carezze.
Chiedo venia per il ritardo; ma senza il grande supporto grafico il post non sarebbe stato così piacevole esteticamente. Prometto di essere più rapido.
Ti trovi esattamente dov’eri prima, illuminato dalla luce della torcia sopra di te. Sei a pochi passi dal punto in cui il corridoio svolta e, attraverso una scala, conduce al piano terra. È in atto un fenomeno alquanto bizzarro, che non riesci ancora a scorgere data la tua posizione, ma che puoi intuire: oltre l’angolo, le torce si spengono e si accendono a intermittenza. Al tuo libero arbitrio la scelta su come procedere o, se del caso, non procedere.
Attraverso i vetri le chiome degli alberi sembravano una moltitudine di teste addormentate, indifferenti al chiarore freddo che istante dopo istante si irradiava sulla superficie del lago scivolando giù dalle montagne grigie. I fuochi fatui ardevano, fredde braci azzurre nella delicatezza d’ostrica dell’aurora; il giovane quasi riusciva ad udire il sussurro sommesso degli spettri che vi si assiepavano attorno, affamati di vita. Era solo un altro giorno, in fondo. L’ennesimo. Un altro: infinito, detestato, atteso, desiderato, spregiato, amato. Una nuova occasione. Una rivincita sulla morte; non è così, Dorian? Un leggero velo di polvere sulla superficie lucida dell’elegante mantella grigia adombrava appena le zone in cui la trama e l’ordito si incontravano in un ricamo elegante; ma lui non aveva alcuna intenzione di soffiarla via, poteva rimanere ad accumularsi acaro dopo acaro, impalpabile come i brutti pensieri. Indossava quel capo soltanto una volta all’anno. Per il tempo rimanente restava appeso ad uno degli infiniti attaccapanni del guardaroba. Bastava il suo viso, bianco come il sudario di un bambino, gli occhi scavati da solchi di china e la corona scura dei capelli a farlo sembrare l’ombra di un monarca del passato. Un viso morto, o meglio il volto vivente di un’anima morta. Fuori dal Castello, il vento freddo e pungente della notte non aveva ancora lasciato spazio al tepore del sole.
•[INTERROMPI LA MUSICA]
Era il ventisei di novembre, a lungo quella settimana sarebbe stata osannata, festeggiata e ricordata con nostalgia commossa dagli studenti di Hogwarts nei momenti di stanchezza e di esasperazione. Quel giorno, abbattendosi su di loro dalle labbra di un ragazzo particolarmente bello, la novità produsse l’effetto di una doccia gelida. Sotto shock, anche durante i pasti in Sala Grande tutti continuavano a guardarsi. «Mi chiamo Alexander Lightwood, ma va benissimo anche Alec, e sarò il vostro nuovo professore di Difesa Contro le Arti Oscure!» esclamò entusiasta, con il suo adorabile accento francese. Un’ombra divertita attraversò un paio di liquorosi occhi castani, trasmettendosi alle labbra in un sorriso gioviale. Il supplente sbuffò appena, in imbarazzo per l’eccessiva formalità, maledicendo il momento in cui aveva deciso di indossare quella giacca simil-elegante al posto di uno dei suoi semplicissimi maglioncini blu. Dannato Dorian. Quel lunedì, Midnight era assente. Dal giorno della sua assunzione non era mai mancato nemmeno un’ora. All’inizio nessuno ci credeva. Gli studenti stavano lì ad aspettarlo, immobili e silenziosi, poiché quel suo modo di apparire alla porta come uno spettro, rendeva la sua assenza più inquietante e temibile della sua presenza. Eppure, non arrivò mai. «Ehi, ragazzi! Che sia morto?» Ognuno di loro sentì una corrente di aria gelida. Una voce tremolante sussurrò: «Non sei divertente, Michael.» Poi la porta si spalancò lasciando entrare un nuovo insegnante per l’appello e in quella classe, per la prima volta dopo qualche anno, tornò a brillare il sole. La prospettiva di educare dei ragazzini, insegnare loro qualcosa e perché no, condividere la sua esperienza di auror, lo elettrizzò facendolo fremere di gioia. Aveva accettato subito, pregustandosi i visetti euforici di fronte alle lezioni mirabolanti che avrebbe sottoposto loro. Così aveva avuto inizio quella parentesi temporale che i colleghi avevano definito: regime Lightwood. E fu una settimana in cui i metodi massacranti di insegnamento di Midnight vennero sostituiti da simpatia, spiritosaggine e composta levità. Alec era la sua perfetta nemesi: il ritratto della socievolezza. Anche quando uno studente lo schiantò con violenza al suolo, mandandogli temporaneamente in frantumi un braccio, lui si limitò a liquidare la faccenda con una forte risata e un goccio di vodka, condiviso volentieri in infermeria con una combriccola di amici del settimo anno. «Bravissimo Francis! – esclamò applaudendo nel momento in cui il Grifondoro riuscì finalmente a sconfiggere il molliccio, e poco gli importava se era accaduto al primo, al sedicesimo o al trentaduesimo tentativo – vai fortissimo, oggi! Cinquanta punti a Grifondoro!» Il piccolo svenne per l’emozione. «Ho saputo di quella volta, Lavendér, che gli hai sbraitato contro. Brutta faccenda, brutta faccenda davvero» sgranò gli occhi allibito ed esplose nell’ennesima, calda risata ammiccante. «Dovevate avvelenarlo, ve lo dico io! Bastavano due goccette nel suo caffè amaro. Semplice, insospettabile, ne sareste usciti tutti con le mani pulite...» le fece l’occhiolino, scendendo le scale di fretta. «Complimenti signorina Digòs – pardòn – Rigòs, complimenti! Quella fattura avrebbe dato del filo da torcere al Signore Oscuro in persona, ci può giurare!» «Magnifico Milford, che tecnica impressionante!» «Allora, vediamo di mettere qualche O su questo registro così spaventoso…» La nemesi assoluta, in sintesi. Che fosse persino riuscito a strappare un sorriso alla Bionda Tassina, sempre così austera? In cuor mio credo proprio di sì. Eppure, chi lo avesse osservato attentamente, senza limitarsi ad adorarlo per i suoi modi così lontani dalla freddezza, dalla crudeltà e dall’alterigia del suo predecessore, avrebbe visto in lui qualcosa di Midnight. Erano diversissimi, certo, ma Alexander era come Dorian avrebbe potuto essere. Forse perché quando si ama per una vita intera una persona che non cambia, si è destinati ad incorporare inconsapevolmente ciò che di bello si scorge in lei.
•[FALLA RIPARTIRE]
Non guardò la neve; non si accorse neanche della sua presenza. Sdraiato sulla nuda terra, Dorian, respirava con gli occhi chiusi, impercettibilmente affannato.
Lei c’era. Era al suo fianco; la mano amica posata sul suo torace, una forza tiepida oltre il freddo marmo del sepolcro. Troppo preso da se stesso, il giovane non faceva mai caso al calendario. Eppure ogni anno, quello stesso giorno, era lì con lei, a commemorare il loro anniversario e il momento della sua morte. Persino con tutto il tumulto che lo circondava, la sete di gloria, lo studio e il lavoro, percepiva l’avvicinarsi di quella data; era come se la terra si spostasse sotto i suoi piedi richiamandolo. Era una sorta di ronzio, la sensazione che si ha nella testa quando si emette un suono a bocca chiusa, ma in tutta l’anima. Egli era insolitamente consapevole della propria superficie esterna, delle linee del suo stesso corpo e dei contorni del proprio viso, così come sapeva d’istinto che in quel giorno dell’anno la sua pelle sarebbe stata vivificata da una sottile vibrazione. Era parte di lui. Solo quando si faceva sera e il mondo iniziava ad essere avvolto dalle tenebre, riusciva a rivedere il volto di Emma. Non era un fantasma che infestava il cimitero, né un’apparizione; semplicemente, nel momento in cui si ha la consapevolezza che presto calerà il buio, è necessario scegliere un’immagine da portare con sé nell’oscurità. Da bambino collezionava fiori, raccoglieva i papaveri tra le spighe, giocava con gli steli fragili dei nontiscordardimé, si perdeva nell’immensità gialla dei girasoli; si inebriava dell’odore di paglia che lo circondava e fissare quell’incredibile mare d’oro gli toglieva il respiro. Negli anni, quelle poche volte che gli era capitato di perdersi con lo sguardo su di un campo di girasoli, sempre un volto gli era balenato sotto gli occhi. E in quel momento i suoi contorni si facevano definiti; la linea della fronte si delineava, le sue labbra si aprivano in un sorriso e i suoi capelli… i suoi capelli avevano l’odore dei girasoli. Alla fine non resse più. Le palpebre orlate di nero persero una lacrima.
Un brillante, in un viso bianco come la neve. Una goccia di sangue, su una mano ferita dalla spina di un rododendro.
***
Dorian ebbe come l’impressione di cadere tra le tenebre in una scia di fuoco e di etere. Non respirava più. Era tutto godimento e follia – non era più necessario disperarsi, alzarsi, fuggire, correre, pregare, poteva soltanto cadere. Non avrebbe mai smesso di sprofondare. L’inferno era senza fine e la sofferenza aveva la sua logica. Il suo corpo si curvava nel ricordo di lei, si premeva e spasimava, alla ricerca dell’incastro perfetto – molte volte aveva sentito il battito del cuore di Emma accelerare in frammenti di desiderio; lei gli si avvicinava e mormorava, svegliandolo mentre lo attraeva a sé e poi, morbidamente, dentro di sé. D’improvviso una fiaccola si riaccese e tutto finì. Dorian crollò in ginocchio, puntellandosi alle mani – i lunghi capelli madidi di sudore ai lati del volto come i petali di un’orchidea nera – e aprì gli occhi, febbricitante. L’incubo lo aveva portato con sé talmente in fondo che era arrivato al di sotto del pensiero, in un abisso di pura sensazione. Tutte le sue paure erano state spogliate nella loro essenza, svelate per la prima volta nella loro indicibile forza e intollerabile perversione. Non era più conscio del fatto che stesse sognando, o che non lo stesse facendo. Non era più consapevole di essere vivo, o di trovarsi all’Inferno. Mentre si rimetteva in piedi, le luci sembravano aggrapparsi alle curve del suo corpo e delle pareti, fragili diagonali lampeggianti dal mistero indecifrabile. Dopo essersi arenato come per l’infrangersi di un’onda, ricominciò a camminare, rituffandosi d’improvviso nella realtà. Espirò con un brivido e provò ad avvicinarsi alle scale, mentre il petto rinunciava alla dolce stretta della morte. Persino l’odore di Emma gli parve che se ne fosse andato.
In questo post, ti spingo ad affrontare una sfida diversa, giocando un po’ sul contrasto con il tenore delle linee precedenti. Sei in preda ad una condizione estatica che l’ambiente meno lugubre del piano terra (e non solo) ha favorito. Sono rimasto volutamente vago sul genere di percorso che intraprendi perché vorrei lasciarti la libertà di tracciarlo da te e di riempirlo delle emozioni, dei gesti e, perché no, dei ricordi che preferisci. Hai due soli limiti: rimanere al piano terra e la meta, il giardino, che ho già precisato alla fine del post. E hai un solo consiglio da parte mia: sii intenso come hai fatto finora, ma cambia registro (se ti riesce) ed evoca una versione di Dorian che non esiste, ma che avrebbe potuto. Non avere paura di osare! Se c’è una cosa che il tenore di quest’avventura ti permette, è uscire dal seminato in cui spesso si è costretti a muoversi quando si caratterizza un personaggio. Oh, e la creatura sul finire è — se non fossi stato abbastanza chiaro — un Patronus. E sei stato tu a evocarlo!
Se dovessi avere dei dubbi, rimango disponibile via MP.
Quando Jacob Ward vide per la prima volta Iris, storse impercettibilmente il naso, con aria disinteressata. La conosceva solo per fama. Di certo era una bellissima donna, poco più giovane di lui, ma, al San Mungo, veniva additata come strana. Secondo i pettegolezzi che circolavano per l’ospedale, era solita portare a termine il suo giro di visite canticchiando. Oppure, quando non era impegnata in Sala Operatoria, passava ore ed ore in ufficio ad esercitarsi con l’ikebana, nella convinzione che giovasse alla concentrazione e rendesse la mano più ferma. D’altro canto, eccetto qualche eccentricità, le rare volte che gli era capitato di incrociarla, aveva notato solo due intensi occhi color cannella, dal taglio a mandorla, e un sorriso dolce sul volto delicato. Peccato per l’aria di sfida che brillava, sempre e comunque, in quelle iridi penetranti, e per la malizia che le aleggiava sulle labbra morbide, indispettendolo tanto. Ogni mattina tutti si rendevano conto dell’ingresso di Iris in ospedale, troppo storditi dall’improvvisa, inspiegabile, ventata di leggerezza che che portava con sé, simile ad un mutamento nel ritornello di una melodia. Vestiva sempre con gusto, indossando abiti eleganti o gonne ampie e romantiche, e camminando sembrava che danzasse, seguendo il ritmo di note udite solo da lei. I lunghi capelli ondulati, color del rame, ondeggiavano assecondando il movimento flessuoso del corpo; i piccoli piedi calpestavano rapidamente le piastrelle asettiche dell’ospedale. Sinuosa, salutava; sorrideva; danzava e si muoveva seguendo una corrente che nessun altro poteva percepire. «Buongiorno Iris… bella giornata, vero?» Aveva accennato Jacob, una mattina, sentendosi tremendamente a disagio di fronte alla presenza della dottoressa – capitava di rado che dovessero far visita agli stessi pazienti – ma lei non si mosse. Notò che si dondolava sulle punte dei piedi, lasciando fluttuare le cartelline che stringeva tra le mani, mentre aspettava che l’infermiere finisse di preparare i malati. «Sai che si parla del tempo quando non si hanno altri argomenti di conversazione?» Celiò lei, con candore. Jacob lanciò un’occhiata infastidita al suo volto sorridente, e per un attimo desiderò morsicarla. Era stranito, nervoso, irritato da quella presenza al suo fianco. «Non di meno, è una bella giornata.» Borbottò, guardandosi le palme delle mani, nella speranza di apparire cordiale. Si ritrovò a pregare che il giro iniziasse. Tornò ad ignorarla per un tempo che gli parve interminabile, aspettando che la preghiera venisse esaudita, ma non fu così: Iris era ancora lì. E sorrideva. Maledetta. «Posso fare qualcosa per te?» Domandò. «No, niente» «Allora perché non entri?» avrebbe voluto chiederle. Si trattenne, per amor di cortesia, limitandosi a tacere. In fondo era una collega. Non poteva essere sgarbato. «Non puoi visitare i pazienti della sette?» chiese, trattenendo l’insofferenza. «Ti do fastidio dottor Ward?» Era una sua impressione, o c’era dell’ironia in quella domanda? La porta si aprì e l’infermiere uscì trafelato, lasciando spazio ai medici. Un forte odore di sanitizzante, alcol, detergente e panni sporchi giunse alle sue narici, facendogli storcere il naso in un moto di disgusto. Con un sospiro di sollievo il ragazzo entrò nella camera preparandosi a visitare un’anziana donna inferma; non fece in tempo a fare due passi, però, che si rese conto che le cartelle cliniche erano tra le dita sottili della collega. La ragazza lo studiava, sorniona, dall’altro lato della porta, agitandogli i fascicoli sotto gli occhi. «Cerchi questa, dottore? Dovresti essere più ordinato…» «Piantala, va bene? Perché mi tratti così? Che ti ho fatto?» ringhiò, avvicinandosi a lei in malo modo. Iris rise, e fu una risata limpida e cristallina. Porgendogli i fogli gli si avvicino indiscretamente, facendolo arrossire, e soffiò, a pochi centimetri dalle sue labbra: «Vorrà dire che te le ricorderò io...»
Quando Jacob pronunciò il fatidico “sì” che lo legò per sempre a lei, non avrebbe mai sospettato che quel “finché morte non vi separi” avrebbe suggellato per davvero un amore eterno. Studiò i suoi occhi in cerca di un assenso e lo trovò. Lei glielo diede spontaneamente. Fu come un filo si luce che passò dall’uno all’altra, e fu più di un semplice assenso. Fu complicità e amore. Il respiro di Jacob si fece affrettato. Fece un passo in avanti, chiudendo quel piccolo spazio. Le mani del ragazzo si chiusero sulla sua vita sottile. Le braccia di Iris gli circondarono il collo. Poi lei si alzò in punta di piedi, eliminando l’ultimo piccolissimo spazio tra i loro volti imporporati.
Midnight aveva conosciuto Ben all’inizio di quell’anno, quando il piccolo Hunt si era trasferito da New York a Londra. Benjamin – bambino biondo e scavezzacollo, vero incubo di ogni insegnante di Hogwarts, in pochi mesi aveva fatto perdere a Grifondoro più punti di quanti, in media, una Casa riuscisse a guadagnarne nell’arco di un intero semestre; ma lui, disinteressato, semplicemente si limitava a ridere e fare spallucce, sgranando gli enormi occhi blu. Dorian non ricordò mai quale fu il giorno in cui decise di diventare suo amico, ma fu sempre consapevole del perché. Il ragazzino non era amato da nessuno; troppo vivace, troppo allegro, troppo… un po’ troppo tutto. Lui, dal canto suo, negli anni della scuola aveva esercitato sui suoi coetanei un’attrattiva assai maggiore, quasi magnetica, ma molte volte si era sentito ugualmente solo, forse a causa del modo di fare gelido e supponente che scoraggiava qualsiasi tentativo di amicizia. Aveva sempre cercato, eccetto quei rarissimi casi che si contavano sulle dita di una mano – uno in particolare sarebbe diventato sua moglie – di non farsi avvicinare da nessuno, sebbene amasse avere il controllo sugli altri. Ben, al contrario, permetteva a tutti di diventare suoi amici, ma nessuno lo voleva. Alla fine, aveva stabilito che lui e il bambino sarebbero diventati alleati, proprio per un meccanismo di compensazione. Nella vita si cresce e si cambia, in fondo. No? Quella mattina, prima della lezione di Difesa Contro le Arti Oscure, Benjamin, aveva deciso – forse per stabilire un contatto con un altro essere umano al di fuori di un soliloquio ininterrotto – di lanciare via i libri di un suo compagno. Emmett Cox, vedendo il proprio materiale volare per terra, aveva stretto le piccole mani a pugno, fino a far sbiancare le nocche. Sembrava sul punto di lanciarsi contro il maleducato, ma dopo essersi torturato il labbro inferiore, temendo l’ira di Midnight, pareva aver soppresso la rabbia e li aveva semplicemente raccolti, per rimediare al danno. All’ennesimo tentativo fallito di attirare la sua attenzione, Ben non ci vide più e gli fece il verso, oltraggiandolo una volta di troppo. Fu la fine. Era scattato qualcosa nell'altro che, balzato in avanti, gli aveva tirato un pugno. Dopo un attimo di smarrimento lui aveva reagito ed era scoppiata la rissa. Quando Dorian entrò in aula calò un silenzio raggelante e ciascuno fu inchiodato al suo posto. I bambini avevano chinato il capo di fronte agli occhi d’oro carichi di rimprovero; Midnight aveva fissato con aria di sufficienza i due rompiscatole e aveva sbuffato. «Ma Professore… ha cominciato lui! Mi ha dato…» «Sono sicuro che ti ha dato noia! – aveva esclamato, fulminando Hunt con lo sguardo, per poi rivolgersi, severo, a entrambi. – Non è vero, Benjamin?» Il ragazzino si era morso nervosamente il labbro inferiore, alzando lo sguardo sul professore: «Emmett ha ragione – aveva farfugliato a voce incredibilmente bassa, ma comunque udibile nel silenzio incredulo dei presenti. – Io gli ho buttato via i libri, non è colpa sua.» «E perché lo avresti fatto?» domandò Dorian, abbassandosi e incatenando i suoi occhi nei propri. Il piccolo lo benedì, perché quella domanda alleviava un poco quel peso che gravava sul suo cuore di bambino. «Perché quando gli parlo non mi risponde mai…» sussurrò, distogliendo lo sguardo, e si sforzò di ricacciare indietro le lacrime. «Nessuno mi risponde, a dire il vero...» Mai come in quel momento, il giovane fu felice di trovarsi in quel castello e, incurante dei lampi di paura che trasformavano in marmo i volti degli studenti, accolse quella confessione con un sorriso triste. «Non entrerò nel merito della questione anche se, per come la vedo io, chiunque avrebbe bisogno di un amico onesto come te, capace, per lo meno, di assumersi le proprie responsabilità!» Nella sua voce echeggiava l’incoraggiamento al cambiamento e alla rivoluzione, e, in fin dei conti, anche loro, come tutti i bambini, vivevano lungo l’onda del momento, senza curarsi del futuro: un momento prima si giuravano odio eterno, un momento dopo erano migliori amici. «Vi prego, però, se dovete fare a botte, di farlo come Dio comanda, o si dirà che sono un pessimo insegnante!» esclamò a voce alta, raggiungendo la cattedra. Gli studenti ridacchiarono e, rasserenandosi, presero posto. Beffardo e scanzonato; le labbra pallide piegate in un sorriso e gli occhi brillanti di una certa incoraggiante ironia, Midnight era imprevedibile. Nonostante il loro primo anno fosse iniziato da poco, l’avevano già capito piuttosto bene. «Rimanderemo quella noiosa lezione sulla classificazione delle creature oscure a mercoledì prossimo, adesso non badate troppo a mettervi comodi…» I banchi, come sospinti da una forza invisibile, si ammassarono ai lati dell’aula e il grande spazio fu sgombro da ogni ostacolo. «Dunque. Posto che siamo giovani streghe e giovani maghi – e non ramapitechi ipodotati – vediamo di imparare qualcosa di più raffinato. Il duello magico è un’arte.» Le parole si persero nell’aria tiepida della giornata autunnale; c’era una tale elettrizzata euforia in quella stanza, infatti, che nessuno riusciva più a capire niente. «Svelti! Formate delle coppie... Cox, Hunt, voi due insieme.» Indicò i ragazzini – si fissavano nervosamente – e notò come si fosse acceso in loro un interesse reciproco che trascendeva una prospettiva semplicistica di regolazione dei conti. E così gli incantesimi colorati cominciarono a danzare. Il respiro degli studenti usciva in rapidi sbuffi e le risate si ricorrevano l’una dietro l’altra. Nelle loro menti si affacciavano antiche guerre e ombre di maghi oscuri, duelli all’ultimo sangue e trofei d’oro zecchino pesanti come scafi di navi. Fantasie così portentose che schiudevano l’anima all’apprendimento con una lucentezza abbagliante. Questo era il piacere dell’insegnamento. «Attento Sam, sfregando così la bacchetta rischi di diventare cieco… e tu JJ, per favore…» «DORIAN!» Christopher aveva d’improvviso fatto irruzione nell’aula come il tuono, come un'esplosione, come l’urlo di guerra dei greci che avevano nettato il mondo dalla piaga persiana. «Emma… è stata portata al San Mungo! Urania era a Londra… è già là!» Quelle parole lo schiacciarono come una repentina variazione nella forza di gravità. Nel vivo della lezione, innescarono in lui un’emozione talmente nitida che uno scorcio di realtà lo avrebbe scioccato. In un istante prese il soprabito, gli affidò la classe e corse… …corse…
I suoi genitori erano sempre fuori per lavoro, per questo si era raccomandato, non senza minacce da parte di se stesso, che non avrebbe mancato nemmeno un momento importante nella crescita di suo figlio: ci sarebbe stato quando avrebbe imparato a camminare, quando avrebbe messo il primo dente e anche il primo giorno di scuola. Quella mattina era riuscito a mantenere la promessa fatta per un soffio e, entrando nella camera poco illuminata, con Emma addormentata e il neonato allacciato al seno caldo, coperto da un plaid in pile e da una discutibile coperta con gli orsetti, non riuscì a non pensare che quello fosse davvero un buon modo di adempiere al giuramento. Il giovane professore ebbe la sensazione che fossero loro il centro di quella piccola galassia irreale, e che in realtà fosse lui a sognare e non Emma. Non seppe cosa glielo fece fare. Fu talmente strano per lui, che ancora aveva difficoltà ad esternare l’affetto. Allungò un braccio e prese la mano del bambino – con delicatezza – e la tenne nella sua. Era piccola, liscia, calda, molto reale. Poi baciò la ragazza a fior di labbra. Sentì il tepore della bocca di Emma sulla sua. Un’esplosione di connessioni; fu la sensazione di essere stati soli e smarriti nelle tenebre e poi, all’improvviso, non più. «Sei in ritardo, Midnight» sussurrò lei, svegliandosi. Il suo sorriso sembrava un cuore pulsante stretto a quello del marito. «Stavo dimenticando il soprabito, sono tornato indietro…» Continuarono a guardarsi in silenzio, incantati, poi il volto della donna si illuminò di un sorriso entusiasta. «E una bambina, D…» la sua felicità aveva una massa, come un corpo vero. Quella rivelazione, come una falce, tranciò i fili che stavano trattenendo le emozioni di Dorian. Pensò che la propria mano, avvolta a quella della neonata, fosse l’unico appiglio che gli impediva di precipitare. «Credo che abbia i tuoi occhi, ma è ancora presto per dirlo» «Oh», sussurrò.«O forse non ha né i miei né i tuoi, ma un colore tutto suo…» Nessuno dei due, alla fine, riuscì a trattenersi. Lui le posò un bacio sulla fronte, su ogni palpebra, su ogni guancia inumidita dalle lacrime, e alla fine sulle labbra. Leggero come l’ala di una farfalla su un frutto maturo, morbido come un’albicocca. Lei gli accarezzò gli angoli della bocca, acuti come mezzelune, là dove viveva finalmente il suo sorriso.
Quando intravide da lontano il proprio riflesso nell’acqua del lago, le sue ciglia si schiusero tremolanti e le sue labbra ebbero appena il tempo di toccarsi e lambirsi dolcemente prima che le lacrime filtrassero dagli occhi, sfiorassero l’ala delle sue fantasie e – in uno sbuffo color argento – le distruggessero. Il suo patronus non originava da un ricordo, – non ne aveva molti di belli – ma da una semplice fantasia. Era un futuro che spesso aveva immaginato, e che mai, ora lo sapeva, si sarebbe realizzato. Le fantasie, quando non hai ricordi, non sono necessariamente meno intense. Ed è veramente così. I desideri hanno i propri ritmi, i propri abissi e le proprie temporanee durate; ed ora che la logica del mondo reale era arrivata nel suo sogno di traverso, come un raggio di fuoco che penetra la rigogliosa superficie della foresta, Dorian aveva cominciato a capire che niente era vero. Era stata una visione fugace, evanescente: una chimera. Ma la voleva. Voleva Emma tra le sue braccia. La voleva nella sua vita. La voleva non intrappolata all’Inferno, non braccata dal male né assediata dagli incubi che gli facevano visita ogni volta che chiudeva gli occhi. Voleva portarla sulla sponda di quel lago e fare il bagno con lei. Voleva studiare con lei in biblioteca e respirare l’odore dei libri, aprirli e leggerli insieme. Ma, prima di ogni cosa… prima di ogni cosa voleva tanto, tanto, tanto fare l'amore con lei di nuovo. Sotto il velo della notte, quasi totalmente inconsapevole, era arrivato fino lì, a un passo dal Lago Nero, e la disperazione aveva ripreso a sgorgare in rivoli salati sulle sue guance di seta.
… To an imperial few The Auroral light.
Centinaia di alberi, decine di varietà, svolazzavano nel vento primaverile, riversando sul prato una cascata di fiori. I tralci avviluppavano la pietra e le piante vi si aggrappavano sopra come anemoni o libellule appoggiate. Era uno spettacolo incredibile, illusorio. A volte si riusciva a dimenticare dove ci si trovasse. La ragazza fu colta da un nodo alla gola e si sciolse lentamente il foulard dal collo. Inspirò a fondo il profumo della terra e spostò lo sguardo sull’orizzonte. La messaggera degli dei, colei che le aveva donato il nome, regalava al mondo un’alba scarlatta. Iris era figlia della tenebra, vivevano dentro di lei le ombre della malinconia e della perdita; ma anche della luce, e col suo sorriso restituiva i colori alle cose. Volava in un cielo immenso, e c’era la pace. In un vasto mare nero la luna la chiamava come un segnale luminoso; non le faceva paura la mezzanotte, perché era piena di colori, e le stelle, fuochi alti e azzurri, brillavano come cuori di angeli.
Si tolse le scarpe e proseguì sull’erba fresca. Quella mattina, aveva lasciato Jake che ancora riposava, salutandolo con un bacio sulla fronte tiepida. Lui si era rigirato nelle coperte per un attimo, aveva mugugnato qualcosa che suonava come un saluto stiracchiato ed era tornato a dormire. Prima di andare all’ospedale si era smaterializzata in quel luogo alle pendici delle montagne; lontano da Londra e da tutto ciò che essa rappresentava – vita, famiglia e lavoro –, alla ricerca di un passato doloroso da ricordare, e per questo, sempre vivo e lucido nella memoria. Sorpassò gli ultimi ciliegi che la separavano dalla radura, meta della sua interminabile passeggiata. Si chinò e raccolse un fiore chiaro – unica nota bianca in quel giardino così colorato – lo carezzò con i polpastrelli delicati sorridendo ai boccioli non ancora spuntati. Iris amava i fiori, più di quanto avesse mai amato altro al mondo. Aveva ereditato la passione da sua madre. Era cambiata. Molto, rispetto all’ultima volta. Il suo corpo non era più snello e flessuoso, ma leggermente morbido sui fianchi, fasciati dalle linee severe del tailleur grigio. O forse era solo lo chignon marziale che le costringeva i capelli sulla nuca a conferirle un aspetto austero. Però era incredibilmente bella. Lo era sempre stata. Ed era buona. Anche se un velo di tristezza le colorava quegli occhi color cannella – come un raggio di sole filtrato dal sottobosco d’autunno – intenti a contemplare un passato lontano, riflesso nelle fredde lapidi che portavano incisi i nomi dei suoi genitori. Era l’aurora, figlia del giorno e della notte. Era l’aurora, quel momento in cui gli astri, fiori di luce, baciano il sole e tutte le ombre scompaiono.
La presenza che ti tormenta ha finalmente — se non un volto — quantomeno un nome: Strigoi. Si tratta di uno spettro molto particolare, che ho deciso di legare al rito di evocazione menzionato nel primo post della presente quest. Ti invito a consultare il link che segue per avere un’idea più chiara dello Strigoi (capitolo 4, paragrafo 4.5): click.
L’aria era pregna di rumori soffocati, di bisbigli e di sussurri che si intrecciavano tra le tenebre. Con un sospiro, Dorian si costrinse ad avanzare. Il suo viso era velato dalla stanchezza e dall’assenza. Stava chiudendo un capitolo della propria vita, o forse l’intero libro. In bocca avvertiva il sentore mischiato di sigarette, digiuno e di pessima vodka dall’odore e dal gusto scadente. E, adesso, a quella sinfonia fastidiosa di sapori, si aggiungeva l’aroma della solitudine. Era così simile a quello delle lacrime che quasi non riusciva a distinguerlo. Gli bagnava il viso e si mischiava al sudore in un vortice di grigio trasparente. I polpastrelli lo catturavano, le labbra lo assaggiavano. Il freddo della notte lo disperdeva sul resto del corpo. Quando il patronus scomparve, inabissandosi tra le acque del lago come il relitto di un naufragio, Dorian si mise una mano tra i capelli, cercando di ricordare il momento in cui l’aveva evocato. L’incantesimo aveva portato con sé i segni di un tempo che non credeva fosse esistito, ma ormai non c’era nulla da fare. I ricordi gli erano stati incisi nello spirito dallo scalpello di un dio crudele che era incapace di donare la dolcezza dell’oblio.
Qualche anno più tardi
Le mani scivolavano avide sulla carne, plasmandola con bramosia. Le dita carezzavano le forme morbide e voluttuose; una lieve pressione, uno sfiorarsi… il corpo si trasformava sotto il suo tocco, seguendo la volontà dell’artista. Lo sguardo d’oro si poggiò compiaciuto sulla propria opera; osservò la pelle umida che fino ad un momento prima accarezzava con grazia; la studiò e assaporò il profumo che ancora emanava. Le carezze erano tutto. S’intersecavano con inaspettata armonia e danzavano sotto alle mani laboriose. Così i vestiti cadevano a terra; abbandonati, inutili… Il capo si inclinò, plasmato da un tocco leggero e deciso. Erano labili carezze che modellavano un corpo. La ragazza si abbandonò alle mani dell’amante; si lasciò trascinare dal lento ritmo della passione. Il volto era contratto; gonfio di lussuria e di piacere; desideroso di essere soddisfatto.
Midnight guardava verso destra, con gli occhi sgranati e le pupille dilatate fisse sulla finestra dove ogni tanto si posavano i colombi. Non avevano scopato. Si erano assaggiati, gustati vicendevolmente, facendo fruttare il tempo. Aveva ritrovato nel sapore di quella ragazza quello di Emma: sapeva di buono, di vita, di una voce capace di cantare. Era il sapore di chi non si faceva abbattere da nulla; di chi era abituato a lottare. Era, però, anche il sapore di gioia, di carezze e di baci regalati con trasporto e non con smania di piacere. E quel sapore aveva rovinato tutto. Benedì di non aver concluso, non sarebbe più stato capace di vedere Emma se fossero finiti a letto insieme. Dorian non era solito ricordarsi la gente con cui stava, o meglio: non era solito ritenere interessanti i soggetti con cui lo faceva. Era convinto che il sesso fosse la chiave che gli avrebbe permesso di vivere, il momento in cui l’Olimpo dorato dell'orgasmo gli avrebbe spalancato le porte annullandolo, ma non poteva permettersi di sporcare il ricordo di Emma profanando i suoi occhi di miele con il blu di quelli della ragazza. Le lanciò un’occhiata, stava dormendo. Studiò i fili rossi che incorniciavano il volto e le labbra morbide appena socchiuse. Si chinò a baciarle, fermandosi a pochi millimetri dalla bocca. Accese una sigaretta. Si infilò i pantaloni, la giacca e uscì fuori, nell’aria fresca della notte di Parigi.
Dopo Emma non seppe vedere più nessuno.
***
Il nero delle tenebre tracciava cupe linee oleose sulla superficie della luna, macchiandone la purezza come china su carta di riso; la infestava, la sporcava e nella sua mutilazione ne esaltava la bellezza. Alcuni animali intonavano i loro canti lugubri, un torrente di vento trascinava foglie morte e fili d’erba in un vortice di commiato e tristezza.
Lui è lì, e fa scorrere torrenti di fuoco sul capo cornato d’oro dei re; sui pepli sottili di Cleopatra, di Semiramide e di Medea terribile. Precipita al suolo, in preda agli spasmi, le statue degli angeli. Brucia cattedrali e arde bambini sui roghi. Non si distinguono, tra le fiamme, né la forma dei suoi occhi a mandorla né i suoi lineamenti divini. Fiumi di porpora grondano dalla sommità dei suoi riccioli, frammisti alle tenebre: le sue membra forti, avvolte nei serpenti, si muovono nel vento. Il sangue gli cola sulla pelle, come lacrima di pino. E’ la danza del diavolo.
Frenetiche le dita lasciarono la bacchetta; spasimando nell’aria come colui che vede il corpo dell’amante voglioso e ha fretta di raggiungere il piacere. Cadde la vestaglia grigia. Il vento era la mano che sfiorava le delicate linee delle spalle; accarezzava voluttuosamente il torace e le cosce.
Dorian cammina sulla passerella come un acrobata su un filo di cristallo.
E presto smise di essere solo una corrente d’aria fredda e divenne lingua, bocca, mani, corpo. Lo sedusse e lo accarezzò; e lui rispose come la più voluttuosa e pretenziosa delle cortigiane.
E’ una danza d’amore quella che li unisce, che li spinge ad avvilupparsi in un abbraccio infinito. Bocca. Mani. Carne.
Tutto avanzava in rapidi spasmi frenetici. Il demone era solo il muto testimone di quel sacro amplesso; avrebbe potuto osservare soddisfatto il congiungersi e disgiungersi dei due amanti. Dorian era diventato solo movimento: puro, semplice e seducente movimento verso la fine. Le sue dita intrecciate in preghiera.
Educ de cordis nostri duritia lacrimas compunctionis
Due fermate sono abbastanza per arrivare all’Inferno?
La voce del conducente è metallica, artificiale: esce robotica dagli altoparlanti nel corridoio pieno di gente. Bambini col viso corroso dall’acido, uomini che si raccolgono le viscere e tentano di rimettersele nella pancia, giovani innamorate morte suicide. Dorian non li sente, perché legge Rimbauld – una vecchia copia rilegata che ha acquistato ad un mercatino delle pulci – ha la fronte poggiata contro il finestrino e la sensazione del vetro freddo sulla pelle gli fa chiudere gli occhi, lo aiuta a rilassarsi per un momento. Il ricordo di Emma è tutto ciò che possiede. Insieme al suo vecchio libro, alla foto di K. e Urania che gli sorridono durante una giornata di sole e alle sue collane, lunghi fili d’argento che terminano in un esile crocifisso. Insieme al sogno di scomparire. Insieme al sogno di non essere mai esistito. Forse è quello il suo inferno. L’abitacolo di un treno illuminato da piccole lampadine fredde, disposte sul soffitto a file ordinate. Sembrano stelle artificiali, nebulose chimiche che cingono la testa di un martire senza Dio. Nel momento il cui la porta della cabina si apre, il libro gli cade a terra lento lento e un uomo con i denti aguzzi fa il suo ingresso, sogghignando estasiato; gli occhi colmi di piacere malcelato brillano nell’ombra come due rubini. Parla con voce sinistramente allegra, sibilante, ridanciana. Nel taschino sinistro della giacca ha un fazzoletto di seta vermiglia. E’ una tintura strana, oleosa. «Devi scendere ragazzo! Devi scendere!» «Si sbaglia, ho pagato il biglietto…» Ora il suo volto sembra quello di una bambola di porcellana, di un demone orientale. Le luci all’improvviso si spengono.
***
Schiuse le palpebre lentamente, con il fastidio di un neonato, sebbene non vi fosse più nulla di fanciullesco in lui: quei grandi occhi dalla forma a mandorla avevano lo stesso taglio affilato di quelli un serpente e avvelenavano con l’odio ogni cosa su cui si posavano. Tra le coperte non tentennava, non vacillava; levò lo sguardo con fierezza e fissò l’uomo davanti a sé, le labbra morbidamente serrate a impedire che una smorfia di fastidio potesse spezzarne la linea deliziosamente cesellata, era serio. «Come Caposcuola mi è concesso allontanami dal Castello; anche di notte se lo ritengo opportuno.» La sua bocca ebbe un solo momento di esitazione, come di chi inizi a parlare d’improvviso dopo un silenzio lungo anni, poi la sua voce si fece usualmente musicale e decisa. «Si sbaglia professor Reeve. Credevo che qualche studente fosse uscito per una scappatella notturna. Mi è parso di vedere qualcosa tra le acque, ma temo di aver preso un granchio, letteralmente.» La menzogna sulle labbra morbide gli faceva il solletico, eppure si espresse in maniera assertiva, senza esitazione, guardandolo negli occhi a testa alta. «Non mi sono sentito molto bene, ho passato la giornata a studiare e mi sono scordato della cena – tacque per un istante, le sue mani fredde andarono a posarsi sulla vestaglia alle proprie spalle – ero come ipnotizzato dalla stanchezza… se non mi avesse soccorso suppongo che avrei fatto un bel tuffo.» Si scostò i capelli lunghi dalle spalle, portandosi le gambe al petto nudo e pallido. Due occhiaie profonde gli solcavano le palpebre, ma scomparvero nel momento in cui regalò al professore un sorriso così bello da togliere il respiro. «Non pensavo amasse passeggiare anche lei, la sera. Non con questo clima, almeno...» Era naturalmente simpatico, leggero. Si morse le labbra scanzonato, le sue espressioni briccone ispiravano un’innata bonomia. «In ogni caso debbo ringraziarla, per quello– sospirò di sollievo vagando con lo sguardo sull’ambiente austero, ordinato, formale dello studio – e per questo» concluse, alzando il bicchiere. Aveva la bocca secca e le labbra terribilmente aride, come fossero trascorsi anni dall’ultima volta in cui avesse bevuto un bicchier d’acqua. Il cognac non lo sentì nemmeno, lo trangugiò in un sorso profondo e dolcissimo allo stesso tempo. Poi ricordò che era disdicevole che un ragazzino bevesse e i suoi occhi, così inespressivi, imperscrutabili, spaventosamente vuoti, si fecero più liquidi. Arricciò le labbra, come a voler rimarcare la durezza del liquore; gonfiò appena le guance. Calcolò il tempo della deglutizione – finse emozione, sorpresa, smarrimento – e di colpo il suo viso tornò a sorridere. Freddo, glaciale, ieratico.
Era incredibile come sapesse trasformarsi da voluttuosa pantera che si acquatta sul manto erboso a graziosa fanciulla, che esce di casa devota per recarsi alla catechesi domenicale.
Le parole dell’uomo gli arrivarono alle orecchie. Non avevano colore, erano l’aria della notte che cala come una cortina di velluto sul palcoscenico di una battaglia sanguinosa. Non era un avversario qualunque. Aveva fronteggiato molte persone nella sua breve esistenza, e mai i suoi occhi, o la sua voce, avevano tradito il più lieve senso di incertezza. In quel momento era diverso; la figura granitica di Reeve gli restituiva l’eco stentorea della verità proprio come fanno le rocce in una grotta. Aveva mentito, si era addirittura convinto di ciò che aveva detto, e il professore aveva colto niente più, niente meno della nuda e cruda realtà dei fatti. Eppure, Midnight non fece l’errore né di assottigliare le palpebre, indignato, né di spostarsi di un solo millimetro. Non una punta di fastidio o di lusinga gli si dipinse sul viso o nelle iridi, brillanti nonostante la stanchezza. Seduto con la testa poggiata allo schienale, sprofondò nell’oscurità per un attimo – chiunque avrebbe scambiato il gesto per un lento battito di ciglia. Il boato di un tuono seguì il lampo abbagliante dei ricordi e lui sospirò ripensando alla nottata. Volentieri sarebbe esploso in una risata maligna, interrompendo il discorso di quel profeta improvvisato. Deliziato, avrebbe cominciato, con lentezza, a raccontare di come amasse incidersi le vene con il coltello e assumere droghe fino a quando il cervello non si trasformava in un disco scuro, liquido, informe. E avrebbe provato un intimo, immenso, mordace piacere a vedere che, pian piano, Reeve si indignava, scoprendo la sua adorazione per il diavolo e venendo a sapere che aveva ucciso senza scrupoli, con le sue stesse belle mani.
E che l’avrebbe rifatto, potendo. Anche in quel momento, se necessario.
Ma non era sciocco né ingenuo, conosceva la fama che accompagnava il professore – la sua voce e le sue dita avevano gesti indecifrabili ed era distante in tutto ciò che faceva, come se rimanesse volontariamente impigliato negli strascichi dell’ombra, nei filamenti della sostanza grigia ed impalpabile che lo avvolgeva. Dorian guardava al mondo cogliendo nel dettaglio ciò che lo circondava, vedeva distintamente colori che altri nemmeno intravedevano. Sotto le sue labbra increspate in un mezzo sorriso beffardo, oltre agli zigomi affilati, immobili in un’espressione perenne di assoluto rigore aristocratico, analizzava attentamente tutto ciò che gli stava attorno; assorbiva i modi delle persone, le loro pose e i loro pensieri, così da potersi insinuare, pian piano, nelle molli intercapedini delle loro anime con le sue sillabe di seta. Ed era davvero bello accarezzarne i cuori, percependo il dolce rilievo delle loro debolezze, così simili a venature nel palpito dell’iride. Era quasi sul punto di rispondere, quando, le parole misurate di Reeve risuonarono un’ultima volta. “La Grifondoro che ha tirato le cuoia l’anno scorso”. La sua voce asettica lo punse d’improvviso come un ago nella pelle e un refolo di fuoco gli si diffuse nelle vene, scendendo giù, fino a bruciargli il cuore rinsecchito nel torace. Come sveglio da un lungo, torpido sonno senza sogni, il giovane sollevò il capo e incrociò il suo sguardo. Lottò strenuamente con se stesso per non stringere le dita e non fargli capire che con quelle parole aveva stimolato insopportabilmente in lui il desiderio di sapere cosa facesse con Emma. Più addirittura di quanto la sua fermezza impietosa non lo avesse urtato. Abbozzò un sorriso; era così morbido e candido da risultare fuori luogo in un modo spaventoso. «Cosa vuole esattamente da me, professore?» Chiese alla fine, con una tonalità stranamente roca della sua voce musicale. Il baluginio abbacinante dell’odio gli illuminò gli occhi di un riflesso diabolico. Il dipinto, a centinaia di miglia, sorrise.