Meteora.

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Horus R. Sekhmeth

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U
scito dall’ufficio della Torre del Preside, Horus era scappato; come un animale rinchiuso a lungo in una gabbia, se n’era andato senza voltarsi indietro, senza cercare lo sguardo di nessuno, nemmeno quello di Emily.
Alla conclusione, si era semplicemente limitato a congedarsi da Amber con una mano sulla spalla, stringendo appena la presa per farle capire che non sarebbe tornato con lei in Sala Comune ed era uscito per primo. In apparenza tranquillo, s’era poi allontanato a passo svelto, distanziando tutti gli altri prima che qualcuno potesse anche solo chiamarlo. Infilatosi in una classe vuota, aveva castato su di sé un Seocculto, sì da poter evitare qualsiasi sguardo indiscreto, e aveva strappato la spilla da Caposcuola quasi con rabbia, gettandola in fondo alla tasca dei pantaloni. Non era più il Caposcuola di Tassorosso; non voleva più essere nemmeno Horus, l’umano. Aveva salito i gradini che lo separavano dalla botola sul terrazzo della Torre quasi con disperazione, uno dopo l’altro, come un naufrago in mare che cercava la salvezza nuotando verso l’alto. Poi, arrampicatosi sopra i merli di pietra, il vento notturno lo aveva investito, ma la paura di cadere non era più qualcosa che gli apparteneva. In un gesto ripetuto ormai decine di volte, Horus aveva chiuso gli occhi, puntandosi la bacchetta la tempia ed in un sussurro, mormorato alla luna, aveva abbandonato le vestigia umane. Come falco, era volato lontano, nel cuore della notte, sfiorando con le ali le cime delle conifere che riempivano e coloravano i pendii delle montagne che circondavano Hogwarts. Aveva volato finché la sua mente umana non si era annullata, completamente assorbita dalle spire di quella animale, sostituita dal solo istinto: tutto ciò di cui improvvisamente gli era importato venne spazzato via, sostituito dal profumo della resina, del mare in lontanaza che la brezza portava con sé. C’era solo il Vento, ed il Cielo, sotto le cui stelle Horus si perse finché la notte non era sfumata e l’ultimo astro non era stato inghiottito dal Sole nascente.
Era rientrato al mattino, di soppiatto, percorrendo silenzioso i corridoi completamente esausto, la testa vuota, apatica. La rabbia che aveva provato la sera prima s’era acquietata, ma non aveva abbandonato le sue membra stanche, irrigidite dallo sfinimento, e rimaneva in incubazione in fondo al suo cuore. Il Castello era sprofondato nel pigro sonno del week-end ed Horus si sentì fortunato a non incontrare nessuno. Il suo umore, nonostante avesse potuto godere di una notte completamente in solitaria, non ammetteva altre persone al di fuori di lui, non negli immediati dieci metri. Solo Pix, che infestava l’ingresso del Quinto Piano, ebbe l’ardire di infastidirlo. Di tutta risposta, Horus gli aveva ringhiato inviti poco signorili, minacciandolo con la bacchetta; non servì la minaccia del Barone Sanguinario. Pix si dileguò bestemmiando, deciso a fare qualche danno in un punto lontano del Castello.
Senza più ostacoli, Horus si era chiuso nel bagno dei Prefetti, nella cui vasca sprofondò per ore, finché i muscoli intirizziti non furono sciolti e l’umore non fu abbastanza quieto da sopportare la vista e la presenza di qualsiasi altro essere vivente.

Aveva atteso la fine della giornata, per presentarsi davanti la porta dell’ufficio della sua nuova Capocasa. L’iniziale entusiasmo che l’aveva animato quando, soltanto due giorni prima, aveva speculato con Amber sui papabili nomi sembrava ora qualcosa di completamente estraneo, distante anni luce. Si sentiva deluso, sfinito da quello stupido gioco di ruoli che da mesi lo angustiava e che la sera precedente aveva raggiunto un picco che lui trovava ridicolo. Provava fastidio e disprezzo per tutti gli insegnanti presenti nella stanza. Atena, Dorian, Astaroth, Christopher: nessuno di loro c’era stato, quando Hogwarts era caduta. Né per la prima, né per la seconda volta. Ed anziché fidarsi del loro giudizio, anche se erano solo ragazzi, si erano sentiti offesi, fanciulli intrappolati in un corpo da adulti. Atena non faceva eccezione, nonostante una voce dentro di lui continuasse a ripetergli che lei era diversa. Già, lo era davvero?
Horus guardò la porta dell’ufficio, sollevando un sopracciglio con aria scettica. In fondo, quel bel ricordo che custodiva dentro di sé sull’evento dell’Equinozio stentava ad abbandonarlo. Aveva preso in simpatia la McLinder sin da subito. Con quel suo viso furbetto, la bocca sempre arricciata in un sorriso enigmatico e lo sguardo dolce, la sua passione lo aveva travolto come un fiume in piena. Finalmente sicuro di aver incontrato la docente che avrebbe reso giustizia ad una delle sue materie preferite, Horus aveva sperato ardentemente che Atena non fosse colta da quell’assurda maledizione che sembrava colpire i docenti dopo un anno di docenza. Quei continui abbandoni da parte degli insegnanti, infatti, aveva generato tutta una serie di chiacchiere e pettegolezzi secondo cui il Castello fosse vittima di un maleficio. Troppo pericoloso, si diceva che nessun Mago o Strega avesse il coraggio di resistere troppo a lungo fra quelle mura. In realtà, Horus era più che convinto che nessuno di quelli che finora erano arrivati e se n’erano andati avevano le palle di tirare le redini di una Scuola che, ora più che mai, aveva bisogno di docenti coraggiosi, pronti a prendersi le responsabilità che il loro ruolo competeva. E a ripensarci su, Horus si chiese come ancora Dorian e compagnia non avessero compreso realmente la loro preoccupazione e paura. Come potevano biasimarli, dopo tutto quello che avevano passato da soli? Cos’aveva fatto Persefone ed il Ministero? Con tutto il bene che Horus voleva a Camille, anche lei se n’era andata e nonostante sapesse che lo faceva per dedicarsi al paese che governava, non riusciva a togliersi dalla mente quella punta di delusione che intorbidiva i suoi pensieri.
Qualsiasi cosa volesse dirgli Atena, però, Horus non si sarebbe piegato. Avvolto da un orgoglio che ormai lo contraddistingueva, sapeva di essere lui quello che di Tassorosso teneva realmente le redini. Sospirò, alzando il braccio e bussando un paio di colpi; attese l’invito della professoressa e poi, prendendo un bel respiro, entrò.
« Buonasera, professoressa. Desiderava vedermi? »
Si fermò sulla porta, il viso rivolto verso la donna; nessuna espressione colorava i suoi occhi né le labbra, la solita marzialità inflessa nella voce e nella posizione, statica, le braccia dietro la schiena ritta, il viso fiero.
Era stanco, di tutti.


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Edited by Horus Sekhmeth - 19/8/2018, 16:14
 
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METEORA.
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Una scia sottile di fumo saliva verso l’alto, arricciandosi su se stessa in volute ampie e circolari; si incanalava nell’apertura della finestra socchiusa, seguendo la voce di un tacito richiamo, ondeggiava al contatto con la brezza serale e scompariva, dissolvendosi nell’aria.
L’incenso bruciava nella penombra del locale; Atena ne osservava assorta il lento danzare, seduta sulla poltrona oltre la scrivania; i suoi pensieri si stendevano nella stanza, invisibili: vagavano lontani, rincorrendo fantasmi del passato; rimanevano appiccicati ai muri, intrappolati nelle fenditure tra una pietra e l’altra, oppure trovavano una via d’uscita e si perdevano anch’essi, come il fumo, chissà dove.
Il sole era ormai tramontato ad ovest e il cielo si colorava velocemente di intense sfumature di blu, sempre più scure. Uno spicchio di Luna annunciava l’arrivo imminente della notte e il suo chiarore penetrava nello studio attraverso il velo sottile della tenda, adagiandosi come polvere lungo i contorni della mobilia – sembrava un disegno fatto a carboncino. Nella stanza nessuna luce era accesa, come se la Docente avesse atteso il calare della sera ferma nella stessa posizione, abituandosi poco a poco all’oscurità crescente. Solo il soffitto era punteggiato dalle piccole stelle e dalle due Lune, ma la loro era una luce fittizia, che brillava soltanto per se stessa, come se quel riverbero appartenesse ad un altro mondo.
Atena amava il momento del crepuscolo: aveva l’impressione che ogni cosa rimanesse sospesa, a metà strada tra due realtà distinte, in un luogo senza tempo né spazio. Le piaceva assistere all’assopirsi dei clamori del giorno e sfidava se stessa a cogliere
quel solo attimo di silenzio e attesa che precedeva il risveglio delle ombre della notte.
Una parentesi di equilibrio a cui il suo animo, irrimediabilmente, anelava.

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Due colpi alla porta arricciarono il filo ondulato dei suoi pensieri. Anche la scia di fumo ondeggiò più rapidamente, come sospinta da un’improvvisa folata di Vento.

«Avanti!» disse prontamente, schiarendosi la voce ed allungando una mano per accendere la lampada accanto al muro, prima che l’ospite facesse il proprio ingresso. Un nuovo chiarore si diffuse tutto intorno, ma non in modo prepotente, quanto piuttosto ovattato, quasi intimo.
«Horus, prego accomodati.» indicò al giovane uno dei divanetti al centro dell’Ufficio. Non aspettava visite a quell’ora e il suo aspetto sembrava volerlo confermare: le maniche della camicia bianca erano arrotolate sino ai gomiti, lasciando le braccia scoperte – le piaceva sentire il pizzicore dell’aria sulla pelle e rabbrividire appena, un contrasto che la teneva ancorava alla realtà, a suo dire, come ad uno spago; i capelli le cadevano sulle spalle, sfiorando il colletto, liberi dalla posa rigida di una pettinatura; un orologio e un bracciale erano adagiati sulla scrivania, congedati dal consueto compito quotidiano. Tuttavia, non si preoccupò che il suo aspetto potesse risultare meno formale del dovuto; né quest'ultimo, del resto, sembrava conferirle un’immagine dismessa; anzi, curiosamente, si poteva affermare il contrario.
«Posso offrirti qualcosa?» si alzò, sistemandosi il leggero soprabito sulle spalle «Ho preparato del thè, dovrebbe essere pronto… – sollevò lo sguardo verso l’orologio – proprio ora. Tempismo perfetto.» su queste parole si avvicinò senza fretta alla teiera, posata su un tavolino accanto alla parete; con cura estrasse la miscela, attese che le ultime gocce della bevanda si staccassero dal sottile retino metallico e la adagiò su un piattino. «Mi piace prepararlo alla vecchia maniera, senza magia; prendermi il tempo per curare ogni dettaglio, dosare ciascuna pausa e ciascuna attesa – è importante.» spiegò, assorta nei propri gesti. «Le foglie che utilizzo sono state colte in periodi astronomici particolari. E’ molto buono.» concluse, abbozzando un tenue sorriso. Ne avrebbe poi versato una tazza per sé e una per l’ospite, se questi avesse accettato la sua offerta, prendendo infine posto sul divanetto di fronte a lui.

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Posando le tazze sul tavolino, si concesse il tempo necessario per osservare il Caposcuola: introducendosi, aveva mostrato un atteggiamento composto, irreprensibile, quasi distaccato; nessuna vibrazione nella voce, nessuna sfumatura nello sguardo; per un attimo si era chiesta se la scintilla che aveva visto accendersi sul suo viso durante le lezioni e lo stupore che aveva disteso i suoi lineamenti si celassero ancora, da qualche parte, sotto quel velo apparentemente impenetrabile - lo sperò tra sé, erano un dono raro. Si domandò cosa animasse lo spirito del ragazzo in quel momento, se fosse a disagio a causa di un incontro da cui non sapeva cosa aspettarsi, se provasse astio e rifiuto verso la nuova situazione, o verso di lei. O se invece, semplicemente, di tutto questo non gli importasse assolutamente nulla.

«Era da molto che speravo di poterti parlare» confessò; sentiva il bisogno, la necessità – forse la debolezza – di lasciarsi scivolare dalle labbra quelle parole, prima di affrontare l'argomento della serata. «Dalla notte dell’Equinozio desideravo ringraziarti del biglietto che mi hai lasciato e cogliere l’occasione per poter discutere con te riguardo alcune questioni legate all’Astronomia» la memoria del ritaglio di pergamena che aveva trovato, piegato, accanto al telescopio – il suo telescopio – le procurava sempre un piacevole ricordo. Nonostante il messaggio fosse rimasto anonimo, non aveva avuto alcuna difficoltà a comprendere chi fosse l’autore. «Sembra che il Destino si sia avvalso di circostanze inaspettate per dar luogo al nostro incontro» la linea delle labbra si strinse appena agli angoli della bocca in una sfumatura che aveva un vago sentore di amaro, appena percettibile; lo sguardo si svincolò dal ragazzo, tornando a posarsi sulla sottile linea di fumo: era ancora sospesa a metà tra due mondi, lei, e continuava a bruciare e salire e perdersi oltre il confine della finestra; lasciava nella stanza un profumo dalle note calde e ambrate, ma talmente leggero che l'odore fresco delle sere settembrine riusciva quasi a sovrastarlo.
Un passo avanti, verso il momento presente.

«Ho avuto l’impressione che l’incontro di ieri abbia portato a galla diverse divergenze. Del tutto prevedibili, alla luce degli eventi che hanno interessato il Castello negli ultimi tempi.» si umettò le labbra, continuando. «Ho notato nelle tue parole una certa durezza, ma anche rabbia e turbamento, che non mi sono passati inosservati.» si voltò, tornando a sondare il viso del ragazzo – consapevole, precisa – alla ricerca di una reazione a quelle parole. «In te, più che in tutti gli altri.» il chiarore fioco, in un gioco di luci e di ombre, evidenziava l’espressione profonda dello sguardo. «Ho ritenuto il contesto inadatto per affrontare la questione, non sarebbe stato né il momento né il luogo adeguato. Tuttavia sentivo la necessità di parlare con te, non potevo – e non volevo – lasciare che tutto questo cadesse nel vuoto, soprattutto dal momento che sei il mio Caposcuola. Questo il motivo per cui sei qui. Vorrei domandarti se c’è qualcosa che desideri chiedermi, Horus, qualcosa di cui vuoi discutere con me, ora.».
Sedeva composta, in attesa della risposta del Tassorosso. Non v’era rimprovero, né astio nella sua voce; non aveva nemmeno la presunzione di appianare ogni divergenza, minimizzandola o travisandola nel suo significato più profondo. Semplicemente riteneva controproducente che all'annuncio della sera precedente seguisse il vuoto e le premeva concedere a lui la possibilità di esternare il proprio pensiero, forse rimasto taciuto per troppo tempo, e a se stessa quella di comprendere che persona fosse il Caposcuola che le era stato affidato.
Ogni giudizio era ancora sospeso, lasciato libero di disegnare circonferenze e di arricciarsi lento su se stesso, senza scendere né salire; se non altro finché le ombre della notte non sarebbero calate.

SCHEDA | CAPOCASA TASSOROSSO | OUTFIT



*frrrrì! ~☆
 
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L'
odore speziato dell’incenso solleticò il suo naso, ed il principio di uno starnuto minò la delicatezza di quel momento. Gli occhi di Horus impiegarono qualche istante per abituarsi alla morbida luce che carezzava l’ufficio di Atena. La stanza era atipica rispetto alle altre impostate in uno stile tipicamente medievale ed era questo che la contraddistingueva da gli altri sudi; completamente opposto a quello di Camille, quello di Atena era caratterizzato da una grande finestra che, anche a quell’ora e con il sole ormai oltre le montagne scozzesi, regalava ai presenti una vista che infondeva tranquillità e pace. Il soffitto a cupola, però, era quel che colpiva di più: leggermente stondato, sembrava appartenere ad un’epoca diversa, ben più “moderna” di quanto in realtà non fosse la scuola. Un tocco rinascimentale ne decorava il perimetro e la forma ottagonale della stanza la rendeva molto più grande di quanto non fosse. Era accogliente, calda, vissuta. La lampada contribuiva a quel clima familiare, ma nonostante tutte queste premesse, Horus non riuscì a sentirsi a suo agio. Senza parlare, si avvicinò ad un divanetto che la donna gli aveva indicato e si sedette, composto, nell’angolo sinistro. Sulla scrivania un curioso set di matrioske riproduceva il sistema solare e, per un solo istante, la tentazione di allungare le mani e sfiorare le sfere decorate gli sussurrò suadente nella mente. Gli era capitato di chiedersi, la notte dell’Equinozio, come fosse l’ufficio di Atena ed il pensiero eccitato di quanti manufatti potesse custodire fra quelle mura lo aveva accompagnato nei giorni a venire. Indubbiamente, le sue ipotesi trovarono conferma ancora una volta. Infine distolse lo sguardo dagli oggetti, per guardare in viso Atena. Sembrava stanca ed i capelli le ricadevano sulle spalle, leggermente arruffati sulle punte sottili. Aveva le maniche della camicia arrotolate sopra gli avambracci ed il profumo delicato del tè si librava nell’aria, mescolandosi a quello intenso dell’incenso. La fine della giornata lavorativa, il momento di relax prima della cena e della notte, prima di un altro giorno. Horus capì che aveva interrotto qualcosa di intimo e personale, ma non se ne dispiacque. La proposta del tè lo allettava; l’intera notte fuori lo aveva infreddolito e nonostante il bagno caldo che era seguito, il suo corpo inesperto faticava ancora a metabolizzare il cambio di temperatura dalla forma umana a quella animale. Schiuse la bocca, per rispondere qualcosa —un diniego— ma ci ripensò. Serrò le labbra e si limitò ad annuire leggermente col capo. Forse, si disse, un po’ di calore lo avrebbe aiutato a sciogliere quel nodo di sentimenti che gli serrava la gola. Seguì in silenzio il rito che la donna stava compiendo: concordava con lei ed erano davvero rare le volte in cui, anche lui, si concedeva di usare la Magia per la preparazione del tè. Studiò i suoi movimenti, lenti e precisi, e gli venne naturale paragonarla ad un archeologo: le dita accompagnavano minuziosamente il movimento della teiera, gli occhi chiari carezzavano l’aroma e poteva immaginare come il naso aspirasse il profumo che dalle foglie si liberava. Gli occhi, concentrati, erano posati sul controllo di quel gesto, semplice ed elegante. Quando infine gli porse la propria tazza, Horus la prese, ringraziando cortesemente, ma non bevve. La posò sulle ginocchia ed il calore si liberò sulle gambe, facendolo rabbrividire leggermente. Le mani, a coppa, circondarono la porcellana e nonostante la temperatura fosse molto alta e bruciasse la sua pelle, non le spostò di un millimetro. Ne aveva bisogno, molto più di quanto avesse dato a vedere anche a se stesso.
Gli occhi argentei scrutarono la superficie ambrata della bevanda; qualche minuscola fogliolina era riuscita a sfuggire dal filtro e galleggiava pigra fra le impercettibili onde scure. L’immagine lo rimandò ad una lezione di Divinazione e un’irritazione lo punse come uno stiletto.
Allora alzò lentamente il capo, colpito improvvisamente dalla confessione di Atena.
« Ah sì? » Fu l’unica risposta che riuscì a rivolgerle, alzando appena il sopracciglio destro. La voce di lei, dolce, lo toccava, eppure Horus non riusciva a scuotersi da quel rigore.
Quando aveva lasciato quel biglietto, subito dopo il congedo, Horus non si era aspettato un ringraziamento. Certo si era chiesto se Atena avesse apprezzato o si fosse infastidita, ma con la leggerezza tipica di chi è convinto di ciò che fa, non se n’era preoccupato molto. Scosse appena il capo ed una ciocca ramata gli scivolò davanti l’occhio sinistro. Con un gesto frettoloso della mano, se la portò indietro, allontanandola dalla fronte; la voglia bruciava e spiccava intensa sul viso pallido e smunto. Cominciava a sentirsi esausto.
« Non c’è bisogno di ringraziarmi. » Disse allora meccanicamente, mentre coglieva una sfumatura amara nell’incurvatura della bocca di lei. Già, il Destino. Un sorriso sardonico increspò l’angolo destro delle sue labbra, e quel che poteva sembrare solo un derivato della frase pronunciata poco prima, era in realtà la fredda constatazione che, invece, per lui non esisteva alcun destino.
Si chiese improvvisamente se Atena fosse nervosa. Se davvero lo era, non lo dava a vedere. “Il mio Caposcuola”: si permise di cullarsi per un solo istante nella dolcezza di quella constatazione, in quel desiderio che aveva provato tante volte in passato. Dopo l’addio di Peverell e la sua scomparsa, non c’era stato più nessuno. L’intera Casata gli era piombata sulle spalle, ma tutto il suo impegno, tutti i sacrifici a cosa avevano portato?
“A niente” ringhiò la sua coscienza. Nonostante l’impassibilità, Horus stava lentamente costruendo un muro fra sé e la docente; un muro che mai si sarebbe aspettato di alzare e la cui costruzione lo faceva sentire a disagio.
Si sentiva in colpa nei suoi confronti, per il modo freddo con cui, ora, le parlava e le si poneva. Ma la ferita della sera precedente bruciava ancora ed i suoi bordi slabbrati pulsavano intensamente. Sì, Atena aveva ragione: la discussione della sera precedente aveva fatto emergere pensieri e rancori rimasti sopiti a lungo. Quanto accaduto ai G.U.F.O. non era che un crudele déjà-vu di quanto tutti loro avevano già affrontato con la Battaglia d’Ottobre. Dopo anni, gli incubi erano tornati e ogni notte lo riportavano sul ciglio del Ponte Sospeso. Margaret vicino a lui, le loro mani strette insieme, Paul leggermente più avanti. E dietro, i pianti degli studenti che non avrebbero mai preso la Passaporta, impotenti davanti l’avanzare dei Golem. E poi, quell’orrido spettro incontrato sulla Torre: suo padre, ridotto ad un cadavere, che stringeva le sue dita attorno al suo collo non facevano che ricordargli quanta paura avesse di scoprire la verità.
Rabbrividì, per il freddo e per i pensieri, ed Horus si maledì per quell’accenno di debolezza; non doveva pensarci, si ammonì e distolse per un istante lo sguardo dal viso di Atena. Durò solo un attimo e così come lo aveva allontanato, lo riportò su di lei non appena la domanda gli giunse alle orecchie.
« No. » Mentì spudoratamente.
Come voleva dirle, invece, che ne aveva bisogno, voleva parlarle, ed il cuore lo incoraggiava a farlo, a fidarsi di lei.
Ma l’Orgoglio e il Rancore, mefistofelici, soffocavano quel cuore loquace.
« E lei? » Rispose invece, un velo di sfida nel tono di voce basso e pacato.
In quel momento, Horus detestò ciò che era diventato: un groviglio di rovi.



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view post Posted on 30/10/2018, 11:48
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Atena seguì assorta i gesti del Caposcuola, seduto di fronte a lei: le dita cinsero i bordi della tazza, posandola delicatamente sulle ginocchia, come per custodire quanto più vicino a sé quella fonte di calore. Il vapore saliva, sempre meno denso, fino a sfiorargli la fronte e confondersi tra le ciocche ramate. Ora che lo osservava da vicino si accorse di quanto in realtà fosse pallido; la luce soffusa della stanza giocava con i contrasti creati dalle ombre dei capelli e dai contorni degli zigomi. Nel candore quasi marmoreo di quel viso, spiccavano gli occhi, grigi e inflessibili ma tutt’altro che spenti. Lo vide abbassare per un istante lo sguardo sulla bevanda e rabbrividire appena. Sembrava stanco, più di quanto l’atteggiamento composto e padrone di sé non avesse dato a vedere in un primo momento. Avrebbe voluto chiedergli cosa stesse provando o a cosa stesse pensando, ma in quel contesto una simile domanda sarebbe stata probabilmente inopportuna, o avrebbe addirittura assunto i contorni di una beffa. Restò dunque in silenzio, solo le linee intorno agli occhi si ammorbidirono appena.
Le parole del ragazzo furono secche e concise. Atena ebbe l’impressione che si levassero da oltre un guscio invisibile, un confine che Horus aveva disegnato, stretto, intorno a sé e che lei non aveva il permesso di varcare. Il filo sottile che fino a una manciata di ore prima – ne era certa – aveva tracciato l’esistenza di una naturale sintonia tra lei e il Caposcuola, le parve ora sfuggire di mano. Se reciso o solo scivolato, non sapeva dirlo. A tale consapevolezza provò una stretta intorno allo stomaco – ma in fondo poteva forse biasimarlo?

«Sembravi molto più loquace ieri sera.» disse prontamente, cercando le sue iridi chiare; la velata sfida che aveva colto nel tono del Tassorosso le aveva strappato un sorriso divertito, ben lontano tuttavia dallo scherno. Pur mantenendo il consueto tono pacato, le sopracciglia si sollevarono impercettibilmente, rimarcando di rimando la presenza di un limite che non gli avrebbe permesso di superare.
«Si.» rispose infine alla sua domanda, tornando a rilassare i lineamenti, quasi pentendosi per l’accenno di durezza che, seppur necessario, gli aveva riservato. Lo valutò nuovamente, stavolta con curiosità.
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La tempra che stava dimostrando riusciva a solleticarla, come il guizzo allegro di una fontanella, e ciò la convinse ad insistere nel cercare una via di comunicazione. Avrebbe peccato di indelicatezza? A dispetto del ruolo che ricopriva e della naturale separazione che ne derivava, nella parte più intima di sé sentiva tremolare l'incertezza del dubbio e il tintinnare di flebili speranze. Chissà, forse era l’influsso della Luna, o il lento calare della Notte, che mischia e confonde anche i contorni più nitidi. Nonostante gli avvenimenti della sera prima, non si era ancora persuasa ad abbandonare la fiducia che provava nei confronti del Caposcuola.

«Non mi è passato inosservato ciò che fai per la tua Casa.» riprese «Sei responsabile, attento, premuroso verso i tuoi compagni; a ragione ti vedono come un fratello maggiore e un punto di riferimento.» fece una pausa, le dita lisciarono la stoffa dei pantaloni scuri, per poi incrociarsi sulle ginocchia. «Non dev’essere stato facile portare il peso di responsabilità che per definizione non avrebbero dovuto gravare sulle spalle di uno Studente e affrontare le Battaglie che hanno investito il Castello. Tuttavia ora non sei più solo in questo compito, Horus, è bene che tu lo comprenda. Ma ho bisogno di te, come Caposcuola. Posso contare su questo?» semplici parole, concise, sincere, essenziali: riconosceva l’eccezionalità degli eventi che ogni singolo Caposcuola si era trovato a dover sostenere e i segni indelebili che questi avevano con ogni probabilità lasciato su di loro. Poteva solo immaginare cosa si celasse in realtà oltre la quieta patina esteriore che Horus ostentava – e quanto avrebbe voluto comprendere cosa si agitasse al suo interno. Non rimarcò le questioni sollevate la sera prima, né gli eccessi o le mancanze che pure aveva riscontrato. Non era tra i suoi obiettivi più impellenti, non in quel momento. Le premeva sapere quanto della nuova situazione avesse compreso e quanto fosse disposto ad accettare i rispettivi compiti e ruoli. Capire su quali basi era destinato a prendere avvio il proprio mandato. Sarebbero stati antagonisti, indifferenti l’uno all’altra, o potevano esserci altre vie? La risposta non era scontata, una parte di lei forse addirittura la temeva, ma sentiva che era essenziale ottenerla, in qualunque direzione avesse portato. Le iridi chiare tentarono di leggerla, prima che lui la palesasse, oltre i volteggi chiari del vapore e oltre la cortina invisibile in cui Horus si era rifugiato.
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Perdona ancora il ritardo Horussini, ottobre è stato un mese complicato. Andiamo avanti! ♥
 
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S
errò istintivamente la mascella ed il suo sguardo si indurì. La vena polemica della sera precedente non si era spenta del tutto e tornò di prepotenza tutta l’irritazione che il colloquio con Peverell, e gli altri insegnanti, aveva scaturito in lui. Si impose, tuttavia, il silenzio. Si concentrò sul calore che si sprigionava dalla tazza di tè e lasciò che l’aroma speziato e avvolgente lo distraesse dal desiderio di rispondere —male— alla sua nuova Capocasa.
Non riuscì, però, ad impedirsi di lasciar correre i pensieri, rievocando nella mente proprio quei discorsi che tanto lo avevano infastidito. Era stato accusato di boria, di arroganza e tutto questo, pensava, solo per aver palesato un legittimo dubbio. Loro erano estranei, per lui, per la sua Casata. E lo era anche Peverell, in fondo. Non li aveva abbandonati di punto in bianco per dedicarsi a fantomatiche ricerche, senza neanche scambiare una parola con lui, che allora era Prefetto, e Paul, il Caposcuola? Per quanto lo riguardava, Peverell poteva aver fatto di tutto e solo perché al momento era preside ciò non significava di certo che non avesse alcun legame con il Signore Oscuro o fantomatici golem runici. Sorrise sarcasticamente senza neanche rendersene conto, perso con lo sguardo fra le ombre mogano della sua bevanda. La voce di Atena lo strappò a quelle considerazioni e d’istinto Horus alzò gli occhi. Si era chiesto, in effetti, se il motivo di quell’inaspettato colloquio avesse a che fare con la sua irriverenza e quasi si era aspettato un rimprovero. Poteva quasi udire le fantomatiche parole che Atena avrebbe potuto rivolgergli: “Ora sono io il capo” o “Non farmi fare brutte figure”. Una parte di lui —indubbiamente in maggioranza— credeva che Atena non avrebbe mai potuto rivolgersi così, né a lui, né a chiunque altro. C’era bontà e gentilezza in lei, una grazia, un riserbo tipico delle persone sensibili che la allontanava automaticamente dalle mire di potere e oppressione. C’era qualcosa in lei che gli ricordava se stesso, o forse, pensò correggendosi, se stesso di tanto tempo prima. Ora si sentiva diverso e non era solo per la maturità fisica o per qualche astratta presa di coscienza. Horus sapeva d’esser cambiato e da quando aveva abbracciato la sua natura Animagus sentiva di poterlo esprimere molto più liberamente. Più istintivo e ribelle, nel corpo di umano non riusciva a fare a meno di pensare di essersi tenuto prigioniero troppo a lungo, succube di dogmi e giustificazioni etiche e morali che ora, semplicemente, non gli appartenevano più. Era per questo, allora, che si sentiva soffocare lì, in quella stanza?
Si accorse di star fissando la docente in modo vacuo e s’affrettò a spostare lo sguardo sul lume acceso. La sua luce tiepida tingeva ogni cosa, un piccolo sole che abbracciava perenne ogni cosa che potesse raggiungere.
« No… » Si ritrovò a sussurrare, lo sguardo fisso sul paralume. Poi, lentamente, riportò gli occhi sul viso di lei, delicatamente accarezzato da un riverbero dorato. Si rese conto di aver un groppo in gola e, meravigliato per quell’improvviso malessere, si portò finalmente la tazza alle labbra e sorbì un po’ del suo tè. Leggermente intiepidito, il suo aroma agrumato scivolò intenso sulla punta della sua lingua e lì rimase per qualche secondo. Lo assaporò chiudendo gli occhi, pregando che questo lo aiutasse a rendere la sua voce più ferma; così percepì che le sue dita stavano tremando e si aggrappò ancora più saldamente alla sicurezza di quella porcellana. Poi, dopo un tempo che gli sembrò infinito, con il cuore che a poco a poco velocizzava la sua corsa nel petto, Horus incrociò gli occhi della sua Capocasa ed una fitta di dolore gli attraversò lo stomaco. Gli venne improvvisamente da vomitare.
« Io non… non posso più. » Si sorprese nello scoprire che in realtà la sua voce era suonata molto più credibile di quanto non fosse nella sua testa. Avrebbe voluto gridare che non riusciva più a sopportare quel peso, che ogni istante viveva nella paura di non riuscire a proteggere la sua Casata, i suoi compagni, che non ne poteva più di vivere per gli altri.
« Ho.... » Altre priorità? « Sono stanco, professoressa. » Esordì infine, ed una parte della sua corazza cedette, dinanzi a quegli occhi di stelle. Rimase in silenzio, provando a sostenere lo sguardo di lei, ma poi la vergogna ebbe la meglio, la consapevolezza di star fallendo, di star arrendendosi lo fece vacillare. Perché era questo, quello che comportava no? Si stava arrendendo, li stava abbandonando tutti, come tutti gli altri. Come coloro che aveva disprezzato, anche lui se ne stava andando.
« Non posso più essere il Caposcuola di Tassorosso. »
E la pesantezza di quella confessione fu come uno schiaffo in pieno volto. Tutta la fierezza, la rabbia, l’orgoglio si fecero quiete, come bestie ammansite da un domatore feroce. Si acquattarono dentro di lui, silenziose, mentre un dolore più pungente di quanto avesse mai preventivato lo attanagliava, stringendo il suo petto e la gola come i tentacoli di un kraken. Aveva ponderato a lungo su quel pensiero, lo aveva accarezzato tante volte, ma mai vi aveva ceduto, mai lo aveva anche solo ammesso con se stesso. Horus Ra Sekhmeth non aveva mai sfuggito i doveri, li aveva serviti, a modo suo certo, ma mai era scappato.
« Mi dispiace. » Suonò duro, quasi infastidito e bevve il suo tè con calma, come se dentro di lui niente fosse accaduto, una brillante stella che continuava a rischiarare il suo stesso cielo.
Ma in fondo si sentiva come una meteora, accesasi in un impeto di vita, per poi spegnersi oltre la volta celeste, in frantumi.



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Il momento decisivo era infine arrivato. Come il rimbombo lontano di una campana, o il rumore improvviso di un chiodo che, stanco di compiere il proprio dovere, lascia cadere un quadro; o ancora, una crepa che si allarga silenziosa lungo una lastra di ghiaccio e, al suono di un sussurro, la spezza.
No.
Fu come se il fumo che aveva offuscato i pensieri venisse spazzato via, e l’aria limpida del mattino gettasse nuove luci sulla coscienza. La sospensione, dettata dal dubbio, cessava.
Si sarebbe potuto sperare in un finale diverso? Forse Atena lo aveva desiderato, forte del proprio senso del dovere vi aveva creduto sino all’ultimo istante; forse la stima che provava nei confronti del Tassorosso l’aveva perfino dissuasa dal prendere realmente in considerazione una simile possibilità; eppure, a ben pensarci, era un esito prevedibile, oracolo scritto nelle stelle, sin dall’inizio – esistevano davvero segni così evidenti, al di là della solida roccia che la razionalità offriva come sicuro baluardo? Se avesse osservato con maggiore attenzione, avrebbe potuto comprenderli? – o un solco inciso nelle ferite, che lo strascico del passato aveva inesorabilmente portato con sé.
Ciò che l’attendeva, da lì in avanti, iniziava ora ad assumere contorni più definiti e nonostante il rammarico pesasse inevitabilmente come qualcosa di ruvido all’altezza della gola, una parte di lei si sentì sollevata: non erano i problemi a spaventarla, bensì l’incertezza; l’essere sospesa tra il sapere e il non sapere la opprimeva più di qualunque altra sensazione e per quanto la verità non fosse concorde con le proprie aspettative, la preferiva all’offuscamento del dubbio.
Le dita del ragazzo ebbero un tremito, unico segnale esteriore della tempesta che doveva agitarsi in lui in quel momento, insieme ai vacui fantasmi che di tanto in tanto lo sguardo di Atena scorgeva passare oltre la patina dei suoi occhi. A quella vista sentì un ricordo lontano – vago, malinconico – risvegliarsi e pulsare dall’antro più profondo della memoria: quando a tremare erano le sue, di dita, ancora intrise dal sangue caldo; quando la speranza era morta e nel buio più denso anche lei si chiedeva se in realtà non lo fosse stata. Si voltò appena di lato, le ciglia si abbassarono sugli occhi socchiusi, come una sottile barriera, nel tentativo di non lasciar trasparire nulla all’esterno di quei pensieri – così intimi, così
suoi; lasciò che le immagini del passato le bagnassero la carne, viva, come lame di luce polverose che penetravano dallo spiraglio di uno spesso muro, arrendendosi ad esse ed immergendovisi al pari di una foglia trasportata da una corrente dorata. Tepore e tormento al tempo stesso.
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Poi, la voce del ragazzo tornò a far breccia nel paesaggio silenzioso della sua mente. Misurata, senza eccessi; ferma, sicura. Quando riaprì gli occhi, ancorandosi nuovamente al momento presente, qualcosa in lei si era ammorbidito – si trattava di premura nei confronti del Tassorosso? Di comprensione, accettazione? O forse era l’eco dei ricordi che ancora vibravano ed anestetizzavano ogni altra sensazione? Probabilmente entrambe le cose. Abbozzò un tenue sorriso, che pure manteneva in sé, involontariamente, un’ombra malinconica.
Evitò che la mente si soffermasse sui problemi e le responsabilità che sarebbero seguiti al loro incontro, e che al pari di nubi scure già si stavano addensando oltre i confini ristretti della stanza – le incombenze che l'assenza del suo Caposcuola, a metà dell’anno scolastico e a meno di un giorno dalla propria nomina, le avrebbe procurato; l’opinione del Preside, i mormorii degli Studenti; la guida di una Casata che, suo malgrado, ancora sentiva di non conoscere come avrebbe voluto; il tentativo di arginare una falla che si era già espansa oltre i confini consentiti. Lasciò invece che fossero le parole di Horus ad occupare lo spazio dei propri pensieri, assaporandole in tutto il loro significato. Al resto avrebbe pensato dopo.

Sono stanco, professoressa.
Si portò una mano al petto, come a cercare il conforto di un ciondolo appeso al collo, ma le dita incontrarono solamente la pelle, oltre il bordo della camicia, e i polpastrelli, anziché stringersi intorno ad una catenella, si sfiorarono tra loro.
Sono stanco.
Una confessione che, nella sua semplicità, lasciava disarmati e dissolveva ogni sorta di resistenza ed obiezione, come pezzi di carta velina spazzati dal vento.
«Così sia, Horus.» annuì impercettibilmente, riportando lentamente lo sguardo su di lui; ora era profondo e acceso di una consapevolezza salda e limpida.
«Non hai avuto alcuna possibilità di scelta in passato. E’ giusto tu l’abbia ora.» *è tutto ciò che posso fare per te*.
Lasciò che il silenzio seguisse le sue parole, per il tempo di un respiro, riempito soltanto dal fruscio delle foglie solleticate dalla brezza serale, oltre il confine della finestra, e dal canto di una civetta in lontananza. La luce della Luna aveva accompagnato la loro conversazione ed aveva assistito, muta, al lento dispiegarsi di profondi cambiamenti; lei, invece, non era cambiata, e continuava a mandare i propri riverberi nella stanza, filtrati dal velo sottile della tenda; solo il cono del suo bagliore aveva lievemente cambiato angolazione.
Con un leggero sospiro Atena si sporse in avanti, prendendo tra le mani la propria tazza di thé. Facendo attenzione a non far traboccare il liquido oltre il bordo - la bevanda, infatti, era quasi del tutto intonsa, ormai troppo fredda per essere assaporata - si alzò e con un tintinnio di ceramica la posò sul tavolino su cui era riposta anche la teiera.
Infine si voltò verso Horus: una figura stagliata tra luci ed ombre, sussurri e silenzi, timori e desideri. Nonostante tutto, si rese conto, l'affetto che provava nei suoi confronti non era affatto diminuito - lasciò, per un istante, che questa sensazione si allargasse in lei.

«Non era questo l’esito in cui avevo sperato.» ammise, piano. «Ma immagino sia giunto il momento che tu ti prenda cura di te stesso. Hai fatto più di quanto era dovuto.»
L'eco della campana suonava di nuovo. I loro cammini si erano incrociati per un breve, fugace, momento, al pari di una meteora che percorre il cielo in una notte di primavera. E quando infine si spegne oltre il nero dell'orizzonte, lascia dietro di sé solo il riverbero di una scia luminosa, un fantasma impigliato nelle trame del firmamento.
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L'
aveva notato, con la coda dell’occhio, quando lei aveva portato le dita al collo. E quelle dita sottili, bianche come la carta di un libro intonso, non avevano trovato niente da stringere e nulla aveva dato loro conforto. Si sentì infinitamente piccolo e fragile, un pulcino rannicchiato in fondo ad un nido troppo affollato e violento. Trattenne un altro sospiro ed ebbe come l’impressione che tutti quelli che stava soffocando si stessero addensando nella sua gola, come nebbia. Nelle orecchie udiva solo il rombo del proprio sangue, assordante e fastidioso, e l’eco delle sue stesse parole che lo irritavano e ferivano come lame di ghiaccio. Avrebbe voluto dire qualcosa, riempire quel silenzio terribile e gravoso che si era intromesso fra di loro, ma non riusciva a trovare più la voce. Horus sapeva che, se solo ci avesse provato, tutta la sua fatica nel mostrarsi lucido ed imperturbabile sarebbe andato in frantumi, una pantomima troppo difficile da portare avanti.
*Di’ qualcosa, ti prego.* L’aveva implorata mentalmente, nascondendo il viso dietro la tazza del tè. La luce della Luna si infilava fra loro come una silente spettatrice, rendendo quel momento più drammatico di quanto non fosse già; così quando Atena parlò, Horus alzò di scatto la testa, tradendo un’impazienza che mal si accompagnava alla sua falsa freddezza.
Così sia aveva detto lei e lui se ne sentì irritato e confortato al tempo stesso. La sua prima reazione fu confusa ed indecifrabile per una replica così definitiva a cui forse nemmeno era preparato; se da una parte tutto ciò che desiderava era essere libero di affrontare la propria vita, dall’altra desiderava una mano sul braccio, un “aspetta” sussurrato, come un viaggiatore indeciso con un piede su uno scalino di un treno in partenza e l’altro sulla banchina.
Bevve un altro sorso di tè per celare il tremito delle mani, quel bruciore alla gola che continuava a tormentarlo e di cui davvero non riusciva a trovare spiegazione.
È finita” aveva pensato allora, ed il tè prese un sapore così amaro che ebbe desiderio di rigettarlo. Quando Atena si alzò, un vago profumo giunse alle sue narici; non seppe se era lei, o se era solo l’idea che aveva della donna. Comprese —o meglio, sperò—, nel modo in cui posò la sua tazza sul tavolino, che la sua Capocasa si aspettava qualcosa di diverso e la sua voce ne diede conferma. Tacque ancora, bevendo solo per prendere tempo, senza riuscire a trovare un capo all vuoto che sentiva nella testa. Non c’era più luce, non c’era più nulla.
E poi, improvvisamente, incapace di rimanere rinchiuso in quell’immobilità, anche Horus si alzò. Nella mano stringeva la tazza vuota, sul cui fondo erano rimaste solo poche foglie di tè; ironicamente pensò a Divinazione e quanto avrebbe potuto comprendere qualcosa del suo futuro da quel semplice rimasuglio, se solo avesse avuto un briciolo di fiducia nella branca tanto odiata. Ma mentre posava l’oggetto sul piano, di fianco quella della docente, Horus si ripeté che il futuro non era niente di così nebuloso, non nella sua interezza.
« Io ho avuto una scelta, professoressa. » Esordì allora, con voce risoluta. Rispetto a lui, Atena sembrava sorprendentemente piccola, avvolta nella sua camicia impalpabile. I capelli corti, leggermente scompigliati, e i grandi occhi azzurri la facevano sembrare una ragazzina, ma la forza che emanava da quelle stesse iridi cristallini era tale che Horus credeva seriamente che avrebbe potuto fronteggiare qualsiasi cosa; e per un momento sentì che avrebbe fatto qualsiasi cosa, pur di non deluderla.
« Quando mi è stata offerta la spilla di Caposcuola, il mio predecessore era al San Mungo, da cui io ero tornato da poco. Fu dopo la Battaglia di Ottobre e la scuola era ancora semi distrutta. Ho scelto di farlo non perché non c’era nessun altro, non perché non avessi scelta, ma perché volevo proteggerli, volevo esserci. E non me ne pentirò mai.» Rimase in silenzio sostenendo il suo sguardo; poi avanzò di un passo. « Qual era l’esito in cui aveva sperato? »



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Erano i silenzi e i gesti misurati a svelare molto più di quanto non fossero in grado di fare le parole. Atena li percepì, più che vederli, nella sfumatura tesa e fragile che aveva assunto l’aria che li separava. Il ragazzo le sembrava stanco, come chi è risoluto nello sforzo di restare in piedi contro un vento impetuoso e indifferente. Avrebbe voluto allungare una mano e sfiorare la pelle diafana di quel viso così apparentemente impassibile e scoprire se v’era realmente calore, oltre l’apparenza marmorea. Chissà se le sue dita sarebbero riuscite a raggiungerlo o se invece si sarebbero scontrate contro l’invisibile pellicola di vetro che permaneva tra loro - sarebbe andato in mille pezzi, quel vetro, se solo lo avesse sfiorato?
Eppure nemmeno per un istante attribuì al ragazzo qualità quali la debolezza o l'incapacità; con sua sorpresa si trovò invece ad osservarlo con una punta di orgoglio, fiera che lui fosse proprio un
suo studente.
Seguì in silenzio le movenze del giovane, mentre si alzava e posava la tazza accanto alla sua, e fu con un moto di sollievo che accolse quei movimenti, come se quella semplice oscillazione nella tessitura dello spazio potesse bastare per mettere in moto meccanismi diversi, alla pari degli ingranaggi di un vecchio orologio che lottavano per sopraffare la precedente, pesante, immobilità.

«Non ne ho mai dubitato.» disse piano, annuendo con il capo alle sue ultime parole e sostenendo il suo sguardo – il mento leggermente sollevato verso l’alto, affinché le proprie iridi potessero continuare a sostare nelle sue, nonostante la vicinanza. Non poté fare a meno di pensare che entrambi avessero compiuto scelte simili, seppure in tempi e modi molto diversi, spinti dalla medesima sicurezza e da un'instancabile determinazione.
Sorrise alla sua domanda, abbassando lo sguardo, sorpresa per il quesito inaspettato e divertita per la propria riservatezza che in quel momento sentì essere
a tutti gli effetti minata.
«Auspicavo di trovare un punto d’incontro.» disse infine, vincendo ogni naturale reticenza e avvicinandosi a sua volta di un passo. «Con te. Ne sentivo la necessità. Ero pronta a diverse reazioni da parte tua, ma ammetto che mi hai sorpresa, Sekhmeth. Mi chiedo se non abbia peccato di ingenuità.» un sorriso divertito le inclinò appena un angolo delle labbra. Non lo credeva davvero, salda fino in fondo nelle proprie intenzioni, eppure non poteva negare a se stessa di averlo sperato. Era stata una debolezza da parte sua?
Adagiò nuovamente la schiena contro il bordo del tavolo e, con un tocco della mano sul braccio del ragazzo, lo invitò a prendere posto accanto a lei.

«Sai» disse, dopo una pausa. «Più volte, quand’ero studentessa, mi è stata offerta la spilla da Prefetto.» iniziò a giocherellare con uno dei pianeti che teneva allineati sul ripiano della scrivania, come se inconsciamente ricercasse nuovamente un movimento, incapace di sopportare la minaccia dell’immobilità. «Non l’ho mai accettata.» scosse appena il capo, rivivendo nella memoria l’espressione incredula ed esasperata di quello che era stato il suo Caposcuola di allora. “Non ti capirò mai, McLinder.” aveva sentenziato un giorno in seguito all’ennesimo rifiuto, arrendendosi inerme all’evidenza; lei aveva liquidato la questione con un’alzata di spalle, una penna tra le labbra e il viso già immerso nelle pagine di un libro. Quante cose erano cambiate. «All’epoca la sentivo come un vestito non mio, una sagoma che non riusciva a contenermi, ed ero fermamente convinta a rimanere fedele a me stessa. E lo sono tutt'ora.» Restò alcuni istanti in silenzio, percorrendo con le dita le sfumature circolari del pianeta, permettendo al ricordo di depositarsi nelle menti di entrambi e lasciando al Tassorosso il compito di attribuirgli il significato che credeva - se un significato vi poteva essere. Lei, invece, seguì il filo dei propri pensieri; si chiese, con il senno di poi, se non fosse stato l’egoismo, a quel tempo, a guidarla nelle sue scelte. O ancora, e soprattutto, in quale misura la guidasse ora. Per quali battaglie combatteva? Per quali motivi? Quale parte di lei aveva perso, lungo la strada? Era un interrogativo, quest'ultimo, che di tanto in tanto tornava a pungolarla, imperterrito ed ostinato, riportando a galla l'antico timore di aver irrimediabilmente perduto una versione migliore di sé, incapace di comprendere se fosse soltanto l’ombra di una paura infondata o il tarlo della sua coscienza a pungolarla.
Ricacciò l'interrogativo sotto il velo placido dell'acqua e voltandosi tornò nuovamente a cercare il volto di Horus.
«Sei sicuro della tua scelta?» gli chiese infine, tendendogli il pianetino, come se quell’oggetto avesse il potere di conferire a ciascuno il diritto di parola.
«Sappiamo entrambi, in tal caso, a chi andrà la spilla.» Aggiunse subito dopo, concedendosi l'azzardo di compiere un passo in avanti, certa che lui avrebbe compreso a chi si riferiva.
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view post Posted on 26/2/2019, 20:13
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N
on si era accorto di aver trattenuto il respiro da quando Atena aveva fatto il giro della scrivania. Gli aveva sfiorato il braccio con un cenno elegante della mano sottile e lui l’aveva osservata adagiarsi sul bordo della scrivania come fosse un’amica di lunga data. La delicatezza della professoressa McLinder aveva fatto sospirare diversi studenti sin dal suo arrivo ad Hogwarts, ma c’era qualcosa nella sua aria sognante che affascinava chiunque la vedesse e la udisse parlare. Era come se lei non fosse mai davvero , come se una parte della sua mente fosse irrimediabilmente perduta fra le stelle che tanto amava.
Anche quando prese a giocherellare con un piccolo globo, la sua voce arrivava eterea e Horus si costrinse a tornare a respirare normalmente ed a seguire il suo invito. Le si affiancò, ma gli occhi questa volta sfuggirono la figura di lei per vagare, sperduti, lungo il perimetro dell’ufficio. Il calore del tramonto aveva ormai abbandonato i loro profili, eppure un senso di familiarità e tranquillità accompagnava i loro discorsi, come il fuoco del camino nel salone di casa. Horus non si stupì nell’apprendere che Atena, a suo tempo, aveva rifiutato la carica di Prefetto ed un sorriso sghembo si disegnò sul suo volto. Gli venne spontaneo girarsi e guardarla in viso, ma si trattenne: se l’avesse fatto, Horus si sarebbe sicuramente lasciato scappare la domanda che sentiva premere nel petto: “perché allora ha accettato la carica di Capocasa?
E quel desiderio fu così forte che lui fu costretto a mordersi il labbro inferiore, osservando ostinatamente una pergamena arrotolata sulla mensola della libreria. Erano stati soli così a lungo, che l’idea di avere qualcuno su cui poter contare appariva così fragile che una sola parola poteva mandarla in frantumi. Allora Horus capì l’origine del suo malessere, comprese perché era emerso così prorompente fino al punto di soffocarlo.
Si voltò verso Atena quando lei pronunciò la domanda a cui, probabilmente, non avrebbe saputo rispondere fino a qualche attimo prima. La decisione di lasciare la carica era stata sofferta ed era ancora avvolta dal velo infido del tradimento, della delusione.
Sfiorando la sua mano con le dita, Horus accettò il pianetino che Atena gli porgeva, un globo che avrebbe dovuto conferirgli il coraggio di parlare; oppure, un testimone da consegnare.
Lo rigirò fra le dita, osservando la fattura pregiata, i colori, il materiale. Come era accaduto per l’Astrolabio, i manufatti in possesso di Atena erano particolari e ricchi di una storia che si nascondeva in un riflesso del vetro, in una leggerissima ammaccatura dell’ottone o in un’ incisione nascosta sulla base. Ricordò con un pizzico di malinconia quando, quella notte dell’equinozio, aveva immaginato di recarsi nell’ufficio della docente adducendo una qualsiasi scusa, solo per poter curiosare fra i suoi possedimenti. Ed eccolo lì, in un contesto molto diverso da quello immaginato. « Credo… di essere sicuro. » La sua voce arrochita dal silenzio gli risultò quasi estranea e così si schiarì la gola, stringendo la presa sulla sfera che teneva nelle mani. Aveva la fronte aggrottata e gli occhi grigi erano concentrati sulla superficie del pianetino, come se al suo interno potesse trovare le risposte. « Mi sono reso conto che non potevo lasciare la mia carica prima, né volevo farlo. » Tacque un istante, cercando di trovare le parole giuste. E quando le trovò alzò lo sguardo sul viso di Atena.
« Nonostante quello che ha detto il Preside Peverell, noi studenti siamo rimasti soli… non abbiamo avuto nessun insegnante su cui poterci affidare, perché nessuno rimaneva tanto a lungo. Così gli studenti, i Prefetti… tutti contavano su noi Caposcuola. » Si lasciò trascinare dal filo di quel ragionamento, un nastro rosso che percorreva il dedalo dei suoi ricordi. « Non volevo peccare di superbia, l’altra sera. Ma… mi sono ritrovato catapultato in un ruolo forse più grande di quanto mi spettasse, perché chi doveva esserci ci aveva abbandonati. » Sospirò e con quel gesto tutto il rancore provato nella Torre del Preside svanì.
« Non me ne pento. Ho avuto una scelta, come dicevo, ma ora è diverso. Per questo quella spilla mi sta stretta. Io spero… spero di poter essere utile a Tassorosso anche in un altro modo, ma credo sia la decisione giusta perché questo è il momento giusto . » Si stupì di sentirsi sollevato nell’ammettere quella che era stata sempre una sua paura —una paura che probabilmente lo avrebbe ancora perseguitato: valeva ancora qualcosa, senza la spilla appuntata al petto?.
« Il punto è che non siamo più soli. Ora ci sei tu. » Scelse volutamente di passare ad un tono più informale e le sorrise con dolcezza. Animato da un moto di riconoscenza che gli aveva rassicurato l’anima, strinse il pianetino nella mano destra e si arrischiò ad allungare la sinistra ad Atena, mostrandole il palmo vuoto.
« E ci sarà Amber. Con voi due al timone, Tassorosso non avrà niente e nessuno da temere. »
Abbozzó un sorriso e sentì il cuore vibrare tanto che la commozione gli strinse la gola cosí da non riuscire ad aggiungere altro.
Ricordò quando, poco più che undicenne, si era lasciato andare allo sconforto, strofinandosi gli occhi lucidi per la delusione di esser finito nella “Casata dei mediocri”. Quel baldacchino giallo e nero, così odiato, era poi mutato col tempo, divenendo un nido sicuro, un luogo da proteggere. Tassorosso era la Casata dei forti, di tutti coloro che dimostravano a se stessi e agli altri di potercela fare.
« Io… ho finito il mio tempo. » Sussurrò, rafforzando la presa sul piccolo pianeta solitario.
Tassorosso era casa sua, con o senza quella dannata spilla. Doveva solo trovare il modo ed il tempo di dimostrarlo anche a se stesso.



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Odore di legno, della fiamma di una candela, dell’aroma caldo di una tazza di cioccolato; di lana e di respiri, e di una ciocca di capelli, adagiata sulla guancia, mentre la testa si posa piano su una spalla.
Sensazioni remote, che l’atmosfera di quella conversazione le riportarono alla memoria, come un soffio di vento che gonfia una tenda sottile, nei recessi più reconditi della memoria – fantasmi che forse albergavano ancora tra le mura del castello, intrappolati negli interstizi di tempi passati.
Atena seguì con lo sguardo le dita di Horus lungo le sfumature turchesi del pianetino; lasciò che le sue parole – quiete, ponderate - le si adagiassero nell’animo, come fa la schiuma del mare sulla sabbia fresca del mattino. Respirava piano, rilassata ma attenta, incapace di scacciare la sensazione che qualcosa di fragile si fosse formato nell’aria, tutt’intorno a loro, e che bastasse il minimo movimento per disperderla.
Le parole, prima titubanti e inframezzate da silenzi, presero a scorrere più sicure, non senza un certo sollievo; le accompagnò, di tanto in tanto, con impercettibili cenni di assenso con il capo o inclinando appena la testa all’indietro, affinché le iridi scorressero sul cielo dipinto sul soffitto o indugiassero sul viso del ragazzo, quando percepiva che questi rivolgeva lo sguardo su di lei.
«Lo so.» mormorò, mentre lui ripercorreva gli eventi del passato e quelli, ancora ruvidi sulla pelle, del giorno prima. Non aggiunse altro, ogni ulteriore precisazione si sarebbe rivelata superflua e lei era solita dosare con cura ogni parola.
Alzò invece un sopracciglio, divertita per l’inaspettato passaggio ad un tono più intimo e informale. Colta di sorpresa, un sorriso si allargò sul viso, scoprendo i denti bianchi e una fossetta sulla guancia.
«Non hai ancora fatto in tempo a consegnare la spilla e già ti prendi queste libertà, Sekhmeth, mi chiedo con timore cosa mi debba aspettare da te nei giorni a venire.» si lasciò sfuggire l’accenno di una risata sommessa, spontanea, quasi liberatoria, venata soltanto dall’ostentazione di una finta apprensione; non v’era rimprovero nella sua voce, quanto piuttosto una quieta accettazione. Pose poi il palmo in quello che lui le offriva, mentre l’eco della risata aleggiava ancora sulla curva delle labbra e le iridi si fermavano, vivaci, nelle sue. Gli strinse la mano, accarezzandogli appena le nocche con il pollice. La naturalezza e il calore familiare della stretta le diede la sensazione che quel qualcosa di fragile che aveva percepito formarsi nell’aria andasse lentamente condensandosi, come sospinto da forze e venti impalpabili. Restò in silenzio un istante, godendo di quella sensazione capace di annullare ogni distanza.
Molti pensieri le si erano accavallati nella mente, uno sull’altro, evocati dalle parole del Tassorosso; i ricordi erano tornati alle immagini del giorno della battaglia, voltandosi poi verso la tempesta che si addensava all’orizzonte ed avevano ripercorso infine gli intricati sentieri del destino che, in quella storia assurda, l’avevano condotta sino a lì, a guida di una Casata che ancora faticava a sentire come
sua – se glielo avessero detto, anche solo qualche mese prima, probabilmente non vi avrebbe creduto. Talvolta, nelle notti buie e silenziose, o nelle pause tra i lunghi pomeriggi indaffarati, le capitava ancora di osservare la sua vita come se fosse la storia di qualcun altro, stentando a riconoscere se stessa nei suoi attuali panni e chiedendosi in quale momento, precisamente, ogni cosa aveva iniziato a prendere una forma diversa. Si sentiva come un pezzo di legno che un’accetta aveva tagliato per il lungo, più volte, facendo di una superficie originariamente tonda, una figura spigolosa, in cui paure, forza, dolore, speranza, colpa e innocenza trovavano parimenti posto nel medesimo luogo. A volte le sembrava così difficile contenere in sé ognuna di queste sfaccettature – poco incline com’era, del resto, a farne parola con chicchessia.
Eppure in quel momento, l’uno accanto all’altra, mentre il suo Caposcuola le rivelava le più sincere speranze per Tassorosso, sentì qualcosa raccogliersi nel petto e gocciolare dai bordi, come il succo spremuto di un frutto troppo maturo; le spalle vicine, avrebbe voluto dare voce ad ogni incertezza, ad ogni timore che raggelava il suo animo - si accorse che era qualcosa che non faceva da molto tempo - e che lei, prontamente, aveva sempre schiacciato verso un luogo stretto e angusto del proprio essere. La verità era che non possedeva alcuna certezza e non poteva assicurargli che, nonostante tutta la determinazione di cui era capace, questa sarebbe stata
sufficiente. Non voleva farlo, cedendo alla facile tentazione di parole fatte di zucchero e miele e dal sapore di vuote promesse. Non era ciò che lui meritava. Non era ciò su cui avrebbe permesso a se stessa di adagiarsi.
Il senso del dovere di cui il suo ruolo la investiva e la responsabilità che intimamente provava nei confronti del Tassorosso la persuasero a ricacciare indietro quella sensazione, e con essa ogni sorta di debolezza e timore, come si fa con un boccone amaro, ma necessario. Si limitò a stringergli la mano, un po’ più forte di prima, restituendogli il sorriso, nella speranza che sarebbe stata sufficiente a trasmettere l’impegno di ogni promessa non detta.

«Non posso dire di conoscere a fondo Amber» riprese «ma non ho dubbi che sia la scelta migliore per Tassorosso. Spero di poterla incontrare al più presto, così come i Prefetti.» quest’ultima fu la sola confessione che si concesse, mentre i pensieri tornarono ad ancorarsi - con delicatezza, senza costrizione - alla solidità della realtà ed alle incombenze che richiedeva il momento presente. Annuì con il capo. «Comprendo ciò che vuoi dire, e riconosco che sia la scelta giusta, per te, nonostante, già lo sai, non fosse l’esito in cui avevo sperato. Hai dimostrato – stai dimostrando – grande maturità, e un'integrità che è dono di pochi. Hai nuove strade da percorrere, ora. Troverai il tuo modo, qualunque esso sia. Io credo in te.» Si morse appena il labbro inferiore, come soppesando tra sé il sapore di quelle parole e decidendo infine che, sì, erano quelle giuste – erano ciò in cui lei credeva, fermamente. Si scostò appena dal tavolo, prendendogli anche l’altra mano e raccogliendo entrambe tra le sue. «Non sarai più il mio Caposcuola, ma continuerai ad essere un mio Studente. Ricordatelo.» fissò lo sguardo nelle iridi argentate, come per assicurarsi di iscrivervi a dovere il messaggio; era il suo modo per dirgli che avrebbe potuto contare su di lei.
Percorse con lo sguardo il suo viso, la tenue luce della stanza sembrava divertirsi a scivolare sulla pelle diafana o sui riflessi rosso accesi dei capelli; osservandolo da vicino, si accorse che aveva una voglia chiara accanto all’occhio - chissà perché prima di quel momento l’aveva notata a malapena. Si rammentò allora dell’aria stanca che aveva scorto tra i suoi lineamenti, solo qualche minuto addietro, del fremito che aveva percorso le sue dita, prontamente represso. Fu grata - e lo fu davvero - che le linee del suo viso, delicate e pungenti al tempo stesso, sembrassero ora più distese.

«Non voglio trattenerti oltre.» la voce era morbida, quasi un sussurro «Sono successe molte cose nelle ultime ore. Immagino che sarai stanco. Hai bisogno di riposare.» sciolse la stretta dalle sua mani; nel movimento le dita sfiorarono la liscia superficie del pianetino, che lui ancora stringeva. «Urano.» *Dio greco del Cielo* recitò nella mente, come ripetendo un antico mantra, spostando lo sguardo sulla sfera ed accarezzando un’ultima volta le sfumature circolari. «Tienilo tu.» *per favore* gli comunicò con lo sguardo. In quel momento non avrebbe saputo dire il motivo, ma ebbe la netta sensazione che fosse la cosa giusta da fare.
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view post Posted on 18/5/2019, 15:47
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Horus R. Sekhmeth

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N
on seppe dire cosa s’era aspettato da quell’incontro. Inquinato da un sentimento di rancore e frustrazione, Horus si era avvicinato a quell’ufficio completamente esausto nel corpo e nella mente. Le ferite, aperte nel corso della sera precedenti, avevano appena smesso di sanguinare, ma rimanevano chiaramente visibili e tiravano la pelle ad ogni movimento. Poteva quasi vederle dipingersi come sottili pennellate bianche sulle proprie dita, quelle stesse mani che solo qualche ora prima erano state ali furiose e pesanti. Così mentre il quieto torpore di quella sera calava su di loro, ed il silenzio era come una calda coperta, Horus socchiuse gli occhi ed il suo sguardo sembrò vacillare sotto il peso di una stanchezza che ora, scevra dalla tensione, si impadroniva di lui. Non era, tuttavia, una fatica che doleva alle ossa e ai muscoli; era semplice, quasi primordiale, la stessa che provava al termine di una lunga corsa o un volo difficile.
Così la risata argentina di Atena ebbe lo stesso effetto di una scrosciata d’acqua fredda sul viso accaldato dalla sonnolenza e lui sorrise, quasi automaticamente. Non si sentì punto dal rimprovero, consapevole di quanto questo fosse fittizio, ma si sentì invece benedetto dagli Dei.
Solo fino a qualche ora prima si era perso nella disperazione di una delusione che gravava sulle sue spalle, sulle difficoltà di un futuro instabile e arido. Si era sentito completamente solo, e questa volta lo aveva fatto con la consapevolezza che la solitudine non era più un pregio, ma un difetto.
Aveva creduto che Atena, così schierata insieme a Midnight e alla Morgenstern, fosse l’ennesimo soldato in una marcia di egoismo e arroganza. L’ennesima figura pronta ad abbandonare su tutti loro il peso degli errori, di una scelta codarda, di una propensione malvagia. Invece era lì con lui, una giovane donna accarezzata dalle stelle, una colonna sottile ed eterea come le volute del calore di quel tè, ma così reale da toccare penetrare nell’anima. La speranza che sbocciò nel suo petto aveva il sapore del miele, come di miele era la sua stretta, il dolce tocco delle sue dita. Rimase in silenzio e gli occhi seguirono il movimento delle mani di Atena, le orecchie accoglievano le sue parole colme di genuina sincerità. Non c’erano vane promesse, non c’erano frasi fatte. C’erano solo un ragazzo ed una donna, uno studente e la sua professoressa. Allora le labbra si incurvarono in un’espressione consapevole, nuda. Alzò gli occhi su di lei e nel suo viso di luna, nei suoi occhi di cielo, c’era un’offerta: di pace, di tregua, di alleanza, di fiducia. Ricambiò così quella stretta e quando Atena volse l’altra mano in sua direzione, lui l’accolse, stringendo tra il suo palmo e le dita il piccolo pianeta ceruleo, testimone silenzioso di quel patto. Annuì e non disse nulla, non perché privo di argomentazione, ma perché riconoscente per ciò che Atena gli aveva riservato. Non si trattava più di Horus Sekhmeth, ma di Tassorosso; una spilla, si disse, non l’avrebbe reso meno appartenente a quella Casata; né lo avrebbe privato della fiducia che lei gli aveva donato. Tuttavia schiuse le labbra, desideroso di rispondere, ma scoprì di non avere voce. Così sospirò e quasi gli sembrò che attraverso di questi la sua anima si liberasse da un nugolo di falene che s’era annidato nel suo petto e che fino a quel momento avevano occupato la sua cassa toracica, senza trovare via di fuga.
« Lo ricorderò. » Infine rispose e la sua voce, leggermente arrochita dal silenzio, gli sembrò appartenere a qualcun altro.
Va bene così
« Con tutto me stesso, con tutto il mio cuore.. » *Non abbandonarci, anche tu, ti prego.* E ricambiò il suo sguardo con la stessa intensità. Voleva credere in Atena McLinder, l’Auror del Ministero, l’Insegnante di Astronomia, la Capocasa Tassorosso. E voleva credere in se stesso.
In risposta al sussurro di lei, Horus le sorrise riconoscente.
« Sì… »
Era stanco, inutile negarlo, e desiderava tornare nel calore del suo letto. Sarebbe passato in Sala Comune, avrebbe cercato Amber per chiederle un incontro; avrebbe guardato il ritratto di Tosca e lo avrebbe fatto con serenità, la stessa con cui si sarebbe tolto la spilla dal petto, un’ultima volta.
Urano
Horus guardò Atena per un lungo momento prima di osservare nuovamente il pianeta. Sfiorò col pollice la superficie, così come lei poco prima aveva fatto con le sue nocche. Poi lo strinse con entrambe le mani e lo portò all’altezza del petto.
« Sarà al sicuro. » Replicò, riconoscente e le regalò un ultimo stanco, ma luminoso sorriso.
« Allora, buonanotte professoressa. » Si congedò, avvicinandosi alla porta e aprendola con la mano sinistra. La varcò, ma sulla soglia Horus indugiò un istante. Poi, voltandosi, la chiamò:
« Atena. » Assaporò sulle labbra quel nome, sicuro che non l’avrebbe pronunciato più molto presto.
« Grazie. »
L’indomani, il cielo avrebbe avuto il profumo fragrante di un nuovo sentimento dal sapore di spezie e miele. Horus era certo che le sue ali, fendendo l’aria e sotto lo sguardo benevolo delle stelle, avrebbero avuto la forza non più di una meteora destinata a spegnersi, ma dei venti di Urano.

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