Odore di legno, della fiamma di una candela, dell’aroma caldo di una tazza di cioccolato; di lana e di respiri, e di una ciocca di capelli, adagiata sulla guancia, mentre la testa si posa piano su una spalla.
Sensazioni remote, che l’atmosfera di quella conversazione le riportarono alla memoria, come un soffio di vento che gonfia una tenda sottile, nei recessi più reconditi della memoria – fantasmi che forse albergavano ancora tra le mura del castello, intrappolati negli interstizi di tempi passati.
Atena seguì con lo sguardo le dita di Horus lungo le sfumature turchesi del pianetino; lasciò che le sue parole – quiete, ponderate - le si adagiassero nell’animo, come fa la schiuma del mare sulla sabbia fresca del mattino. Respirava piano, rilassata ma attenta, incapace di scacciare la sensazione che qualcosa di fragile si fosse formato nell’aria, tutt’intorno a loro, e che bastasse il minimo movimento per disperderla.
Le parole, prima titubanti e inframezzate da silenzi, presero a scorrere più sicure, non senza un certo sollievo; le accompagnò, di tanto in tanto, con impercettibili cenni di assenso con il capo o inclinando appena la testa all’indietro, affinché le iridi scorressero sul cielo dipinto sul soffitto o indugiassero sul viso del ragazzo, quando percepiva che questi rivolgeva lo sguardo su di lei. «Lo so.» mormorò, mentre lui ripercorreva gli eventi del passato e quelli, ancora ruvidi sulla pelle, del giorno prima. Non aggiunse altro, ogni ulteriore precisazione si sarebbe rivelata superflua e lei era solita dosare con cura ogni parola.
Alzò invece un sopracciglio, divertita per l’inaspettato passaggio ad un tono più intimo e informale. Colta di sorpresa, un sorriso si allargò sul viso, scoprendo i denti bianchi e una fossetta sulla guancia. «Non hai ancora fatto in tempo a consegnare la spilla e già ti prendi queste libertà, Sekhmeth, mi chiedo con timore cosa mi debba aspettare da te nei giorni a venire.» si lasciò sfuggire l’accenno di una risata sommessa, spontanea, quasi liberatoria, venata soltanto dall’ostentazione di una finta apprensione; non v’era rimprovero nella sua voce, quanto piuttosto una quieta accettazione. Pose poi il palmo in quello che lui le offriva, mentre l’eco della risata aleggiava ancora sulla curva delle labbra e le iridi si fermavano, vivaci, nelle sue. Gli strinse la mano, accarezzandogli appena le nocche con il pollice. La naturalezza e il calore familiare della stretta le diede la sensazione che quel qualcosa di fragile che aveva percepito formarsi nell’aria andasse lentamente condensandosi, come sospinto da forze e venti impalpabili. Restò in silenzio un istante, godendo di quella sensazione capace di annullare ogni distanza.
Molti pensieri le si erano accavallati nella mente, uno sull’altro, evocati dalle parole del Tassorosso; i ricordi erano tornati alle immagini del giorno della battaglia, voltandosi poi verso la tempesta che si addensava all’orizzonte ed avevano ripercorso infine gli intricati sentieri del destino che, in quella storia assurda, l’avevano condotta sino a lì, a guida di una Casata che ancora faticava a sentire come sua – se glielo avessero detto, anche solo qualche mese prima, probabilmente non vi avrebbe creduto. Talvolta, nelle notti buie e silenziose, o nelle pause tra i lunghi pomeriggi indaffarati, le capitava ancora di osservare la sua vita come se fosse la storia di qualcun altro, stentando a riconoscere se stessa nei suoi attuali panni e chiedendosi in quale momento, precisamente, ogni cosa aveva iniziato a prendere una forma diversa. Si sentiva come un pezzo di legno che un’accetta aveva tagliato per il lungo, più volte, facendo di una superficie originariamente tonda, una figura spigolosa, in cui paure, forza, dolore, speranza, colpa e innocenza trovavano parimenti posto nel medesimo luogo. A volte le sembrava così difficile contenere in sé ognuna di queste sfaccettature – poco incline com’era, del resto, a farne parola con chicchessia.
Eppure in quel momento, l’uno accanto all’altra, mentre il suo Caposcuola le rivelava le più sincere speranze per Tassorosso, sentì qualcosa raccogliersi nel petto e gocciolare dai bordi, come il succo spremuto di un frutto troppo maturo; le spalle vicine, avrebbe voluto dare voce ad ogni incertezza, ad ogni timore che raggelava il suo animo - si accorse che era qualcosa che non faceva da molto tempo - e che lei, prontamente, aveva sempre schiacciato verso un luogo stretto e angusto del proprio essere. La verità era che non possedeva alcuna certezza e non poteva assicurargli che, nonostante tutta la determinazione di cui era capace, questa sarebbe stata sufficiente. Non voleva farlo, cedendo alla facile tentazione di parole fatte di zucchero e miele e dal sapore di vuote promesse. Non era ciò che lui meritava. Non era ciò su cui avrebbe permesso a se stessa di adagiarsi.
Il senso del dovere di cui il suo ruolo la investiva e la responsabilità che intimamente provava nei confronti del Tassorosso la persuasero a ricacciare indietro quella sensazione, e con essa ogni sorta di debolezza e timore, come si fa con un boccone amaro, ma necessario. Si limitò a stringergli la mano, un po’ più forte di prima, restituendogli il sorriso, nella speranza che sarebbe stata sufficiente a trasmettere l’impegno di ogni promessa non detta.
«Non posso dire di conoscere a fondo Amber» riprese «ma non ho dubbi che sia la scelta migliore per Tassorosso. Spero di poterla incontrare al più presto, così come i Prefetti.» quest’ultima fu la sola confessione che si concesse, mentre i pensieri tornarono ad ancorarsi - con delicatezza, senza costrizione - alla solidità della realtà ed alle incombenze che richiedeva il momento presente. Annuì con il capo. «Comprendo ciò che vuoi dire, e riconosco che sia la scelta giusta, per te, nonostante, già lo sai, non fosse l’esito in cui avevo sperato. Hai dimostrato – stai dimostrando – grande maturità, e un'integrità che è dono di pochi. Hai nuove strade da percorrere, ora. Troverai il tuo modo, qualunque esso sia. Io credo in te.» Si morse appena il labbro inferiore, come soppesando tra sé il sapore di quelle parole e decidendo infine che, sì, erano quelle giuste – erano ciò in cui lei credeva, fermamente. Si scostò appena dal tavolo, prendendogli anche l’altra mano e raccogliendo entrambe tra le sue. «Non sarai più il mio Caposcuola, ma continuerai ad essere un mio Studente. Ricordatelo.» fissò lo sguardo nelle iridi argentate, come per assicurarsi di iscrivervi a dovere il messaggio; era il suo modo per dirgli che avrebbe potuto contare su di lei.
Percorse con lo sguardo il suo viso, la tenue luce della stanza sembrava divertirsi a scivolare sulla pelle diafana o sui riflessi rosso accesi dei capelli; osservandolo da vicino, si accorse che aveva una voglia chiara accanto all’occhio - chissà perché prima di quel momento l’aveva notata a malapena. Si rammentò allora dell’aria stanca che aveva scorto tra i suoi lineamenti, solo qualche minuto addietro, del fremito che aveva percorso le sue dita, prontamente represso. Fu grata - e lo fu davvero - che le linee del suo viso, delicate e pungenti al tempo stesso, sembrassero ora più distese.
«Non voglio trattenerti oltre.» la voce era morbida, quasi un sussurro «Sono successe molte cose nelle ultime ore. Immagino che sarai stanco. Hai bisogno di riposare.» sciolse la stretta dalle sua mani; nel movimento le dita sfiorarono la liscia superficie del pianetino, che lui ancora stringeva. «Urano.» *Dio greco del Cielo* recitò nella mente, come ripetendo un antico mantra, spostando lo sguardo sulla sfera ed accarezzando un’ultima volta le sfumature circolari. «Tienilo tu.» *per favore* gli comunicò con lo sguardo. In quel momento non avrebbe saputo dire il motivo, ma ebbe la netta sensazione che fosse la cosa giusta da fare.