C’era il caos.
C’erano gli incessanti passi, la polvere e il caldo.
C’erano le grida, il sangue che macchiava la sabbia gialla, i singhiozzi delle donne e dei bambini.
C’era l’odore di bruciato, di violenza e di paura.
C’era.In ginocchio, a terra, teneva le mani immerse nella sabbia, respirava a fatica.
Tossiva, cercava di lasciar fuoriuscire la sabbia che le stava impedendo di prendere aria.
Boccheggiava, il caldo le aveva ustionato la pelle e profondi graffi le marchiavano il corpo lasciando scorrere il sangue lungo la pelle sporca.
Strinse la sabbia sotto le mani, la sentì incastrarsi fra unghie, mentre con forza cercava di tornare in piedi, di tornare sui suoi passi.
C’era fumo denso e ombre che correvano ovunque. La confusione le annebbiava la mente e le tempie pulsavano diffondendo un’emicrania che le impediva di tenere gli occhi del tutto aperti. Mentre a fatica si solleva sulle gambe, tornando in posizione eretta, copriva con la mano il sole che, forte, rifletteva sulla sabbia, come se quest’ultima fosse una distesa di piccoli pezzi di vetro rotti. Non era certa di capire dove fosse, o meglio si convinceva di non saperlo e addosso portava un peso che cercava di spingerla sempre più a terra. Con le spalle curve, le braccia ad avvolgere il petto, provava a farsi da scudo, a porre resistenza, ma sentiva come se una parte di lei fosse altrove, persa.
Aprì del tutto gli occhi per la prima volta, erano passati minuti, forse ore, lasciò che la luce penetrasse le sue iridi blu. Le pupille si strinsero mentre una fitta alla testa la costrinse a sollevare l’avambraccio, tutto era confuso e la luce, troppo forte, le impediva di mettere fuoco lo spazio che la circondava.
Tuttavia, il contatto con il duro acciaio dell’armatura accese in lei qualcosa, e proprio in quell'istante le fu chiaro che era inutile continuare a nascondere ciò che in realtà conosceva bene.
Con un semplice gesto allungò le mani di fronte a sé, osservando con attenzione ogni dettaglio di quel vestiario. Iniziò, così, a prendere più coscienza del suo corpo, a sentire il peso della corazza sulle spalle, lo scudo sfiorargli le scapole e la spada toccarle la gamba.
Ora tremava, la paura iniziò ad avere il sopravvento e il peso diveniva sempre più grande da sorreggere.
La consapevolezza era giunta e con essa ogni cosa le sembrò familiare. Volse lo sguardo su ciò che la circondava, scorgendo le mura di una città distrutta che ergevano fronte a lei stanche, sconfitte. Le urla, i boati divenivano sempre più forti e i lampi delle esplosioni sempre più nitidi. Era sola, ed era di nuovo lì.
Il panico sopraggiunse senza chiedere alcun permesso ma non fermò l’avanzare dei suoi passi verso la cinta muraria. Si trascinava a fatica, sollevando i cumuli di sabbia che riempivano le sue calighe.
Dove erano gli altri? Perché era sola?I sensi di colpa avevano iniziato ad intaccare la sua mente, come ventose, premendo talmente forte da lasciare accelerare i battiti del cuore senza alcun controllo.
Tossì, portando il polso alle labbra mentre con passi cadenzati e attenti scavalcava le grandi pietre sulla sabbia. Il fumo era sempre più intenso ed il silenzio, ora, era spaventoso.
L'impulso di urlare venne frenato dal terrore che, ormai, aveva preso il pieno possesso del suo corpo ora tremante.
Dove erano tutti? Cosa stava succedendo?Iniziò a piangere, sentiva il peso di tutto ciò che la stava circondando. Sì, lo sentiva premerle sullo stomaco dandole la nausea. Era colpevole, aveva preso parte a qualcosa di così grande e tremendamente sbagliato da non riuscire a perdonarselo, sebbene non fosse stata una sua decisione o almeno in parte.
A pochi metri dagli ammassi di pietre distrutte, il fumo nero e l'odore della carne bruciata avanzavano diffondendosi nel cielo ormai grigio. Mentre con coraggio cercava di addentrarsi per scoprire cosa si celasse al suo interno, una sagoma apparve nella fitta nebbia scura. Davanti a lei la figura di una bambina in lacrime, che la osservava con gli occhi spenti e lo sguardo perso nel vuoto, la indusse ad avvicinarsi. Poteva aiutarla, poteva fare qualcosa per lei, poteva rimediare, farle sentire che non era più sola.
Così si avvicinò e non appena i metri divennero centimetri, allungò la mano cercando di sfiorare il corpicino minuto. Poteva vedere chiaramente quanto i segni di quella battaglia l'avessero coinvolta, i lividi e le ferite le segnavano la pelle e, a quella visione, non poté che sentire un pugno diretto allo stomaco.
«
-H-hey!» Quando posò le mani sulle sue esili spalle la tirò a sé abbracciandola, poi la strinse. Il contatto con la pelle gelida e delicata della bambina la fece rabbrividire.
«
Va tutto bene, sono qui.» Cercò di rassicurarla.
Un soffio d'aria abbracciò quel momento, mentre l'eco di una voce inondava la sua mente come fa un fiume dopo ore di instancabile pioggia.
Perché?Perché?Perché?Il flebile suono di quella domanda riecheggiò nell'aria mentre piano piano il corpo della bambina si sgretolava fra le sue braccia. Come polvere si dissolse, lasciandosi trasportare dalla scia di vento improvvisa. Quest'ultima spostò la foschia che copriva ciò che si celava al di là di quello spazio, e fu allora che vide tre corpi a terra. Tra loro i capelli corvini e il volto pallido, rivolto verso il cielo, non le lasciò alcun dubbio nel riconoscerne l'identità: era la bambina che poco prima stringeva a sé e, affianco a lei, un uomo e una donna, probabilmente la sua famiglia.
«
No-»
Si trascinò nella sabbia per raggiungerli. Piangeva, si struggeva nel vedere quello che era stato fatto e i sensi di colpa la invasero. Aveva preso parte anche lei a quella battaglia e la visione di quel risultato, così crudo, la uccise senza alcuna esitazione.
«
-no, no…»
Ansimava, la tremenda angoscia di avere la conferma che tutto ciò che stava vedendo era reale le lacerava la pelle, come una lama affilata alla quale basta un delicato tocco per recidere la carne senza alcuna difficoltà.
Ma, quando fu a pochi passi da loro, una luce la colpì in pieno, poi il buio.
Non vedeva più nulla.
***
«
NO!.»
Sbarrò gli occhi mentre il respiro affannato le gonfiava il petto con violenza: stava sudando e il terrore era ancora dentro di lei.
Alla vista degli archi ogivali, le volte a crociera e le ampie vetrate che scendevano verso il pavimento, Megan realizzò di essere in Infermeria e fu in quel momento che sentì la mano stretta da una presa delicata e il suono dolce di una frase.
Abbassò lo sguardo, seguendo la voce calda e familiare, focalizzando la figura che accanto a lei, a pochi centimetri, le teneva la mano.
«
W-wolfgang,-» le iridi blu incrociarono quelle cristalline del ragazzo mentre un sorriso, appena accennato, si palesò sul volto. Il senso di tranquillità l'avvolse come il calore di un fuoco in una giornata fredda, polare.
«
-perché sei qui?-»
Sebbene la presenza del ragazzo avesse acceso in lei una luce, il fatto che lui la vedesse in quelle condizioni la imbarazzava. Benché provasse a nasconderlo, a mostrarsi forte anche di fronte all'evidenza, nell’espressione del Serpeverde era chiaro quanto poco fosse credibile la maschera che stava indossando.
«
-Vedi? In qualche modo l'ho pagata.» aggiunse mostrando un sorriso amaro. Il riferimento a quanto era successo qualche mese prima al duello era chiaro, come era chiara e limpida la domanda che ogni volta si rivolgeva:
Perché continui ad esserci per me?Dopo tutto quello che le aveva fatto, dopo il male, l’indifferenza, le barriere, lui era sempre lì per lei.
Sapeva bene di non meritarlo affatto, eppure continuava a non essere capace di manifestare ciò che provava realmente, quanto apprezzasse quei gesti e quella preoccupazione. Ma proprio in quel limite che percepiva la paura, e la consapevolezza si faceva spazio facendole comprendere di non volerlo perdere, perché sentiva quanto fosse importante per lei.
Così si arrese a quella domanda, provò a concedersi, ad abbassare qualsiasi muro e rilassò il proprio corpo totalmente. Lui era lì per lei, di nuovo, e vedeva, percepiva, il senso di protezione.
La tensione si disperse tra le morbide e calde coperte lasciando spazio ad una confessione sincera, priva di qualsiasi nascondiglio. Non era facile, non lo era affatto, il ricordo le batteva in testa come un martello contro un tubo di ferro. Lo sentiva rimbombare, provocarle un senso di nausea, poi le emozioni e gli odori riaffiorarono con violenza.
«
-Ho visto la guerra… H-ho p-partecipato a uno sterminio.-» la voce le tremava, il racconto era troppo doloroso e gli occhi lucidi evidenziavano quello stato.
«
-Peverell, la Scuola di Atene, Gerusalemme.» farfugliò quelle parole, mentre la gola iniziava nuovamente a chiudersi.
«
Non ero pronta, Wolf. Non lo ero.»
Sospirò mentre a fatica fece scivolare la mano dalla presa di lui portandola agli occhi, per frenare le lacrime.
«
Ho fatto del male di nuovo. Sì, mi sono difesa è vero, ma quello che ho visto è stato terribile.-» il nodo diveniva sempre più stretto, ogni parola pesava come un grosso macigno che, a mano a mano, le riempiva lo stomaco.
«
Mi chiedo se è giusto far vivere un'esperienza così a dei ragazzi. Non è un gioco!»
Il petto iniziava a farle male, memore del ricordo troppo fresco e dell'incubo che aveva tormentato le sue ore di riposo.
Era viva e sebbene fosse grata di questo, non riusciva a staccarsi del tutto da quelle sensazioni.
«
Per favore, resta.» la mano scivolò lungo le coperte bianche a cercare le dita di Wolfgang. Le sembrava così assurdo ma era lì che trovava la sua sicurezza, una sensazione di protezione che l'avvolgeva, come se lui fosse la sua ancora, a cui riusciva ad aggrapparsi prima di essere inghiottita dal buio.
«
Resta.»