Visions Fugitives

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view post Posted on 14/8/2018, 21:55
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Casey Bell
London • Saint Vincent Institute of Charity• During the holidays

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Era chiusa in bagno da più di un’ora. Il grande specchio le mostrava la sua immagine sotto le luci al neon - che ben poco riescono a risaltare la bellezza di un corpo. Casey aveva ancora undici anni, la sua fisionomia spigolosa lo dimostrava apertamente. Sapeva di star crescendo, che gli anni passano e che con essi l’aspetto muta, ma nel suo riflesso non riusciva a trovare la conferma di quel cambiamento. Non aveva seno, era piatta come una tavola, si intuiva che fosse una ragazza solo dai suoi lunghi capelli neri. Sembrava di esser fatta solo di pelle e ossa, quando invece le sue coetanee crescevano e si gonfiavano visibilmente in determinati punti, e facevano di tutto per farlo notare.
Casey non si sarebbe mai accorta del suo aspetto acerbo da sola. A dirla tutta non aveva mai creduto di poter far parte di quel mondo, quello delle gonne troppo corte e dei reggiseni imbottiti; ne era sempre rimasta lontana per un puro e istintivo disinteresse, e la sua natura fin troppo giocosa e fantasiosa non le permetteva a priori di avere argomenti in comune con chi vuol crescere troppo in fretta. Ciò nonostante un giorno, come tutti, fu costretta a rifletterci su.
All’interno del suo orfanotrofio Casey non aveva molti amici. L’unica persona che la capiva in qualche modo e con cui condivideva qualche segreto era Sarah. Anche lei stava subendo un mutamento. Da quell’inverno la sua amica aveva cominciato a dormire con le trecce solo per avere i capelli ondulati il mattino dopo, e ogni tanto vedeva sulle sue labbra un colore rosa del tutto innaturale che prontamente, quando una delle suore o delle istitutrici era nelle vicinanze, ripuliva con un fazzoletto.
- Ma cosa stai facendo? - le chiese un giorno Casey mentre erano sedute sul muretto del cortile. Miss Morton, l’insegnante delle bambine del Saint Vincent Institute of Charity, si era appena seduta sulla panchina accanto per il suo turno di guardia, e l’amica di conseguenza aveva ripetuto quella strana scenetta. Sarah si portò immediatamente un dito alla bocca intimandole seccamente di far piano. La Morton però, con lo sguardo dritto sulla sua rivista di moda, sembrava ben poco interessata alla loro discussione. Mantenendo una certa compostezza l’amica le rispose sottovoce, il più vicino possibile all’orecchio.
- Se mi vedono col lucidalabbra me lo sequestrano.
Casey la guardò attonita. Non riusciva a spiegarsi perché le persone si dovrebbero colorare le labbra. Senza dar importanza a quell’atteggiamento di segretezza le chiese ad alta voce:
- Perché lo fai?
Sssshhh. Per una seconda volta la ragazzina si era portata il dito alla bocca per zittirla, questa volta però strattonandola per la manica del giubotto. Sarah roteò gli occhi e scosse la testa con disappunto, come se le domande che le erano state appena poste fossero assolutamente stupide e le loro risposte così ovvie.
- Scherzi, Casey? Dovresti farlo anche tu.
- Perché?
- Perché sei una ragazza.

La piccola strega rimase senza parole di fronte all’affermazione dell’amica. Non trovò un modo per controbattere, anche perché la sua espressione sembrava così decisa e addirittura allarmata mentre le consigliava di seguire la prassi. Insomma, Casey cadde dal pero. Essere una ragazza voleva dire truccarsi? Lo si faceva per quello? Dopo quel breve scambio di idee, le due scelsero presto un altro argomento su cui riversare le loro attenzioni e non ne riparlarono più, ma lei continuò a pensarci, in particolare quando vedeva la sua amica ridere e scherzare con le altre. Anche loro sembravano “seguire la prassi”, anche loro avevano il lucido rosa sulle labbra e alcune, quelle un po’ più grandi, ostentavano un comportamento che lei ben poco capiva: ridacchiavano civettuole ogni volta che un’altra bambina passava per il cortile e si dondolava sull’altalena, parlavano di certi personaggi della televisione venerandoli come dei, si urlavano contro a vicenda se una di loro si mangiava le unghie per ricordarsi di non farlo, perché faceva schifo ed era “una cosa da bambini”. Quando le vedeva far così la streghetta percepiva dentro di sé un misto di odio e invidia; le sembrava che esagerassero e che i loro argomenti di conversazione fossero del tutto stupidi, ma nel mentre la loro coesione e il fatto che passassero la maggior parte del tempo insieme (anche se a pettinarsi i capelli) la faceva sentire esclusa e desiderosa di esser accettata. Non capiva perché Sarah le trovasse tanto interessanti, e soprattutto non capiva perché preferisse star lì col petto all’insù per far risaltare un seno inesistente gonfiato con la carta igienica piuttosto che giocare con lei come sempre. Quando le vacanze invernali terminarono però non ci pensò più. Tornò ad Hogwarts e fu tutto come prima. Al castello le ragazze indossavano una divisa piuttosto ingombrante, solo di rado passeggiavano per i corridoi con vestiti normali, quindi nessuna di loro riusciva a mettere in mostra delle curve sotto i lunghi mantelli neri. Ad ogni modo era inevitabile notare che anche le sue compagne di primo anno iniziavano a mostrare un certo interesse per i ragazzi, per cui, in dormitorio o addirittura fra i banchi delle classi, le vedeva spesso sistemarsi i capelli e controllare se il loro viso fosse a posto (come se potesse cambiare da un momento all’altro) in piccoli specchietti che tenevano nei loro zaini. Insomma, ad Hogwarts non si preoccupò più di tanto di quel che le capitava attorno e, anche se aveva difficoltà a relazionarsi con gli altri, accoglieva il tutto con un certo disinteresse e proiettandosi unicamente su quello che il Mondo della Magia le offriva giorno dopo giorno. La grande scossa si fece sentire solo al ritorno al Saint Vincent, alla fine di giugno. I rapporti con Sarah non erano più gli stessi. Casey le aveva mandato dei gufi durante l’anno, ma l’amica dopo un po' non le aveva più risposto. Lei attribuì la colpa al fatto che essendo una babbana non fosse pratica di gufi postini.
Era appena tornata a Londra. Nessuno era venuta a salutarla ma forse nessuno sapeva del suo arrivo, nonostante lei lo avesse scritto. Quindi si avviò verso il cortile, dove si riunivano tutti durante i pomeriggi d’estate, quando il sole si adagiava dietro i tetti delle case a occidente e dava il permesso all'ombra di rinfrescare le siepi. Casey intravide Sarah e le sorrise da lontano, ignorando che si trovasse con un altro gruppo di ragazze. Si avvicinò e le salutò con timida allegrezza. Avrebbe voluto passare un po’ di tempo con loro, parlare di quel che era successo nel periodo in cui erano state separate e magari divertirsi un po' insieme, come ai vecchi tempi.
Sarah fu la prima a voltarle le spalle, con sguardo pieno d'odio stampato sul suo volto, misto alla tristezza di esser stata tradita dall'amica con cui aveva passato così tanto tempo, che era andata via per scoprire che nulla avevano in comune. Sarah aveva accettato altri amici, aveva riconosciuto un'altra sua identità e aveva accettato quella scia, "la prassi", lontana dalla fantasia e dall'innocenza che per anni le avevano unite, ancor più della stessa distanza che le separava fisicamente. Un'altra si fece avanti al posto suo: Martha, la ragazzina sempre detestata da entrambe che adesso l'aveva presa sotto l'ala. Con un riso di scherno la respinse e quello fu il momento in cui tutto cambiò.
- Sei per caso un'idiota, Casey Bell? E' una scuola per mocciosi quella in cui ti hanno spedito? Per tenerti lontana dai grandi? Torna a pettinare le tue bambole.
Poi il vuoto. Casey si ritrovò a piangere nel bagno del suo dormitorio. Solo dopo ore le si asciugarono le lacrime, ma per lasciar spazio unicamente ad altro odio verso se stessa e verso gli altri. Davanti allo specchio poi si spogliò e si guardò. Si detestò, si sentì profondamente umiliata nel corpo e nell'anima, come se tutto quel che aveva pensato su di sé fino ad allora fosse stato una menzogna. Era giunta l'ora di crescere, di pensare da adulti! Era giunto il momento di piegarsi alla consapevolezza che mai nessuno l'avrebbe accettata se avesse continuato a desiderare da bimba. Soffriva immensamente non solo per la sua inadeguatezza ma anche perché Sarah l'aveva lasciata sola nella sua meschinità. Lei non sarebbe mai stata come loro, si convinse, e da lì cominciò il suo disgusto. Dunque prese un paio di forbici.
- Io non sarò mai un clone - disse alla sua immagine riflessa nello specchio, e si tagliò di netto i lunghi capelli.
Una volta uscita dal bagno, le sue compagne l'avrebbero nuovamente derisa.




Questo doveva essere il mio brano per il contest di luglio ma per vari motivi non sono riuscita a pubblicarlo entro la fine del mese. Ciò nonostante lo ritenevo un pezzo fondamentale della vita di Casey per farla crescere in qualche modo, dato che è quella l'età. A chi abbia avuto la determinazione di leggere il mio malloppo chiedo di darmi una critica, un consiglio o una cosa del genere. D'altronde a cosa serve un contest, a parte per i punti per la Coppa e per i Galeoni? :gelato:
 
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CHIMAERA MONSTRUOSA

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Un giorno come un altro, un momento come un altro. Solo un dettaglio a far la differenza, uno di quelli che si notano di sfuggita e che nel caso più fortuito lasciano un piccolo punto interrogativo sul volto di chi osserva per poi svanire dopo qualche attimo. All'interno del Saint Vincent Institute of Charity non ne accadevano di cose interessanti, nemmeno per una personalità curiosa come quella di Casey. Ormai era finito il tempo in cui spiava dagli stipiti socchiusi delle porte o da dietro le tendine, non era più nulla interessante quanto la sua nuova vita ad Hogwarts. In orfanotrofio si era adeguata a non dar più tanto nell'occhio, ignorava ed evitava tutte le sue compagne e faceva lo stretto indispensabile per convivere con gli altri abitanti dell'edificio svolgendo i lavoretti assegnati dalle istitutrici, come apparecchiare e sparecchiare le tavolate del salone da pranzo, rastrellare le foglie secche dal prato oppure scarrozzare di qua e di là Betty Jules. Quest'ultimo poteva essere un compito tanto semplice quanto complicato poiché non si sapeva mai che tipo di giornata fosse per Betty. Certe mattine apriva i suoi grossi occhi marroni già felici e attenti come se si fosse risvegliata in un campo di girasoli; altre sembrava non essersi proprio svegliata nonostante avesse spalancato le palpebre, e non c'era verso né di comunicare con lei né di capire quali fossero i suoi desideri. Alcune volte, ma molto di rado, Betty tutt'a un tratto diventava irrequieta: provava a urlare e a dimenarsi e nei casi peggiori veniva scossa da improvvise convulsioni. A volte per calmarla bastava spostare la sua carrozzina in un altro posto, lontano dalla calca di certe aule, oppure parlarle con voce gentile all'orecchio e spazzolarle i capelli lentamente, ma non c'era verso di scoprire cosa la facesse innervosire in tal maniera. Nel corso del tempo però quelle strane crisi erano diminuite fino a manifestarsi solo in alcuni particolari periodi dell'anno, ovvero quelli di festa. Tutti cominciarono a credere che fossero dovute alla rottura della routine, alla sospensione delle lezioni e via dicendo, ma mai nessuno le collegò a una delle presenze che a partire dagli ultimi anni era anch'essa diventata tanto sporadica: quella di Casey Bell.
Casey e Betty non avevano legami, anzi le due non si incrociavano quasi mai in istituto poiché dormivano in due sezioni differenti del complesso. Quel giorno però, il 23 di dicembre, alla giovane strega venne chiesto di affiancare la compagna durante il pomeriggio per ritagliare insieme dei festoni di carta da appendere nel salone. KC non osò dir di no a quella richiesta, nemmeno se da qualche ora la testa le era stata fasciata da un acuto dolore. Non esistevano scusanti per la signorina Morton e, dati i suoi ultimi contrasti con le compagne, di sicuro non avrebbe potuto preferire una compagna migliore di Betty con cui passare il pomeriggio, che non parlava, non si muoveva e che poteva scarrozzare ovunque volesse. Insomma, una figura che per nulla interferiva con la sua pacifica solitudine.
Quando Betty fu portata nell'aula ricreativa la giovane strega le si avvicinò lentamente con un gran sorriso sulle labbra. Piano piano questo sfumò dopo aver constatato la sua situazione: la testa della ragazza era china, abbandonata sulla spalla sinistra, il volto era inespressivo e un piccolo rigagnolo di saliva le attraversava il mento; le sue mani, le braccia e le gambe erano accartocciate, come chiuse su loro stesse, e atrofizzate. Se il respiro non fosse stato evidente dall'innalzarsi e dal comprimersi del tronco Casey avrebbe giurato di star osservando una morta. La ragazzina, addolorata e desiderosa di poter essere d'aiuto alla compagna, si avvicinò ancora un po' e riprese a sorridere; si mise carponi e presentandosi a lei cercò di catturare la sua attenzione.
- Ciao, Betty! Io sono Casey e oggi mi aiuterai a fare le decorazioni per il Natale...
Al suono della voce di KC gli occhi della ragazza si animarono. Fu in un attimo, con uno scatto delle pupille nella sua direzione, dritte in quelle della strega, che si stabilì un contatto intenso e carico di un'energia ignota. La giovane Grifondoro avvertì il dolore alla testa farsi lancinante concentrandosi in un punto, la tempia destra, sulla quale portò la mano. Al tatto percepì una sostanza viscosa di cui sentì anche l'odore ferruginoso, ma sui suoi polpastrelli non c'era nulla, la mano era del suo bianco naturale e pulita a parte una leggera patina di sudore. Rimase immobile ad osservare carponi lo sguardo apparentemente risorto della compagna, pietrificata sia dall'intensità di questo che da un folle desiderio impadronitosi di lei. La sua mano si posò istintivamente su un bracciolo della carrozzina e cominciò a stringerlo con gran forza ignorando il dolore dell'acciaio che le si conficcava nel palmo. Il lampo scaturitosi da quel contatto la trapassò e allora quello strano desiderio si vivificò nella sua mente, risorgendo dalle profondità del suo inconscio. Le iridi scure della compagna in sedia a rotelle erano l'unica porzione di lei ancora in grado di trasmettere qualcosa. Casey ci cadde dentro come in un pozzo, come se l'oscurità di quello sguardo fosse il fondo nero di un pensatoio. Ancor più vivide, le sensazioni presero il sopravvento sul suo corpo che ben si ricordava di come le emozioni lo avessero scosso, anche nei tempi più remoti, più della memoria stessa. Dapprima i suoi pugni si strinsero al bracciolo, poi la sudorazione incrementò e così anche il suo battito cardiaco. Infine il dolore alla tempia la costrinse a piegarsi su se stessa, a inginocchiarsi al cospetto della compagna immobile. Così Betty si ergeva sopra di lei proprio come allora.
Un sasso l'aveva colpita e il sangue colava a fiotti dalla sua testa macchiandole il grembiule bianco. Casey non poteva avere più di quattro anni e non riusciva a controllare il suo potenziale magico. Un guizzo d'acqua si era innalzato in aria separandosi dalla superficie della fontanella del cortile prendendo la forma di un cavallino. Il piccolo essere fatto di fluido le trottava attorno e dal suo corpo piccole goccioline ricadevano sui vestiti e sull'acciottolato. Quel bel gioco però non piacque per nulla alle sue compagne. Casey, che in quel momento aveva gli occhi colmi di gioia, le vide arrivare, ma non si sarebbe mai aspettata di ritrovarsi la faccia sporca di sangue e soprattutto di provare un tale dolore nel proprio corpo. L'urto avvenne e il sasso rimbalzò, colpendo prima la sua tempia poi il cavallino che si infranse in mille frammenti trasparenti; un urlo e poi altre urla che dicevano "strega". Il sapore del suo sangue era una delle cose più disgustose che avesse mai assaggiato. Cadde a terra per il terrore, la nausea e le lacrime che tardavano ad arrivare e che le gonfiavano solo il petto in un grosso grumo d'aria impossibile da tirare fuori. Perché doveva provare dolore? Era così intenso, sia alla tempia sia al petto. Lì,dove Betty con le altre ghignavano e urlavano, Casey vedeva solo mostri che meritavano di esser sconfitti, che dovevano scomparire dal suo gioco.
- Perché non capisci che mi hai fatto male? - disse, ma le parole erano inutili. Loro ridevano e dicevano che il mostro era lei.
- Non vedi che perdo sangue? - ma ancora una volta fu tutto vano.
Un altro urlo e tutti scapparono. Al suolo Casey si nascondeva il volto insanguinato fra le mani e Betty era adagiata sull'acciottolato afflitta da spasmi e con la bava alla bocca. I suoi occhi erano spalancati che guardavano dritto avanti a sé, imploranti pietà. Mille coltelli invisibili le trafiggevano il corpo e gli organi interni; le vene delle braccia, del collo e delle tempie sembravano esser sul punto di scoppiare e della schiuma biancastra le colava dalla bocca. Casey si alzò e questa volta fu lei a sovrastare Betty. Sapeva che in qualche modo era lei ad infliggerle quella punizione per il male che le aveva fatto, per il sangue che le aveva richiesto in cambio del suo cavallino. Se lo meritava.
La tortura di Betty durò quindici minuti, il tempo necessario per permettere all'intero corpo di una bambina così piccola di conservare il trauma; quindici lunghi minuti in cui Casey guardò la sua aguzzina negli occhi mentre si contorceva dal dolore ai suoi piedi, invertendo i ruoli. Le istitutrici interruppero il contatto visivo e così il tormento, sia della lontana Betty che dell'odierna Casey.
Era a terra, in ginocchio e con gli occhi gonfi di lacrime non più fissi su quelli scuri della compagna che la guardava con apparente calma. Se solo una parola fosse potuta uscire dalla bocca di questa sarebbe stata la pura conferma della silenziosa vendetta tanto attesa e una volta per tutte attuata. Solo quello sguardo era stato in grado di ridestare un ricordo simile, troppo doloroso e al di là di ogni comprensione. Nonostante tutto quel tempo non era stato eliminato ma giaceva nelle profondità più oscure dell'abisso dei ricordi. Un solo sguardo e una trappola, il cui meccanismo era stato avviato da anni, cinse il cuore della strega in una morsa letale, lasciando in vita solo brandelli della sua persona, delle sue sicurezze e colmandolo di senso di colpa.
Casey rimase piegata su se stessa. Fra le lacrime e i singhiozzi le sue parole le sentiva a stento la diretta interessata in mezzo al ciarlare ozioso dell'aula.
- E' colpa mia... M-mi dispiace...
Una semplice scusa sarebbe bastata per una vita rovinata al suo sorgere? Era tutto vano, era vano piegarsi di fronte a Betty e anche strapparsi il cuore dal petto; era vano urlare, graffiarsi e rivivere mille volte quel ricordo. Nulla avrebbe potuto riportare indietro ciò che le aveva tolto. Giunta a queste conclusioni, ingoiando lacrime e muco, Casey sentì che era giusto mettere da parte l'istinto di prevaricare su ella nemmeno col suo pianto: non si meritava di poter mostrare il suo dolore, non più. A stento e tenendosi il petto con una mano, come se da un momento all'altro il cuore potesse saltarle fuori dalla gola, si alzò. Col volto fasciato di lacrime amare guardò per un solo istante gli occhi dell'altra, che mai più sarebbe stata in grado di cercare, e sussurrò:
- Scusa.
Poi con passo lento si avviò verso la porta e una volta superata si mise a correre verso il suo dormitorio priva di equilibrio. Si gettò sul suo letto e lì, con le ginocchia ferrate al petto ossuto e sudato e coi capelli dispersi sul cuscino, spalancate le labbra come per gridare non emise nemmeno un suono ma solo aria, un graffio sulle corde vocali, un rantolo, un urlo muto.


Contest Settembre 2018
 
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view post Posted on 8/12/2018, 01:58
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Barricata fra pile di libri, una testolina scura china su uno scrittoio era intenta a seguire meticolosamente i contorni di una mappa geografica. Con la matita ne aveva disegnato i bordi frastagliati, con uno sfumino plasmato le montagne e le pianure, mentre le iridi color del muschio controllavano passo dopo passo la similitudine fra la copia e l'originale riportata sul manuale di Storia della Magia. Fra le mille cose che KC non si sarebbe mai immaginata di fare c'era proprio quella di dover tracciare la mappa della vecchia Atlantide per un compito. E dire che in passato, ancor prima di scoprire di essere una strega, aveva passato ore e ore di nascosto sul suo vecchio scrittoio in orfanotrofio a rendere su carta le mappe degli scenari delle sue fantasia in ogni loro minuzia. Aveva utilizzato l'inchiostro per solcarne i mari, le sfumature per proiettare dentro di sé le differenti espressioni della natura sulla superficie, da nord a sud, da est a ovest. Aveva sparso su quei territori dei nomi che a un estraneo potevano sembrare astrusi, strane combinazioni di sillabe impossibili da pronunciare, per identificare le città, i popoli, i nomi dei monti e delle foreste. Aveva immaginato di andare in pellegrinaggio prima verso l'una, poi verso un'altra, di vivere quella realtà sulla sua stessa pelle, di respirare l'aria di quei boschi, di farne parte in tutto e per tutto. E forse, per tutti quegli anni passati in istituto, era stata davvero quella la sua casa. Ma una bambina così piccola non poteva capire quei meccanismi, anzi, faceva parte dello stesso gioco rimanerci dentro e lasciarsi assorbire totalmente per filtrare gli input esterni. La ragazzina che oggi era china sui suoi libri però guardava al passato con un certo distacco. Si era dimenticata dell'esistenza di quel diario, finito in fondo al baule un mese dopo il suo arrivo ad Hogwarts, almeno finché non si era ritrovata a tracciare la mappa di un mondo finito per dovere e non per piacere. Non appena si mise sulla carta pergamena ed intinse la piuma nell'inchiostro nero, ebbe un déjà vu che la riportò subito indietro nel tempo. Le emozioni si susseguirono inciampando l'una sull'altra assieme ai pensieri, dando spazio prima a una totale derisione della persona che fu, poi della sé di adesso, che nel crescere si era dimenticata un pezzo del suo essere sotto alle cianfrusaglie e ai vestiti. L'unica risposta che percepì le fu data dalla nostalgia. Dunque il vecchio diario babbano fu posato accanto al letto, sul comodino, per essere sfogliato ogni sera prima di cadere fra le braccia di Morfeo, nella speranza che potessero indirizzare i suoi sogni ancora una volta verso quelle dimensioni, prima che l'oblio di ogni notte le facesse dimenticare del tutto i vecchi giorni, ponendo fra l'ora e il prima troppa distanza. Avrebbe reso giustizia a quelle ore, non poteva permettersi di dimenticare chi era stata prima di rinascere come adepta della magia. Soprattutto non si sarebbero volatilizzati nel nulla i vani tentativi di fuga di una bimba da una realtà che non l'amava. Adesso quella cartina di Atlantide sulla pergamena rappresentava un apice, una medaglia alla resistenza che avrebbe dovuto lucidare e portare con onore. Così giurò a se stessa che ogni minimo dettaglio di quella mappa sarebbe stato suo.
Il piacere che derivava da un tale lavoro era impossibile da definire. Più ella ricadeva dentro la minuzia più un tremore prendeva possesso del suo io spingendosi fino al corpo, espandendosi in tutte le direzioni. All'interno della sua testa le parole avevano ceduto il posto alle sensazioni, rotto ogni legame con lo scibile. Si sentì proiettata in un denso mare infinito ma intimo come l'acqua calda di una vasca o come la placenta di un ventre materno, al sicuro, protetta, in pieno contatto con la parte più interna di sé. E i colori, i tratti, le sfumature sul foglio acquisirono un valore ancor più intrinseco dei semplici connotati di una cartina fisica di una terra sommersa.

***


L'ultimo tratto si congiunse al primo come un oroboro. Fece un respiro profondo contemplando il lavoro appena finito. La mente, stanca e ormai scarica, era stata svuotata di ogni stimolo, il tramonto invece era terminato sbiadendo nel crepuscolo. Entrambi i fenomeni avevano avuto occasione di nascere, esprimersi e poi morire seguendo il normale ciclo degli eventi. Guardò attraverso il vetro quadrettato della finestra la cima degli alberi della Foresta Proibita. La quiete che quella giornata le aveva dato era stato un raro dono ed era contenta di essere riuscita a sfruttarlo al meglio delle sue possibilità. Le iridi verdi, assorte in un'espressione di tranquillità, vennero improvvisamente catturate da un puntino bianco volteggiare nel blu del cielo. Questo continuava ad avvicinarsi turbinando, a volte sparendo dalla sua visuale per poi tornare sulla precedente traiettoria. Il gufo - poiché non poteva trattarsi di nient'altro - continuava ad avvicinarsi con una lettera nel becco, cercando di resistere all'attrito che il vento imponeva alle sue ali. Con enorme stupore della ragazzina, si posò sul davanzale, picchiettò sul vetro con insistenza finché non gli venne aperto l'uscio e con un colpo d'ali si precipitò sul trespolo assieme a Marcabrù, lasciando cadere la missiva sul letto rosso oro della destinataria. KC dunque volò sul baldacchino lasciandosi cadere con un tonfo e si rigirò la busta fra le mani. La sola lettura del nome del mittente le riempì il volto di luce. Non esisteva modo migliore di andare a letto con il risuonare nella propria mente il nome di un caro, e in questo caso si trattava proprio di Drinky Anser.


Parte 2




Edited by Keyser Söze. - 8/12/2018, 13:55
 
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Contest Marzo 2019. Role retrodata.


Il Visto

Quella era senz'altro una delle estati più afose degli ultimi dieci anni, o almeno così pareva al signor Ferlinghetti. Non era mai riuscito ad abituarsi all'umidità dell'Inghilterra, e quando le acque del Tamigi cominciavano ad evaporare a lui mancava la brezza marina che durante i mesi più caldi abbracciava Trizza1, il suo paese natale. Tutte le goccioline di sudore avevano formato un efficace strato di "colla" che attaccava la camicia di lino alla pelle, mentre il bordo della bombetta scura sulla testa isolava una possibile biosfera composta da creature a base di sudore, invece che di carbonio. Aveva ormai perso tutti i sali del corpo quando finalmente, verso mezzogiorno, giunse a destinazione. L'occhio guercio balzò dall'insegna rovinata all'ingresso dell'orfanotrofio con un certo disgusto, e dopo essersi tolto il sigaro smozzicato dalla bocca disse in maniera piuttosto concitata: «Botta ri sale a iddu e a mia!2».
Dopodiché gettò a terra il mozzicone ed entrò.

Eliphas Ferlinghetti - in realtà il vero nome era Giuseppe Rapisarda, detto "Pino", ma il suo vecchio boss aveva deciso di dargli un nome più d'effetto, che facesse tremare i malavitosi dei quartieri di Little Italy. Pino non era dello stesso parere dato che Eliphas gli ricordava il liofante, simbolo della città di Catania, e che Ferlinghetti fosse in realtà il cognome di un poeta, ma guai a contraddire il capo - non si sarebbe mai aspettato di fare un lavoro simile. Da quando era caduto in disgrazia assieme a tutti i suoi colleghi si era ritrovato a raschiare un po' di denaro e di favori dalla sola delle scarpe di certi ministeriali con la puzza al naso, i quali gli rendevano la vita parecchio difficile a causa del suo dannato visto. Non aveva mai avuto problemi di quel tipo, almeno finché il boss non si era battuto in ritirata lasciandolo da solo a fare i conti con tutto. Sotto la sua protezione aveva vissuto di agi e nel pieno lusso, era potuto andare in giro a testa alta sapendo che niente e nessuno avrebbe potuto metterlo in difficoltà, ma adesso, invece, non solo rischiava di tornarsene a fare il pescatore, ma gli avevano pure sequestrato la bacchetta! Chiaramente era riuscito a farsene vendere una sottobanco, ma ciò non gli dava la facoltà di far scomparire i ministeriali con un bel puff o di far rimangiare la Brexit all'Inghilterra.
«'Giorno. Sono qui per Chesei Bell» disse rivolgendosi alla signorina all'entrata dell'istituto.
«Oh! Lei deve essere Mr Redwine! Sono stata informata del suo arrivo. I documenti sono stati spediti proprio questa mattina alla nuova scuola. Le chiamo subito Miss Bell» rispose la ragazza squadrandolo dalla testa ai piedi.
Dopo un breve momento di indecisione, Ferlinghetti esclamò gesticolando animatamente con entrambe le mani:
«Vabbene, vabbene, sì! Io sono. Si spicci3, la porti qui».
Sbuffò. Quell'imbecille di Redwine gli aveva fatto credere che una decina di giorni a dirigere una squadra per ripulire i cessi della Albert Hall (che qualche disgraziato aveva incantato in modo tale renderli immuni alla gravità) fossero bastati per fargli convalidare il visto. Invece aveva deciso di renderlo il suo schiavetto personale facendogli fare illegalmente tutto il lavoro che riempiva la sua agenda. Redwine passava le prime settimane di agosto alle Baleari con la famiglia, mentre Eliphas doveva fare tutto il lavoro sporco! E dire che non aveva mai avuto dimestichezza coi picciriddi4. Se l'ultima volta che sua madre gli aveva affidato la sorellina, circa quarant'anni addietro, per poco questa non finiva fra i gorghi del mare - i Rapisarda di Trizza erano chiaramente una famiglia di pescatori - come avrebbe potuto lui dire a una bimbetta orfana di undici anni che era una strega e che nelle intercapedini di Londra esisteva un altro mondo fatto di maghi, elfi, draghi e chi più ne ha più ne metta? In effetti però gliene importava ben poco, gli bastava finire quella mansione in quattro e quattr'otto per tornarsene al ministero e ritirare il suo permesso di soggiorno.

Una testolina scura fece capolino nell'atrio. La lunga frangetta le copriva gli occhi vispi e curiosi, puntati sull'ambiguo uomo che la stava attendendo. Aveva l'aria di uno che la vita l'aveva vissuta per davvero, ricurvo com'era su se stesso, con lo sguardo fisso nel vuoto, malinconico e indurito dall'esperienza. O almeno questo era ciò che la piccola Casey vedeva. Le istitutrici le avevano detto che una scuola molto importante, dati gli ultimi test affrontati in classe, aveva deciso di prelevarla per darle una migliore istruzione. Lei però era incredula al riguardo, considerato che le maestre la rimproveravano di essere sempre troppo pigra e che in questo modo non avrebbe mai fatto strada.
«Casey». La testolina nera si voltò un po' impaurita e infastidita verso la voce squillante della donna. «Saluta il signore».
La bambina non si sforzò di nascondere l'astio nell'occhiata che le scoccò, ma poi si voltò verso l'uomo e ubbidì. «Buongiorno, signore». Dunque l'altra le si avvicinò per spingerla verso l'uscita, e con un piccolo ma potente pizzico sulla sua spalla le intimò silenziosamente di comportarsi bene.
«Il signor Redwine ti ha gentilmente concesso un colloquio in cui ti illustrerà per bene tua nuova scuo-».
«Non c'è tempo da perdere. Annamu!5» e detto ciò l'uomo la prese bruscamente. Sparirono oltre la luce dell'ingresso mentre lui salutò incurante la signorina con un gesto della mano.

Cominciò a batterle forte il cuoricino. La presa sul suo braccio era tanto forte da farle male, mentre Pino, nel panico più di lei, la strattonava per farle fare le scale in fretta.
«Signore, perché mi spinge? Mi fa male, ahia!» .
Fra le continue domande della bambina, l'uomo annaspava in cerca di due risposte: come farla tacere e come dirle la verità. Scesi i gradini, si misero a camminare lungo il viottolo, lui in testa e lei costretta ad andargli dietro, diretti verso un punto impreciso. Sua nonna diceva sempre riguardo i figli dei pescatori: "i picciriddi a mari vannu ittati. Si nuotano, bene, annunca si ni ponnu fari autri"6. La vecchia, nonostante la brutalità di quella massima, non aveva tutti i torti. «Basta!». Casey si impuntò, gettando tutto il suo peso all'indietro per costringerlo a fermarsi. «Signor Redwine! Dove mi sta portando? Questo non è un colloquio!».
Pino, se in un primo istante roteò gli occhi per la seccatura, dovette ammettere a sé stesso di non aver mai visto una bambina più cocciuta di quella. In effetti non si era ancora posto quella domanda, e rimase a bocca aperta per qualche istante, con la stessa espressione che assumeva da piccolo durante le interrogazioni di Italiano. Portarla direttamente a Diagon Alley era fuori discussione, u Signuruzzu solo sapeva come sarebbe impazzita ritrovandosi un elfo davanti o qualcuno che volava su una scopa. Dunque, per temporeggiare, così come le famiglie del catanese usavano fare quando i bambini urlavano più forte dei genitori, disse: «Andiamo a prendere un gelato».

Una più che perplessa Casey era seduta ad un tavolino di una gelateria di Londra. Si chiedeva perché quell'uomo avesse scelto l'angolo più buio ed isolato di tutta la sala (che dava tra l'altro sull'ingresso dei bagni). Imbronciata e con le braccia conserte al petto tuttavia non aveva perso un attimo e, spinta dall'ansia di una possibile valutazione delle sue conoscenze, aveva già vagliato tutte le domande che il signor Redwine avrebbe potuto farle. Letteratura? Storia? Matematica? Geografia? Educazione sociale? Era pronta a tutto, anche se il cuoricino le batteva fortissimo nel petto. Invece, lo vide arrivare con due grossi coni gelato al cioccolato, anzi con uno ancora integro e l'altro già dimezzato nel tragitto, considerata la spessa cornice marroncina attorno alle labbra di lui. Un po' imbarazzata - non era abituata a condividere il momento del dessert con perfetti sconosciuti - prese il suo cono ma non riuscì proprio a staccare gli occhi di dosso al Redwine, nemmeno per avventarsi sulle goccioline che facevano sciogliere quel ben di Dio sulla sua mano.
«'Sti inglesi non si fanno mancare niente, nemmeno il cioccolato di Modica. Forza, assaggia, che troppo buono è».
La bambina però non era semplice da convincere, e Pino l'aveva capito. Era uno di quei tipi diffidenti, che non si lasciano infinocchiare facilmente con qualche bella parola e una leccornia; lui però aveva un asso nella manica, un cioccolatino cremoso dal profumo così invitante a cui nemmeno Casey avrebbe saputo resistere.
«Niente? Bene» disse il finto Redwine vedendo le palpebre dell'altra chiudersi sempre più a fessura su di sé «passiamo al dunque».
Per poco le piccole dita non frantumarono la cialda per la tensione. *La capitale della Francia? La so! Il Teorema di Pitagora? Quadrato dell'ipotenusa uguale cateto uno alla seconda più cateto due alla seconda*.
«Ogguots è una scuola per bimbi speciali».
Al sentire queste parole il suo cuore si fermò. Cosa voleva dire "speciali"? Pensò subito che era un modo per dirle gentilmente che i test erano andati così male da farla risultare con un QI sotto la media, e che l'orfanotrofio non disponeva delle attrezzature necessarie per renderla una persona normale. Ergo, volevano sbarazzarsi di lei. Non disse nulla, attese solamente che Redwine la finisse di leccare il suo gelato per dedicarsi unicamente al colloquio. Nel mentre sotto l'altro cono si era formata una grossa pozza marroncina.
«Insomma, che devo dirti? Ti senti speciale, no? E' questo il solito discorso che fanno a tutti noi all'inizio».
Noi? Casey non capiva. Lei era "speciale" in che senso? Come lui? Sarebbe diventata come lui?.
«A-anche lei è speciale?» chiese. Effettivamente in quell'ultimissimo frangente non gli era sembrato una cima di intelligenza. Era così che lei sembrava da fuori?
«Certo! Altrimenti non mi avrebbero mandato da te! Picciridda, che devo fare, ogni cosa ti devo spiegare?». Pino, scocciato da tutto quel temporeggiare, dimenando le mani per poco non lanciò la sua palla di gelato al cioccolato dall'altra parte della stanza. «Allora! Rispondi: non ti sei mai sentita speciale? Fuori posto?».
Casey sentì i propri occhi inumidirsi. Si portò indietro per appoggiarsi allo schienale, in modo tale che la frangetta nera le ricoprisse metà volto.
«I-io non lo so. Io...» riprese il fiato per camuffare la voce spezzata «io credevo di essere come tutti gli altri».
«A-ah!». Pino le puntò un dito addosso schizzando gelato da tutte le parti. «E no, tu non sei per niente normale! Tu sei maggica».

Fu così che il cuoricino dell'orfanella ricominciò a battere, forse in maniera più spedita di prima. Dopo un'iniziale occhiata in tralice - *questo mi sta prendendo in giro* - e una serie di «Cosa?», «Non le credo», «Mi credete pazza? Mi volete rinchiudere in un manicomio?», la furbina decise di metterlo finalmente alla prova.
«Me lo dimostri».
Eliphas-Pino, spiazzato e confuso - ai suoi tempi i bambini abboccavano a qualsiasi cosa pur di convincersi di essere supereroi o maghi da strapazzo - sbuffò. Da buon siciliano il motto che lo incarnava alla perfezione era "moviti fermu"7, ma sapeva che se non avesse dato una prova alla piccina non ne sarebbe uscito tanto facilmente. Dunque si ingobbì, controllò a destra, a sinistra, avanti e dietro se qualcuno li stesse osservando e poi le fece cenno di avvicinarsi. Casey lo vide estrarre qualcosa di scuro dalla manica - il famoso "cioccolatino nella manica" - e puntarglielo addosso. Si irrigidì e le cadde il cono ormai vuoto dalle mani.
«Prendilo, alla svelta! E guardalo» intimò lui. La bambina, scoccata un'altra occhiata di traverso, riprese la cialda in mano e stette a vedere.
Che incantesimo dimostrativo avrebbe potuto fare il siciliano? L'avrebbe schiantata? Avrebbe fatto crescere un paio di baffi alla donna seduta a qualche tavolo più in là? Non sarebbe stata un'ottima idea quella di infrangere lo Statuto di Segretezza nemmeno col visto fra le mani. Casey avrebbe percepito con la coda dell'occhio solo un leggero movimento del legnetto, e sentito qualche parola incomprensibile emanata dalla voce nasale dell'altro "bimbo speciale", ma la sua attenzione subito venne catturata dal gelato: si stava ricomponendo. Il cioccolato sciolto risalì lungo la superficie biscottata e si consolidò, di nuovo freddo e cremoso, ma non in una semplice sfera, bensì in una testa di gattino.
«Allora» si schiarì la voce il rivelato mago mettendo a posto quella che doveva essere una bacchetta magica «Che ne pensi ora? Mi credi?».

Dopo che Casey aveva avuto la seconda possibilità di mangiarsi il gelato, i due levarono le tende dalla gelateria e si diressero da un'altra parte. Eliphas, inizialmente soddisfatto delle emozioni scatenate all'interno della piccola, adesso aveva riacceso sul suo volto l'espressione conturbata iniziale. Il motivo di questo repentino cambiamento fu che Casey ebbe molte domande da fare.
«Ma allora io sono una strega? Posso volare? Posso trasformare le mie insegnanti in porcospini? Esistono i Draghi? Posso cavalcarne uno come Daenerys Targarien?»
Era senz'altro felice di quella scoperta. Ora che sapeva che "speciale" voleva dire essere "magica" e che Ogguots era una scuola per maghi e streghe lei era al settimo cielo. Si sarebbe lasciata finalmente il grigio orfanotrofio alle spalle, avrebbe avuto una nuova vita, conosciuto cose che nessuna delle sue compagne avrebbe mai potuto immaginare. Era un sogno.
«E i maghi dove stanno? Io non ne ho mai visti in giro!».
*E ora comu l'astuto a chista?*8. Pino si passò una mano sulla fronte mentre attraversavano l'uscio del Paiolo Magico, non solo per la noia che tutti quei quesiti gli provocavano ma anche, e soprattutto, per non farsi riconoscere da eventuali ministeriali appollaiati al bancone a prendersi un drink.
«Denise chi?! Ma ti è piaciuto o no sto gelato?».
«Certo che sì! Era cioccolato fondente di Modena, no?».
«Di Modica! Attena a come parli, picciridda».
Finalmente si fermarono. Casey vide davanti a sé uno spoglio muro di mattoni e rimase interdetta. Si voltò verso Redwine e gli disse: «Allora? Rispondi!».
Santa Pazienza. Pino sospirò, ma prima di uscire per l'ennesima volta la bacchetta magica dalla manica - Casey gli aveva chiesto di fargliela rivedere almeno cinque volte durante il tragitto - decise di introdurla per bene in quel nuovo mondo. Fu proprio il cioccolato ad ispirarlo, e non il dolce in sé.
«Calma, sta calma» le intimò con un gesto della mano. Una volta che la piccola, girati gli occhi, si rasserenò, prese fiato per cominciare a raccontare.
«Immagino che tu abbia capito che non sono di qui. Io vengo da un posto che sta proprio vicino Modica. Il mio paesello, Trizza, è un comune della grande città di Catania. Ci ho lavorato spesso lì, in quello che noi definiamo il nostro "borghetto magico". La città in passato è stata distrutta molte volte dalle colate del vulcano Etna, ai cui piedi si trova. L'ultima ha proprio sepolto la vecchia Catania, verso metà Seicento, ma è rimasta intatta sotto la terra. Noi maghi catanesi ci nascondiamo lì dai babbani, i non magici. Abbiamo i nostri negozi, le nostre case lì e anche qualche gelateria in cui abbiamo il gelato di Modica» spiegò facendole un occhiolino «il tutto affacciato sulle rive del bellissimo lago sommerso di Nicito. Dunque, come avrai inteso, non dobbiamo farci vedere dagli altri e l'entrata ai sotterranei deve rimanere segreta. Si trova per l'esattezza sotto il Duomo della città, alle Terme Achilliane. I catanesi non vi entrano mai, anzi sono così ignoranti da non sapere che sotto di loro c'è l'intero passato della comunità; e noi, dunque, entriamo lì, bussiamo a un muro e questo si apre sul mondo magico. Un muro molto simile a questo».
Sotto lo sguardo incuriosito della bambina, Pino estrasse la bacchetta e toccò una serie indefinita di mattoni. Quell'asso nella manica era stato un vero e proprio colpo di genio, un'improvvisazione da maestro. Casey non avrebbe mai saputo che i catanesi erano fin troppo pigri per costruire una città magica nel sottosuolo e che invece erano abbastanza furbi da utilizzare quelle gallerie per il contrabbando di ingredienti illegali per pozioni. Questi sarebbero risaliti in superficie per dirigersi dritti verso il porto, nascosti dentro spesse barrette di cioccolato modicano da esportazione. Lui, una ventina d'anni fa circa, ci aveva lavorato come facchino.
La porta magica di Diagon Alley si aprì davanti a loro. «Sei pronta, picciridda le chiese lui.
La bambina sposto lo sguardo dalla strada brulicante di maghi e streghe al suo accompagnatore, e scossa da un fremito gli disse: «Forse».
Allora il mago le lanciò un'occhiata fra lo scherzoso e il minaccioso e lei, non riuscendo a trattenere un sorriso, si corresse.
«Sì».

1. Acitrezza, comune del catanese.
2. "Maledizione a lui e a me medesimo": macumba sicula che mira all'augurare a qualcuno un decesso fulminante.
3. "Si sbrighi".
4. "Bambini".
5. "Andiamo".
6. "I bambini vanno gettati in mare. Se nuotano, bene, altrimenti se ne possono fare altri".
7. Modo di dire che in poche parole vuol dire "stai fermo dove ti trovi", ma che si usa anche per dare un nome all'innata pigrizia dei siciliani.
8. Letteralmente: "e ora come la spengo a questa?"

 
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view post Posted on 15/9/2019, 21:51
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Pozioni, estratto lezione IV
Cominciare la giornata con due ore di Pozione per la maggior parte degli studenti non era proprio il massimo. Dopo aver fatto colazione con cereali zuccherati, latte al cioccolato e biscotti al burro, entrare nei sotterranei e ricevere una bella zaffata di odore di interiora in pieno volto non era esattamente l'ideale per favorire una tranquilla digestione. Casey però, che oltretutto amava mangiare salato - bacon, uova, e se gli Elfi le avessero messo a disposizione la senape la mattina, sarebbe stata persino in grado di spalmarsela sulle fette biscottate - non provava alcuna difficoltà nel varcare la soglia dell'aula di White. Si sedeva sempre nella prima fila di banchi, apriva il suo erbario personale per appuntare nuove nozioni sulle erbe e le spore e partecipava attivamente. Ormai non erano più un problema quegli strani odori, il pizzicore al naso all'apertura dei barattoli di bile di armadillo, talmente vi era abituata. Certi strascichi però si facevano percepire fino a sera. La volta buona che era tornata in dormitorio ciucca come il mozzo di una nave pirata dopo un'intensa giornata di rum e pulizie, fu quando aveva distillato per la prima volta l'Assenzio, base per la Pozione dell'Illusione. Ma ciò le fu d'insegnamento, e le successive volte che si ritrovò a compiere la distillazione dell'alcol in classe fu in grado di non farsi prendere in giro dai compagni.
«Che schifo» diceva sempre Nimue, una Grifondoro del secondo anno, non appena cominciava l'esercitazione. «Ogni volta che esco da questa classe devo rifarmi il bagno. Persino la mia gatta, Milù, si schifa a starmi vicino dopo aver pestato il fegato di biscia nel mortaio».
Casey rideva dietro il suo calderone in peltro, e continuava a muovere su e giù il pestello. A parer suo vi erano due possibilità per il naso di un pozionista: o nel corso degli anni perdeva totalmente l'uso dell'olfatto o ne sviluppava uno potentissimo. A giudicare dal fatto che riusciva a captare l'odore dei calzini sporchi dei giocatori di Quidditch nella lavanderia degli spogliatoi sin dall'entrata al campo, probabilmente lei andava per la seconda.
Di sicuro sapeva che un buon naso era utile per percepire subito la qualità di un ingrediente, lo stato di cottura di una pozione o per distinguere ingredienti molto simili. Mai avrebbe creduto che un profumo potesse andare a colpire qualcosa di così personale e profondo, come quello profuso dagli elisir proposti quel giorno a lezione. C'era da dire inoltre che per lei Pozioni era una certezza, un processo matematico che, se seguito alla perfezione, avrebbe condotto indiscutibilmente al successo. Che rientrasse nell'irrazionale era per lei cosa impossibile, anche se si trattava dell'opinione un po' ingenua di chi non ha mai provato gli effetti di un preparato su se stesso.
Il primo a sconvolgere i suoi pensieri di routine fu l'Elisir dell'Euforia. Dal colore di un giallo intenso proprio come i petali dei girasoli, sembrava emanare energia, una spinta vitale ad ogni sua bollicina. Non si sarebbe stupita se lì dentro il prof ci avesse messo della Coca Cola o, peggio, della Red Bull – anche se probabilmente lui non sapeva cosa fossero. Era paragonabile a uno di quei caffè al Guaranà o al Ginseng che vendono nei locali bio, dai colori sgargianti e tutti diversi che dopo averli bevuti ti lasciano con gli occhi pallati. Avvicinandosi ancor di più al calderone colmo di Elisir, un odore acre, intenso e a tratti dolciastro come quello delle primizie (le scaglie di Sirena miste al Gelsomino) le invase le narici. Trovò improvvisamente tutto molto divertente, e bastò un'occhiata complice alla sua compagna a lato per scoppiare a ridere con tanto di lacrime cadenti di traverso dagli occhi. Rise così tanto, così forte, da piangere e da sentire le viscere ribaltarsi nella pancia, e non riuscì nemmeno a sollevarsi per chiedere scusa con lo sguardo al professore che nel mentre tentava di spiegare che l'Elisir dell'Euforia, se inalati i suoi vapori, induce ad attacchi di ridarella acuta.
Il gancio finale, in pieno volto, glielo diede l'Elisir successivo: l'Amortentia. Il color madreperla lo faceva sembrare uno di quei derivati del latte al sapore di frutta, un milkshake o un frozen yogurt alla vaniglia o alla fragola, tranne che per la consistenza decisamente più fluida. Il modo in cui si avvicinò alla pozione, ancora con le lacrime agli occhi, non le diede il tempo né di presagire gli effetti che avrebbe subito né di prepararsi ad essi. Piena di risa e con la testa scombussolata dall'Euforia, sostò di fronte al calderone tenendosi la milza dolorante, ma dopo pochi istanti un richiamo, possibilmente proveniente da un'altra dimensione, la zittì e la trascinò con sé.

C'era un fuoco che ardeva nel camino. I ceppi scoppiettavano, il rosso vermiglio effondeva il suo calore facendo brillare l'oro dei drappi. Nell'oscurità del vuoto, nel riverbero fra le mura della sua mente, non si accendevano immagini, non quelle prettamente del ricordo. L'odore percepito, che faceva arricciare le sue narici in prossimità della madreperla, si era ancorato in profondità, legandosi sì a un ricordo ma riproponendoglielo vivido e vibratile di vita. Lo riconosceva, era una certezza: la corteccia spugnosa bruciava, si anneriva, si trasformava in cenere; le venature del legno si seccavano divenendo fogli di polvere; poi il calore che si dibatteva sulle anziane mura di pietra e le sue gote, bianche e arrossate al vento invernale, finalmente riscaldate si scioglievano come ghiaccioli. E quel profumo – il profumo della Sala Comune, il profumo di casa – era una certezza, una profonda certezza, e un'ondata di gioia le travolse il petto.
Fu semplice scivolare nella seconda certezza. La morbidezza al tocco e i muscoli rilassati. La sensazione di un abbraccio, poi la buonanotte e un sonno ristoratore. Sapeva di sapone, di fresco e pulito. Il rosso delle fiamme era diventato quello di lunghi capelli avvolgenti, le spire di una donna amorevole. Finalmente, si disse proprio come si era detta la prima volta, un letto vero in una stanza vera. E questa la posso chiamare casa? L'appartamento di Drinky e il lettino rifatto ogni mattina, prontamente, dopo la colazione, quando alle suore poco importava dove fosse. Si era sempre chiesta che sapone usasse. Era ciliegio? Mandarino? Pino marittimo?
L'ancora si era ormai depositata sul fondale, stabile, e niente avrebbe potuto smuoverla. Ma un altro richiamo la fece voltare in una terza direzione, e la nave a diporto parve ribaltarsi per la forte risacca. Come una brezza improvvisa, l'ultimo profumo sembrava non poter richiamare nulla. Parlava, sussurrava, ma sembrava voler evocare, provocare, distruggere le restanti certezze, piuttosto che risalire a un ricordo. Evocava un fiore, ma note alcoliche la schiaffeggiavano coi suoi petali piuttosto che accarezzarla, facendola girare a vuoto sul ponte della sua nave in cerca di una direzione. Da dove vieni? Chi sei? Perché esisti? Non ti ho mai sentito da queste parti, non ti ho mai visto, gridò. Tuberosa, foglie verdi, fiori e frutta. Sembrava invitarla a un banchetto, a un dolce ancora caldo di forno posato sopra il davanzale di una finestra, ma vi era qualcosa in più che cancellava via quest'immagine ghignando per lo scherno. Aveva un sapore carnale, misto al sale, quello che si raccoglie sulla pelle quando si esce dal mare. Ed era questo che lo rendeva un punto fermo e anche l'infinito, come il mare, la sua violenta risacca e il suo orizzonte invalicabile. Ma non vi erano certezze, perché così come l'odore dei ceppi e quello delle lenzuola, questo ricreava una sensazione fisica, ed essa riguardava solo una mancanza. Un contatto mancato, la sensazione delle mani vuote che per colmarsi si stringono in un pugno.

Casey aprì gli occhi e sbatté le palpebre. Persino la luce acquitrinosa che trapassava le finestre dei sotterranei le parve accecante dopo quel sogno. Dietro di lei qualcuno la prendeva a gomitate per prendere il suo posto, ansioso. Si scostò portando con sé domande su domande. Sapeva di aver già percepito quel profumo, era chiaro, ma non si ricordava dove.

 
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view post Posted on 31/8/2020, 22:53
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CONTEST A TEMA AGOSTO 2020 ⟶ ALTER EGO
SAINT VINCENT INSTITUTE, LONDRA ⟵ AMBIENTAZIONE
ENOIZATNEIBMA ⟶ ARDNOL, PALUDE OSCURA
⟶ C'era una volta,
in un regno chiamato Ardnol, un Cavaliere che aveva giurato fedeltà ai suoi amici. Per lui non vi era nulla di più importante della loro felicità e avrebbe combattuto contro chimere, smosso mari e monti, per coloro che possedevano un pezzetto del suo cuore. Fra di essi vi era la Principessa, una fanciulla tanto dolce quanto bella, la cui voce armoniosa faceva schiudere i boccioli dei prati e chinare in riverenza le fronde degli alberi al suo passaggio. Vi era inoltre l'Inventrice geniale, una figura dedita al sapere e ligia al dovere, sempre al fianco del Cavaliere e pronta ad aiutarlo in ogni occasione, compartecipe del suo giuramento. Gli amici erano molti, anche perché il Cavaliere non faceva molte distinzioni: chiunque abitasse in quelle lande meritava gioia e attenzioni, tutti tranne il famigerato e terribile Mostro Oscuro.
Prima di HogwartsS
uor Maria Orsola aveva ragione, si poteva benissimo fare a meno delle Barbie e delle macchinine, anche se Casey, Sarah e Johanna interpretavano in maniera molto diversa quell'affermazione. Quando le risorse mancano e la testa dei bambini non è stata ancora plasmata per incastrarsi alla perfezione negli involucri dei giochi industriali, persino il cartone dei rotoli di carta igienica se attaccati l'uno con l'altro sono un efficientissimo cannocchiale o una spada pronta per essere infilzata nel cuore del nemico. Per non parlare degli scatoli dei dolci che, se ritagliati bene, diventano elmi a prova di fuoco di drago, e dell'acqua piovana mescolata con la farina, lo zucchero e uno sputo, che dopo aver sbattuto per tre volte i piedi per terra e roteato su se stessi prima in un senso e poi in un altro, si tramutava una pozione potentissima in grado di contrastare la morte.
Per quanto riguardava Suor Maria Orsola, poteva essere solo fastidioso che ogni tanto scomparisse un sacco di farina "00" dalle dispense dell'orfanotrofio o che una bambina arrivasse arrossata dal pianto in aula ripetendo che un certo Cavaliere le aveva trafitto la pancia o tagliato le gambe. Si trattava di un gioco, era un modo simpatico, per quanto fittizio, di dimenticarsi per un po' della tristezza di quel posto, anche se lei non si lasciava andare ad intenerimenti di sorta e credeva che le punizioni dovessero scandirsi come rintocchi regolari ogni qual volta situazioni simili si presentavano. La farina andava raccolta da terra e i "calderoni" per gli intrugli gommosi lavati e disinfettati; Rossella dalle gambe tagliate doveva essere resuscitata e reintegrata nel gioco, altrimenti tutti in classe a copiare cento volte la frase alla lavagna e nessuno si sarebbe più divertito per un bel po' di tempo. A volte poteva essere più difficile di così, specie quando i compiti erano troppi o si avvicinavano le festività, ma le sue dita rimanevano pronte ad afferrare le orecchie di quelle piccole anarchiche.
Per quanto riguardava Casey, Sarah e Johanna, il mondo da loro creato, Ardnol, con i castelli e i mostri, era vero quanto lo era Londra, col Big Ben e le suore dell'orfanotrofio. Non c'era modo di sfuggire al suo richiamo, nemmeno durante le lezioni e le ore di studio. Bastava che Suor Maria Orsola si voltasse un attimo e loro erano in grado di trasformare la classe in un campo di battaglia, lanciando dardi infuocati a forma di fogli di carta a righe appallottolati, imbevuti d'inchiostro di penna rossa per macchiare, e declamando altisonanti parole di guerra.
«Io, il Cavaliere di Ardnol, ucciderò il Mostro Oscuro e porterò la sua testa alla nostra amata Principessa!» sentenziava a un tratto Casey alzandosi dalla sedia e sbuffando da dietro la lunga frangetta nera ora appiattita dall'elmo di cartone. «E io, Inventrice di Ardnol, gli staccherò le ali e le userò per volare con la Principessa fino alla Luna!» replicava invece Johanna alzandosi dalla sedia, forte dell'idea di non essere la sola a detestare le ore di Letteratura Inglese.
Le pallottole di carta volavano in direzione della lavagna, con l'intenzione di colpire la povera donna e di sporcarla di rosso sangue fra le risate delle compagne. Quando ciò accadeva, anche le orecchie delle piccole birbanti diventavano rosse rosse per la ferrea presa della suora, che le acciuffava e le sbatteva in un'aula vuota a scrivere cento volte la frase sulla lavagna con la promessa che se alla fine dell'ora ne avesse contata una in meno avrebbero saltato il pranzo. In tutto ciò la Principessa Sarah se ne stava seduta al suo posto ridacchiando, con gli occhi ammirati puntati sul suo prode Cavaliere, pronta a gridargli «Attento, il Mostro è dietro di te!» quando la suora si avvicinava. Comunque era sempre troppo tardi, il mostro spalancava le sue fauci, usciva gli artigli e sia il Cavaliere che l'Inventrice si ritrovavano catapultati fuori dalla classe.
«Torneremo, Mostro! Costi quel che costi!»
Il sipario si chiudeva, Suor Maria Orsola interrogava le allieve più arrabbiata del solito mentre la classe tornava alla quiete iniziale, ma per Casey e Johanna tutto ciò non poteva che essere un succulento sviluppo di trama e l'inizio di una nuova avventura. «Dobbiamo salvarla, Inventrice, o morirà! La Principessa Sarah è la nostra più cara amica e il Mostro non nemmeno è in grado di immaginarsi cosa sia la pietà.»
«Hai ragione, Cavaliere. Però prima dobbiamo trascrivere cento volte gli incantesimi scolpiti su queste pietre, così li comprenderemo meglio e potremo fare il nostro piano di attacco!»
La storia si ripeteva sempre uguale, il gioco non finiva mai. Sarah, la più tranquilla delle tre, rimaneva in classe e veniva interrogata come punizione per aver partecipato trasversalmente alla rivolta, mentre Casey e Johanna, qualche aula più in là, elaboravano un dettagliato piano per salvarla. Il "vissero per sempre felici e contenti" era nell'aria, ma combaciava alla perfezione con quella realtà, e sembrava che nulla, nemmeno il Mostro Oscuro, avrebbe potuto rompere la loro armonia.

La battaglia ⟵
contro il terribile Mostro Oscuro durò molte notti e molti giorni. Il Cavaliere e l'Inventrice erano feriti e sconsolati. la Principessa giaceva esanime nella sua prigione che presto sarebbe stata anche la sua tomba. Sembrava tutto finito, la morte vicina, ma la spada del Cavaliere si conficcò nel ventre del Mostro, le pistole laser dell'Inventrice gli perforarono le ali. La bestia scivolò nell'ombra, scomparì da ogni sguardo per leccarsi le ferite, la Principessa venne ritrovata in tempo e liberata. Tutti e tre poterono finalmente tornare nel Regno di Ardnol e alle loro vite, la principessa a cantare con la sua voce soave, l'Inventrice a progettare la sua nave per arrivare fino alla luna e il Cavaliere a proteggere i suoi amici. Il male sembrava essere stato estirpato fino alla radice, il Cavaliere era pronto a dichiarare il suo amore alla Principessa e a sposarla, ma all'improvviso il Mostro Oscuro riemerse dalle tenebre ancor più feroce di prima e spazzò via i tre prodi con un sol colpo di coda. Bramoso di vendetta non li risparmiò e scagliò su di loro un potentissimo maleficio. Niente sarebbe stato più come prima.
13 Agosto, sei anni fa
«La prossima volta che vi coglierò sul fatto non sarò così clemente, ti avverto. Spero che il tuo inutile scilinguagnolo sia stato morigerato dalla sacralità del rosario. Nessuna spiegazione è in grado di giustificare te e nemmeno la tua amica. Provo pena e vergogna per voi. Mi auguro dal profondo del mio cuore che nella scuola in cui andrai ti insegneranno i giusti valori da onorare. Adesso va', la cena è in refettorio.»
La pelle grinzosa di Suor Maria Orsola, la direttrice dell'orfanotrofio Saint Vincent, assomigliava a quella di un Grugnocorto Svedese piuttosto anziano. Casey poteva metterci una mano sul fuoco, anche se le fattezze del drago le erano capitate sotto lo sguardo al Ghirigoro per puro caso, durante il suo breve, brevissimo primo assaggio del Mondo Magico. Il parallelismo era stato lo spunto di riflessione a cui aveva incurantemente dedicato ogni Ave Maria e Padre Nostro richiesti, e lo stesso punto su cui verté la sua attenzione mentre la signora intonacata tentava di inocularle un po' di vergogna. L'unica cosa in cui la suora riuscì, digrignando i denti e costringendola all'inginocchiatoio per tutto il pomeriggio, fu confermarle quella similitudine.
Casey uscì dall'ufficio della direttrice senza dire una parola, assorta nelle sue meditazioni. Camminava a passo lesto, mantenendo gli occhi coperti dal vaporoso frangettone nero chini sulle lastre marmoree del pavimento che scorrevano sotto di lei. Chiunque l'intravide uscire da lì in quello stato, dopo cinque ore in ginocchio di fronte a un crocifisso, si figurò un'anima in pena piena di rimorso, quando invece rabbia e umiliazione avevano solo rinforzato il suo orgoglio. Adesso che non era più una seienne impaurita del giudizio della suora, l'uzzolo di contraddirla e di addossarle tutti gli epiteti poco eleganti che conosceva si manifestava forte e pruriginoso. L'unica forma di dispiacere che provava riguardava le sue amiche: nemmeno Sarah doveva aver ricevuto caramelle e carezze dalla madre badessa e, in tutto quel casino, non erano nemmeno riuscite mettere il punto di chiusura al racconto che avevano inscenato. Johanna se ne era pure scappata al sentore del pericolo, ma forse era meglio così: lei non era in grado di comprendere quanto Ardnol e il Cavaliere fossero importanti per lei, e la codardia poteva essere punita solo con l'esclusione a vita dal Regno.
Si ritrovò in un battibaleno in mensa, dove le classi dell'orfanotrofio si erano riversate per consumare l'ultimo pasto della giornata. Notò con disappunto che Sarah e Johanna erano sedute allo stesso tavolo rettangolare e le raggiunse dopo aver preso il piatto di wurstel e patate bollite che la cuoca le aveva messo da parte. Si sedette con loro con la stessa tranquillità che accompagnava una delle qualsiasi cene in refettorio, nonostante il suo visetto tradisse una nota di risentimento nei confronti di Johanna. Sarah, al suo arrivo, aveva mantenuto gli occhi fissi sul contenuto del suo piatto. Doveva star ribollendo anche lei di rabbia.
«Finalmente la tortura è finita.» Casey ruppe il silenzio del tavolo sprizzando boria e noia da ogni parola. «Voi da quanto siete qui?» Addentò un wurstel, infilzato con la forchetta senza esser stato nemmeno tagliato a pezzettini degni di una bocca piccola come la sua. Johanna, intenta a masticare la sua ultima patata bollita, le riservò uno sguardo piuttosto neutro, mentre Sarah continuò a fissare imperterrita il potpourri di patate schiacciate e wurstel sminuzzati e intoccati con cui aveva giocato fino a quel momento.
«Da un po'. Ha usato il righello?» chiese Johanna con distacco, lasciando cadere un po' di poltiglia gialla sul piatto. I suoi occhi scivolarono sulle mani della nuova arrivata, trovando i segni lasciati dalla Madre Superiora. Casey di rimando si guardò le dita arrossate attorcigliate attorno alla posata e ghignò. Per qualche strana ragione ne andava orgogliosa e detestava che l'altra credesse il contrario. «Sì, ma non importa. Tanto fra meno di un mese me ne andrò via da qui.» Dunque fece tuffare di nuovo la forchetta nel piatto infilzando il secondo wurstel. Le altre avevano alzato insieme lo sguardo dalla cena; Johanna cercò prima lo sguardo di Sarah, che però si era concentrato su un punto oltre il tavolo, poi fece una smorfia di disapprovazione. Nessuno sembrava voler toccare il discorso così spesso quanto Casey. «Perché te ne andrai nella tua scuola fatata?» chiese di rimando alzando le sopracciglia. Casey le sorrise come sorriderebbe la persona più fortunata del mondo, o che vuol far credere di essere tale. Continuò la domanda ampliandola in una risposta: «…e non dovrò più vedere per tutto l'anno la sua faccia rugosa e sentirmi il suo fiato puzzolente sul collo.»
Il silenzio ricadde nuovamente sul tavolo. Johanna ripulì il piatto delle ultime briciole, Sarah ormai sembrava essersi arresa all'inedia. Il volto di quest'ultima aveva preso ad arrossarsi, a comprimersi in una smorfia sofferente. Le sopracciglia si spingevano l'una contro l'altra generando dei piccoli solchi nella sua pelle giovanissima. Gli occhi e gli angoli della bocca si erano letteralmente tuffati all'ingiù. Casey sapeva che l'amica aveva preso molto più male rispetto all'altra il fatto che se andasse ad Hogwarts. Rassicurarla di uno scambio epistolare incessante, proprio come i veri cavalieri e principesse, non aveva ottenuto molti frutti. Il suo sorriso tornava solo quando giocavano insieme.
«Anche con Sarah ha usato il righello.» Le parole di Johanna, improvvise, andarono a colpire lì dove desideravano. Casey strinse più forte le dita attorno alla forchetta, e aggrottò le ciglia sopra le sue patate bollite. «E' normale» ribatté pronta. «E' una suora, è vecchia ed è stupida. Infatti è il Mostro Oscuro.»
A tal punto Johanna sembrò non reggere più. Posò forchetta e coltello e guardò seria la faccia della sua interlocutrice troppo spavalda. «Non è normale che Sarah vada in punizione per colpa tua!» La rabbia si intensificava assieme al rosso delle sue guance. Casey si smise di mangiare e sentì che un pezzo di patata insipida le si era bloccato nello sterno. «Io non ho fatto nulla!» affermò tossicchiando. «Non è vero! Certe cose non si fanno e Suor Maria Orsola ha ragione, devi solo vergognarti!»
A Casey parve che il pezzo di patata insipida le volesse risalire su per la gola. Quelle erano le stesse colpe che la Madre Superiora le aveva rimproverato, ma sentirsi accusata da un membro della sua cricca era tutta un'altra storia. Aveva sperato che Johanna capisse, che non fosse anche lei così ottusa. L'armatura del Cavaliere, in fondo, serviva proprio a parare gli attacchi dei nemici, ad impedire che le loro lame affondassero nel suo cuore. Si voltò verso Sarah per cercare il suo appoggio ma si ritrovò solo due occhi lucidi puntati addosso. Si sentì sprofondare e il senso di colpa le rese lo stomaco pesante; dunque indossò la sua armatura. «Io faccio quello che farebbe il Cavaliere. L'ho disegnato così e così si deve comportare. Di sicuro il nostro gioco non può essere ostacolato da una vecchia bacucca come lei e da una scema come te! Il personaggio è mio e decido io cosa prova e cosa fa. Se non ti sta bene puoi anche fare ritirare l'Inventrice in un convento, ad Ardnol ci penso io, e se vuole anche Sarah!»
Il tono delle loro voci si alzò il giusto per poter sovrastare il cicaleccio generale del refettorio e per attirare l'attenzione della suora più vicina. Vennero rimproverate e zittite; chi aveva finito la cena poteva andarsene a letto. Johanna si alzò e corse verso l'uscita per andare in dormitorio, Sarah spostò il piatto lontano da sé con una manina rigata di rosso per affermare la sua mancanza di appetito e fare altrettanto. Casey rimase imbronciata al suo posto e la seguì con lo sguardo. Avrebbe voluto trattenerla e chiederle scusa, perché da quel che aveva capito tutti lì dentro avevano visto male le sue azioni, ma si vergognava troppo per continuare a parlare. Così fu Sarah ad avvicinarsi e, con grande sorpresa di Casey, le chiese con tutta la sua tristezza: «Perché hai paura di quello che pensa Johanna?»
La domanda acquisiva senso nel pianto trattenuto, nel rossore del volto corrucciato e nelle parole pronunciate ad alta voce da Casey. Forse acquisiva senso anche nell'orgoglio che vibrava nel suo petto, ma proprio secondo quell'orgoglio non poteva averne. «Io non ho paura di niente» fu la risposta, ma evidentemente non era quella giusta. Sarah si voltò delusa e uscì dal refettorio, lasciando Casey da sola a vedersela col suo piatto.
⟶ Tanti anni
dopo che il Mostro Oscuro aveva fatto la sua orribile maledizione, Ardnol era caduta nella più totale rovina. Le sue foreste erano state bruciate, le creature cacciate e divorate dagli orchi. I pochi villaggi rimasti subivano carestie ed epidemie. Sembrava che gli eroi del Regno si fossero dimenticati dei loro amici, e vivevano ognuno per conto suo, lontani da mondo. Il Mostro contemplava il tutto dall'alto della sua torre. Si pentiva di aver distrutto la vita di quelle lande e di aver avvelenato con la magia il Cavaliere, l'Inventrice e la Principessa, ma sapeva che se li avesse risparmiati loro non avrebbero fatto altrettanto con lui. Aveva deciso di mettere una parte di se stesso dentro ognuno di loro con quella maledizione, per ricordargli cosa volesse dire essere un Mostro. Non sarebbero mai più stati gli stessi.
23 Luglio, oggiS
uor Maria Orsola aveva le sue idee su come doveva girare il mondo. Forse erano un po' retrograde, ma secondo lei applicandole non avrebbe mai fatto male a nessuno. Fino a quel giorno si era auto dichiarata incapace di sbagliare, soprattutto nelle metodologie che sfruttava per impartire l'educazione alle sue studentesse. Di fronte a sé, però, in quel preciso momento, aveva una ragazza totalmente incapace di gestire la rabbia e una che si arrogava il diritto di scagliare la prima pietra, e non sapeva che pesci prendere. Poteva pregare per loro, poteva costringerle a studiare e ristudiare alcuni versetti della Bibbia, tentare di convincere una che il posto in cui l'avevano costretta ad andare ogni anno da sei a quella parte l'aveva solo rovinata e l'altra a imparare un briciolo di umiltà dalle suore del convento. Nonostante tutto - nonostante il risentimento che covava nei confronti di quegli squilibrati che si facevano chiamare "maghi" e delle insegnanti dell'orfanotrofio del tutto incapaci come educatrici - ogni sua speranza rovinava sotto il peso della certezza di aver sbagliato qualcosa con entrambe. Guardava le nocche rosse e spezzate di un pugno e il labbro gonfio e spaccato che questo era andato a colpire e si sentiva in colpa. Avrebbe voluto far comprendere loro che, qualsiasi fosse stato l'errore compiuto quando era più giovane, la vecchiaia le aveva portato consiglio. Poteva ascoltarle, poteva aiutarle a comprendere i loro problemi o almeno avrebbe potuto provarci.
«Come dovrei interpretare questa situazione, ragazze?» aveva provato a chiedere, ma subito dopo era stata investita dallo sfogo dell'una e dell'altra.
«Questa pazza mi ha colpita! Io non ce la voglio più qui, è un pericolo per tutte noi. Ogni volta che torna è sempre un inferno, noi abbiamo paura a starle vicino e a dormire nei nostri letti. Abbiamo paura di quello che potrebbe fare con quelle manacce da...»
«...ha cominciato lei! Se non foste tutte così bigotte qui dentro comprendereste cos'è la vita vera e queste idiote mi lascerebbero in pace. Non avete capito un cazzo di me e non potrete mai farlo! Io ci provo a ignorarvi ma voi ce la mettete tutta per farvi prendere a...»
Se lei si era barricata dietro i muri del rigore anni addietro per sublimare ogni peccato suo e altrui, adesso i muri elevati da quelle giovani le schiacciavano il cuore contro la poltrona. Le doleva quel cuore da vecchia, per tutto quel dolore che vedeva. Era la Madre Superiora del convento e la direttrice dell'orfanotrofio, ma non era in grado di penetrare le loro barriere fino ai loro di cuori. La debolezza non era un'opzione, il suo ruolo era importante e andava rispettato. Odiava quella maschera intessuta d'intransigenza e austerità, ma era l'unica con cui si sentiva in grado di riportare la quiete fra le mura che governava.
Si alzò dalla poltrona e fece saettare l'indice destro in direzione della porta. «FUORI DI QUI!» La voce della Madre Badessa tuonò riducendo al silenzio le ragazze. «Sono stanca delle vostre lamentele. Non voglio più sentirvi. Sconterete la vostra punizione fino alla fine dell'estate. Se tutto ciò si ripeterà non sarò di nuovo così clemente.» E tutto tornò come prima, con le sue variazioni del caso, ma tutto come prima.
Qualche ora dopo
Dopo l'ultima volta che aveva indossato la vesti del Cavaliere, sei anni or sono, Casey non aveva più rivolto la parola a Johanna e Johanna non aveva più rivolto la parola a lei. Il rapporto con Sarah, invece, resistette per alcuni mesi, finché non sbiadì via via che lettere inviate con un gufo di Hogwarts non ricevettero più risposta. Ormai aveva dimenticato Ardnol, e la Londra Magica era diventato il nuovo Regno da cui si sentiva accolta. Passava lì la maggior parte delle sue vacanze estive, giorno e notte. Non tornava per i pasti in orfanotrofio e sgattaiolava dalla finestrella del bagno in comune del primo piano dopo che tutti si erano addormentati per incontrare Camillo. Non c'era più niente che la legasse a quel posto, a parte il lettino che era costretta a occupare fino alla maggiore età e sui cui in quel momento era sdraiata.
Guardava le sue nocche. Aveva sferrato un pugno a Johanna in piena faccia, le aveva spaccato un labbro. Portava i segni della sua furia sulla pelle, incrementata dall'inaccettabile consapevolezza di non poterla sfogare con la sua bacchetta, che doveva rimanere in un baule sotto il letto per tutta la permanenza nel tugurio. Ribolliva ancora e provava un profondo odio verso la compagna, un odio che nessun senso di colpa inculcatogli da Suor Maria Orsola era in grado di sedare. Non se ne pentiva, doveva farsi rispettare lì dentro, anche se vi sarebbe rimasta ancora per poco. Dopo quelle vacanze niente più pugni, niente più violenza, niente più suore. Quel posto aveva la capacità di farla diventare un mostro, qualcosa che ad Hogwarts non avrebbe mai voluto essere. Quei ragionamenti avrebbero fatto arricciare il naso ad Oliver Brior, si disse, ma tanto lì non era un prefetto. Doveva resistere ancora un po', fare finta che quel luogo e tutte le sue abitanti non esistessero, e poi andarsene. Dove non lo sapeva ancora.
Casey era fin troppo assorta nei suoi pensieri per rendersi conto della figura che era giunta fino al suo letto, alle sue spalle, e soprattutto di chi si trattasse. Alzò il capo e poi il resto del corpo dopo aver sentito la sua voce.
«Sembra che tu non abbia poi così tanta paura di Johanna.» Sarah, il viso non più quello di una bambina, si sedette in un angolo del materasso, ai piedi del letto. Sembrava serena, aveva la bocca flessa in un sorriso quasi impercettibile. Casey la osservò per qualche secondo, l'animo in subbuglio, e si voltò riponendosi nella posizione iniziale, ignorandola.
«Tu non avevi paura di niente, vero? Me lo ricordo» continuò l'altra non lasciandosi scoraggiare dall'indifferenza. «Tuttavia rimango sempre dell'idea che ci sia almeno una cosa che ti spaventa molto.» Casey avrebbe voluto dirle che aveva paura di molte cose, invece rispose, non riuscendo a trattenere la rabbia: «Tu non sai un bel niente di me, soprattutto dopo anni di assenza in cui mi hai evitata come se fossi un'appestata. Sei un'invidiosa, come tutte le altre.»
Questa volta fu Sarah a rimanere in silenzio. Posò gli occhi sulle lastre di marmo del pavimento e sondò le fughe come se lì in mezzo giacesse la replica più adatta a quelle accuse. «Non sono invidiosa. O meglio... lo sono ragionevolmente, ma non è per questo che non ti ho più scritto.» «Non voglio ascoltarti.» La interruppe l'altra con tono violento, alzandosi di scatto. Sarah si rimise in piedi di conseguenza. «Hai dato un pugno a Johanna.» «Dunque sei qui per farmi una ramanzina anche tu? Per farmi pentire dei miei peccati? Gliel'ho dato perché-» «Perché ti ha detto che sei una lesbica.»
Ripiombò il silenzio. Da che le trafiggeva gli occhi col suo sguardo inferocito, Casey distolse lo sguardo dall'ex-amica di infanzia. Detto così suonava stupido, enormemente stupido. Lei non era lesbica e tutto l'insieme di quei bei epiteti che Johanna e le sue amichette le addossavano. Non avrebbe infilato le sue manacce da lesbica sotto le loro lenzuola, né le spogliava con lo sguardo. Aveva un ragazzo e si tagliava i capelli corti perché le andava così. «Quelle troie si attaccano a delle inezie da troie perché non hanno altro.»
Sarah si strinse fra le spalle, abbassò lo sguardo e lo riposò su Casey. «Johanna è...» «Una stupida? Una bigotta?» «...molto cattolica.» La voce timida e flebile di una non riusciva a non lasciarsi sovrastare da quella dell'altra, la cui unica arma, privata della sua bacchetta, era l'aggressività di cui si rivestiva. C'era qualcosa in Sarah che la rendeva ancor più volubile del solito. Quando ella si avvicinò per poggiarle una mano sulla spalla, Casey arretrò d'un passo facendo arrestare le sue dita sottili a metà del percorso, che poi si andarono a ricollocare, questa volta raccolte in un pugno, lungo il fianco.
«Ardnol era molto importante per me. Ancor di più lo eri tu.» Il timbro di Sarah, conficcate le unghie nei palmi, aveva assunto più corpo. Casey lo notò, nonostante la decisione di voltarle le spalle. Deglutì e la lasciò parlare. «Non c'è mai stata tanta differenza fra me e la fantomatica Principessa. Sia io che lei eravamo innamorate del Cavaliere, nella maniera in cui può innamorarsi una bambina, ovviamente. Tu riempivi le nostre giornate di gioia con le tue storie, e il Cavaliere era gentile, eroico, leale. Anche lui era innamorato della Principessa.»
Casey inspirò, ma dal suo naso non fuoriuscì aria. Trattenne il fiato ed espirò solo dopo essersi lasciata cadere sul letto. Seduta sul materasso, fece sprofondare il viso fra i palmi. «Era solo un gioco, Sarah.»
«Non era solo un gioco, Casey. Era il nostro modo per sopravvivere qui dentro. Non riesco a credere che ti sei dimenticata del rapporto che io e te avevamo.» Questa volta era Sarah a lasciar trapelare la rabbia dal tono. «E tu lo hai distrutto! Johanna poteva dire tutto quello che voleva su quel bacio. Era una tale sciocchezza... lo hanno ingigantito tutti, io per prima perché mi aveva resa molto felice, lei lo ha ritenuto ripugnante, ma tu...» Casey emerse dai palmi rossa in volto e tentò di parare i colpi. «Lo so che sono stata io a dartelo. Infatti Johanna se l'è presa con me, ricordi? Io ero quella che ti ha fatta andare in punizione e che ti ha macchiata del suo peccatuccio.»
Sarah la guardò amareggiata. «E hai finto di averlo fatto solo perché così doveva essere per la storia, perché così era il tuo Cavaliere. Lo hai sminuito.» Casey ricambiò lo sguardo esterrefatta. «Era solo un gioco, Sarah,» ribadì «e noi eravamo piccole.» Lo disse a denti stretti, per mettere un punto a quella discussione. Il gelo era caduto nel dormitorio nonostante il caldo afoso del luglio londinese, ed era lei a voler così. Aveva seppellito simili ricordi, aveva trovato a tutto una spiegazione, e detestava il fatto che le altre, ogni singolo giorno che passava lì dentro, dovessero addossarle qualcosa che lei non voleva essere. «Già...» Sarah tornò a sussurrare, arresa di fronte all'evidenza. «Ma non è questo il punto. Il Cavaliere aveva giurato lealtà ai suoi amici. Tu non sei solo andata a studiare altrove, ci hai abbandonate, e lo hai fatto con spocchia, distruggendo ciò che ci avevi regalato e andando a vivere in una fiaba migliore.» Il gelo si trasformò in ghiaccio affilato, che Sarah conficcò nello stomaco di Casey. Le voltò il tergo per andarsene, ma si arrestò sulla porta. «Ecco. Sembra che tu abbia paura di essere te stessa. Perché se questa sei la vera tu, allora tu eri il Mostro.» Subito dopo, la Principessa scomparve dal suo sguardo.Si dice ⟵
che ci voglia un bacio per spezzare una maledizione, ma mai si parla delle maledizioni suggellate da un bacio. Il Cavaliere aveva visto i suoi vecchi amici allontanarsi, l'amore dissolversi nel passato. Poteva adesso comprendere come si sentiva il Mostro Oscuro, solo e disprezzato, rinchiuso nella sua torre. Mai si sarebbe perdonato gli errori commessi: questi lo avevano cambiato e non poteva più tornare indietro. Ardnol era stata danneggiata dal Mostro, ma lui, accecato dall'odio e dall'ira che gli aveva infuso la maledizione, non l'aveva protetta e, invece, l'aveva fatta andare alla deriva per la paura di capire chi egli fosse realmente e chi fosse realmente sempre stato.

 
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view post Posted on 28/3/2021, 15:09
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AVES SPECEREContest a Tema Marzo 2021L'ornitomanzia (dal greco οἰωνίζομαι) è l'antica pratica greca di leggere auspici nel comportamento degli uccelli.


S. compie un giro completo attorno all'area ogni quarto d'ora. Scompare dietro le vette a sud, poi ricompare a nord sorvolando H.8TTN2Jkiugno si riversava sulle Highlands in un'ondata di luce e calura. L'aria infuocata del giorno sformava le superfici, un miraggio di verde iridescenza in contrasto con il colore delle tegole e dei mattoni del castello tra le vette e del borghetto oltre la foresta. Il sole alto impediva agli occhi di districarsi dai raggi per osservare il cielo, anche da sotto la visiera del cappello. Si sudava, si imprecava dietro ogni fosfene che macchiava la vista, e inerpicarsi sul ripido clivo risultava un'impresa assai difficile.
Portò una mano davanti alla faccia, appiattita e parallela alla visiera come per prolungarla. Al riparo, dunque, fu possibile ricalcare con le pupille le forme che danzavano nella luce: una moltitudine di puntini lontani, sfocati nella geometria fluida di cui facevano parte.

Una freccia o un'iperbole. Non si muovono in linea retta ma oscillano, forse per il vento ad alta quota.

Giugno recava con sé il gli ultimi arrancanti movimenti di un ciclo e disperdeva i suoi passeggeri nella pigrizia dei mesi più afosi dell'anno dopo il duro lavoro e il nervosismo. Di fatto, anche Casey sarebbe presto partita per tornare a casa assieme a tutti i suoi compagni. Restava un po' di tempo per dirsi "arrivederci", "buone vacanze" o "addio", magari stando all'aria aperta, all'ombra di un albero, per respirare l'aria pulita dei boschi e osservare un cielo più terso di fumi rispetto a quello della città. Si dava importanza a quel momento: il meritato privilegio di poter scorrazzare in giro per la scuola, per i prati e per il borgo coi propri compagni senza le scadenze dei compiti. Anarchia, gite, festini, anarchia, gite, festini. A Casey era sempre piaciuto quel brevissimo periodo di totale libertà, benché le mettesse tristezza sapere che di lì a pochi giorni sarebbe tornata tra le grinfie delle suore. Ma questa volta fu diverso. Qualcosa di più intenso, invasivo come le emozioni più amare, le penetrò il cervello toccando le corde più tese.
Lo sconforto si svegliò con lei, nel suo petto, sin dal mattino, rendendole impossibile trarre gaudio da quel momento unico dell'intero anno. Se lo sentì nelle orecchie: un rumore, un rumore indescrivibile e inopportuno che riverberava nella sua scatola cranica mentre all'esterno i suoni del quotidiano si srotolavano nell'aria come loro solito. Camminò con lei, il rumore, scandendo il ritmo dei suoi passi, dei suoi battiti, e appena lei sorseggiò il suo caffè in sala grande togliendosi di dosso il sonno realizzò che non si trattava di uno strascico onirico della notte. Credette di stare impazzendo, che di nuovo, ancora e ancora, quella stranezza del suo cervello desiderava emergere e non soccombere sotto l'odio che ella provava nei suoi confronti.
Non era concreto quel rumore, non era sano assecondarlo. Si era tappata le orecchie ma lo aveva sentito più forte. Allora aveva stretto le palpebre, raccolto la testa fra le mani e immaginato di scagliare un Silencio sulla propria mente, quando qualcuno le afferrò la spalla e, ridestandola, le disse indicando le finestre: «Hai visto gli storni? Che strano, non dovrebbe essere questo il periodo degli storni».

Sono aumentati di numero e hanno mutato forma. S. è diventato un grosso nastro nero che si allarga e si stringe a ridosso delle montagne.

Battito d'ali, tante ali che popolavano il cielo. E grida, versi striduli, richiami che destavano altri puntini neri dai loro nidi per unirsi in un unico grande uccello.

Victor ha detto che non dovrebbero fare così a giugno. Migrano verso sud solo a metà autunno.

8TTN2Jkra una macchia di luce colorata e un'altra, le pupille irritate dal sole seguivano lo stormo e poi la penna sul taccuino. Avevano fatto così sin da quando il rumore, visti gli uccelli dalla sala grande, terminò nella sua testa e cominciò a farsi sentire messo piede fuori dal castello.
Li seguì, lontano, attraversando il cortile, arrivando al margine della foresta, al limitare di Hogwarts, salendo sul pendio più dolce per osservarne meglio il tragitto. E nel mentre compilava una frenetica raccolta dati avvolta in un nuovo torpore.
Si era convinta che gli storni volessero comunicarle qualcosa. Si erano destati con lei d'altronde, le avevano offuscato la testa affinché si accorgesse dei loro sciami nel cielo. Doveva essere così, altrimenti…
*Sono pazza.* Si fermò e lasciò cadere braccia, penna e taccuino ai lati del corpo. Erano le otto quando prese il suo caffè in sala grande e adesso il sole brillava alto nel cielo. Le doleva la testa, cocente per la lunga esposizione, e aveva le gambe stanche. Aveva camminato così tanto che il castello non c'era più.
«Cosa sto facendo.»
Si mise seduta, si abbandonò sul prato del pendio affondando la pelle incandescente del viso in quella sudata dei palmi. Gli storni popolavano ancora il cielo e volando verso sud ricoprivano ogni suono con le loro grida di scherno.
«Potresti spostarti, per cortesia?»
Strinse le dita su fronte e tempie. Accadeva ancora: suoni nel suo cervello.
«Basta» disse fra sé e sé.
«Hey, mi senti? Mi occupi la visuale.»
Alzò la testa. Gli occhi congestionati dal caldo sondarono con difficoltà lo spazio di fronte a lei.
«Sono dietro di te.»
Si voltò di scatto. Un brivido di terrore le attraversò la spina dorsale, il sudore schizzò via dalle ciocche bagnate sul collo. Cercò fra i massi e gli arbusti sformati dai miraggi finché non vide una mano agitarsi a un paio di metri, dietro due rocce scure inguantate di edera. Ancora, dalle foglie emerse un cappello di paglia, poi un paio di occhiali da sole, un volto abbronzato e infine le due lenti di un binocolo.
«Allora, potresti spostarti?»
Casey si alzò in quattro e quattr'otto e si scansò. Compì qualche passo per porsi a lato della piccola costruzione naturale dietro cui era nascosto l'uomo.
«Cosa sta facendo?»
Fra tutte, la prima domanda che le venne in mente fu quella. Il tipo aveva già rincollato gli occhi al binocolo e non li spostò nemmeno per guardarla meglio.
«Sto aspettando» le rispose con semplicità nel tono.
«Che cosa?»
«Un risvolto.»
Casey rimase in silenzio, incerta sul significato delle sue parole. Aspettava, anche lui aspettava qualcosa. Dopo poco le parlò di nuovo.
«Anche tu stavi facendo qualcosa di simile, non è vero?»
Lei aggrottò le fronte e sollevò il taccuino. Vi teneva ancora un dito dentro per segnare l'ultima pagina scritta.
«Raccoglievo dati» disse.
«Ah sì? Su cosa di preciso?»
Arrossì e strinse il taccuino fra le dita. L'idea di comunicare le proprie stranezze a un estraneo non era delle migliori. Tanto valeva presentarsi direttamente a questo modo: "Salve, sono Casey Bell e sono la ragazza che sussurra agli storni". Reputò più semplice porgergli i dati.
L'uomo allungò la mano e li prese. Spostò gli occhi dal binocolo e si alzò gli occhiali da sole sulla fronte per leggere rivelando iridi di un intenso azzurro cielo.
«Sei un'acuta osservatrice» disse a un tratto, restituendole il taccuino. «Hai anche tu la passione per l'ornitologia?»
L'uomo posò allora per la prima volta gli occhi su di lei. Doveva avere una quarantina d'anni sotto le rughe della pelle disidratata dal sole e la barba bionda lasciata a se stessa. Casey non seppe che dire. Non sapeva nemmeno cosa fosse l'ornitologia. Scrollò le spalle e scosse la testa e lui sorrise.
«Vieni qui» le disse, e vedendola ancora ferma e titubante al suo posto le fece spazio di fronte al binocolo. «Da qui si vede meglio, forza.»
Lei si avvicinò lenta e si accovacciò dietro il grosso masso poggiandosi su un ginocchio. Dopo un altro cenno dell'uomo, mise gli occhi sul binocolo.
Da quella posizione, evidentemente studiata, il sole non ostacolava la vista. Si poteva seguire lo sciame, isolare per breve tempo un suo componente e osservare più nel dettaglio le forme astruse che andavano a formare volando.
Ritrasse il volto dall'arnese e fissò il cielo.
«Perché si comportano così?» chiese.
L'uomo, o meglio l'ornitologo, sorrise e abbassò gli occhiali.
«È quello che mi chiedo anche io» rispose. «Ci sarebbero molti motivi. In primo luogo gli stormi si formano perlopiù durante i periodi di migrazione. Ma come hai scritto nella tua raccolta dati questo ricorre intorno ad ottobre e novembre. L'idea che mi sono fatto è che stiano richiamando tutti i loro simili per lasciare questo posto.»
«In effetti» intervenne Casey «ogni volta che tornano da nord sono di più.»
«È esatto.»
«E perché devono andare via?»
L'ornitologo si grattò il mento. «È strano, per questo sono venuto qui. All'inizio ho creduto fosse uno scherzo del riscaldamento globale. Si raccolgono per andare più a nord, perché qui comincia a fare davvero caldo. Però» continuò «sai perché viaggiano in stormi?»
Casey scosse la testa per dire di no.
«Ci sono numerosi vantaggi. Più si è, più si ha la possibilità di individuare cibo, pericoli e posti ottimali in cui nidificare ed accoppiarsi.»
«E questo non è un posto ottimale?» intervenne lei. Le parve assurdo che la natura attorno a loro in quel periodo di sole splendente non disponesse di tutti gli agi che uno storno potesse desiderare.
«Infatti» annuì lui. «La mia idea è che stiano letteralmente scappando da un pesce più grosso.»
Interessata, Casey si avvicinò all'uomo mettendosi in ginocchio. «E che cosa sarebbe il pesce più grosso?»
«Un predatore. Potrebbe trattarsi dell'aquila dorata, tipica delle Highlands, altrimenti, pensando sempre al riscaldamento globale, di qualche altra specie che non conoscono che viene dal sud. Quindi scappano e formano degli stormi per sembrare più grossi e vanificare gli attacchi a sorpresa dei predatori confondendoli nella moltitudine. Anche se a giudicare da tutta questa frenesia e dalla quantità incredibile di storni potrebbe trattarsi di qualcosa di molto più grande di un'aquila dorata. Ed è assurdo pensarlo. Io non so cosa potrebbe essere.»
«E quando dovrebbe arrivare?»
«Non ne ho idea. Il mio lavoro è fatto di osservazione e di attesa. Solo guardando attentamente l'orizzonte e aspettando potremo capire da cosa fuggono. In generale, questo è il compito dello scienziato.»
Casey dunque fissò ancora il cielo. Un pensiero le attraversò la mente. *Gli storni mi hanno condotta qui per per vedere il loro predatore?* una domanda che solo il Tempo avrebbe potuto sciogliere in una risposta.
«Non ho capito una cosa dei tuoi appunti però» parlò nuovamente l'ornitologo. «"S" sta per stormo, immagino.» Casey annuì. «Ma "H"? Per cosa sta "H"?»
«Per Hogwarts» disse lei aggrottando le sopracciglia.
«Hogwarts?»
«La scuola.»
«C'è davvero una scuola qui?» si voltò per fissarla. «Insomma, è un bel posto per una scuola. Ma quando sono arrivato al pendio a valle c'era una cinquantina di cartelli che dicevano "Pericolo di morte". Ci sarei andato lo stesso per vedere meglio ma…» si grattò una tempia «mi sono ricordato di essere uscito dall'hotel senza aver pagato la mia permanenza e restituito la chiave della stanza. Sono tornato indietro ma ho scoperto che mi sbagliavo e allora mi sono precipitato qui prima che si facesse troppo tardi, maledizione. In compenso mi sono scordato in macchina la fotocamera, ma tanto non funzionava.»
Incredula, Casey realizzò che l'ornitologo era un babbano. Quanto aveva camminato col naso rivolto all'insù? Quanto si era allontanata dal perimetro di protezione attorno al castello?
«Sì, ha ragione. In realtà per sintetizzare ho fatto che H. fosse la direzione verso la scuola, da dove sono venuta. Non la scuola stessa, quella è molto lontana da qui. Una scuoletta di campagna, niente più.»
Accigliato, l'uomo sussurrò un "ho capito" e si ripiantò al binocolo. Casey sorrise guardandolo, soffocando una piccola risata nervosa. Lui lo notò.
«Cosa c'è?»
«Niente» rispose pronta lei. «E' che...» Occorreva cambiare discorso. Andò in cerca di qualcosa da buttar lì a caso ma si rese conto di avere effettivamente un'altra domanda che le penzolava dalle labbra di fronte a quella nuova scoperta. Qualcosa che le premeva. «Quindi… gli storni riescono a prevedere il futuro?»
L'ornitologo sbuffò e lei d'istinto si vergognò. «Io...» cominciò lui. Gli occhi dentro le lenti del binocolo ma evidentemente fissi su un pensiero. «Non è così semplice da spiegare. Hai mai sentito parlare degli auguri?» Un altro no con la testa. «Uno è tutto e tutto è uno. Nell'antichità si credeva che gli uccelli fossero messaggeri degli dei. Gli auguri si occupavano di interpretarne il volo, il verso e il comportamento. Come un etologo ma col fine di predire l'esito di una guerra o l'abbondanza di un raccolto. Chiaramente gli uccelli non sono i messaggeri degli dei, ma, c'è un ma tornò a guardarla ed alzò l'indice per sottolineare il ma «la natura è sensibile e ogni sua singola parte è estremamente connessa alle altre. Gli animali possiedono un sesto senso incredibile che, per quanto mi riguarda, potrebbe coincidere con un semplice bagaglio di conoscenze accumulato nelle generazioni. Ma quando vengo in Scozia ad osservare gli storni non posso fare altro se non mettere in dubbio le mie credenze. Qui, e solo qui, avviene qualcosa di magico, di inspiegabile ancora per la scienza. Gli storni si alzano in volo e danno vita a geometrie spettacolari. Mi sono sempre chiesto se fosse semplicemente il loro modo di vivere o se vi fosse una motivazione più ampia dietro, una causalità. E ancora nessuno di noi ha saputo dare una risposta. Non rimane altro da fare se non…»
«Aspettare» completò lei.
«Sì, aspettare. E raccogliere i dati in cui ci imbattiamo. Forse un giorno ne scopriremo la reale motivazione. Oppure, oggi, finalmente potrò vedere il più grande predatore che il cielo degli storni abbia mai visto.»


8TTN2Jkl sole, parola dopo parola, si annidò dietro il crinale. Le ombre si allungarono, donando sollievo e, infine, brividi laddove il vento soffiava più forte. Casey e l'ornitologo alternarono i discorsi ai lunghi silenzi con gli occhi puntati al cielo sempre più gonfio di vita. Si divisero i panini del pranzo a sacco di lui, anche se la fame veniva dimenticata ogni volta che lo stormo tornava sorvolando i crinali e le loro teste.
Casey scoprì che l'ornitologo si chiamava Gillian Gibbard e che veniva da Oxford. La Scozia era una delle sue mete preferite per fare birdwatching, così come per molti altri ornitologi. Il punto era, infatti, che il mistero dietro i nugoli di storni non era ancora stato risolto. Gibbard aveva usato la parola "magia" per descriverli, e lei si chiese se fosse legittimo pensare che la presenza del castello e della magia che lo rendeva vivo potesse esserne il fattore scatenante. Impossibile dire di sì, almeno finché non ve ne fosse stata prova. Conveniva aspettare, proprio come diceva lui, e scoprire se il predatore sarebbe venuto o se il fenomeno si manifestasse e basta perché così doveva essere. Forse valeva lo stesso per la sua testa e per ciò che, nei momenti più inaspettati, questa le sussurrava. Avrebbe atteso di trovarne un motivo, anche se l'attesa l'aveva portata in quel posto, ad incontrare Gibbard e a comprendere il valore dell'attesa stessa.
«Si è fatta una certa ora e io devo tornare ad Oxford, altrimenti mia moglie chiede il divorzio» disse Gibbard quando la luce arancione dietro le vette cominciò ad affievolirsi. «Sicura che non vuoi un passaggio per Hogwarts?»
«Sì, non si preoccupi.» Le sfuggì un ghigno impossibile da trattenere.
«E' stato un piacere, Casey. Questa è la mia e-mail.» Alzandosi le porse un biglietto da visita. «Mi piange il cuore ma non posso rimanere, quindi se vedi qualcosa di interessante nei prossimi giorni scrivimi per favore.»
Casey annuì e i due si salutarono. Nel mentre, gli storni smisero di indugiare e attendere i loro simili fra le vette e scomparvero nel blu del crepuscolo.


Questa one-shot è la prima parte di un progetto più ampio che prevede più puntate in cui Casey compie la sua personale sperimentazione in maniera consapevole o inconsapevole delle diverse tecniche divinatorie. "Aves Specere" è ambientato il giorno prima dell'evento Pioneers, dell'arrivo del grifone ad Hogsmeade. Ho chiarito col master che le "previsioni" (o forse no?) che si traggono da questa one-shot non riguardano la fine della quest, bensì solo il suo inizio, ovvero l'arrivo della creatura. Il fenomeno descritto, detto "murmuration", è caratteristico degli storni in Scozia e attira molti studiosi. Rimane un mistero il motivo per cui facciano in questo modo, tant'è che molti ritengono si tratti di pura "magia".



Edited by Keyser Söze. - 28/3/2021, 17:34
 
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Red Velvet.CONTEST A TEMA "PERDONO" MAGGIO 2021
Le nocche rosse si strinsero in un pugno. La rabbia fluiva nel suo sangue come una droga. Ne aveva bisogno per non soccombere, per dimostrarsi armata di fronte ai nemici. Erano ovunque, dotati di lame affilate, menti geniali, e disseminavano la sua vita di tranelli. La rabbia le permetteva di guardarli nelle pupille e mantenerne lo sguardo anche con l'occhio destro tumefatto e l'anima in pezzi.

L'Ombra nera si elevò al di sopra della sua minuta figura rabbiosa.
La prima era calma, impassibile e mortifera; lei invece tremante d'angoscia e implacabile.



«Parlami di Drinky Anser


Vedo una distesa di rosso e io ci navigo dentro. Un mare placido, forse morto per l'inesistenza delle correnti ma mi sa di vivo. Provo ad immergervi la mano e sento che sotto la sua superficie pulsa. Non so cosa esattamente, ma pulsa. Forse il rosso stesso.
Ci siamo io e la mia piccola barchetta a remi. Il cielo non esiste.
Ho remato tanto e sono stanca ma vorrei continuare finché non trovo la spiaggia, se esiste. Più per riposarmi che per altro. Non ho paura ed è strano, perché solitamente l'ignoto mi terrorizza. Ma è solo rosso, d'altronde, proprio come il colore della mia casa.

Cracks.
qug0u2v


Il sole si è oscurato su Londra. Nubi nere inseguono le persone fino alla loro porta di casa, inzuppandole di cattivi presagi. Volti si sporgono dalle finestre, amareggiati per la domenica mattina andata a rotoli per uno scherzo del cielo. Gli orfani tornano in brefotrofio, mura in penombra per il risparmio sulle bollette, ancor più umide e marcie degli esterni piovosi.
Casey sa di non voler rientrare, né di dovere per un'imposizione del suo cervello. È sciocco entrare, si ripete. Lo ripete alle sue compagne mentre le gocce d'acqua rendono pesanti capelli e vestiti, e loro le domandano perché. Rimane immobile e a bocca chiusa, senza saper dare risposta. L'ennesima domanda a cui non so dare risposta.
«Dentro non c'è nulla di bello» si ritrova a dire.
«Non voglio bagnarmi però» rispondono le altre.
Ed è la risposta più assennata in effetti, dunque entra con loro.
Cracks.
Il pavimento di marmo riflette il grigio degli esterni. Chiazze rettangolari che si intervallano a lunghe strisce d'ombra. Si guarda attorno mentre lo sciame di ragazze si disperde per le stanze o percorrono il corridoio. Goccioline d'acqua scendono dalle ciocche sulla fronte e sulle tempie miscelandosi al sudore.

Velluto rosso velluto rosso. Velluto rosso.

I suoi pensieri si attorcigliano. Si capovolgono e si amalgamano per essere schiacciati dal vuoto. Il desiderio di restare fuori scompare; le piccole note sul da farsi della giornata, il ricordo della colazione animata in refettorio, scomparsi. Una bolla si gonfia al centro della sua scatola cranica spingendo per uscire. Mal di testa, direbbe chiunque. Desidera sdraiarsi sul suo letto. Perciò comincia ad avviarsi verso il dormitorio.


Mi sono resa conto che il rosso è in salita. Faccio fatica a remare con la mia barca. È come se mi trovassi alle pendici di un monte liquido, come se tentassi di scalare un'onda immobile. Provo a cercare un appiglio con una mano e in mezzo all'acqua rossa sento che ci sono delle funi. Mi aggrappo e tiro e scendo dalla barca.
Poggio i piedi su qualcosa. Terra, mi dico, sono arrivata su una spiaggia.
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Cracks.
Cracks.
Cracks.
Cracks.
Cracks.
Crepe. Il pavimento comincia a creparsi sotto i suoi piedi. È marmo, pensa, e la terra non trema. Forse è il malditesta, spera, ma sa che non è quello che provoca le allucinazioni. Le ragazze sono impassibili alla cosa, se ne stanno sedute sui davanzali a cianciare davanti alle finestre picchiate dalla pioggia. Passeggiano e chiacchierano lontane dalla sua testa, vicino alla crepe che lei vede. Velluto rosso.
Lo scricchiolio del marmo si fa più forte e le crepe diventano più spesse ad ogni passo. Il solco si crea sul suo cammino, oppure è lei a seguire le crepe. Ciò che conta è che fanno parte del suo percorso e quando se ne accorge i suoi piedi si fanno più veloci per seguirle.
Cra
cks
.
Cra
cks
.
Sono i tuoi capelli. Questa terra su cui sono approdata sei tu, il tuo petto colmo di vita e le braccia con cui mi abbracci. La corrente che mi ha trainata qui fatta dei tuoi capelli rossi, e li risalgo con la mia barchetta per non sentirmi più sola in questo mare rosso. Salgo per approdare alle tue guance e darti un bacio, per riposarmi nell'incavo del tuo collo. Mi sento a casa in questo nuovo rosso fatto d'amore e capelli; mi sento cullata da morbido velluto rosso fatto d'amore e capelli.


«È passato molto tempo. Perché me ne chiede adesso?»
L'occhio destro le faceva male. Era gonfio, pulsava di capillari rotti e dolore, ma lei non osava manifestare alcun cedimento.
Perché glielo chiedeva adesso? Erano passati quasi due anni da quando Drinky aveva rinunciato all'adozione. Per tutto quel tempo non si era fatta viva, non aveva voltato lo sguardo alle sue spalle. Lei non si era pentita.
«È evidente che non hai superato l'accaduto, Casey.»
Suor Maria Orsola stava ritta sul suo scranno, le mani congiunte sotto il mento in una posa severa e giudicante. Il manto nero le ricadeva addosso come una doccia di petrolio, attorniando il volto bianco ancora intoccato dal tempo soffocandone la bellezza.
«Per me è morta» rispose Casey con disprezzo. Contrarre il volto in quell'espressione amara le costò una fitta. La Madre Superiora tirò un sospiro sbattendo impercettibilmente le palpebre.
«Anche i lutti richiedono un'elaborazione.»
«Non ho intenzione di parlarne con lei
Silenzio. La suora abbassò lo sguardo sulla scrivania in cerca di un remoto consiglio prima di rialzarlo.
«E il tuo posto sicuro?»
Allora anche Casey abbassò gli occhi, portandoli nella penombra dell'ufficio.
«Non funziona più.»

13r9lEk
Velluto rosso velluto rosso velluto rosso velluto rosso velluto rosso velluto rosso velluto rosso velluto rosso velluto rosso velluto rosso velluto rosso velluto rosso velluto rosso vlletuo rsos evlutlo sorso olovule sosro sveltuo loros rosvelut oro orso velusto
Il pugno insanguinato sale in alto per gettarsi nuovamente sul suo bersaglio.
Volvuto resso vel
lu
to
ro-

«BASTA! BASTA!»
-sso velluto rosso

«FERMA!»
Qualcuno la afferra per la vita ma si libera subito con una gomitata.
Velluto rosso.

In quel frangente di distrazione il bersaglio le colpisce un occhio ma lei risponde immediatamente con un altro pugno.
«CASEY, FERMA!»
Viene strattonata e buttata all'indietro. I lamenti di un pianto rabbioso e doloroso la raggiungono a un metro da lei. Johanna piange, sporca del suo stesso sangue del naso e delle labbra.
Velluto rosso sangue.
La vista da un'altra prospettiva, non più come carnefice al di sopra del corpo inerme, basta a rovesciare l'ira e a far riemergere la ragione. Quattro mani - due suore - non le danno il tempo di esprimere la sua richiesta di perdono e la trascinano per i lembi della maglia via dal dormitorio.
Cracks.






Una bambola, delle foto, un diario, un paio di occhiali da sole. Ciò che rimaneva di un rapporto madre-figlia consumato dalle insicurezze e dall'odio giaceva in una scatola, tumulato sotto i vestiti smessi, terra di sepoltura.
Faceva male separarsene, faceva male averli ancora con sé. Rimanevano nel limbo di una buia speranza, nascosti ai suoi occhi ma alla mercé del primo ficcanaso.
Le crepe l'avevano portata al suo baule. L'avevano portata a Johanna che, desiderando una felpa per l'improvviso freddo, aveva deciso di appropriarsi di una delle sue. E scavando nel tumulo trovò la scatola e, forte dell'astioso senso di rivalsa nei confronti di Casey, ne aveva sparpagliato il contenuto sul letto, curiosando con le presenti.
«Tieni ancora i ricordi della tua ex amante lesbica. Che tenera che sei, Bell.»
«Rimettili a posto.» Velluto rosso.
Johanna le diede le spalle ignorandola. Fu allora che Casey cominciò a picchiarla.

***
«Continuo a evocarlo quando sento di averne bisogno ma non funziona più. Anzi, credo che col dottor Foy abbiamo sbagliato proprio immagine. Credevo mi desse sicurezza ma mi sbagliavo.»
Suor Maria Orsola rimase in silenzio attendendo che la ragazzina mettesse insieme altri pezzi dei suoi pensieri.
«Magari in passato funzionava, adesso non più.»
«Riguarda Drinky?» chiese la donna ma non ottenne risposta.
«Vorrei che riflettessi su una cosa, Casey.» Continuò dunque. Le sue parole erano lente, calme, ma decise. «L'adozione non è una cosa semplice, soprattutto se sei una persona sola, come quella ragazza. Anche se per molti anni ti è stata accanto ed è stata a te più vicina di quanto le sorelle sono riuscite» sottolineò con una nota di biasimo «non puoi rimproverarla per essere stata sincera di fronte alla scelta ultima. Sarebbe stato peggio se fosse accaduta una cosa simile dopo.»
Il pugno rosso sbatté sul tavolo. «Non è così!»
«Contieniti.»
«Drinky non ha semplicemente rifiutato l'adozione. Mi ha abbandonata!» Il pugno dolette e tornò in grembo. «Per me è morta.»
«Quest'odio» continuò placida la suora «non fa altro che divorarti. Nuoce a te ma anche alle persone che ti stanno attorno. Lo abbiamo notato. Non è la prima volta che aggredisci qualcuno, sia verbalmente che fisicamente. Vorrei che comprendessi che noi stiamo cercando di darti ausilio con tutti i mezzi che abbiamo. Abbiamo chiamato Foy per farti avere un tipo di ausilio più "pratico" rispetto a quello che possono darti le Scritture e la preghiera.» Suor Maria Orsola si staccò dalla scrivania e si lasciò andare sullo schienale. «Evidentemente sono stata io a sbagliare affidandoti a queste pratiche. Ad ogni modo l'unica cosa che potrà salvarti è...»
«Pregare per la grazia divina?»
«No. Tu devi perdonare. Perdona le debolezze degli altri perché sono umani. Perdona Drinky per non aver rispettato le tue aspettative. La nostra base è il perdono, poiché tutti noi pecchiamo e non possiamo fare altro che peccare. Il vero giudizio spetta a Dio, e tu non sei la mano che guida l'ordalia.»
Ancora silenzio, spezzato da respiri fatti più grevi.
«Non posso.»
«Ne hai il potere ed è questo che mi allarma. Ma sappi che il nostro aiuto non sarà infinito. L'anno prossimo compirai diciassette anni e, come ci hai ripetuto milioni di volte con disprezzo, nel tuo Mondo coincidono con la maggiore età. Se non accetti queste condizioni dopo questa data sarai un problema dei tuoi simili e non più mio. Sarai costretta ad andartene.»
Casey sentì la rabbia montare. Ma uno scricchiolio sinistro provenne ancora dal pavimento e vedendo ancora il mondo crepare sotto i suoi piedi comprese il presagio che la sua mente aveva captato al posto suo.
«Bene.»
Cracks.



3bYsrjY
Ho sempre amato stare qui, abbracciata alle morbide onde dei tuoi capelli rossi. Mi sentivo al sicuro, più che nel letto del mio dormitorio a scuola, più che in quello che hai apparecchiato per me nel tuo appartamento. Sembrava di restare avvolti in morbido velluto rosso, caldo amore che mi rivestiva sempre, ovunque andassi, anche lontano da te.
Ho sempre navigato in questo mare rosso, e solo ora, con la tua assenza, ho capito cos'è: la grossa ferita della mia normalità. Poi sei arrivata tu e ne hai trasformato la crosta in velluto, rosso e morbido come i tuoi capelli, rosso e morbido come una ciliegia dal buon sapore. Infine te ne sei andata, e questo rosso, in cui sono nata e che è sempre stato qui, è diventato una ferita scoperta da cui sgorga sangue più denso.
Tu mi ci hai lasciata annegare dentro, e aveva davvero sapore di sangue, non più della vecchia grama ma solita normalità.


Temporalmente questa os è ambientata qualche settimana dopo Cronache di Ardnol, contest a tema di agosto 2020, in cui vengono presentati i png di Suor Maria Orsola e Johanna e il rapporto conflittuale che hanno con Casey. Più genericamente l'os è ambientata dopo Pelo e Contropelo e la separazione da Drinky.


Edited by Keyser Söze. - 31/5/2021, 19:33
 
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• Parti: I

Words of Magic | Mind | 2 • Il tuo PG sta facendo una pozione, ma qualcosa va storto: descrivi gli effetti che l'intruglio ha su di lui o sull’ambiente.ZCZuQq910 luglio
Era ora di pranzo e un forte vento aveva coperto il sole trascinando dal nord grosse nubi grigie. Le silhouettes delle barche si stagliavano nere contro il cielo, mentre le acque del Tamigi divenivano sempre più scure e mosse con l'approssimarsi della pioggia.
Luglio non era mai stato così inclemente con i marinai del Porto di Londra; e le Docklands e i battellini non erano mai parsi così poco invitanti ai turisti, i quali, seduti ai loro tavolini e in fila per il prossimo tragitto sul fiume, speravano fino all'ultimo che il vento continuasse a soffiare per salvargli la giornata.
Casey camminava a zigzag nella folla, sforzandosi di restare sulla punta dei piedi per guardare oltre le teste dei passanti. Cercava il pontile a cui era attraccata la Cassiopea, la nave mercantile che di lì a una decina di giorni sarebbe salpata per Capo Nord. Non fu affatto semplice trovarlo, e doveva aspettarselo data l'incredibile massa di babbani che affollava il porto: in questi casi, più pericolo vi è di essere scoperti, più un ingresso al Mondo Magico è nascosto.
La fortuna volle che un gruppetto di pescatori di murtlap fosse appena approdato nei paraggi e stesse prendendo una birra prima di scaricare la pesca a Diagon Alley. Le indicarono il pontile di attracco delle imbarcazioni magiche dove erano approdati, un molo di occultamento a un centinaio di metri dal Tower Bridge, dove si riversavano gli scarichi di St Katherines Dock Marina e l'acqua faceva talmente puzza da tenere lontani nasi indiscreti. Casey li ringraziò schivando l'alito alcolico con cui farcirono i saluti, e si avviò.

Zqyl9JSSi chiamava "molo tre virgola tre periodico", un classico. Il che fece pensare a Casey che dovesse saltare dentro un salvagente o correre lungo il pontile e tuffarsi a pesce in acqua, per poi ritrovarsi magicamente nel porticciolo magico. Invece, mentre tratteneva il fiato per non respirare il fetore repellente per i babbani, una mano sbucò da un tombino lì vicino e ne spostò il coperchio facendo uscire la testa di un marinaio.
«Tranquilla, tu non puoi sentire la puzza» le disse ridacchiando mentre poggiava i gomiti sull'asfalto. «Cosa stai cercando?»
«Cerco la Cassiopea. E' attraccata qui?» chiese lei, ma non prima di aver inghiottito una boccata di ossigeno.
«Ahi ahi, ragazza. Sei l'ennesima persona che me lo chiede oggi. Spero che non scapperai anche tu via dal molo piangendo.» Il marinaio si tolse il cappellino bianco e se lo mise sul cuore con aria scherzosa. Poi si tirò su per lasciarla passare, non riuscendo a trattenere uno scoppio di risa per l'espressione tramortita della ragazza.
«I-in che senso?»
«Eh signorina, il Capitano Lennart è un lupo di mare piuttosto esigente. Se anche tu sei qui per il posto di pozionista preparati al peggio.»
Casey scese giù nel tombino col cuore in gola, chiedendosi se quell'uomo fosse un vero marinaio del porto o un altro candidato che l'aspettava lì per metterle ansia. Lui la seguì, conducendola verso una scaletta a pioli scivolosa e un'altra serie di interminabili scalinate a chiocciola che scavavano nel buio e nell'umidità della roccia fluviale. Quando arrivarono a destinazione, di fronte agli occhi della ragazzina si dipinse uno spettacolo a dir poco straordinario. Un lungo molo sottomarino attraversava le acque verdastre del Tamigi, e al suo fianco erano attraccate delle piccole navi da carico e dei pescherecci. In fondo, dove c'era più spazio, un enorme veliero a tre alberi sostava sospinto lievemente dalle correnti: la Cassiopea. Il passaggio era avvolto in una bolla d'aria longitudinale che permetteva ai passeggeri di inoltrarsi nel fiume senza bagnarsi, e altrettanto era stato realizzato sui ponti delle navi. Casey, ridestatasi dalla trance indotta dalla curiosità e dalla meraviglia, scagliò un'occhiata al al presunto avversario per capire se intendesse seguirla. Poi lo salutò e si incamminò verso il veliero.

O5sdKh6Prima di salire a bordo, le fu impossibile non rimanere di sasso sul pizzo del molo di fronte alla magnificenza della Cassiopea. Tentò di far suo ogni dettaglio della nave, dalla polena all'intaglio delle assi che formavano la chiglia; e nel breve assopimento sobbalzò per la sorpresa quando udì delle voci e dei passi avvicinarsi proprio dall'interno dell'imbarcazione. Un gruppo di tre ragazzi scese dal ponte sul molo, parlando animatamente.
«Giuro che se non partiamo mi verrà una crisi di nervi.» Disse il primo con una zazzera di capelli fulvi e ricci e un paio di occhiali.
«Eh amico mio, la vita è fatta anche di queste esperienze: l'emozione che sale per l'attesa, la delusione che corrode l'anima quando il fato disattende i desideri...» Rispose il secondo dall'aria trasognata e i capelli lunghi e biondi raccolti in una coda.
«Se non la pianti subito di fare il poeta, Tyb, ti prendo a testate sui denti. Con Lennart adesso c'è un maledetto folletto che fa questioni.»
«Calma» si intromise il terzo dai capelli corti e neri. «Partiremo eccome. Lennart ha la capoccia più dura della sua gamba di legno.»
Nessuno di loro l'aveva notata. Casey li osservò con interesse, incredula di trovare persone così giovani all'interno di una missione di tale portata. Ma d'altronde anche lei era lì, o meglio era lì per candidarsi. Si avvicinò a loro trattenendo la timidezza, proponendogli un saluto informale - e impacciato.
«Hey, ehm, ciao.» I tre si voltarono e la squadrarono da capo a piedi. «Sapete dove posso trovare Adrastus Lennart?»
Seguirono attimi di silenzio imbarazzante, dettati da un susseguirsi di occhiate fra i membri del trio. Alla fine, fu il poeta a risponderle, mentre l'occhialuto abbandonò il gruppetto per sedersi sul molo assieme alla sua frustrazione e il moro continuò a fissarla con sguardo truce.
«Il capitano è nella sua cabina, a poppa.»
Incerta sul motivo di tale freddezza, pensò che anche loro si trovavano lì per il suo stesso motivo. Il problema era che da quel che i tre si dicevano sembrava che fossero già dentro la spedizione, il che voleva dire che... era arrivata troppo tardi.
«Uhm... grazie.» Per metà intimorita e per metà irritata dalle occhiatacce insistenti del moro, smammò dal molo, come si usa dire in simili situazioni, e salì sulla barca col cuore che batteva imbizzarrito nel suo petto.

LsDFunl«L'avviso, Lennart: non vi è alcun profitto assicurato da questo viaggio della speranza. Più che probabilmente si tratterà di perdite, per lei e per i suoi creditori. Le consiglio di farsi da parte o di tentare in un mercato più saldo... In questo momento in Normandia Philip Lefebvre ha appena avuto delle cucciolate di puri abraxas. Quello sì che sarebbe un gran guadagno...»
Intrufolatasi negli interni della nave, un Incantesimo di Estensione la indusse a perdersi per stanzini e angusti corridoietti corrosi dall'umidità. Se non fosse stato per la vocina stridula e roca del folletto non sarebbe stata in grado di uscire tanto presto da quel dedalo per incontrare il capitano. Si mosse velocemente, come se le frasi potessero essere inghiottite dall'acqua del fiume tutt'intorno a loro, finché non si ritrovò di fronte alla porta e a una creatura bassa, raggrinzita ma vestita di tutto punto, messa di spalle. Dall'apertura, sboccavano ad intervalli regolari degli sbuffi di fumo. Dalla sua prospettiva però non era in grado di distinguerne l'origine, anche se possedeva una mezza idea di chi si trattasse.
«Drusif, non ho intenzione di andare in Normandia a far fare per therapy alla mia ciurma. I miei progetti vanno ben oltre il profitto. Si tratta di creare un contatto fra due popoli e due tradizioni.» Il timbro profondo e severo del capitano tagliava l'aria come un coltello. Casey sentì il nodo di timori generati sin dall'ingresso al molo stringersi ancor di più nel suo petto.
«Nessuno mette in dubbio le sue nobili intenzioni, Lennart, ma... perché non Anversa, San Pietroburgo o persino Dubai? Cos'abbiamo da spartire con i Lapponi e, soprattutto, cos'hanno loro da spartire con noi? Gli manca proprio la materia prima. Possiedono una magia rudimentale, del tutto superata da-»
Un rumore sordo, secco e improvviso sancì il totale silenzio. Doveva trattarsi di un pugno o di un altro oggetto che sbatteva contro il legno della nave. Ad ogni modo il tono minaccioso del capitano si fece ancora sentire, e il folletto - come Casey - fece un passo indietro pur non mostrando segni di timore.
«Potreste avere un minimo di gratitudine per ciò che ho fatto per voi, cani usurai. Le mie decisioni le ho prese. Si parte, e la vostra incuranza verso i patrimoni umani non mi tange. Ora, se non le dispiace, via dalla mia nave.»
«Lo vedremo, Lennart. La regina etiope Cassiopea non ha ragioni di viaggiare verso l'estremo nord. Con permesso.»
Il folletto fece dietrofront impettito per uscire dalla nave. Non appena si voltò incrociò lo sguardo di Casey. Alzò un sopracciglio senza mutare di una virgola il grugno cupo, poi scomparve nel reticolo di corridoi.
La porta dell'ufficio del capitano si chiuse con un sonoro clang. Il che la fece sobbalzare e tentennare sui prossimi passi da compiere. Si ritrovò al punto di scendere la scaletta per il molo e riosservare il tunnel d'acqua dolce e putrida che lo circondava, quando il vigore di quella speranza senza nome e parte che la fece arrivare fin lì la incoraggiò a tornare di fronte alla porta chiusa e bussare contro il suo legno.
Toc toc.
«Avanti.»

n24AOn5Adrastus Lennart era un uomo che aveva ormai oltrepassato da tempo la soglia della mezza età. I suoi capelli lunghi scivolavano sulle spalle larghe come una pioggia argentea spruzzata qua e là di un castano molto chiaro, eco del passato giovanile. Gli occhi incavati in un reticolo di rughe dovute alla vecchiaia e al sole erano altrettanto grigi, ma si mostravano attenti, vigili, come quelli di un gabbiano durante il momento della pesca. Squadrarono con durezza la figura minuta appena comparsa nel suo ufficio, sbucando dai lati di un naso adunco ben pronunciato. Casey non seppe chiarirsi se si trattasse di un'ostilità innata o se fosse stata generata dallo scambio di battute avute poco prima con il folletto. Di fatto, l'uomo usò con lei un tono ben poco dissimile.
«E tu chi sei?» Le chiese.
«Mi chiamo Casey Bell.» rispose lei sforzandosi di mostrarsi decisa, desiderio che sfumò in un balbettio sommesso. «... sss-qui per il coso di p-pozioni.»
«Che?»
«Sono qui per il posto di pozionista di bordo» disse più convinta pizzicandosi la coscia da dentro la tasca dei pantaloni.
«Oh» fece il capitano schiacciando le palpebre sulla sua figura. «Sei una ragazza?»
«Sssi?» Casey non seppe che dire.
«Ma in che senso quest'incertezza? O lo sei o non lo sei!» L'uomo si abbandonò seccato lungo lo schienale.
«L-lo sono.»
«Bene. E quanti anni hai?»
«D-diciassette.»
«Diciassette» soppesò lui. «Ne sei sicura?»
«Ehm, sì.»
«Insomma, sì o no?!»
«Sissignore!»
Lennart si ammutolì. Invece di rispondere si alzò dalla sua poltrona trattenendo un gemito di dolore e girò attorno alla scrivania a cui era seduto. Fu in quel momento che Casey vide la gamba di legno, una costruzione finemente levigata ed incastrata in viti e bulloni e coperta alla bell'e meglio da un paio di calzoni da pescatore stinti e da uno stivale nero e lercio. La fissò con occhi spalancati e un'insistenza che avrebbe fatto male persino ad un cavalluccio marino, ma Lennart non vi badò e si poggiò all'oblò dell'ufficio guardando l'oscurità del fiume.
«Noi non portiamo mai femmine con noi nei nostri viaggi. Porta male.»
«Cosa?»
Avvenne un mutamento improvviso fra le emozioni che le dominavano l'interno. Dapprima titubante e impaurita, ora il rossore dell'ira e del disprezzo le tinse il volto come un abile pittore abituato a dipingere da sempre le stesse forme.
Se prima le dita pizzicavano la pelle per svegliarla dal sopore del timore, ora si agganciavano con le unghie per trattenersi dal raggiungere il collo dell'uomo.
«Mi sta forse dicendo... che più che per la mia età mi rifiuta per il mio sesso?»
Forse ora realizzava il perché dei continui sguardi truci dei marinai. La presa in giro dell'accompagnatore, fino al comportamento ambiguo del trio sul molo. L'unico a salvarsi sarebbe potuto essere il folletto, o magari persino lui aveva trovato in lei un ulteriore presagio di sfiga per quel viaggio della speranza.
Lennart si voltò e osservò il mutamento senza muovere l'orgoglio di una virgola.
«Entrambi» disse. «Sei piccola e sei femmina, benché non si capisca bene.»
«Sento puzza di ipocrisia, Capitano» ringhiò Casey. «Questo "patrimonio umano" che cerca non può trovarlo così facilmente se ha delle vedute così ristrette. Arriveder-»
La porta sarebbe stata di nuovo sbattuta - e il legno marcio di sicuro non avrebbe retto - se Lennart non l'avesse fermata. «MA» continuò «la sfortuna ha già voluto che i candidati presentati non fossero all'altezza.» Casey si girò e lo guardò con le labbra schiuse. «Sarai in grado di fare di meglio, Bell?»

DLQ0klXLa scrivania venne apparecchiata per la cottura con un colpo di bacchetta del Capitano. Un fornello portatile e un calderone pieghevole levitarono fin sopra la superficie del legno, spostati i libri e le carte nautiche, assieme al solito occorrente pozionistico. Fu in quel momento che Casey, fino ad allora rapita dalla personalità dell'uomo e attenta alle sue mosse, poté guardarsi attorno, notando un ufficio ben ordinato e accogliente che stonava con la prima impressione che si era fatta del suo inquilino. La stanza fungeva sia da ufficio che da camera da letto, benché il letto si limitasse a un sottile materasso di gommapiuma adagiato su una sporgenza lignea di travi delle pareti. Sul pavimento vi erano dei tappeti di foggia orientale, e le pareti erano costellate di cornici contenenti mappe disegnate da una mano certosina. Infine, oltre a due poltrone e a una scrivania, vi era un'ampia vetrinetta contenente libri, un astrolabio, un lunascopio, rotoli di altre carte e un set di ampolle e contenitori in porcellana che, non appena Lennart li prese, si rivelarono custodire erbe e strane sostanze organiche.
«Voglio che realizzi una classica Pozione Addormenta Draghi con questi ingredienti. Abbiamo la solita sanguinaria, il giusquiamo, la cinquefoglie...» disse mentre poneva i barattoli sulla scrivania. «Ma abbiamo dei prodotti tipici dei posti verso cui siamo diretti, ancora del tutto sconosciuti. Dai un'occhiata. Hai un'ora e mezza per studiare gli ingredienti e per la preparazione.»
Casey annuì, e riversò immediatamente tutta la sua attenzione sulle ampolle e sui barattoli sulla scrivania e la vetrina. Su ognuna di esse era attaccata un'etichetta, ma le sarebbe bastato solo uno sguardo per riconoscere la forma di alcune foglie fresche o essiccate o un fiore dal colore. Nonostante ciò, alcuni adesivi riportavano parole strane, che lei ricondusse alla lingua del posto da cui provenivano. Non conosceva una parola né di norvegese né di finlandese, e anche se tali ingredienti apparivano diversi sembrava piuttosto facile accostare alcuni di loro a quelli classici della Poziona Adormenta Draghi.
Lo spesso batuffolo di filamenti arancio chiaro con sul barattolo disegnato un coniglio era sicuramente il sostituto del classico pelo del roditore britannico utilizzato a scuola, mentre la boccetta che recitava "Veleno di Ukko" accanto al simbolo di un serpente sarebbe potuto essere accostabile al veleno di cobra. «Osso di Tuonela...» ripeté fra sé e sé rigirando uno stecco bianco sporco fra le dita, che posò immediatamente quando comprese trattarsi di una falange. *Sarà l'osso di zombie?*
Sembrò tutto fin troppo semplice per essere vero. La ricetta le tornò alla memoria in una battibaleno, e si mise subito all'opera, allontanando dal piano di lavoro tutti gli ingredienti che non le sarebbero serviti. Vi erano denti di squalo, grasso di foca, pelliccia di yeti, amanita muscaria, ginestrino, rhododendron lapponicum, gentiana purpurea, semi di papavero, artemisia glacialis, artemisia norvegica... li pose al di fuori del suo campo visivo in modo tale da "ripulirlo" da eventuali intoppi e confusione.
Cominciò accendendo il fuoco mettendo e due dita d'acqua al calderone, come al solito, e con un contagocce gettò al suo interno tre gocce di veleno. Quello di cobra era un potentissimo veleno che andava a intaccare il funzionamento del sistema nervoso e che portava alla morte una qualsiasi creatura, come l'uomo, senza un pronto intervento. Ad un drago avrebbe fatto semplicemente il solletico, aiutando il resto del composto della pozione a portarlo verso la sonnolenza. Sminuzzò quattro ossa di "zombie Tuonela" con un pestello, facendo abbastanza fatica, senza ridurle in polvere, e le versò nel calderone. Azionò il timer impostandolo su nove minuti, dopo i quali avrebbe dovuto rimescolare per tre volte in senso antiorario quel principio di pozione col mestolo di rame messole a disposizione. Ripeté l'operazione per ben cinque volte per i successivi quarantacinque minuti, durante i quali preparò i restanti ingredienti all'utilizzo tentando di studiare attentamente quelli che non conosceva. Così si sentì più sicura quando al termine del tempo richiesto dalla ricetta versò i peli aranciati di coniglio norvegese, che in fondo servivano solo a nascondere il sapore poco accattivante del veleno. Attribuì così proprio a quel pigmento lo strano colore marroncino che assunse il liquido dentro il calderone. Si aggiunse un ulteriore leggero tremolio d'ansia alle sue dita, anche se il cervello continuava a dirle di restare calma perché le sue scelte erano più che logiche. Il professor White in classe durante le esercitazioni raccomandava a tutti i suoi studenti di non continuare quella tipologia di pozione se non assumeva il solito colorito verdolino delle olive. Tuttavia quella che Casey stava vivendo era una situazione sui generis e, proprio come il docente le ripeté più e più volte durante il loro colloquio, il pozionista deve essere sempre in grado di adattarsi.
A quel punto portò la temperatura del liquido a 110°, così da permettere ai peli di sciogliersi, e mise dentro le tre squame di coda di sirena. Da lì in poi sarebbe stato tutto in discesa: dopo dieci minuti avrebbe dovuto aggiungere ogni cinque tutti gli altri ingredienti, a partire da giusquiamo. Sentì i nervi distendersi finalmente, mentre l'acqua sobbolliva, e il principio di un sorriso si formò sul suo volto, quando...
«Merda!»
Una fiammata per poco non le bruciò tutti i capelli che aveva sulla testa. Sì, una fiammata, proveniente dal liquido nel calderone.
«Oh merda, merda, merda!» Spense subito il fuoco tossendo per il fumo. Un odore nauseante le fece salire un conato, poi un altro, e si coprì naso e bocca con la manica della felpa. Lennart la osservava ancora appoggiato all'oblò, facendo scricchiolare il legno della sua gamba monca, come se avesse visto quella scena mille volte.
«Dovevo aspettarmelo» disse, portando Casey all'esasperazione. Con un gesto della bacchetta produsse un Dilaberis che fece scomparire il cattivo odore.
La ragazzina poggiò entrambe le mani al tavolo, incapace di accettare di aver fallito. Vagò con lo sguardo sulle ampolle, sudando come una matta e ripercorrendo i passaggi fatti. Era più che certa di averli eseguiti tutti correttamente, rispettando le tempistiche come un orologio svizzero. Doveva trattarsi di quel colorito, oh sì; avrebbe dovuto dar retta a Sirius. Ma cosa lo aveva generato? Il coniglio? I peli di coniglio non possedevano portentosi poteri magici in grado di influenzare una pozione, a meno che i conigli norvegesi non mangiassero carote speciali. Doveva trattarsi di ben altro.
Arraffò la fiala di veleno, la stappò e ne odorò il contenuto.
«Puah! Questo non è veleno di cobra.» Si voltò verso Lennart.
«No, infatti» fece spallucce lui.
«E che roba è?»
«Veleno di vipera.»
Casey rimase a bocca spalancata, rimuginando insulti. *Stronzo figlio di una megera*
«Ma come "ukko"? Che vuol dire?!»
«Ukko è il dio del cielo secondo i lapponi. Gli viene associato il serpente e più precisamente la vipera. Quindi è veleno di Ukko.»
«E perché non me l'ha detto? Cosa, dovrei essere un dizionario finlandese vivente?!»
«Avresti dovuto capirlo fidandoti della tua conoscenza, Bell. Ora se non ti dispiace, puoi anda-»
«NO!»
Il diniego di Casey fu perentorio e Lennart sembrò non sentire di voler replicare. La ragazzina non voleva arrendersi di fronte alla pozione riuscita male, né di fronte alle sue speranze. Cominciò a trafficare con i barattoli che poco prima aveva spostato dal piano di lavoro, annusandone il contenuto, assaggiando con la punta della lingua qualche granello di una polvere o di erbe essiccate. Dopo aver fatto scorta di nuovi ingredienti tornò alla scrivania e vuotò il calderone con un Evanesco.
Ricominciò da capo.
«Il veleno di vipera non è abbastanza potente per un drago. E' neurotossico, ma quello della vipera comune non basta nemmeno per un essere umano. Rischia di far venire solo un gran mal di pancia alla bestia, con il rischio di provocare scariche sputafuoco» spiegò.
I passaggi si susseguirono simili ai precedenti, con la sola differenza che trattò il veleno messole a disposizione da Lennart e dai suoi aspiranti fornitori lapponi in maniera del tutto diversa. «Ce ne vuole di più.» Versò un'intera boccetta di cento millilitri dentro un grande mortaio. «Bisogna però attenuare alcuni dei suoi effetti, in modo tale che non disturbino il regolare funzionamento degli organi del drago.» Vi gettò dentro mezza boccetta da venti centilitri di semi di papavero e amalgamò come poté con un pestello. Contemporaneamente mise su un fornellino a parte un pentolino d'acqua che giunse presto all'ebollizione, e vi mise dentro tre fiori e tre gambi di ginestrino per farne un decotto.
«Il papavero, come si sa, è un oppiaceo, mentre il ginestrino, altrimenti detto lotus corniculatus, oltre ad essere un sedativo è un disinfiammante. Con le dosi giuste dovrebbero avere i giusti effetti narcotici senza intossicare il drago al punto da fargli avere la reazione sbagliata.»
Dopo aver versato nel calderone il nuovo composto velenoso con papavero e ginestrino, seguì il procedimento della ricetta base fino a metà dei tre quarti d'ora di pausa di cottura e rimescolamento, dove inserì nel fluido in ebollizione un cucchiaio pieno di una sostanza biancastra e gelatinosa.
«Infine penso che il grasso di foca possa dare un po' di sicurezza in più. Si usa per impermeabilizzare le scarpe, ma il drago ha la pellaccia dura: gli impermeabilizzerà lo stomaco.»
Alla fine delle aggiunte, l'incantesimo Manina le venne in aiuto rimescolando per quindici minuti di fila in senso orario. Dunque, spento il fuocherello, la pozione sembrò pronta: il colore era delle sfumature del verde, anche se fin troppo chiaro rispetto al solito. Probabilmente aveva influito il ginestrino o la bassa pericolosità del veleno della vipera.
Lennart era rimasto impassibile per tutto il tempo della seconda procedura e aveva solo fatto alcuni passi per avvicinarsi al calderone, dare un'occhiata e guardare Casey strizzando le palpebre.
«Sei pienamente convinta che possa funzionare?» le chiese scrutandola dall'alto in basso.
«Non so. Ha un drago?»
L'uomo distolse lo sguardo con indifferenza per tornare al suo oblò, e la Grifondoro sentì subito di aver esagerato con i toni e con l'insofferenza. Cominciò a temere davvero per il posto. Aveva provato a fare tutto quel che poteva, rimediando all'errore di essersi lasciata spaventare dal tempo che scorreva e non chiedendo al capitano qualcosa sulla natura degli ingredienti. Ciononostante dubitava che sarebbe riuscita a trovare una soluzione senza sbagliare; avrebbe rifiutato di continuare definendo l'impresa impossibile.
«Maledizione, Bell.»
L'imprecazione del capitano sciolse ogni dubbio sul suo fallimento. La ragazza posò gli occhi a terra e raccolse lo zaino con dentro le sue cose. Incerta su cosa fare, si chiese se dovesse salutarlo o no; tanto, probabilmente, non l'avrebbe più visto.
«Dovrò trovare una cabina tutta per te.»
Alzò lo sguardo. «I-in che senso?» chiese lei.
«Non posso rischiare che qualche mascalzone pensi di fare il furbetto. Devo proteggere il mio equipaggio.»
Il calore che le imporporò le guance fu un mix di imbarazzo e incredulità. Si sforzò di credere di essere solo stordita dai vapori dell'ebollizione e di starsi immaginando tutto.
«P-pensavo di aver sbagliato...»
«Tutti i candidati hanno sbagliato nello stesso punto, ma tu ti sei corretta. Anche se quella pozione non funzionerà, tu hai avuto l'accortezza di indagare. Ed è questo ciò di cui io ho bisogno: qualcuno che studi gli ingredienti che ci proporranno e che non si fermi alle poche conoscenze che ha. Non mi serve un'enciclopedia vivente che non ha più spazio per aggiungere un paragrafo. Soprattutto che non è in grado di vedere oltre le sue definizioni.»
Sentì le gambe cedere. La mente cominciò a bollirle, proprio come la pozione pochi istanti prima. Il grumo amaro nel suo petto si sciolse e l'immagine del suo angusto appartamentino a Nocturn Alley divenne lontana. Si vide solcare i mari e toccare con un dito la luce dell'aurora boreale. Si immaginò la faccia di quei tre ragazzotti incontrati sul molo vedendo una ragazza sulla nave che portava sfiga all'intera missione.
«Benvenuta a bordo, dunque. Si parte fra dieci giorni.»



Modifica approvata.


Edited by ion` - 28/8/2021, 12:20
 
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view post Posted on 21/9/2021, 19:49
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• Parti: I, II



Sono passati due giorni dalla partenza dal molo occultato. La Cassiopea ha solcato le vie del Tamigi salutando le sue acque serene e catapultarsi nelle correnti del Mar del Nord. Mi sono chiesta spesso se stessi vivendo un sogno o se la foce del fiume fosse in realtà la porta per un mondo limbico, dove il tempo non scorre e l'unica vita esistete consiste negli uomini sulla barca e nelle onde.
Questa sensazione si è in parte persa quando ieri, al crepuscolo, abbiamo costeggiato i Paesi Bassi - la nave è molto più veloce rispetto a un normale veliero babbano. Vedere la terra oltre il mare è stato come ricordarmi di essere ancorata al letto di fronte a un sogno che mi appariva fin troppo reale. Eppure vi è ancora l'ignoto di fronte a me. L'ignoto delle mie scelte e del futuro che mi si presenterà. Mi è ignota persino la stessa massa d'acqua su cui navigo, ciò che contiene; e il senso di spaesamento dovuto all'uguaglianza fra le direzioni del mare mina l'emozione del viaggio nauseandomi.
Fortuna che la Cassiopea ha una rotta. Da sola non saprei dove andare.


Posai la penna fra le pieghe delle pagine del diario. Osservai la mia calligrafia sbilenca - non era così comodo scrivere sul ponte mentre la nave oscillava sulle correnti - e d'impulso strappai il foglio. Lasciai scoperte le annotazioni scritte dietro, appunti degli studi che avevo cominciato a tenere ieri stesso sugli ingredienti di Lennart.

Pelliccia di Yeti: impermeabile, protezione dal gelo, proprietà corroboranti?
Corteccia di Betulla: antinfiammatorio, indicata per i problemi della cute, di fertilità, usata per l'inizio di un nuovo ciclo. Sostituisce il salice?
Linnaea Borealis: placebo, composto addensante [...]


E calcoli, bilanciamenti chimici, pozionistici, equazioni che non trovavano soluzioni tirando in ballo l'arte dei fluidi tradizionale. L'incapacità di concludere una dimostrazione mi spaesava, forse ancor più dello stesso mare infinito. Di tanto in tanto Lennart passava dalla cambusa resa studiolo dove mi aveva piazzata con la sua merce sperimentale e un lettino tutto per me. Andava in cerca di buone nuove, ma il massimo che potevo dargli erano altri punti interrogativi.
Cominciai a vedere sul suo volto l'ombra del rimpianto per aver preso una ragazzina ancora in età scolare a bordo, incapace per ovvie ragioni di soddisfare le sue elaborate richieste. Cominciai a vederla anche sui volti degli altri marinai, cupi e silenziosi al mio passaggio. A cena nessuno mi si sedeva accanto, compresi i più giovani, preferendo raggrupparsi intorno ai tavoli dall'altra parte della mensa e lanciandomi occhiate scomode. Mi chiesi se fosse perché il capitano aveva parlato con loro dei miei scarsi risultati o per il semplice fatto che ero una ragazza. Poteva durare ancora a lungo in quel modo? Trovare rifugio dall'insicurezza nelle mie stanze era il metodo migliore che avessi per non avvertire il groppo in gola che agli esterni mi prendeva in contropiede. Avevo, ammetto, una paura sommessa che mi navigava sotto la pelle, che tendevo a coprire di calcoli e analisi per non lasciarmi sopraffare, per non permettermi di immaginare nemmeno il motivo per cui essa insistesse a pungolarmi la fronte.
L'Occhio, inoltre, aveva ripreso a tormentarmi a un giorno dalla partenza dopo una lunga e serena pausa. Mi mostrava la lince, ancora e ancora, prima nell'oscurità della mia casa a Nocturn Alley, poi sotto la luna sul ponte della nave. Non sapevo cosa volesse dirmi, se non che la mia idea che lei rappresentasse il mio desiderio di abbandonare la clausura del quotidiano era sbagliata. La lince continuava a volere qualcosa da me, continuava a guardare verso l'orizzonte, verso il nord del mare.
Tutto ciò mi scombussolava e mi rendeva il viaggio ancor più faticoso di quanto pensavo che fosse. Ma erano passati solo due giorni, in fondo. Avevo ancora un mese, mi dicevo.

Il tubare in mare aperto di un piccione mi fece alzare improvvisamente gli occhi dai calcoli. Aggrottai le sopracciglia e fui incredula quando l'uccello atterrò goffo sul parapetto della prua, proprio di fronte a me. Si avvicinò e guardandomi di lato col suo occhio stupido e minuscolo mi porse una zampetta a cui era legata una lettera rossa. Sentii delle risatine provenire dal ponte ma non vi badai.
«Eh? E' per me? Cosa sei, un piccione viaggiatore?» Volò via verso ovest non appena presi la lettera. La voltai e vi trovai scritto il mio nome. Poi, più in basso, che era da parte di... mamma?
«Ma cos-»
La strillettera si auto-strappò con violenza dalle mie mani. Vorticò davanti alla mia faccia aprendosi e perdendo brandelli di carta tutt'intorno. Io, sconcertata, rimasi paralizzata.
«Piccola insolente, figlia ingrata!» Una bocca si formò fra le pieghe di cellulosa e cominciò a sputacchiarmi addosso pezzetti di pergamena e lettere. «Se pensavi di passarla liscia ti sbagliavi di grosso! E' giunta l'ora che io getti via la chiave della tua camera. Come hai osato anche solo credere di poter partire per chissà dove? La vita non è una favola come credi, non c'è spazio per fantasticare su avventure inconcludenti! Pensa prima a finire la scuola, e forse un giorno concluderai qualcosa! Hai capito?! Metti subito il tuo sedere sulla nave del ritorno e vieni a casa, sconsiderata! Quando tornerai faremo i conti!»
Si spezzettò, come stracciata da un paio di mani, e il vento la trascinò via.
Mi mancò il fiato, in un certo senso. Fissai il vuoto, dove prima la strillettera svolazzava, e solo lentamente riuscii a mettere in moto il cervello. Che diamine era successo? Avevano sbagliato mittente? C'era un omonimo? I piccioni non erano poi così tanto bravi quanto i gufi a portare la posta e sbagliavano indirizzo? Ma poi, perché un piccione?
Mi voltai, risentendo le risatine provenire dal ponte intensificarsi e divenire uno scoppio di risa acute. Li sotto, dietro l'albero maestro, vi erano delle persone che si tiravano soddisfatte pacche sulle spalle sghignazzanti. Mi alzai per vedere e li riconobbi: erano i tre ragazzi che avevo incrociato sul molo il giorno del colloquio. E mentre il groviglio di neuroni presenti nel mio cervello trovava le ragioni per cui quei mozzi idioti l'avessero fatto, la mia rabbia saliva soffocando ogni intenzione di pace e convivenza che sin dall'inizio mi ero preposta nei confronti del resto dell'equipaggio che sembrava tanto odiarmi.
Il sole mi abbagliò scendendo le scale, nervosa ma con le mani in tasca, come se non me ne fregasse niente. Gli altri uomini mi guardavano, ovviamente spettatori di tutto l'accaduto stringendo le cime e ricucendo le reti strappate dai pesci. I tre mi videro arrivare e scoppiarono in un altro fragoroso raptus di risa.
«Torna a casa, piccoletta.» mi sentii dire. Volevo mordere, graffiare, lacerare. Mi umiliavano di fronte a un pubblico di uomini che osservava silente, disinteressato a difendermi. Feci di tutto per trattenermi e rendermi impassibile, persino sotto lo sguardo invadente del moro. Il desiderio di prenderlo a calci, prima insistente e folle, scemò all'improvviso con un'ondata di gelo e dolore alle tempie. Ebbi un brivido e la sensazione di non poter far niente per contrastare lo scherno. Fu in quel momento che arrestai il passo, di fronte alla porta che mi avrebbe portata sottocoperta verso le mie stanze, come in preda a un mancamento. Pensai fosse l'ira a farmi sentire così inerme e incapace di muovermi. Mi voltai ancora verso i il ragazzo dai capelli neri, che sorrideva soddisfatto, pensando inconsciamente che avesse chiamato il mio nome. Poi un meccanismo del cervello scattò, come una voce che mi chiedeva con insistenza di mostrarle il volto di mia madre.
Il sorriso di lui, che continuava a fissarmi, scemò all'istante.
La richiesta, invece, rimase insoddisfatta e, alla mia ribellione e furia, quella camicia di forza intangibile mi scivolò di dosso.

Fuggii sottocoperta. Urlai dentro il cuscino, lo presi a pugni. Rimasi a fissare il soffitto di legno per ore, stretta nel mio alcova. Cominciava a fare freddo, anche se eravamo in piena estate. I fasci di luce provenienti dall'esterno si erano assottigliati e giungeva la sera. Io volevo solo tornare indietro nel tempo e suggerire alla me di due settimane fa, prima che arrivasse al molo, di non la cazzata di proporsi per un lavoro che non avrebbe mai saputo portare a termine.
In un momento imprecisato della sera, quando persi ormai il conto dello scandire dei minuti, qualcuno bussò alla porta. Non risposi, non mi alzai.
Ritentò dopo poco, picchiettando sulla porta. Questa volta parlò.
«Bell?»
Riconobbi la voce come una di quelle che mi scherniva sul ponte. Azzerai i pensieri, mi alzai, impugnai la bacchetta. Aprii la porta.
Davanti ai miei occhi, nell'ombra del corridoio, il moro mi fissava con la punta della mia bacchetta conficcata nell'incavo della mascella. Il suo sguardo indagatore, nero, un pozzo senza fondo privo di appigli, si incollò al mio, rosso, rabbioso. La mia bocca compiva una piega verso il basso, sotto le rughe dell'espressione dell'ira, lui glaciale e imperturbabile. Nessuno dei due disse niente per un po'. Alla fine fu lui a spezzare il silenzio.
«Mi dispiace.»
Espirai l'aria dalle narici in uno sbuffo secco.
«Quindi sei quel tipo di coglione che fa le cose e che subito dopo se ne pente?»
Avvertii un suo movimento improvviso, come di risposta al mio insulto, e gli conficcai la punta del catalizzatore ancor più a fondo nell'incavo.
«Non. Muoverti. Ti faccio saltare la testa, stronzo.» Ringhiai. «Ti sembrerò piccola ma ho conosciuto centinaia di coglioncelli come te e i tuoi amici. Vi sentite minacciati da me, dal fatto che sono una ragazza e che sono riuscita a salire a bordo? Fatevi due domande, ritardati. Non vi conviene sfidarmi. Ho gareggiato alla Congrega dei Duellanti e più di una volta ho distrutto chi avevo di fronte.»
«Mi dispiace.» Mi interruppe, scandendo le due parole con lentezza.
«Non sfidarmi, cazzo!» Lo spinsi ed egli si ritrovò a fare un passo all'indietro, distanziandosi dalla mia bacchetta. «Vettene.»
Si voltò per andarsene prima che io sbattessi la porta. Tutto ripiombò nel silenzio, spezzato dal mio respiro affannoso e dal naso umido con cui tiravo su il muco del pianto. Sarebbe apparsa eccessiva a chiunque una tale reazione per uno stupido scherzo. In effetti non si trattava proprio di quello. Avrei detto che era l'insieme delle cose, l'ansia del lavoro che Lennart si aspettava da me e il disinteresse degli altri nei miei confronti. Ma qualcosa, dentro di me, mi diceva che quel tizio, oltre a vessarmi, si era impossessato di un pezzo della mia mente alla stessa maniera di un ladro.
Words of Magic | Miscellanea | 1 • Ricevi una strillettera: da parte di chi è e in quali circostanze ti raggiunge?

 
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view post Posted on 31/10/2021, 17:01
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• Parti: I, II, III

Keep working!gQLVvb5

Non avevo mai avuto l'occasione di sostare su una barca in mare aperto e di lasciarmi affondare nel silenzio assoluto della notte sulle acque piatte dell'estate.
Avevo cominciato a prendere gusto nell'uscire durante la sera, immergendomi nel gelo del Mar del Nord lontana dagli schiamazzi del refettorio dove l'equipaggio cenava, schiamazzava e si ubriacava. Perlopiù era uno dei pochi momenti in cui non rischiavo di incontrare qualcuno sul ponte. Solo la vedetta di guardia in cima all'albero maestro e i pesci nelle acque mi tenevano compagnia, silenziosi ed incuranti della mia presenza nello stesso modo. Qui, sul ponte desolato, potevo lasciare andare la mente.
La mia cabina era intrisa di vari fumi e odori, miscelati in una fragranza che ad un certo punto il mio naso mal sopportava durante il giorno. Tentavo di restare con l'oblò aperto per la maggior parte del tempo, anche se gli schizzi del mare attentavano alle mie pozioni. Da tempo ormai mi ero convinta che mancasse qualcosa di fondamentale ad ogni ingrediente collezionato da Lennart per essere assemblato in un unico grande intruglio. Qualcosa che sfuggiva alla mia comprensione e che probabilmente apparteneva alla magia delle terre che andavo per conoscere. Una specie di legamento submolecolare che noi con la nostra magia ordinaria non potevamo sostituire.
Durante i miei rapporti nella sua cabina io e Lennart provavamo a capire di che si trattasse, e lui continuava a impormi di cercare e di ricercare, analizzare e rianalizzare al fine di trovarlo. Mi ripeteva che da quando ne aveva memoria i lapponi e gli scandinavi dell'estremo nord andavano ben oltre il sopravvivere con quel che le lande ghiacciate gli fornivano, e di esser stato partecipe di eventi straordinari. Non mi disse mai di che si trattasse per inciso, e mi lasciava sempre a bocca asciutta in quanto a indizi. Dava sempre l'impressione di non sapere nemmeno lui cosa stessimo cercando, e che sperasse nella mia mente fresca gettandomi alla cieca in un mondo che non conoscevo.
Ad ogni modo, quella mia cabina con le pozioni e gli schizzi di mare faceva da contenitore per i miei pensieri. Il lavoro li sedava e quando non lavoravo la mente si colmava di incertezze e paure per il viaggio e per ciò che l'equipaggio avrebbe ancora potuto escogitare nei miei confronti.
Per quanto riguardava quei tre ragazzi, nessuno di loro fino a quel momento ritentò di attaccarmi e di mettermi in ridicolo. Io restavo sull'attenti, pronta a fulminarli, ma loro evitavano di fissarmi e di sostare a lungo in mia presenza sul ponte o in refettorio. Così io ricambiavo. Prendevo la mia cena - usualmente sbobba di patate e bacon, cipolle e pesce fresco - e mi poggiavo al parapetto della nave sul ponte ad ascoltare il silenzio del mare e a guardare la luna e le stelle.

Quella sera però c'era parecchia foschia. Un alone traslucido vestiva la luna e fondeva mare e cielo notturno all'orizzonte. Benché fossi cosciente che più a nord andavamo più il freddo aumentava, tali condizioni mi rendevano il soggiorno sul ponte meno sopportabile del solito fisicamente e psicologicamente. Decisi che per quell'unica volta sarei andata a cenare assieme agli altri. Tanto, mi dissi, dovevamo essere quasi arrivati a destinazione: in mezzo alla foschia avevo visto un veliero simile al nostro, il che poteva voler dire che eravamo più vicini a un porto di quanto credessi.
Mi misi in un angolo della mensa lontana dalle candele a giocherellare con la mia zuppa di patate, calamari e sedano, poco intenzionata ad incrociare lo sguardo degli altri. Non durò molto.
«Bell-ina, eccoti qui.»
Joe Martini, un bifolco che ricopriva il ruolo di nostromo, poggiò i palmi sul mio tavolo e mi alitò il ristagno stomachevole di tutto il whisky incendiario che aveva bevuto prima e dopo la partenza.
«Sei riuscita a far abboccare qualche pesciolino in quel cervelletto striminzito che ti ritrovi? O Lennart ha mandato proprio allo sfacelo l'intera spedizione assumendoti?»
Lo guardai con aria schifata, per il puzzo e per rendere il più esplicito possibile quanto mi ripugnasse la sua sola presenza. Denti gialli e cariati, naso butterato, capelli impiastrati con la salsedine. Carattere di merda.
«L-lasciala stare, Joe, è solo una ragazzina...» la voce flebile di Mortimer Rosen, un ometto tarchiato e nascosto sotto due lenti a fondo di bottiglia, provò a insinuarsi nella situazione. Doveva avere parecchia paura di quel Martini, poiché quando il nostromo lo guardò si ritrasse e soffocò i suoi intenti nel bicchiere.
«Rispondo solo al capitano sul mio lavoro» affermai secca guardando Joe negli occhi.
«Attenta, ragazzina...» si avvicinò inondandomi col suo puzzo. «Non siamo abituati ad avere donnicciole a bordo. Potremmo farti fare la fine dei pitali al mattino: usati e buttati in mare.»
Avvertii alcune risa provenire dal fondo del refettorio. Strinsi il pugno attorno alla forchetta percependo una forte ondata di caldo percuotermi la pelle.
«Joe. Lascia stare la mia pozionista.» Silenzio. Lennart era appena entrato. Gli occhi di tutti si posarono su di lui. Joe si slacciò da me digrignando i denti e si sedette al suo posto. Il resto della ciurma spostò l'interesse sui propri piatti e riprese il solito ciarlare.
Lennart si sedette al mio tavolo, forse per evitare che qualcun altro mi disturbasse poiché non mi parlò. Mi fece solo un cenno con la testa che io ricambiai. Qualcuno gli portò un vassoio con la cena.
«Capitano» chiamò roco Joe dopo un po'. «Tutta questa desolazione in mare angoscia me e gli uomini. Non c'è una nave, non si vede ancora terra. Cominciano a credere che i Folletti non abbiano tutti i torti nel dire che la spedizione è destinata al fallimento. Sa davvero dove ci sta portando? O ci ritroveremo su un molo di pescatori di foche che non hanno idea di cosa sia una bacchetta?!»
«Silenzio!» tuonò Lennart. «Chissà come vi siete fidati quando avete firmato il contratto. Poi assumo una fanciulla e il vostro piccolo mondo bigotto comincia a crollare. Queste sono acque placide e di rado toccate dai mercantili del Mondo Magico. Proprio questa è la nostra missione. Potete solo vantare di essere i primi in qualcosa, molluschi che non siete altro.»
Silenzio tombale. Joe schiumava sul suo posto, io sentii la soddisfazione far capolino sulle mie labbra. Continuai a mangiare la poltiglia fingendo di far finta di niente, quando alla fine non riuscii a resistere. Volevo schierarmi col Capitano.
«E poi io ho visto una nave poco fa. Potrebbe voler dire che siamo vicini al porto.»
Tutti gli occhi furono puntati su di me, persino quelli di Lennart.
«Che nave hai visto, Bell?» Mi chiese incuriosito.
«Be', era un altro veliero. Non saprei bene descrivervelo, c'è molta foschia fuori, ma credo che avesse le vele così traslucide da far vedere quello che c'era dietro.»
Gli uomini si ghiacciarono sulle loro sedie. Si scambiarono occhiate spaventate.
«Credi
«S-sì... Forse era la foschia.» Mi accorsi che qualcosa non andava.
Lennart si alzò di scatto e trascinò la gamba di legno con sé fuori seguito a rotta di collo da buona parte dei commensali. Gli uomini si stavano agitando, schiamazzavano impauriti. Io mollai il mio piatto e tentai di infilarmi nella massa per capire. Qualcuno mi afferrò per le spalle e mi strattonò facendomi cadere sul pavimento.«Dannata ragazzina. Sei la nostra rovina!»
«Ma che sta succedendo?!»
Mi lasciò lì e io mi rialzai dolorante.
«Fatemi passare!» Il Capitano dopo poco rientrò, seguito da una dozzina di marinai pallidi come cenci. «Statemi a sentire: ora ognuno di voi dovrà raggiungere il suo posto di lavoro e non dovrà smettere di lavorare. Qualsiasi cosa accadrà voi non dovrete alzare lo sguardo da quello che state facendo e fermarvi. Sono stato chiaro?!»
Gli uomini cominciarono a correre da tutte le parti, chi verso il ponte, chi verso la stiva o le cucine. Qualcuno cominciò ad arrampicarsi sulle reti degli alberi, altri ad afferrare funi o spugne e catini d'acqua saponata.
Io, spintonata a destra e a manca, tentai di raggiungerlo.
«Cosa succede, Capitano?!» Chiesi col cuore in gola.
Lui mi guardò colmo di preoccupazione.
«Siamo stati agganciati dall'Olandese Volante.»

Mi tremavano le mani. La punta della mia penna compiva tratti zigzagati sulla carta del taccuino di appunti di pozionistica. Scrivevo equazioni insensate, simboli alla rinfusa, seduta su un gradino della scalinata che portava al timone. Non dovevo assolutamente staccare gli occhi dal foglio, o ci sarebbe andata di mezzo tutta la nave.
Le credenze dei marinai sono dure a morire. Sono pari a una religione, e una vita di scaramanzia è il voto che compiono quando mettono il primo piede sul ponte di una nave. Vivono migliaia di leggende sui mari del mondo, magici e babbani, che passano di imbarcazione a imbarcazione: sirene, kraken, mostri marini, streghe che trasformano gli uomini in animali, dei volubili che scatenano tempeste sugli sventurati in mare. Quella dell'Olandese Volante era una di esse, ed era uno dei più grandi terrori che un uomo potesse trovare sulle acque.
Compresi solo successivamente che per Olandese Volante si intendeva una qualsiasi nave fantasma. Di solito si trattava di relitti abbandonati che continuavano a navigare anche dopo la morte dell'intero equipaggio per un assalto o, più frequentemente, per un'epidemia. La ciurma non avrebbe mai abbandonato la nave, e sarebbe rimasta a vegliare la sua traversata come ombre. Legati a questo eterno destino e impossibilitati a riposare nella terra in cui erano nati e a spirare fra le braccia della loro amata, facevano una promessa in punto di morte: avrebbero maledetto tutte le navi i cui marinai non avrebbero instancabilmente compiuto il loro lavoro.
«Il Capitano verrà a controllarci. Passerà per tutti gli anfratti della nave e non soprassederà a un lavoro disattento. Fate tutti il vostro dovere. E pregate.» Aveva spiegato Lennart poco prima che l'Olandese Volante fosse tanto vicino da scorgere i volti dei suoi defunti. Fantasmi grigi, espressioni cineree e disilluse, corpi eterei cosparsi del ricordo della malattia nella vita terrena.
Non avevo mai avuto tanta paura di un fantasma fino ad allora; forse solo prima di andare ad Hogwarts. I fantasmi erano gente per bene la maggior parte delle volte, e non potevano attentare in alcun modo alla vita di una persona. Ma l'idea di una maledizione che venisse da chissà dove, dal Regno dei Morti o da qualsiasi altro posto che ci era celato, sconquassava anche la mia mente.
Il gelo mi era penetrato sin nelle ossa. Mi era impossibile muovere lo sguardo dal foglio, sia per l'imperativo del Capitano sia perché ero come pietrificata. Si muoveva solo la mano, per scrivere equazioni senza senso.
*Forse dovrei calcolare qualcosa di vero. Dovrebbe essere un lavoro ben fatto.* Mi dissi, e tentai di elaborare qualcosa.
Una folata di vento fece girare i fogli. Mi morsi la lingua per non gemere. Alla mia sinistra si muoveva qualcosa, permeato da un silenzio disumano.
*Continua a lavorare, continua a lavorare.* Ripetei nella mia testa. Sentivo battere i denti dei miei vicini di postazione e il respiro affannoso di colui che alla mie spalle teneva il timone in mano. Chissà come faceva a tenere lo sguardo dritto davanti a sé senza lasciarsi catturare dalla figura che volteggiava fra i nostri corpi.
A un tratto - il mio cuore sobbalzò - il vento soffiò ancor più forte e, cedendo alla paura, lascia andare il mio taccuino. Rotolò giù per le scale e spinto dagli sferzanti soffi gelidi venne trascinato lungo il ponte. Io scattai in avanti con la penna in mano per recuperarlo. Lennart non ci aveva detto cosa fare in simili situazioni e quello era il mio unico materiale di lavoro. Io... io non potevo rimanere senza fare niente.
Mi buttai su di esso e lo afferrai. Il mio tonfo spezzò il silenzio. Probabilmente tutti gli altri mi stavano maledicendo. Ma il legno ghiacciato del pavimento non mi soccorse: scivolai mezzo metro più in là col corpo mentre mi sforzavo di incollare la punta della penna al foglio e andai a sbattere contro qualcuno.
Non riuscii a vedere chi fosse se non all'ultimo e con la coda dell'occhio. Era il ragazzo dai capelli neri che mi aveva tormentata con i suoi scherzi. Sarebbe stata un'ottima vendetta se le vite di tutti non fossero state di mezzo.
Lui cadde all'indietro lasciando la presa sulle corde che stava annodando. Sbatté la testa e si trovò a guardare il cielo.
Un altro soffio gelido e avvertii la presenza del fantasma accanto a me, sopra di lui. Avevo fatto un casino.
Non vidi ciò che accade, ma l'orribile risata cavernosa dell'entità riecheggiò per il mare assieme a quella del suo intero equipaggio di defunti.
Il ragazzo doveva aver spostato lo sguardo su di lui oppure si era rimesso al lavoro troppo tardi.

Il fantasma scomparve e il relitto venne trascinato oltre dalle correnti. Tutti smisero di lavorare e nessuno proferì parola sull'accaduto mentre come in un corteo funebre ci si rifugiava nei propri giacigli. In mezzo alla folla che si scioglieva riuscii ad udire Joe Martini imprecare sottovoce.
«Stupida ragazzina. Ci ha maledetti tutti.»

Words of Magic | Spirit | 5 • Racconta dell'incontro con un essere, spirito o entità di basso pericolo.


 
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Words of Magic | Spirit | 8 • Tu e un altro PG o PNG (può trattarsi di una lunga conoscenza o di un incontro occasionale) avete un legame molto speciale, un'affinità elettiva che vi porta a sperimentare un grado di unione magica molto profondo. Raccontacene/raccontatecene.
png
— Real eyes realize real lies.
Le sue palpebre spalancate tremavano nell'aria gelida della nave. Schiuse sull'iride verde, accoglievano pupille abbandonate all'invisibile. Nere, riflettenti le luci degli oblò, coperte a intervalli regolari dalla carnosa membrana, rimbalzavano da destra a sinistra scandendo i secondi come un metronomo. L'espressione rivelava che quegli occhi stessero guardando altrove, ancorati ad una piega dello spazio e del tempo.
Non si mosse nemmeno all'avvicinarsi di un'insistente e intenso raggio di luce.
«È altrove, su questo non ci sono dubbi.» Il medimago di bordo, il signor Pickens, dopo una rapida occhiata alla ragazzina spense la punta della sua bacchetta con un Nox. «Mi chiedo se sia solo sotto shock, se soffra di disturbi mentali o se sia l'effetto di un incantesimo. Addirittura se non sia davvero perché… è una Veggente. Tu ne sapevi qualcosa, Lennart?»
Il capitano, seduto in disparte lontano dalla luce dell'oblò, teneva lo sguardo fisso sul pavimento. «No, non ne avevo idea. La ragazza non mi ha detto niente.»
«In ogni caso, capitano, non ho gli strumenti adatti per trattare casi limite come questo appare. Né l'Innerva né la Pozione Corroborante hanno sortito gli effetti sperati. Probabilmente ha bisogno di tempo, anche se la possibilità che le cause siano magiche mi preoccupa. D'altronde ciò che è accaduto l'altra sera con il relitto... può c'entrare. Mi sembra il minimo. A bordo, specie se è la sua prima esperienza, vi sono poche cose a cui può ancorarsi per tornare alla realtà. Se lei è certo che si tratti di Veggenza… non ho nemmeno dimestichezza con tali fenomeni.»
«Non ne sono certo per nulla. È stato il ragazzo magazziniere a dirlo.» Lennart si passò una mano sulla fronte sospirando.
«Forse è meglio interrogarlo e chiedergli cosa ha visto esattamente» aggiunse il medico. «Se lo ha detto deve esserci un motivo, a meno che il caos del momento non lo abbia rintronato.»
«Parker» la voce del Capitano si alzò per chiamare uno dei pozzi della nave che sostava accanto alla porta. «Porta qui il magazziniere, subito.»
Il mozzo, smilzo e dal volto cinereo si mise ritto sotto la luce del sole che filtrava nella camera e annuì prima di iniziare a correre lungo i corridoi della nave. Tornò dopo poco, preceduto dal magazziniere. Un ragazzo dai capelli neri, gli occhi scuri e impenetrabili, il viso aguzzo e scavato dalle occhiaie.
«Capitano, io…» disse. La voce roca, il timbro ovattato dalla gola secca. Bloccò le parole sul sorgere quando vide la ragazzina distesa sul lettino con gli occhi spalancati e assenti. Schiuse le labbra più impaurito che sorpreso. Rimase immobile.
«Ripetimi il tuo nome, ragazzo.» Ordinò Lennart.
«Nero Baltassar.» Rispose il magazziniere dopo aver deglutito, senza scostare gli occhi dalla catatonica.
«Nero, hai detto che la signorina Bell è una Veggente. Come fai a saperlo? Hai visto qualcosa di sospetto? Ti ha detto lei qualcosa?»
«No, non mi ha detto niente.» In realtà non si erano mai parlati, anche perché ciò che era accaduto sul ciglio della porta della Bell non poteva reputarsi un discorso.
«E allora come fai a dire che lei è una veggente?» lo incalzò il capitano.
Nero deglutì. L'ossessivo oscillare delle pupille della semidormiente era pari a un'ipnosi. «Quando le fiamme circondarono il ponte lei si era già messa relativamente in salvo. Era in coperta vicino al timone che tentava di estinguere le fiamme con la bacchetta. Quando l'albero maestro cadde, però, generò di fronte a lei un muro di fiamme molto alto. Sebbene avesse ancora la bacchetta in mano e io assieme ad altri uomini avessimo sbaraccato le scale per permetterle di fuggire, lei rimase immobile, come pietrificata sul posto. Ha fissato il fuoco per non so quanto tempo, senza nemmeno sbattere le palpebre, senza respirare. Non appena ci siamo avvicinati è crollata a terra è ha cominciato ad avere le convulsioni.»
Lennart e Pickens ascoltarono attentamente il racconto del ragazzo. Il primo, ammutolito, contemplò preoccupato il pavimento. Fu il secondo a parlare.
«Ciò che hai visto può esserci di grande aiuto ma non è sufficiente per stabilire che la signorina Bell è una veggente. L'evento potrebbe averla traumatizata o aver innescato un ricordo spiacevole. Il troppo stress potrebbe aver generato la crisi. In effetti le bruciature sugli arti la dicono lunga.»
«In realtà...» si fece avanti Nero con riluttanza interrompendo il Medimago. «so per certo che lei è una Veggente e che, proprio in quel momento, lei mi ha reso partecipe della sua visione.»
Lennart sembrò scattare sulla sedia per mettersi in piedi. In realtà la gamba di legno batté semplicemente sul pavimento per la sorpresa. «Di che diamine stai parlando, ragazzo?!»
Non ne avrebbe mai parlato lì, sulla nave. Proprio come Casey, non riteneva lontanamente necessario far sapere a tutto l'equipaggio del proprio dono. Anche perché, proprio come aveva potuto scrutare nel di lei schema di pensieri, più che di un dono si trattava di una maledizione.
«Io... io ho letto nella sua mente.» Lennart e Pickens rimasero muti. «So che non avrei dovuto farlo, ma... è stato come se sul momento lei me lo avesse chiesto. Ha abbassato tutte le sue difese, ha fatto si che io potessi varcare la sua soglia senza trovare resistenze. Probabilmente perché aveva paura e la visione l'aveva sopraffatta. Ha invocato il mio aiuto.»
Tale discorso generava molte domande nella testa dei due uomini. Casey sapeva che Nero era un Legilimens? Ma soprattutto, che cosa aveva visto Casey?
«Ragazzo, qual è la visione?» chiese Lennart dopo alcuni secondi di silenzio.
«Non posso rivelarvi i pensieri degli altri. Non dovrebbero appartenere né a voi né a me. Ma forse posso tentare di capire dove si trova e se è in grado di tornare. Se si sveglierà potrà dirvelo lei.»
Il Capitano, platealmente sconvolto, cercò con lo sguardo l'assenso di Pickens. Questi dopo aver squadrato nuovamente Nero fece di sì con la testa.
«E sia. Fallo. Riportala tra noi.»
Il ragazzo, respirando profondamente per controllare i propri timori, fece un passo avanti. La sua bacchetta scura d'ebano rilucette. Mantenne il contatto visivo con le pupille sfuggenti e bussò alla porta di Casey.
«Legilimens.»
***
Avaveva perso di vista lo scorrere del tempo. I secondi, i minuti, le ore e i giorni si erano accavallati l'uno sopra l'altro alla rinfusa. Si sovrapposero fino a confondersi, si susseguirono in ordine casuale. Le immagini d'orrore si erano riversate sul suo Occhio come una cascata senza che lei potesse avvertirle e avere il tempo di respingerle. *Avrei potuto farlo davvero?* si era chiesta, ma la verità era che la paura la sopraffece fino ad immobilizzarla.
Ecco che si era manifestato il suo più profondo tormento. L'aveva chiuso molto tempo addietro in un piccolo scrigno, ma ciò non bastò a renderlo una possibilità lontana. Aveva sperato che dimenticandosene non sarebbe mai potuto accadere, invece lei si era spezzata sotto il peso della sua maledizione come Oliver. Faticava a visualizzarlo, il ricordo non le apparteneva più del tutto ma giaceva in un ciondolo chiuso a chiave nel suo baule a Londra. E questo pensiero sfuggente, che sentiva di possedere ma che non riusciva ad afferrare, contribuiva al suo spaesamento.
Aveva trovato un'altra soluzione, invece: intravide uno spacco fra le manifestazioni dei tempi futuri, come l'orlo del tendone di un cinema su cui viene proiettato il film. Vi si avvicinò e lo sollevò per passarvi dietro, ritrovandosi nella stasi della sua mente. Se la maggior parte di lei era ancora travolta dalla visione, quel piccolo posto ancora da essa intoccato giaceva nella quiete, lontana dallo spazio e dal tempo. Si sentiva al sicuro lì dentro.

«Non sfidarmi, stronzo!»
La prima reazione della mente di Casey al suo arrivo fu di riportarsi al momento più intenso che avevano vissuto insieme e all'emozione che ella aveva imparato ad associare a lui. Si ritrovò di nuovo la bacchetta puntata al collo, gli occhi furenti di lei addosso. Il poco entusiasmo ch'ella provava nei suoi confronti si manifestava nei colori, nella storpiatura dell'ambiente.
Lo travolse una fitta alla bocca dello stomaco, ancora. Non gli era passato del tutto il senso di colpa per ciò che aveva fatto assieme a Tyb e Bot. La strillettera voleva essere solo uno scherzo, ma a quanto pareva riuscirono solo a infilare il dito in una ferita sanguinante, tanto sanguinante che la rabbia e il dolore che Casey aveva provato lo investirono come un fiume in piena.
Lei, inoltre, a tratti sembrava di una resistenza inaudita alle proprie emozioni, alle infiltrazioni, alle visioni; ma quando non era più in grado di contenere la moltitudine di emozioni di risposta, diventava debole, debolissima, una porta spalancata. Proprio per questo Nero tentò di porgerle le scuse, ma per lo stesso identico motivo comprese come mai furono rifiutate con tanto risentimento.
Sapeva comunque che quello che lui aveva davanti era solo un ricordo, e ciò lo stupiva. Casey, in qualche strano modo, doveva essere consapevole della sua presenza.

Nero Baltassar era l'essere più odioso su cui avesse mai posato lo sguardo. La sensazione dei suoi occhi neri fissi su di sé le provocava ribrezzo. Essi desideravano sminuirla, tentavano di spogliarla delle sue resistenze intimidendola e di sondare ogni sua particella. Ripensandoci, nei giorni trascorsi dopo la strillettera, non c'era da stupirsi se egli fosse in possesso di qualche strano incantesimo che gli permetteva di entrare nella mente altrui. Casey non conosceva simili magie, ma aveva imparato che nel Mondo Magico molto dell'impensabile era più che possibile.
Buffo era che, benché sentendosi violata dalla sua presenza in concomitanza della visione durante l'incendio, gli avesse chiesto di aiutarlo. Seppur tal pensiero rischiasse di farla rimettere, lui era l'unico che poteva comprenderla davvero.
Ferma nella sua stasi, a contemplare il fuoco e l'onda, sentì lontana la sua voce e qualcosa dentro di lei rispose, illuminata da un briciolo di speranza

Vagare nella mente di un altro non è cosa semplice. Nero dovette fare i conti col caos: più si concentrava su Casey più veniva sommerso dalla paura che lei aveva e stava provando. Non era ancora chiaro a cosa fosse dovuta. Cominciò a farsene un'idea quando le immagini dell'albero maestro in fiamme sulla nave gli si palesarono davanti. Il muro di fuoco era alto e si sentiva puzza di carne bruciata. Ecco, quello era stato un buon motivo per Casey per avere paura. Eppure qualcosa, la connessione fra delle sensazioni e dei pensieri che non riusciva a rendere parole, gli diceva che non si trattava di quello.
Infine, trovò lo squarcio. Una sottile spaccatura nel legno del ponte della nave, che alzò come una tenda. Fu allora che la vide e fu allora che venne investito dall'ondata della paura più pura e nitida che navigava in quella mente.
E ora che aveva visto non poteva più far altro lì dentro. Non avrebbe potuto parlarle e infonderle coraggio. Così, con un piede dentro e uno fuori, compiendo uno sforzo inaudito, tentò di rimanere ancorato alla nave dei ricordi di lei e di avvicinarsi fisicamente al suo corpo vivo.
«Casey» le sussurrò all'orecchio a denti stretti per la fatica. «Sono Baltassar. Devi ascoltarmi. Devi tornare da noi, da me, da Lennart, sulla Cassiopea. Ma per farlo devi lasciarti andare. Non trattenerti. Io ti capisco, lo sai. E' difficile, è orribile. Ma non devi avere paura del tuo dono. Sarai sempre tu a decidere che uso farne.»
Continuò a ripeterle tali parole con pazienza più e più volte nella speranza che lei, seppur da lontano, le ascoltasse.

Non devi avere paura del tuo dono.
Il suono ovattato di una voce emergeva dalle acque del Mar del Nord, pioveva dal cielo grigio e veniva emanato dal fumo di un incendio. Lei stava raccolta in un angolino, lontana dalla fiamme, lontana dalla vista dell'onda che divorava l'orizzonte. L'istinto le diceva di tapparsi le orecchie, ma poi si ricordava che non poteva. Il suo corpo era immobile da qualche parte lì fuori, i suoi pensieri invece non avevano né mani né orecchie.
Devi tornare sulla Cassiopea.
Paradossalmente lei era sulla nave, e avrebbe continuato a restarci per sempre in quel limbo della mente. Anche se non era quella vera. Varcando lo squarcio avrebbe ottenuto solo dolore.
Non trattenerti.
Aveva passato anni interi a trattenersi di fronte alla sua maledizione. Come poteva lasciarsi andare ora? Come poteva considerarla un dono? Quella voce... Lui, aveva visto pure lui cos'accadeva lì, oltre lo squarcio. Come poteva chiederle di accettarlo?
Io ti capisco.
Qualcosa si fece largo fra le paure, un sentimento che le scaldava il cuore. Era sempre stata sola, non aveva mai condiviso la paura con nessuno. Ora era possibile, seppur con la persona più impensabile del mondo.
Una luce catturò il suo sguardo. Sul ponte si muoveva qualcosa sotto i raggi del sole che aveva appena trapassato le nubi coi suoi raggi. Zampettava silenziosa sulle travi e saltava sul parapetto. Faceva le fusa e aveva i baffi, un pelo chiaro, grigio e ispido, orecchie lunghe e a punta, due occhi grandi e che vedevano oltre. La lince si sedette accanto allo squarcio. La guardava come se l'attendesse paziente ed esortandola allo stesso tempo. Casey si strinse alle proprie sicurezze ancora per un po' ma perdendosi nella pupilla verticale dell'animale. Dentro di essa brillava uno strano simbolo, rune concatenate in un cerchio come una bussola. Vegvisir.
La lince l'aveva cercata a Nocturn Alley, le aveva mostrato la strada da compiere e ora la recuperava dal pozzo infernale in cui era caduta. La ragazza si alzò e fiancheggiò la creatura. Lo squarcio di fronte a lei vibrava. L'accolse e la ricondusse alla visione.

Bruciava. Stava bruciando letteralmente, aveva parte dei vestiti in fiamme. Solo che non riusciva a muoversi per spegnere il fuoco. Si dimenava ma non aveva il controllo dei propri movimenti, nemmeno quando venne arsa la carne. I suoi occhi erano riversi all'indietro mostrando le sclere, e guardavano lo tzunami che li stava per travolgere, lei e tutta la barca - sussurri dal futuro. Dentro vi nuotavano degli scheletri e un grosso teschio spalancava le mandibole per divorarli.
Si svegliò quando l'acqua le entrò nei polmoni e il buio l'accecò. Ma alla fine si trattò solo della luce che filtrava dagli oblò della cabina del Capitano. Sbatté le palpebre e il moto oscillatorio delle pupille si arrestò sulla figura di Nero, poi su quella di Lennart e infine su quella del Medimago di bordo. Era sfinita, ma ora sentiva di poter dormire sogni sereni.
Le sue bruciature erano state curate. La confusione si appianò lentamente, ma non appena sentì la voce riaffiorarle alla gola parlò.
«Capitano. L'incendio sulla nave non è stato casuale. Qualcuno ci ha traditi e lo farà di nuovo, a costo di farci sprofondare nell'abisso della morte.»
E strinse la mano di Nero.



Liberamente copiato da un sito:
Quello della Lince è un importantissimo totem poiché è detentore di tutti i più antichi misteri dimenticati e di quelli tuttora esistenti. È è un animale veloce, silenzioso e mistico. Rappresenta, quindi, la capacità di vivere al di là dei paradigmi e di superare le barriere imposte dalla materia. In tal senso permette di entrare in contatto con il vero io e le energie sottili che governano la vita di tutti gli esseri viventi.
Chi possiede questo totem risulta indecifrabile ed ermetico. Diviene impossibile, quindi, per chi gli sta intorno capire a cosa stia pensando o quale sia veramente la sua personalità. Si tratta di persone in grado di elaborare importanti analisi introspettive e di comprendere pienamente verità al di fuori della portata dei più.
Tali persone riescono a vedere ciò che si nasconde dietro inganni e false personalità. Inoltre, sono dotate di uno spirito elevato che permette loro di sviluppare grandi doti come la veggenza.
Come già accennato, la Lince, dotata di una incredibile vista, nel corso dei secoli, ha dato luogo a diverse leggende. Molti popoli credevano, infatti, che essa potesse vedere oltre i monti e i mari. Oppure che il suo sguardo rappresentasse la incessante vigilanza di Dio sugli uomini.
In alcuni casi la Lince è stata associata anche a entità demoniache. Questo a causa delle sue caratteristiche orecchie a punta. Tuttavia, nella gran parte della tradizione dei popoli antichi, è vista come uno spirito superiore, detentore della conoscenza.
 
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Words of Magic | Spirit | 4 • Racconta di come il tuo PG entra in contatto con la cultura magica locale di un posto. Raccontacene/raccontatecene.
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— Non rifugiarti mai dove il tuo corpo non può camminare.
A quanto pareva, la Cassiopea era arrivata a Tromsø da un paio di giorni. Durante l'incendio la Polaris, una nave rompighiaccio della comunità magica del Nord-Norge, la recuperò e aiutò l'equipaggio a ripararla presso il porto. Dopodiché la trasportò fino all'isola di Magerøya, la sua ultima destinazione.
Casey si trovava ancora nel suo pseudo stato catatonico in quel frangente. Fu in grado di mettere piede a terra solo dopo un giorno di riposo. Lennart le donò per tutto quel periodo di degenza la sua cabina, proprio perché l'incendio sembrava essere partito dagli alloggi di Casey, ora distrutti. Qualcuno aveva evidentemente tentato di far ricadere i sospetti dell'equipaggio già diffidente su di lei.
Il Capitano, comunque, aveva creduto ad ogni parola della ragazzina e ora era inquieto: se l'incendio era stato doloso un membro del suo equipaggio doveva star escogitando un piano per mandare all'aria il viaggio. Inoltre, l'attacco sembrava avere avuto come obiettivo tutti i progressi di Casey e gli ingredienti a lei affidati, e non lei stessa dato che non si trovava lì al momento del fatto. Il che era strano, poiché la ciurma per le solite scaramanzie avrebbe dovuto attaccare lei.
Ora che Casey poteva muoversi, l'aveva affidata sotto imperativo ordine a Nero Baltassar e ai suoi due amici Tybald e Bothold, che già lei conosceva bene. Seppur con riluttanza, dovette accettare e far trasportare a loro gli ingredienti salvati dall'incendio in degli zaini modificati con un incantesimo di estensione.
Lennart possedeva delle speicifiche idee sulla sua salvaguardia: doveva stare il più lontano possibile dalla ciurma. L'unico modo era quello di mandarla in ricognizione in giro per l'isola di Magerøya, ad analizzare le piante che trovavano in giro e ad intervistare gli abitanti.
Per prima cosa i quattro ragazzi furono indirizzati alla baita in cima alla collina più alta dell'isola, sul promontorio del Knivskjellodden. Lì vi abitava la vecchia Ritva, la madre di Adrastus Lennart.


«Non avrei mai potuto immaginare che Lennart fosse di queste zone.»
«Non avrei mai potuto immaginare che Lennart avesse una madre.»
«Ora si spiega perché è fissato con i lapponi. Orgoglio patriottico.»

Tyb e Bot contro ogni aspettativa erano due ragazzi molto simpatici. Tybald, dai capelli biondi e lunghi e l'aria da sognatore, affermava di aver intrapreso il viaggio come "poeta di bordo" per narrare le gesta dei marinai in questo scambio avveniristico. Per Bot e Nero aveva avuto un culo fenomenale ad essere stato preso, anche se fondamentalmente il Capitano aveva sorvolato sulle sue stranezze e lo aveve riassegnato alla stiva per il controllo e il mantenimento delle vivande.
Bot, invece, era un tipo rosso e riccioluto con degli spessi occhiali, ed era lì con Nero per fare da magazziniere. Il sogno di entrambi era quello di aprire una propria azienda mercantile che basasse le proprie vendite sulle creazioni di Bot: macchine a vapore. Casey le vide sulla Cassiopea. Vi erano dei piccoli modellini d'animali, vi erano macchinari più grandi assimilabili ad elettrodomestici. Secondo loro avrebbero guadagnato una fortuna, poiché funzionavano senza magia ed erano pari ad un qualsiasi marchingegno elettronico babbano. I maghi di tutto il mondo ne sarebbero andati pazzi. Essendo cresciuta nella Londra non-magica, Casey non provava molto fascino nei confronti di tali oggetti, ma non poteva dissentire del tutto sulle loro supposizioni.


Ritva li accolse sulla porta di casa sua, su un prato verde e lucido tipico della Scandinavia del nord in piena estate. Era vecchia, incredibilmente vecchia. Lennart doveva aver già toccato la sessantina, dunque dovevano aspettarselo. I capelli bianchi le cadevano fino alle caviglie e le sue rughe le inchiodavano sul volto l'espressione di una megera.
«Entrate.» Non doveva essere nemmeno molto loquace.
Avvolta nelle sue pelli di renna li introdusse nell'edificio, tappezzato di altre pelli conciate e dipinte a mo' di arazzi con raffigurazioni di derivazione mitologica.
«Adrastus mi ha detto che siete qui per scoprire i segreti della magia sami.»
I quattro ragazzi si scambiarono delle occhiate ebeti, non capendo cosa volesse dire, incerti se fosse per colpa dell'accento duro di Ritva, per la voce tremolante per l'età, o se loro fossero totalmente tonti.
«E Lennart evidentemente non vi ha istruiti a dovere.» Continuò sospirando stizzita. «I sami sono le popolazioni magiche più antiche della Lapponia. L'insediamento magico che troverete qui è interamente sami. Noi siamo i tesorieri di una magia antica che i norvegesi e le altre etnie scandinave hanno ormai dimenticato, plagiati dalla modernità.» Li guardò severamente. «E' chiaro che non potrete mai comprenderla appieno. Tutto il nostro potere si basa sulla valkoinen kivi, la pietra bianca, che custodisce le energie delle stagioni al fine di moderare l'inverno con gli influssi dell'estate e di custodire la potenza del rigido freddo nei giorni più caldi. Senza di esso qui i poteri antichi sono nulli e sarà impossibile cavare un ragno dal buco su tutti quegli ingredienti che Lennart vi ha dato.»
Il suo sguardo si posò su Casey.
«Tu sei la Pozionista. Hai notato che ogni intruglio che facevi non funzionava? Eccoti spiegato il motivo.»
Colpita dai modi secchi di Ritva e dalla semplicità con cui le veniva dimostrato che tutto il suo lavoro era stato nullo per un chiaro motivo, Casey non produsse una parola. Se Lennart era di quelle parti, perché sua madre non glielo aveva detto? Che egli non ne fosse al corrente?
«Questa sera comunque sarete ospiti presso il rito. Festeggeremo la Madre-Terra Maderakka e il sommo dio Horagalles e chiederemo loro di rendere propizio il vostro viaggio infierendo sulla maledizione che vi siete procurati.» Lennart doveva averle raccontato ogni cosa accaduta sulla Cassiopea, altrimenti non si spiegavano come mai fosse al corrente dell'Olandese Volante.
«Ora il vostro compito è quello di raccogliere legna di ontano. Tanta legna, che servirà per il falò di questa sera. Attenzione a tagliarlo bene. L'ontano è un albero sacro. Se il taglio non sarà perfetto gli dei non ci raggiungeranno mai.»
I quattro, mesmerizzati, annuirono contemporaneamente. Sospinti dall'irrefrenabile desiderio di allontanarsi dalla vecchia, si incamminarono verso l'uscio.
«Non tu.» Ritva si avvicinò a Casey. «Tu rimani qui.»

Nell'oscurità che la custodiva, la casupola di Ritva appariva più spoglia di quanto già non fosse. Vi erano due o tre mobili, un tavolo, una credenza e un mobiletto su cui trovavano spazio delle foto animate. Un bambino biondo che correva per una distesa di neve infinita con un cane lupo, una famigliola, un uomo che indossava un copricapo con delle corna di renna. La cucina era formata dal camino con degli spiedi e una pelle d'orso su cui riposare. Vi era infine una scala che portava a un piano superiore mansardato.
«Masticala.»
Ritva le diede quella che aveva tutta l'aria di essere una radice.
«Che cos'è?» Chiese.
«Ontano. Masticala.» Rispose secca la vecchia.
«Ci fate proprio tutto con l'ontano qui, eh.»
Ricevette un'occhiataccia, se si poteva definire tale dato che l'espressione di Ritva rimaneva sempre la stessa. La donna prese una sedia e si sedette davanti a lei fissandola.
«Masticare l'ontano e succhiarne la resina purifica il corpo, lo spirito e l'anima. Per i sami noi siamo suddivisi in queste tre parti. La tua anima si è staccata per un lungo tempo dal tuo corpo e devi ricucirla a lui, altrimenti presto Jabmeakka la reclamerà anche se continuerai a camminare nel mondo dei vivi.»
Non un'altra parola e Casey si mise il bastoncino in bocca senza fiatare.
«E cosa vorrebbe dire...?»
«Che sei andata molto oltre per troppo tempo, ragazzina. Il mondo dei morti non è fatto per i vivi. I morti ci sussurrano gli eventi futuri ma noi non siamo fatti per restare con loro a lungo.»
Non capiva. Evidentemente le differenze culturali fra entrambe contavano non poco. Ritva credeva in una tradizione di dei e dee e, se si riferiva alla Veggenza, ne parlava come se fosse la connessione con il mondo dei defunti.
«I noaide, i nostri sciamani, entrano in contatto con i morti ponendogli dei quesiti ma non osano varcare la soglia per tanto tempo quanto hai fatto tu. Non farlo mai, non rifugiarti mai dove il tuo corpo non può camminare.»
«O-ok.»
Il sapore dolciastro della resina le inondò la gola e le fece arricciare le narici. Allo stesso tempo quella donna la mise in soggezione. Probabilmente Lennart le aveva riferito tutti i dettagli, ma continuava a non capire dove Ritva volesse andare a parare.
«Qual è il mondo dei morti?» Si sentì stupida nel porgere una simile domanda.
«E' quello da cui trai le tue previsioni, ragazzina. Il tuo è un dono sciamanico da mettere al servizio della Madre-Terra, non di se stessi. Continua a succhiare la radice e sta sera sarai pronta per il rito. Verrai protetta e purificata dagli influssi della pietra bianca.»

Se il Capitano era una persona enigmatica, sua madre poteva definirsi decifrabile come una valutazione di Peverell su un compito. Casey, nella casupola buia, si chiuse nel silenzio con la sua radice di ontano, anche se per la testa le frullavano mille domande da porle. Sapeva qualcosa sulla Veggenza? Lo era anche lei? Sapeva come controllarla? Che voleva dire metterla al servizio della Madre-Terra? Ma la vecchina era scomparsa per i preparativi del rito, che non aveva ancora capito cosa diamine fosse.
Cominciò a capirci qualcosa non appena si avvicinò l'ora del tramonto - un tramonto che non sfociava mai nella notte durante le sere d'estate -, quando gli uomini e le donne dell'isola si riunirono sulla cima del promontorio attorno alla catasta di ceppi di ontano intagliati da Nero, Tyb e Bot.
Non appena l'ora fu giunta e il sole toccò l'orizzonte, la grossa pira venne accesa e i tamburi rituali presero a suonare. Si aggregarono dopo breve tempo a ritmo con le percussioni degli uomini avvolti in pelli d'orso e di renna che offrirono ciotole di pesci appena pescati, pelli, oggetti, carne, frutta e grano al fuoco. Si volatilizzavano in uno sbuffo nero di fumo man mano che vi venivano gettati dentro e ad ogni offerta il ritmo dei tamburi si faceva sempre più incalzante.
Casey osservava il tutto da dietro una prima alta schiera di pubblico, disposto a cerchio intorno allo spettacolo di offerte e fuochi. Quando l'ultimo cesto venne arso, il ritmo era l'incessante battito di un corpo in una danza sfrenata. Questo si arrestò non appena la noiade fece il suo ingresso: Ritva. Portava con sé una scatola in legno finemente intagliato e intarsiato. La ragazzina si immaginò subito che contenesse la famosa pietra bianca.
La donna avanzò e alzò la scatola al cielo. Parlò in lingua sami. Casey riuscì a riconoscere solo Horagalles, Maderakka e valkoinen kivi, ma per il resto buio totale. Nero le stava accanto, come cane da guardia non si staccava da lei. Si chiese se fosse solo per gli ordini del capitano o se per qualche altro motivo.
Gli occhi di tutti erano puntati sulla scatola che presto, sotto i raggi del sole di nuovo nascente sarebbe splenduta come neve fresca. La vecchia Ritva abbassò le braccia e la pose su un'ara di pietra, la contemplò e infine l'aprì.
Casey non capì subito cos'era successo ma sentì l'intera folla in fermento. Credeva si trattasse di un'altra peculiarità del rito, ma i lamenti e le grida delle persone che presero a spintonarsi l'un l'altra per avvicinarsi a Ritva non promettevano nulla di buono.
«Cosa succede?» Chiese a Nero. Non riusciva a vedere oltre le teste della gente infuriata. Lui, ben più alto di lei, riuscì a vedere il volto disperato di Ritva.
«Hanno rubato la pietra.»

 
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view post Posted on 29/12/2021, 22:17
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Neritic zone
Contest a tema dicembre 2021
Sono passati molti giorni dall'arrivo della tua lettera. Ho atteso spesso che il sole smettesse di battere sui vetri delle finestre, pensando che fosse la calura di fine agosto a impedirmi di pensare ad una risposta. Ma se durante il giorno le parole si liquefacevano come un pupazzo di neve al termine dell'inverno, la notte i pensieri si aggrovigliavano e le immagini dei nostri ricordi si sovrapponevano forsennati, inghiottendomi come acqua del mare.
Che dire, ci ho provato. Ho stilato su un foglio la lista delle mie intenzioni come faccio sempre, e ho tentato di trarre delle conclusioni in base a una scaletta di importanza. Mi dirai, come presagisco dai pochi momenti in cui ci siamo veramente conosciuti, che penso troppo e che voglio controllare tutto. La verità è che io vivo sola, nella mia casa e nella mia testa. Vi è una noria dentro che colleziona ogni grammo di pensiero e lo sparge dopo un lugubre e analitico tramestio sui miei sogni. E' la mia inclinazione prediletta dal Caos, il quale ormai vige sull'esistenza che mi appartiene. Tu l'hai conosciuta da vicino, l'hai toccata con mano in una delle sue più brutali trasfigurazioni, e te ne sono grata. Pare che tu sia l'unico in grado di comprendere ciò di cui parlo. E la stranezza è che non si tratta solo di sogni: la mia testa è terra fertile, un campo perpetuamente irrigato da pezzi sconnessi di interpretazioni da cui fioriscono congetture. E sì, voglio controllare tutto. Sì, provo quasi paura ad affrontare la piazza senza avere un'inferenza sottobraccio e pronta all'uso. Mi piace aver sempre qualcosa da dire, mi piace poter essere considerata al di sopra di ogni aspettativa. Che ogni parola che esca dalla mia bocca sia valida di significanza e che miri dritta all'amigdala del mio interlocutore. Indurlo all'emozione ed emozionarmi di rimando, gonfiandomi fino a colmare le profondità dei miei polmoni inalando soddisfazione mentre credo di disperdere in una scia di miasma i miei orrori. Manco fossi un colabrodo.
Lo sai che non posso mentirti, che se mai tentassi di raffazzonare delle scuse per ciò che sai su di me lo capiresti. E capirai anche, leggendo queste mie parole, che l'unica certezza che ricalco dalla mia ossessione è quella di star semplicemente e costantemente architettando una finzione su me stessa.
I get lost in pretending to be human.
KUeimsO

Joe Martini le assestò un gancio nello stomaco e le conficcò la punta gelida della bacchetta nella pelle della nuca.
«Te lo avevo detto, puttanella. Una donna su una nave porta solo guai.»
Poi con un calcio spinse il suo corpo già piegato contro le tavole di legno dei corridoi sottocoperta.
Casey rotolò su un fianco tenendosi la pancia dolorante. Sapeva che l'uomo le teneva ancora la bacchetta puntata contro ma aveva la vista annebbiata, l'occhio sinistro gonfio e inondato dal sangue del sopracciglio spaccato.
«Lennart non paga bene quanto quel Folletto. Senza contare che a nessuno frega del suo fetish per i lapponi.»
L'uomo, lesto seppur spocchiosamente svogliato, le tolse la bacchetta di mano con un piede. Lei se la sentì scivolare dalle dita e non oppose resistenza. La resa però non era verso Joe: era una resa, fatta e finita, di fronte al ripido crescendo di sventure di quei giorni. Ingenua, aveva creduto che farsi assumere su una nave potesse essere un bel modo per fuggire dai suoi dolori. Invece questi si erano imbarcati con lei, e la vana speranza di annegarli nelle acque putride del porto di Londra fu bruciata in men che non si dica dalla sua mancanza di acume nel prevedere le più probabili delle ipotesi.
«Glielo avevano detto che la traversata a Capo Nord sarebbe valsa solo a delle perdite, ma lui ha insistito. C'era chiaramente qualcosa sotto. Infatti...» Un altro calcio, e Casey si ritrovò a pancia in su. Il Nocciolo ormai era fuori dalla sua portata. «La Pietra Bianca di quei selvaggi mi frutterà un bel gruzzoletto. Grazie, grazie tante per la fantastica traversata. Ma ora... via dalle palle!»
Attese, e non lo cercò nemmeno con lo sguardo. Il suo aguzzino, il ladro che aveva rubato il sacro manufatto dell'isola di Magerøya, l'uomo che aveva aizzato la ciurma contro di lei per tutto il viaggio solo per il suo sesso, stava per colpirla di nuovo, forse per l'ultima volta. E lei glielo stava lasciando fare.
Lo schianto la fece sussultare. Sentì il corpo fremere in concomitanza col suono e l'urlo, e la pelle venir percossa da un figurato dolore alla vista del raggio rossa sopra di lei. Continuò a fissare il soffitto, stavolta con la bocca schiusa e sbattendo la palpebra sana per l'aver realizzato di essere integra.
«Casey, stai bene?!»
Nero, Tyb e Bot l'aiutarono ad alzarsi, anche se in fin dei conti si mise in piedi senza grossi problemi. Tyb le allungò la bacchetta perduta, Bot disarmò con un calcio Joe Martini ormai svenuto dentro la parete della cabina sfondata dallo Stupeficium. Nero le stava accanto. La scrutava, serio.
«Sì» rispose lei. «La Pietra, Nero.»
L'assecondò solo dopo un altro sguardo.
«Andiamo.»
Mi imbarcai con voi in seguito a un sogno protrattosi per più notti. La vita solitaria a Nocturn Alley è soffocante, e all'inizio credevo che fosse questa la matrice da cui si generavano. Nelle visioni mi riparavo sotto le coperte del mio letto, proteggendomi da un freddo glaciale e da qualcosa che sapevo vivesse nella mia casa. Si rivelò essere una lince, un animale che hai riconosciuto pure tu nelle mie visioni e che spesso hai identificato come uno dei vari simboli della preveggenza. Quell'animale se ne stava lì a studiarmi con pena nello sguardo aguzzo, e scappava via di volta in volta attraverso la finestra.
Ho inteso sul momento che si trattasse del mio desiderio di andarmene e che la mente stesse riportando a galla la lettura del trafiletto sul giornale: "il Capitano Lennart della nave mercantile Cassiopea cerca un pozionista di bordo per una spedizione a Capo Nord".
Dopo un po' mi sono sentita impazzire e ho assecondato la lince, implorando libertà.
Mi era sembrato un miracolo, se non un segno del Destino, essere stata accolta dal Capitano. Tuttavia, voi idioti non mi avete reso vita semplice. Nessuno di voi mi ha accettata completamente, in preda a un delirio collettivo e a superstizioni marinaresche che risalgono ai tempi della Compagnia delle Indie.
Eppure un po' vi ringrazio perché, senza l'avermi resa tanto vulnerabile, tu non saresti riuscito a penetrare la mia mente al momento del bisogno. A capirmi e a salvarmi.
Non sarei mai venuta a parlarvi delle mie incertezze. Dopo l'incendio, le accuse di aver portato una maledizione a bordo e la crisi dovuta alla visione, non vi avrei raccontato niente, nemmeno se mi fossi ripresa in autonomia. Invece tu, provvisto di un handicap - come amiamo chiamarlo io e te - pari al mio, mi hai fatta uscire dalla mia testa.
Non conoscevo la Legilimanzia prima di subirla. Quando mi sei entrato dentro è stato come essere annichilita e privata di quel briciolo di controllo che mi è rimasto su me stessa. Non ti biasimo, perché senza di te probabilmente non sarei qui a scriverti. Perché altrimenti non avresti compreso il mio dolore e la mia paura quotidiani durante l'assedio delle visioni e delle allucinazioni.
Hai visto anche tu l'onda anomala e i cadaveri nell'acqua sotto lo scafo. Mi hai vista immobile in un lettino, con gli occhi spalancati dentro la mia testa, rinchiusa in un angolo dei miei ricordi per fuggire da tali orrori. E avrai visto che non si trattava di un caso isolato. Percorrendo i miei pensieri avrai di sicuro notato mille e altre porte sul mio passato; mille persone con cui ho parlato, mille oggetti che ho maneggiato, mille luoghi che ho percorso che alla fine si sono sgretolati fra le pieghe del tempo rivelandosi una finzione.
But in all chaos there is calculation.
NIKyuj9

Correva cingendo la Pietra Bianca al fianco. Una runa incisa, Vegvísir, un sacro cimelio di una delle ultime colonie lapponi della tradizione antica in vita su Magerøya. Credevano fosse qualcosa di molto potente e qualcuno, del cosiddetto mondo civilizzato, la bramava. Solo che per i suoi cultori era fonte di vita e magia, e la sua scomparsa avrebbe causato la caduta del loro credo.
Joe Martini non era una cima e l'aveva messa in bella vista nella cabina del Capitano, che dopo aver rubato la nave adibì a propria. Lui e la sua compagnia di idioti truffatori si erano nascosti per tutto il viaggio d'andata puntando il dito verso Casey per ogni sventura accaduta a bordo. Per prima la maledizione del presunto Olandese Volante, per secondo l'incendio che arse tutte le scorte di ingredienti su cui ella stessa aveva lavorato. Martini era riuscito ad accaparrarsi l'attenzione di tutta la ciurma, recludendo Casey in una bolla come se fosse un'appestata.
Fuoriuscirono dai corridoi della nave e si ritrovarono in coperta. Ancora una volta il fuoco ardeva la Cassiopea in mezzo al mare.
Si erano smaterializzati sul ponte in tempo, prima che la nave scomparisse all'orizzonte sotto il sole semi-perenne dell'estate del nord. Lennart partì subito all'attacco, colpendo più forte che poté. Loro quattro, i più giovani e i più veloci, si divisero per andare in cerca della Pietra.
Gli uomini, di una parte e dell'altra, stavano combattendo. Gli Schiantesimi volavano da una parte all'altra della nave, incantesimi strappano le vele e rimbalzavano sugli alberi.
Nero la coprì col corpo quando un omaccione pelato si avvicinò con l'intento di sbacchettarli con delle fatture. I ragazzi ebbero la meglio rimandandogliele indietro, poi corsero dietro un gruzzolo di barili per ripararsi.
«Presto, dobbiamo rismaterializzarci a terra con la Pietra!» Urlò Bot. Anche il suo volto era attraversato da graffi. «Nero, prendi tu Casey. Io e Tyb-»
Nessuno si accorse in tempo di aver trovato rifugio dietro dei barili dal contenuto infiammabile. L'esplosione li colse alle spalle, scagliandoli ognuno in una direzione diversa. Nero contro la balaustra della nave, Tyb verso le scale, Bot contro la base dell'albero maestro. Casey in acqua, con la pietra.

Le apparve non appena aprì gli occhi sott'acqua: uno squarcio di luce verde che emergeva dall'oscurità del fondale.
Casey tremava per il gelo e per il bruciore sui tagli per l'acqua salata. La caduta l'aveva spinta in profondità. Sopra di sé, a una decina di metri, c'era l'ombra della Cassiopea; sotto, un apparente buio infinito. Ma i suoi occhi erano incollati alle scie verdi, che si annodavano in una spirale come una murena, che diffondendosi vincevano le correnti sotto il pelo del mare. Viaggiavano verso di lei.
Continuò a trattenere il respiro percependo le particelle d'aria consumate venir respinte dai polmoni. La Petra Bianca riluceva ancora aggrappata alla sua mano ma aveva perso d'importanza mentre lei andava giù, giù, giù, e le bollicine salivano, salivano, salivano, lasciandola da sola.

Tossì il boccone d'aria in una bolla. Qualcosa si agganciò al suo torace e glielo spinse via. Si sentì tirare verso la superficie, mentre l'acqua assecondava il moto. Combatté con tutta se stessa fino alla fine per non respirare il mare; poi inalò con foga l'ossigeno non appena riaffiorò all'esterno.
Nero la stava tirando a sé, di nuovo. L'aveva agganciata con una corda magica e ora la riportava sulla nave.
Casey si tenne stretta alla corda. Tirava il lembo del nodo attorcigliatole al tronco per diminuirne il dolore d'attrito. Sputava acqua e saliva, tossiva via il mare scavalcando la balaustra del ponte.
«CASEY!»
Nero l'afferrò per le spalle, sbraitando. La calpestò, la trafisse coi suoi occhi scuri. Storceva la bocca, il volto in una contorsione di rammarico.
«Andiamo via, VIA!»
Bot li richiamò ancora una volta, e subito dopo uno strappo all'ombelico ridusse il fuoco e il mare ad una spirale di colori in mistura.
Credevo negli ideali di Lennart, credevo nel nostro lavoro. In nave ho passato tutte le ore a disposizione a studiare quegli ingredienti e a miscelarli. Non mi sono mai dedicata a qualcosa così tanto. Si trattava di amore e idealismo - spesso due concetti che viaggiano a braccetto - nei confronti del nostro obiettivo finale: il privilegio della scoperta, l'unione fra due popoli, l'avventura.
Non fraintendermi, non me ne pento. E' solo che tutto si è rivelato più di quanto credessi di poter sopportare. E' colpa dell'Occhio, è la mia croce, a cui sono vincolata in tutto ciò che faccio nonostante ogni mio tentativo di fuga. Mi sembra di camminare costantemente sull'orlo di un baratro.
Lennart un giorno - ci trovavamo a pochi chilometri da Bergen, al ritorno - mi spiegò che il sole riesce a penetrare le acque fino a circa duecento metri di profondità, più o meno lì dove le piattaforme continentali cadono negli abissi. Da lì alle coste è compresa una striscia di area marina in cui brulica vita fra mammiferi, pesci, crostacei, molluschi, alghe, plancton, protozoi e microrganismi di varia natura. Si chiama zona neritica. Dopodiché c'è uno strapiombo che la luce solare non può più illuminare, e lì altro si annida.
Un passo e cadi.
Ti sporgi un po' e vieni risucchiato.
Magari vinci il risucchio della pressione rimanendo sul margine e nuotando all'indietro ma l'incubo di finire nel buio permane.
Il nostro amato handicap è questo. Io e te siamo due piccole conchiglie che sono state trascinate dalle correnti sin sull'orlo del precipizio. Viviamo con un piede nella fossa, come si usa dire, sempre in bilico fra la normale vita a cui tutti ci associano e il delirio di qualcosa che non riusciamo né a vedere in concreto né ad afferrare.
Ora mi dirai che ho divagato troppo, che sfuggo alla tua domanda. Ma volevo arrivare proprio a questo punto per risponderti.
Quando sono caduta in acqua non ho visto solo l'abisso. L'Occhio, beffardo, si è aperto su un'altra visione. Ho il sospetto che tu lo abbia percepito, altrimenti non mi avresti tirata su tanto in fretta.
Vidi una luce verde protendersi verso di me, e allora subito mi tornarono in mente le parole di un compagno di scuola. L'Anatema che Uccide colpisce con un raggio verde l'obiettivo. E allora mi sono detta, in quel preciso istante, che se la lince, la nave e Vegvísir stessa mi avevano portata lì allora tanto valeva assecondare il mio Destino.
La mia risposta è: sì.
Ho pensato, sebbene per poco, di aver trovato l'unico modo per appore la parole "fine" a questo strazio. Ma tu, stesso passeggero di questa barca, me lo hai voluto impedire. E senza di te non avrei mai potuto capire il volto che si celava dietro quella maschera verde.
Quindi, Nero, benché tutto mi abbia portata a credere che la Veggenza fosse un cancro combattibile unicamente con la morte, ho capito solo scrutando la reale fine della nostra storia che dietro ogni conclusione può esistere solo un nuovo inizio. E persino un pensiero non può morire, bensì trasformarsi e donare un nuovo punto di vista. Come tutto ciò che riempie il mondo fisico, nulla si crea e nulla si distrugge, ma tutto si trasforma.
Non posso prometterti niente, ma ho trovato una nuova forza.
Ci rivedremo presto, in mare. Salutami Tybald e Bothold.

Con affetto,
Casey
And sometimes we fall down because there is something down there we're supposed to find.


01UfZ3v
La terra asciutta li accoglieva, il manto erboso li carezzava. Stesi sotto il cielo respiravano la quiete bramata. Sopra di loro la luce verde lo percorreva zigzagando fra le stelle, rovescio ambiguo fra sopra e sotto, fra un lato e l'altro di una moneta.
La Pietra era stata restituita, Joe Martini e i suoi al sicuro, dove non potevano più attentare alla vita di nessuno. Lennart aveva riunito i suoi al villaggio di Magerøya per prendere parte ai festeggiamenti.
Casey non disse niente per tutto il tempo e Nero, una volta sdraiati con Tyb e Bot sotto il cielo, le tenne stretta la mano.
La runa per quel villaggio era fonte di vita e di speranza. Un catalizzatore, a quanto pareva, che permetteva loro di incanalare ancora la loro magia più antica. Così raccoglievano energie dall'inverno e dall'estate, equilibrando gli opposti per favorire il loro sostentamento. Potevano coltivare, pescare, cacciare, produrre incantesimi e fare pozioni senza subire i danni dei climi più estremi. E il prodotto finale di questo mutuo scambio, seppur una mera illusione della magia, era il bagliore verde dell'aurora boreale, persino in estate.
Nero guardava lei, al suo fianco, e cercava di capire. Il sorriso di Casey era implicito sotto i bagliori verdi che i suoi occhi riflettevano e, benché tutto fosse finito, egli credeva che si trattasse solo dell'inizio.

The End



Alcune brevi postille, per quanto l'OT mi sia otioso.
Il brano dovrebbe essere la parte finale di una serie di os ideate per il contest Words of Magic. Ognuna di esse corrispondeva ad una prova, e "Neritic Zone" sarebbe dovuta coincidere con ---> 6. Una vecchia strega ha perso un ciondolo con una runa consacrata all'apparenza molto potente e il tuo PG la trova. Cosa ne fa e, soprattutto, cosa accade?
Non essendo riuscito per mancanza di tempo a terminare tutto prima della scadenza ho adattato la trama più alle mie esigenze di scrittura che alla prova in sé, cercando di non correre il rischio di creare un unicum che il contest di WoM concedeva nel racconto della prova. Le rune sono comunque dei catalizzatori e rimanendo sul vago ho tentato di spiegarne l'importanza per gli abitanti dell'isola citata nella os.

Ecco una breve sinossi delle parti qualora non si volesse leggerle una per una (alcune, specie le ultime, sono state scritte un po' alla bell'e meglio per rientrare nella scadenza non essendo WoM un concorso di scrittura).

1. Casey trova un trafiletto su un giornale in cui è stato scritto della possibilità di lavorare come pozionista di bordo su una nave mercantile diretta verso Capo Nord. In seguito a dei sogni molto particolari si convince a tentare il colloquio.
2. Casey si reca sulla Cassiopea dove incontra Adrastus Lennart, il suo Capitano, che la sottopone a un colloquio. Deve preparare una Pozione Addormenta Draghi con degli ingredienti alternativi di origine lappone. Lo supera e prende il posto.
3. La ragazza non viene accettata dalla ciurma, e mentre lavora sugli ingredienti le arriva una strillettera da parte della sua finta madre che le intima di non fare sciocchezze e di tornare indietro. In realtà le è stata inviata da tre ragazzi della ciurma come scherzo: Nero, Tybald e Bothold. Casey reagisce con ira e si rende vulnerabile. E' in quel momento che Nero, un Legilimens, viene attratto dai suoi pensieri e comprende di aver toccato un tasto dolente dato che Casey è un'orfana. Lei capisce che è accaduto qualcosa e, quando lui giunge alla porta della sua cabina per scusarsi, lei lo minaccia e gli intima di andarsene.
4. Non ha vita facile sulla nave. Gli uomini, istigati da Joe Martini, credono tutti che avere una donna a bordo porti sfortuna. Le addossano la colpa di ogni misfatto, fra cui quello della vista all'orizzone di un relitto. Tutti credono che si tratti del leggendario Olandese Volante, di una nave i cui marinai sono stati uccisi da una pestilenza o qualcosa di simile e che vagano per i mari guidati dalle correnti maledicendo le navi sul loro cammino. Il fantasma del capitano sale a bordo della Cassiopea e, secondo la superstizione dei marinai, vedendo che uno di loro aveva smesso di lavorare per colpa di Casey, scoppia in una malevola risata sancendo, forse, la sua maledizione.
5. Casey è sdraiata su un lettino con gli occhi spalancati ed è in stato catatonico. Non si riprende nemmeno con le cure del medimago di bordo e Lennart è preoccupato. Chiama in cabina Nero che gli spiega cosa è successo.
La nave era stata colpita da un incendio in mezzo al Mar del Nord. Nessuno ha capito cosa lo abbia scatenato, ma tutti sanno che è partito dalla cabina di Casey mentre lei non c'era. Sono stati bruciati tutti gli ingredienti. Lei ha tentato di salvarli ma, osservando le fiamme, in un episodio di piromanzia viene colta da una visione che la terrorizza fino a che ella non decide di rinchiudersi dentro la sua testa. La visione le mostra un'onda anomala che sta per travolgere la nave e dei cadaveri nelle acque. Nero cerca di aiutarla penetrando nuovamente nella sua mente per capire cosa succede. Lei rinviene percependo la sua voce esterna e la sua presenza e racconta la visione a Lennart.
6. La Cassiopea è stata recuperata e portata sull'isola di Magerøya, poco lontano da Capo Nord. Si scopre essere la terra di origine di Lennart. Lui da la supervisione di Casey, che è ancora in fase di ripresa, a Nero e ai suoi amici, e li manda da Ritva, la vecchissima sciamana del villaggio che si scopre essere sua madre. Lei manda i ragazzi a recuperare la legna di ontano utile al rito di quella sera, nel mentre si prende cura di Casey con i suoi modi rozzi e bizzarri. Sa cosa le è successo e le da un consiglio: "Non rifugiarti mai dove il tuo corpo non può camminare.".
Quella sera il rito inizia e gli abitanti del villaggio si radunano per fare offerte ai loro dei. Si scopre alla fine però che la Pietra Bianca, destinataria delle loro preghiere, è stata rubata.


Edited by ion` - 31/12/2021, 09:45
 
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view post Posted on 29/7/2022, 09:32
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Post Euphoria, ritorno in sala comune.
Alle otto di sera e tre quarti Lester Witherspoon si sedette sul muretto della balconata sul cortile interno della scuola e si accese una sigaretta, conscio di essere totalmente solo. Le vacanze di primavera si erano portate via la maggior parte degli studenti, e un festino nella periferia boschiva di Hogsmeade aveva raccolto gli ultimi rimasti.
Lui non c’era andato. Aveva detto a Casey che l’avrebbe raggiunta in tarda serata, ma lo stridere delle viscere sotto il peso dell’ennesimo voto di merda in Incantesimi gli aveva messo addosso solo la voglia di estraniarsi.
Passò il pomeriggio a contemplare i libri. Li osservava, aperti sulla scrivania, nella posa tipica di un ragazzo intento nello studio. Si chinava sulle pagine aperte e lasciava scorrere gli occhi sulle lettere, che si incollavano tra loro in parole amorfe e vuote di significato non appena sbatteva le palpebre.
Sapeva di non essere stupido, ma ogni volta che vestiva i panni dello studente si sentiva fuori luogo. Come un attore che tenta di calarsi in un ruolo senza sapere a memoria la parte.
Casey gli era sempre stata dietro. La sua voglia di spingerlo a studiare e a passare gli esami del terzo gli era del tutto estranea, a tratti fastidiosa. Intuiva che desiderasse aiutarlo, con grande foga a volte. Anche perché sotto sotto non riusciva ad accettare che lui e lei non erano mossi dagli stessi valori e obiettivi.

Le aveva detto di andare alla festa senza di lui. Forse per liberarsi della sua apprensione mentre provava a cimentarsi da solo nello studio teorico degli Incantesimi. Un tentativo del tutto fallimentare che, alla terza ora sulla stessa pagina, lo portò a sedersi sul comodo divano della saletta comune a contemplare il vuoto. Alla seconda di tormenti e sensi di colpa, a raggiungere i giardini fermo dell’idea che tale era il suo limite, e che mai nessuno sarebbe riuscito a farglielo valicare. Nemmeno lui stesso.

Quando vide due figure muoversi dentro il giardino, Les si liberò subito della sigaretta. La spense sul muretto, la lanciò oltre le aiuole, e si accasciò contro una colonna in attesa. Ma si distaccò subito dal supporto e si alzò non appena riconobbe la fisionomia di Casey sorretta da quella di Alice Wagner.

[...]

Alle nove e venti circa, quando ormai le ombre si erano impossessate dei luoghi e impiastravano i vetri delle finestre, Les sedeva di nuovo su uno dei divani della sala comune con la testa di Casey abbandonata sulle cosce. Non sapeva se stesse dormendo o distruggendosi dall’interno, sapeva solo che non avrebbe dovuto dire nulla.
Fumava nella saletta, mentre i pochi concasati superstiti della feste erano già rintanati nelle loro stanze con l’intimazione di fare silenzio. Perché la Caposcuola non stava bene, e il suo migliore amico, se avesse sentito chiacchiericci di sorta sulla questione, li avrebbe massacrati a sangue.
Fumava e osservava le volute di fumo articolarsi in complicati grovigli sopra la sua testa come i pensieri. Si dissipavano e se ne ricreavano dalla sua bocca, ma rimaneva muto.
I discorsi erano già stati fatti con Casey. La loro amicizia era costellata di discorsi. Quelli di lei sul suo andamento scolastico, quelli di lui su Megan. Probabilmente se si fossero realmente ascoltati a vicenda non sarebbero mai arrivati a quel punto.
Se Les avesse vissuto con meno insofferenza le ripetizioni dell’amica avrebbe avuto la possibilità di non essere bocciato di nuovo. Se lei avesse seguito i suoi consigli si sarebbe finalmente tolta di dosso il peso del silente amore per la Corvonero, permettendosi di soffrirne o di gioirne. Ma sapeva anche che lui era incapace di sostenere la fatica di un obiettivo che non aveva mai avuto, e che lei non era ancora in grado di accettarsi completamente.
«Les.»
La voce flebile con cui Casey lo chiamò riuscì a spezzare il flusso di preoccupazioni.
«Sì?»
«Se vuoi andare a dormire, vai.»
«Sto comodo. Tanto comodo che mi stavo addormentando.» Sorrise, anche se non poteva vederlo, col volto rintanato nella penombra della stanza.
Desiderava solo che Casey trovasse un modo di sopravvivere a se stessa quando lui non sarebbe più stato a scuola per perseguitarla ogni giorno con i suoi discorsi.
Avrebbe voluto vederla indipendente. Felice, propensa a vivere le sue emozioni senza lasciarle sedimentare nel cuore fino al momento dell’esplosione. Non poteva andarle bene così. Non poteva. Lui non poteva accettarlo, così come lei non avrebbe accettato il suo ritiro dagli studi.
Spense la sigaretta e con un semplice incantesimo dissipò il fumo. Prese uno dei cuscini del divano e se lo infilò dietro la testa. Poi, chiuse gli occhi.




I riferimenti alla Wagner sono stati concordati con la player.


Edited by ion` - 29/7/2022, 10:53
 
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