| L'estetica dell'ira
L'ira ha due volti, come una qualsiasi moneta. Ogni emozione è in grado di profondere sostanziali mutamenti e, in primo luogo, la motivazione per combattere la stasi dell'anima. Ad ogni emozione, tuttavia, non è da destinarsi il totale controllo della mente. Platone considerava il raziocinio di un uomo e la sua ira come una biga trainata da un cavallo bianco. Quest'ultimo rappresenta il coraggio e la forza di volontà, ed è in grado di affrontare le forze avverse. Se sfugge al controllo del nocchiere, però, il suo manto diviene nero ed egli la controparte significativa dell'ardore umano nella sua sopravvivenza: la distruzione e l'autodistruzione. (Cit. Duello)
Ultimo martedì di aprile Primo incontro con la paziente. Argomento: presentazione.
[Casey si presenta e si racconta]
La dottoressa Fowler aveva delle dita molto sottili e le mani di chi non ha mai lavorato. Le unghie curate e tinte di uno smalto perlaceo adornavano con grazia la stretta attorno alla penna sul taccuino. Si muovevano in tratteggi sinuosi, sintomo di una calligrafia che privilegia i legami fra le lettere, dunque di una vispa intelligenza, sintetica e diretta. Casey avrebbe dato i propri reni per sapere cosa la dottoressa, seduta di fronte a lei, avesse scritto su quel taccuino del suo racconto: se fosse pazza, come tutti quanti dicevano, se dovesse prendere dei farmaci o se dovesse essere rinchiusa. «Se sei qui di tua spontanea volontà, Casey, è un ottimo punto di partenza.» La Fowler parlò in sua direzione, ma lei non riuscì a staccare lo sguardo dalle sue mani. Ora erano immobili, piatte sul taccuino, poggiato sulle ginocchia snelle che sbucavano da una gonna nera e aderente. La postazione in cui erano sedute, dentro lo studio, avrebbe dovuto stimolare un confronto vis-à-vis. C'erano molte altre cose da osservare, però, tutt'intorno, fra soprammobili e libri riposti ordinatamente sugli scaffali. Persino la dottoressa poteva essere conosciuta senza incrociarne lo sguardo: mani, gambe, braccia, seduta, gesti, capelli, parlavano molto più dell'espressione studiata di uno specialista. «Mi piacerebbe che tu condividessi con me il motivo che ti ha spinta a venire qui.» Lo sguardo scivolò sulle ginocchia incrociate della donna, poi sulle scarpe e infine sul pavimento. Un groppo in gola, pari a un morso troppo grosso da mandare giù in una sol volta, le impediva di parlare normalmente. Dovette schiarirsi la voce e grattarsi via la raucedine, pur di trovare un tono basso e mugugnante per rispondere. «La rabbia.» Rimase di nuovo in silenzio. «Cosa succede quando ti arrabbi, Casey?» «Faccio del male.» «A parole o anche fisicamente?» «Entrambi.» Pausa. Si era ripromessa di non chiedersi cosa avrebbe pensato la Fowler di lei, che sarebbe stata schietta e sincera per darle tutti i mezzi per aiutarla. Non vi era nulla di più difficile. Dopo qualche secondo, la dottoressa si sporse verso di lei. «Dentro di te, invece, cosa accade?» Se prima gli occhi di Casey vagavano sul pavimento seguendo le linee delle fughe, ora si erano fermati, fissi su una mela lucida della fruttiera, sul tavolino da salotto di fronte al divano. Rimase muta, nella stessa posa fino allo scadere dell'ora, e non vi furono altre parole da dirsi. La Fowler non insistette.
Primo mercoledì di maggio. Argomento: la festa segreta ad Hogsmeade.
[...]
«Approfondiamo ciò che è successo con i tuoi amici alla festa del primo aprile, Casey. In tutto questo tempo, in questo mese che ci separa, quali sono stati i tuoi pensieri al riguardo? Hai avuto dei ripensamenti o sei incline a considerare che questa rottura sia stata una cosa buona per te?» Un sospiro trattenuto tracciò un collare troppo stretto attorno alla gola. «Non lo so.» Questa volta, invece che sui dettagli del corpo della Fowler e del suo studio, si era concentrata sulle voci. La voce della dottoressa era molto chiara, pari a quella di un soprano. Non possedeva spigoli di sorta, avvolgeva ogni parola, ogni frase, con uno studiato manto di bontà materna. Lei diffidava di tali inflessioni della voce, ma sapeva che la Fowler non aveva secondi fini nei suoi riguardi, oltre quello di farsi pagare profumatamente per un'ora di chiacchiere. «Proviamo a fare chiarezza, allora.» Una pagina del taccuino venne voltata. «Mi pare di capire che tu sia esplosa perché i tuoi due amici Draven e Megan stavano per baciarsi. Hai accumulato per molto tempo le tue emozioni senza dare loro sfogo passo passo. Questo ha sicuramente contribuito allo scoppio. Non è la prima volta che ti accade, dunque ormai è una tendenza consolidata. Curare il rapporto con le proprie emozioni è importante. Bisogna accettarle e validarle. Questo può aiutare a processarle.» «Vorrei trovare un modo per ridurle. Sono troppe.» Questa volta il sospiro non provenne dai suoi polmoni. «Ognuno sente a modo suo, e il bagaglio di esperienze che si porta dentro influisce sul modo di sentire personale.» Casey attese la domanda. Sapeva che ce ne sarebbe stata una, con cui la Fowler avrebbe tastato i lembi di pelle massacrati attorno alle ferite. «Come mai non hai mai voluto parlare di quel che provavi con loro due?» Infatti, ecco il dolore ripercorrerle la carne. «Non lo avrebbero mai accettato, suppongo. Megan non è quel tipo di persona. È sempre circondata da molti ragazzi e mi ha sempre trattata da amica. Non ho mai ricevuto risposte affermative da lei, allusioni… Mi sono messa il cuore in pace, e basta.» «E Draven?» chiese la Fowler dopo aver fatto scricchiolare la penna sul foglio. Casey rifletté per una buona manciata di secondi con lo sguardo perso sulle piastrelle del pavimento. «Credo di non avergli mai detto niente perché la sua visione di me era impeccabile.» La donna si risistemò sulla poltrona e poggiò un gomito sul bracciolo fissandola. «In che senso impeccabile?» «Ero una sorta di riferimento per lui. Una sorta di zona di comfort. Riuscivo a fargli fare ciò che da solo o con altri non era in grado di fare, come uscire, stare in mezzo alla gente, partecipare ai discorsi. L'ho iniziato al negozio quando venne assunto. Volevo che il nostro rapporto non avesse pecche.» Sì, era davvero così. Sentì di aver finalmente tradotto in parole una fra le varie cose che sentiva, il rapporto con Draven. Socchiuse le palpebre nel tentativo di attutire il colpo. Sapeva che in tutto ciò che aveva appena detto vi fosse qualcosa di profondamente sbagliato. Ma non poteva stupirsene. Non se partorito dalla sua mente. «In sostanza tu vuoi essere perfetta?» La Fowler intromise un sorriso nella sua domanda. Casey storse il naso. «Non condividere con gli altri il proprio dolore ci fa credere di non poter essere vulnerabili, ma non è così. Lo siamo sempre, a noi sta imparare a gestire ciò che ci attraversa.» La dottoressa fece una pausa per dar spazio a un feedback, il quale coincise con il silenzio. «In secondo luogo, perché sei convinta che avrebbero mal pensato di te?» Ancora silenzio. Casey serrava la mascella e guardava il tavolino di vetro come se stesse tentando di creparlo col pensiero. Non vi fu risposta. «Ti hanno dato segnali negativi al riguardo? O sono solo tue supposizioni?» Nessuna risposta. Dopo alcuni minuti la Fowler parlò ancora. «Spesso ci facciamo più male da soli creando i possibili scenari che si andrebbero a creare da una determinata situazione. Non possiamo prevedere tutto, però. Dare per scontato cosa avverrà potrebbe essere un modo fin troppo arrogante di relazionarsi con l'esterno.» Casey sbuffò. Il colibrì ronzò da un lato all'altro della stanza. «Cosa ti fa sbuffare di quel che ho detto?» Casey scosse la testa e non rispose. Si voltò verso l'orologio da muro appeso di fronte alla porta della stanza e vide che l'ora era già finita.
Secondo mercoledì di maggio. La paziente era indisposta e la seduta non si è tenuta.
Terzo lunedì di maggio. Argomenti: Drinky.
[...]
L'aria era tesa, ma Casey non sapeva se fosse solo una sua impressione. Persino il colibrì si era annidato in cima a una libreria, ben lontano dai suoi orrori. Aveva passato tutto il tempo del racconto a fissare il dorso delle copertine rigide di psicologia raccolte sulle mensole senza leggerne i titoli. «È probabile, secondo me, che molta della tua rabbia sia nata dal rifiuto di Drinky. Non è raro che un'adozione non vada a buon fine. Sicuramente questa si è svolta in maniera poco convenzionale, perché lei si è avvicinata a te senza intermediari e prima ancora di sapere (o credere) di desiderarlo.» Casey sentiva una nota di dispiacere nella voce della Fowler. Era proprio questo ciò che aborriva di più del comunicare agli altri le sue disgrazie infantili: la pietà. «Mi sembra ovvio che tutto ciò mi abbia fatta arrabbiare» rispose. «E sotto la rabbia vi era qualcos'altro?» «Cosa ci doveva essere?» La Fowler si protese in avanti. «Tristezza, senso di abbandono, delusione.» Casey scosse la testa. «Mi dice cose ovvie.» «Ti faccio solo degli esempi» continuò paziente la dottoressa «tu puoi esternare tutto quel che hai provato qui. In questa stanza nessuno ti giudicherà o userà la tua vulnerabilità a proprio vantaggio.» Sorrise, o meglio, il labbro superiore si alzò scoprendo gli incisivi in un'esternazione di nervosismo e impazienza. «Le dissi che era una debole» confessò. «Una debole che non era in grado di andare fino in fondo e che mi aveva usata per soddisfare un capriccio temporaneo. Dopodiché non l'ho più voluta né sentire né vedere.» La Fowler spostò il peso su un lato, poggiando il mento su una mano. «Ti penti di averle detto questo e di aver rotto con lei?» Casey fece sprofondare la testa nella spalliera morbida del divano. «Dovrei?» «Non ho detto questo. Ti ho chiesto se tu sia pentita o no di averglielo detto e di averla esclusa dalla tua vita.» Chiuse con foga gli occhi. Li strizzò e serrò le mascelle, spinse il corpo contro i cuscini, strinse le mani sulle sue ginocchia. Aveva fatto male a parlarne, quello era ormai un argomento chiuso. Doveva restare chiuso. «No» disse secca. La Fowler si poggiò allo schienale della sua poltrona. «Voglio chiederti un'ultima cosa prima di mandarti via» fece. «Secondo quanto ci siamo dette la volta scorsa, la tua vulnerabilità è da tenere nascosta agli altri perché altrimenti ti vedrebbero imperfetta. Pensi che questo evento abbia potuto influenzare la tua idea sui rapporti umani avendo considerato Drinky una debole per il suo ritirarsi?» Casey farfugliò qualcosa di incomprensibile. Poi si alzò e se ne andò.
Quarto martedì di maggio. La paziente non si è presentata.
Primo lunedì di giugno. Argomenti: i duelli, l'uomo di Nocturn Alley e l'attacco ad Hogwarts.
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«Continua a ripetermi che lei non mi giudica e che posso parlarle liberamente, ma fino ad ora mi ha solo dato modo di pensare il totale contrario.» Casey, sguardo rivolto verso la fruttiera che ora ospitava un ananas e non più mele, aveva i polpastrelli delle dita conficcate nella carne delle guance. Con i gomiti poggiati sulle ginocchia aveva l'aria di chi si trattiene dall'estrarre la bacchetta per uno scontro armato. «Mi dica la verità, dottoressa. Lei non crede che tutto ciò che le ho raccontato sia biasimevole? Che dovrei essere buttata in una casa di cura per malati di mente gettando via la chiave? Che dovrebbero spezzarmi la bacchetta e condannarmi all'ergastolo?» La Fowler attese, poiché la paziente non sembrava aver finito. E sapeva che, finalmente giunte a quel punto, era buona cosa non arginare la fuoriuscita di pensieri. «È sempre andata così, dottoressa» Casey assunse un tono rassegnato. «Ma più vado avanti più tutto mi conferma che sono l'unica persona a nutrire sensi di colpa. Quando io agisco sono un cane. Quando gli altri mi danno addosso sono nel giusto, e questo, questo, mi fa andare in bestia.» Si passò le dita sugli occhi. Tornò a parlare con la veemenza che la caratterizzava nell'ira, e posizionò i polpastrelli all'attaccatura dei capelli sulla fronte. «Non li biasimo per il loro astio nei miei confronti, gli altri, i miei compagni, le mie vecchie compagne al Saint Vincent. Per l'astio e per il timore. Mi considerano un mostro forse, e nemmeno io mi considero qualcosa di tanto lontano. Forse la mia visione di me è tanto peggio perché so cosa penso, so come giudico, so cosa mi passa attraverso quando li odio» continuò, con la voce attutita dalla pressione dei palmi sul volto. «C'è un'infinità di merda là fuori, ed un'infinità di merda ho ricevuto sin da quando me lo ricordo. Non sono più in grado di tollerarlo.» Nel breve silenzio che seguì, Casey rifletté sulla possibile, quasi certa a sua detta, domanda che la Fowler le avrebbe posto. «Hanno pure tentato di togliermi pure quello. Hogwarts, la magia, la casata. Quando sono venuti a incendiarla e a fare il loro Dio fra le mura scolastiche contro ragazzini che non avevano come proteggersi.» Staccò le mani del volto e, probabilmente per la prima volta, guardò verso quello della Fowler e un leggero sorriso le inarcò la bocca dopo averlo percorso con gli occhi. «C'è davvero un mare di merda in questo mondo. E sono certa che molte cose si aggiusterebbero spazzandola via, in un modo o in un altro.»
[La Fowler parla ma Casey ormai non ascolta più]
Secondo martedì di giugno. Argomento: le visioni notturne e le persecuzioni diurne.
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«Da quanto tempo hai le allucinazioni?» La Fowler sottolineò quel termine. Casey lo preferiva al resto. «Da quasi tre anni» rispose. «In questi tre anni con quale frequenza si sono verificate? Hai notato che incrementavano o che diventavano più intense in determinati periodi?» «Sicuramente quando non dormo si intensificano.» L'argomento allucinazioni era già stato toccato durante le prime sedute, ma lei aveva deciso di non approfondire e la Fowler l'aveva accomodata, probabilmente per metterla più a suo agio. C'erano però molti punti che Casey non aveva citato, fra cui Kersey e l'imbottigliamento del ricordo, e che tuttora non si sentiva in vena di affrontare. «Ci sono periodi normali, in cui non si manifestano. Periodi in cui sono pari a flash, altri in cui sono costanti e insidiose.» La Fowler scribacchiò qualcosa sil taccuino e poi voltò pagina. Il colibrì, dall'alto della libreria su cui aveva deciso di dimorare durante le sedute, la osservava con i suoi occhietti neri e lucidi. «Credi… che vogliano comunicarti qualcosa?» Casey rimase muta con lo sguardo fisso su di lei. «È probabile» rispose. «Non so cosa però.» «In quest'ultimo periodo» continuò la dottoressa «hai visto qualcosa?» «Sì.» «Di che entità è in termini di costanza?» «Costante. Perenne.» «Potresti descrivermelo?» Serrò la mascella e si voltò verso la sommità della libreria. «Vedo un colibrì dal primo aprile.» «Il giorno della festa.» «Sì.» «C'è altro?» «Sì.» «Di che si tratta?» Respirò, scandendo il respiro con i tremori. Gli occhi fissi sulla Fowler. «Si è manifestato in maniera diversa dal colibrì. Lui è arrivato e non se n'è più andato. Questo» deglutì «è incrementato nel tempo fino a diventare totalizzante.» Entrambe schiacciarono la schiena contro la seduta. «Verso metà aprile ho incontrato Draven nei corridoi della scuola. Lui non mi ha vista, credo, e ho tentato di non farmi vedere. Volevo andarmene, ma nel momento in cui si è voltato e in cui avrei potuto guardarlo in faccia, io…» affondò le dita nella pelle del divano «non l'ho visto.» La Fowler si staccò dallo schienale e si protese verso di lei. «In che senso, Casey?» Un sospiro. «Non riesco più a vedere il suo volto. È una tabula rasa di pelle sfocata priva di naso, occhi, bocca. Una censura.» Nessuna risposta. Credette di aver impressionato la dottoressa. «Il primo pensiero che ho avuto è stato che, durante la festa, la mia rabbia mi ha portata a non considerarlo più niente per me. Poi però anche i volti di Megan, di Les, di Alice, di Jean, di Vivienne, di Oliver… dei miei amici, erano scomparsi.» Silenzio. La Fowler si prese del tempo per riflettere. Poi le chiese: «Cosa credi voglia dire? Come credi possa rapportarsi al colibrì?» Scossa dal cuore in fermento, Casey si chiuse fra le spalle e rimase immobile, con gli occhi lucidi, a fissare i propri ragionamenti. «Non lo so. So solo che li ho esclusi dalla mia vita da quel giorno. Anche se mi giravano attorno, mi parlavano alcuni, non riuscire a vedere i loro volti mi…» La voce le tremò in gola e non fu in grado di continuare a parlare. La Fowler attese, mentre lei si copriva il volto e le lacrime sulle punte delle ciglia. «Penso che tutto ciò che è accaduto mi abbia convinta che non c'è spazio per loro e per tutta la merda che mi portano. E se prima ci credevo e c'era un po' di speranza, pur rimanendo di lato senza infiltrarmi nelle loro vite» fugaci, le pupille andarono a cercare il colibrì «ora non ci credo più.» La dottoressa, cauta, parlò dopo che Casey si asciugò gli occhi. «Solitamente faccio in modo che sia il paziente a trarre le proprie conclusioni dai suoi sogni e simili, ma questo è un caso particolare. Dato che si tratta di visioni… allucinazioni, ecco, è probabile che ti stiano mostrando più un futuro plausibile che un attuale dato di fatto.» Casey alzò lo sguardo verso di lei, con rinnovata attenzione. «L'ira è cieca, e le sofferenze spesso portano le persone a considerare di chiudere il proprio cuore. Ciò che hai ribadito fino sd ora, nel corso di queste sedute, è che desideri solo rifiutare del tutto di relazionarti e di rivelarti agli altri per ciò che sei. Ecco, è possibile che le allucinazioni ti stiano mostrando a cosa potrebbe portare questo: non poter più davvero conoscere e riconoscere gli altri.» Una mano invisibile le attraversò la pelle e le strinse la bocca dello stomaco fino a farle percepire un conato. Il respiro, incapace di scendere fino alla base dei polmoni, le faceva alzare ed abbassare il petto. Sbatté le palpebre bagnate e si accasciò, come un giunco sotto la pioggia. «È parecchio tempo che non riesco più a vedere i volti delle persone.» Pausa. «Nessuno?» «Nessuno.» La Fowler incrociò i piedi sotto il tavolino. Casey li sentì strisciare contro il pavimento. «Mi stai dicendo… che non riesci a vedermi?» La paziente alzò lo sguardo verso la terapista. «A dire il vero, dottoressa, io non so nemmeno come sia il suo volto.»Voglio ringraziare chi mi ha aiutata a rendere il discorso della psico meno arrabattato. Non potevo fare grandi cose, ma in ogni caso mi scuso per eventuali gaffe.
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