Oneiric

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view post Posted on 26/4/2019, 16:30
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❝ Bolle di cristallo ❞

contest a tema, Aprile 2019
Dall'alba dei tempi, Maghi e Streghe si vedono affidare un'entità che li assista nella realizzazione degli Incanti: si tratta dei Famigli, di cui verrà discusso in questo volume. Le forme che tendono ad assumere sono quelle di piccoli animali: il più noto è indubbiamente il gatto nero, nei tempi medievali spesso bruciato sul rogo assieme alla sua Strega; altre forme possibili sono quelle di rospi, topi, serpi o corvi. Questi corpi non sono altro, in realtà, che le manifestazioni materiali di guide sovrannaturali, elementali o astrali (per un approfondimento sulle tipologie di Famiglio si rimanda alla sezione tre, paragrafo sette). La portata dei loro poteri è tuttora un mistero, ma appare chiaro che siano in grado di potenziare le capacità del Mago a cui si uniscono [...]❞

Le pupille si staccarono dalla pagina antica e andarono a sondare lo spazio circostante, illuminato dalla fiammella tremolante di un unico mozzicone di candela. Sorvolarono oggetti quotidiani resi misteriosi dal velo delle ombre, fino a riconoscere il luccichio che cercavano. Un punto di luce riflessa intorno al quale, man mano che la vista si abituava alle tenebre, si rivelava una protuberanza panciuta. Una figura scura si muoveva con lentezza, i suoi bordi ondeggiavano con la stessa sinuosa maestosità delle creature degli abissi. Nella stanza addormentata, un respiro venne mozzato a metà.
«Willy.» Fu solo un sussurro. «Mi sono dimenticata di darti da mangiare, oggi, vero?»
La ragazzina buttò da parte le coperte e scattò in piedi, rabbrividendo quando le piante nude toccarono il pavimento freddo. Nello stesso istante, risuonò nel silenzio il tonfo del libro che aveva fatto cadere.
«Oh, accidenti...»
«Jolene, sei ancora tu?» La voce assonnata di Nancy era intrisa di rassegnazione.
«No, è solo un sogno.»
L'altra Corvonero rispose con uno sbuffo e il fruscio delle coperte mentre si rigirava. «Giuro che prima o poi dormirete in Sala Comune, tu e il tuo pesce rosso.»
Era meglio non replicare: Nancy non era tipo da lanciare minacce a vuoto. La quindicenne era affezionata a Jolene – quello scricciolo del primo anno, nei suoi occhi si leggeva ancora la nostalgia di casa –, ma la sua pazienza aveva un limite. Fortunatamente, le altre due compagne di stanza avevano il sonno pesante, e non si erano mai accorte delle ore che abitualmente passava a leggere tra le coperte. Il fruscio delle pagine non sarebbe stato un problema, se solo, di tanto in tanto, Jolene non si ricordasse di qualche importante incombenza. Che fosse trovare un certo romanzo nel baule, una penna con cui prendere appunti o nutrire Willy, in qualche modo risultava insopportabilmente rumorosa. La luce scarsa non aiutava la gestione dei movimenti, e fu quasi alla cieca che infine recuperò il tomo caduto e lo rimise sul letto.
Prese il piattino con il mozzicone di candela e, in punta di piedi, raggiunse il mobiletto su cui normalmente si poteva trovare la piccola residenza di Willy. Man mano che si avvicinava, la fiamma illuminò il cristallo panciuto che era tutto il suo mondo, decorato di pietre e coralli di plastica; il pesciolino si muoveva in lenti cerchi e le sue pinne sottili ondeggiavano pigramente. Si avvicinò alla piccola luce quando Jolene posò il piattino sul mobile producendo un rintocco metallico che le parve assordante. Pensava che, come famiglio, Willy non valesse poi granché: avrebbe quantomeno potuto insegnarle ad essere un po' più silenziosa, lui che ne sapeva qualcosa. Invece si limitava a fissarla con il suo occhio vacuo, assistendo ai suoi tentativi di adattarsi ad un mondo troppo vasto per poter essere gestito.
Si era sempre mossa tra le quattro mura di casa, avanti e indietro, avanti e indietro all'infinito, con il naso immerso nelle storie. Non aveva mai pensato che fosse un'esistenza claustrofobica, con quelle mille finestre di carta era come nuotare nella trasparenza di un acquario. Il giorno in cui era uscita per davvero, era piena di aspettative nel guardare i paesaggi che si dispiegavano dietro ai finestrini dell'Hogwarts Express.

❝La condivisione emozionale tra Famiglio e Strega non è avvenimento raro; lo scambio ha possibilità di muoversi ugualmente nelle due direzioni, da Guida ad Umano e viceversa. Nel primo dei suddetti casi, saranno i moti più basilari – quali sonno o fame, per la maggiore – ad essere condivisi; nel secondo caso, in forma semplificata verranno trasmesse le emozioni della Strega, manifestandosi nella Guida in forme che talvolta si sottraggono a qualsivoglia controllo [...]❞

Forse durante il viaggio Willy aveva girato nel suo vetro con più urgenza, più energia del solito. Forse, nel suo mondo adagiato sulle ginocchia della ragazzina e circondato dalle sue mani bianche, aveva intravisto in una occasionale bolla d'aria le fantasie di castelli meravigliosi, di dame imprigionate in quadri parlanti e di armature poste a sorvegliare lunghi corridoi di pietra. Aveva distinto, nei giorni a venire, il contrasto tra la magia delle fantasie e quella della realtà?
Era altresì possibile che, di tali faccende, al pesce non importasse poi molto. La verità era che anche lui aveva le sue preoccupazioni da non sottovalutare: non era semplice la sua esistenza di preda perfetta, non in un castello brulicante di rapaci, corvidi e felini. Il regime di terrore aveva avuto inizio dal viaggio stesso, quando per tutto il tempo aveva avuto puntato addosso lo sguardo famelico di un cucciolo di gatto. Né Jolene né Helena, la ragazzina che teneva in braccio la feroce palla di pelo, si erano accorte del rischio che aveva corso. Per non parlare di quella volta, qualche settimana dopo, in cui le ragazze avevano lasciato aperta la finestra del dormitorio, prima di abbandonarlo lì per correre alle lezioni. Se l'era vista proprio brutta, il povero Willy, quando un gufo reale aveva proiettato l'ombra immensa delle sue ali contro la finestra. L'acqua era diventata improvvisamente gelida, ed erano stati attimi di puro terrore mentre il minaccioso postino lasciava la sua missiva sul letto di Nancy.
Erano entrambi impegnati a sopravvivere, pesce e ragazzina. Tremanti di paura, lanciati in una realtà troppo vasta per loro. Condividevano le stesse emozioni, anche se il fatto non aveva niente di mistico o altisonante, come invece pareva suggerire quello strano libro. Era un'opera babbana, presa ad un mercatino delle pulci per poche monete, dopo aver convinto Oscar che avrebbe sensibilizzato la figlia sui bisogni del suo animaletto. Il manuale trattava effettivamente degli aspetti più basilari della cura di un famiglio, anche se la sua affidabilità poteva considerarsi una questione aperta.

❝In cambio dei servigi del Famiglio, è compito della Strega prendersi cura del suo benessere soddisfacendo i suoi bisogni imprescindibili. Il nutrimento costituisce il più importante di essi: ogni Guida privilegia una diversa alimentazione in base al corpo in cui è incarnato, tuttavia si crede sia un tratto comune a qualsiasi forma la predilezione per la sostanza stessa del potere della Strega, ovvero il suo sangue. Il prezioso liquido deve essere somministrato durante un apposito rituale, volto ad intensificare il legame tra le due entità.❞

Probabilmente, del sangue di Jolene, Willy non avrebbe saputo che farsene. La ragazzina, dal canto suo, non era ancora arrivata a leggere il passaggio incriminato, quindi fu con assoluta naturalezza che afferrò il barattolino del cibo per pesci. Fece cadere qualche granulo di mangime nell'acqua, e Willy non si fece pregare.
Jolene pensava di essere l'unica in tutto il castello a prendersi cura di una simile creatura. Gli altri sembravano prediligere animali più attivi, più autosufficienti. Animali che fosse possibile accarezzare, con cui giocare nelle belle giornate davanti al Lago Nero. Inutile dire che, causa l'impossibilità di Willy di abbandonare il proprio acquario, nulla di tutto ciò era possibile a loro. Non che Jolene si fosse lamentata, quando finalmente Virginia le aveva concesso di avere un animale domestico. Sarebbe stato impossibile convincerla a prendere un gatto, o perfino un Asticello: anche nel tempo limitato delle vacanze, avrebbero creato disordine, e per la verità la loro semplice presenza l'avrebbe mandata fuori di testa.
Nel tempo, Jolene aveva cominciato a vedere la totale dipendenza del pesce dalle sue cure come un nuovo legame che agli altri era precluso. Se non fosse stato per lei, la creaturina sarebbe stata del tutto indifesa, senza poter opporre al mondo esterno nient'altro che un colpo di pinna in segno di protesta. Esemplare era un episodio avvenuto qualche settimana addietro: quando ci ripensò, un senso di malessere misto a rabbia le piegò all'ingiù gli angoli della bocca.
Si trovava sul prato di fronte alla scuola, il Lago Nero poco lontano rifletteva il cielo sereno di una delle ultime belle giornate prima dell'inverno. La maggior parte dei ragazzi dal terzo anno in su era in visita a Hogsmeade, quindi c'era la giusta tranquillità per poter leggere – non che ci fosse al mondo situazione avversa che potesse impedirglielo, sia chiaro; ma era apprezzabile un po' di silenzio, una volta tanto. Si trovava seduta, china sul tomo del momento, e Willy nuotava spensierato poco lontano da lei. Era talmente immersa nella lettura da non badare ai passi che si avvicinarono indisturbati. Alzò lo sguardo solo quando, finalmente, si accorse di un movimento alla sua destra.
«Ciao, White.»
Di fronte a lei, Marcus Marceline si rialzò velocemente, facendo tremolare l'acqua nel vetro di Willy mentre lo sollevava tra le proprie mani. Jolene guardò interrogativamente il ragazzo, Corvonero del secondo anno, che già da qualche tempo sembrava aver preso in simpatia lei e il suo pesce rosso.
«Come dicevi che si chiama?»
«Willy, me lo richiedi ogni volta.»
«Oh, giusto. Beh, non è colpa mia se hai scelto un nome così banale. Leggi in continuazione, non hai trovato niente di più originale lì dentro?»
Marcus non aveva niente contro Jolene, ma aveva da poco scoperto che quel modo di apostrofare gli altri ragazzini gli faceva guadagnare grosse risate da parte dei suoi amici. Si era rivolto più a loro che a lei, alzando appena la voce, e poco lontano in un gruppo di ragazzini qualcuno ridacchiò.
«Beh, il tuo gufo si chiama Bob.» Si alzò in piedi, irrequieta nel vedere Willy in mani estranee. Marcus intuì il suo pensiero, e indietreggiò di un passo.
«Senti, perché te lo porti sempre dietro? Non puoi comunque farci niente, non è di grande compagnia. Non sarebbe meglio se lo liberassi?»
«Non dire stupidaggini, Marcus.» Tese le mani per farsi ridare il suo famiglio, ma il ragazzo prese a camminare a passi cadenzati, stringendo la presa. Non le piaceva quella situazione, cominciava ad essere preoccupata.
«Lo dico per il suo bene, sai, White. Questa roba è minuscola, nemmeno a te piacerebbe viverci.»
«Per piacere, ridammelo. Dove vuoi andare?» La voce, traditrice, cedette quando si accorse della distanza troppo ridotta tra loro e le sponde del Lago.
«Voglio ridare la libertà a questo povero animale.»
Così dicendo, Marcus fece per slanciarsi in avanti. Trovò, a frapporsi fra lui e l'acqua, il corpo mingherlino di una White stranamente decisa. Il suo sguardo si sollevava furente sulla figura che la sovrastava di tutta la testa.
«Non osare!» Gridò, e più di uno studente si voltò verso quella curiosa scena. I piccoli pugni, bianchi e tremanti, si sciolsero per strappare Willy dalle mani di Marcus. Il dodicenne non oppose resistenza, stupito da un cambiamento tanto repentino nella dolce Jolene.
«Stavo solo scherzando...»
Lei non lo stette a sentire. Con la bolla di vetro stretta al petto, gli lanciò un ultimo sguardo alterato prima di dirigersi come una furia verso le cose che aveva lasciato sull'erba. Raccolse la borsa e il libro e, senza voltarsi indietro, corse verso il castello; le lacrime le bagnavano le guance prima ancora che oltrepassasse la soglia.
Da allora non aveva più rivolto la parola a Marcus. Le sue intenzioni potevano essere state scherzose, ma inavvertitamente aveva toccato una corda sensibile nell'animo della ragazzina. Le sue parole, la minaccia contenuta nei suoi gesti l'avevano colpita in un modo che nemmeno lei avrebbe saputo spiegare. Si era immaginata Willy nelle profondità del Lago Nero, senza la protezione del suo perimetro limitato, e a quel pensiero si era sentita soffocare come se fosse lei stessa ad essersi immersa senza preoccuparsi di respirare. Forse non le piaceva vivere in un acquario, ma l'alternativa la terrorizzava.
Venne riportata al presente nel momento in cui rimase nell'oscurità totale: la fiamma morì tra gli ultimi rimasugli di cera, e le ombre si fecero più dense. Si alzò, e con la punta delle dita accarezzò Willy attraverso la superficie fredda del vetro. Poi, riuscendo a non urtare niente nel suo cammino, raggiunse il letto e si infilò sotto le coperte.
Quella notte sognò le profondità del Lago Nero, e le vetrate che si diceva vi si affacciassero dalla sala comune Serpeverde. Trovò che fosse una prospettiva curiosa, per lei che in quella parte dei sotterranei non aveva mai messo piede. Poi si accorse di essere dall'altro lato, quello sconfinato degli abissi, e di fluttuare come una creatura marina.



La role è ambientata durante il primo anno di Jolene ad Hogwarts, ma la difficoltà a gestire il divario tra realtà e l'immaginazione che nutre sui libri rimane attuale.
Le informazioni contenute negli "estratti" sono state raccolte su vari siti nel meraviglioso mondo di internet.

P.S. Potrei avere il titolo in corsivo e in questo colore, plis? #D9F9F0 :fru:
 
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view post Posted on 16/8/2019, 12:16
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Ballo delle Rose e delle Spine
Un nuovo anno scolastico è passato: nel caso di Jolene, il primo nelle vesti di infermiera al Castello. Partecipa alla festa assieme a Mìreen Fiachran, avendo così modo di approfondire la sua conoscenza. Le due arrivano a sera ormai inoltrata, e decidono di sciogliere ogni tensione affidandosi al fornito bar allestito per l'occasione. La missione di Mìreen sembra quella di far perdere alla rossa ogni freno e ogni limite che normalmente traccia intorno a sé. Le due sono ormai alticce quando Mìreen, per motivi che sfuggono alla comprensione di Jolene, la trascina in una folle corsa fino al labirinto. Lì, per gioco, le due si perdono di vista, e Jolene si ritrova a vagare in totale solitudine tra le alti siepi illuminate solo dalla luna.



Il tessuto leggero dell'abito svolazzava dietro alla sua corsa. Dopo essersi sbarazzata delle scarpe i suoi piedi avevano una presa più ferma sul terreno, conferendole sicurezza a dispetto della coordinazione compromessa. Al principio, tra le risate irregolari che le consumavano il fiato, Jolene si sentì come se nulla potesse arrestare la sua avanzata. Si illuse che il suo gioco privo di senso avrebbe presto trovato la sua allegra conclusione nel cuore del labirinto, dove Mìreen avrebbe unito il proprio riso al suo. Si sentiva leggera e incurante della direzione in cui sfrecciava: la sua strada sfociò prima in un bivio, poi in un altro ancora, e lei imboccò il primo sentiero senza fare attenzione a quale fosse. La Luna illuminava il suo percorso, e non dava peso al premere e all'addensarsi delle ombre.
Improvvisamente si arrestò, appena in tempo prima di farsi inghiottire da una siepe di rovi che le bloccava la strada. Indietreggiò, incerta, e il fiatone andò sostituendosi alle risate nello smuoverle il respiro. Qualche ciocca le era finita negli occhi, e la scostò impazientemente con la mano libera. Nell'altra stringeva ancora la bottiglia dell'alcoolico e aveva versato qualche goccia sull'abito, anche se non se ne avvide. Si voltò indietro e rimase così, man mano che i secondi snocciolavano un minuto e poi un altro, incapace di prendere una qualsiasi decisione. Avrebbe dovuto ripercorrere l'ultimo tratto prima di trovare un bivio, ma non riusciva a muovere il primo passo.
Fu come se vedesse per la prima volta il luogo in cui si trovava: di fronte al suo sguardo smarrito, siepi altissime disegnavano uno stretto sentiero illuminato dal freddo chiarore naturale. Rabbrividì quando constatò che erano rovi quelli che si intrecciavano fino al cielo: tra la loro spinosa oscurità spuntavano nere come gemme le teste delle rose, private dalla notte del loro sangue. Sentì d'un tratto il freddo che le strisciava lungo le braccia e il petto, e si strinse come meglio poté. Anche il terreno era gelido sotto alle piante nude, e rivide per un istante le sue scarpe abbandonate là dove aveva lasciato Mìreen. Nessun indizio che fosse nei paraggi, anche se il silenzio non era perfetto: sussurri incorporei sibilavano su quelle che parevano note di una musica lontana, pronta ad affievolirsi e sparire un battito di cuore dopo l'altro. Erano forse i suoni della lontana festa, resi sinistri e striscianti dall'atmosfera del labirinto? Jolene non lo sapeva, e non perse altro tempo ad interrogarsi. Si mosse, un passo dopo l'altro, acquistando sempre maggiore urgenza man mano che cercava di farsi più piccola che poteva. Aveva l'impressione che i rovi protendessero le loro spine verso di lei, voraci.
Camminò ancora e ancora, man mano che il nervosismo cresceva nella sua mente annebbiata. Avrebbe dovuto trovare una biforcazione già da tempo, ma il sentiero proseguiva senza via d'uscita. Come se non bastasse, fu sicura che i rovi si stessero davvero muovendo. Inizialmente aveva pensato fosse l'effetto della sua suggestione, l'ennesimo sintomo dell'ebrezza. Ma ora non poteva più dubitare: rimaneva appena lo spazio per camminare in linea retta, e si restringeva sempre di più. Abbandonò qualsiasi controllo e, lasciata cadere la bottiglia, prese a correre più che poteva. L'orlo dell'abito si impigliò in un rovo e, sentendosene strattonata, Jolene cadde a terra.
«Ah!» Il grido soffocò tra le siepi che si chiudevano intorno a lei, sopra di lei, senza scampo. Il cuore batteva all'impazzata, spingeva il panico in ogni sua cellula. No, no, no... Riuscì a voltarsi e si ritrovò distesa di schiena sul terreno, ora le spine premevano sulla sua pelle e presto il sangue avrebbe stillato per dissetarle. Le rose attendevano di prendere il suo colore, avvelenandola col loro profumo sinistro. Mosse le mani per tentare di liberarsi e, inavvertitamente, sfiorò uno dei fiori: l'unico bianco.
Rimase a terra, incapace di muoversi nel suo terrore, mentre lo spazio intorno a lei si liberava. Le braccia strette intorno al busto, Jolene osò aprire gli occhi solo quando le siepi erano ormai tornate alla loro originale posizione. Allora si alzò lentamente, timorosa di sbagliare movimento e causare di nuovo la malevolenza del labirinto. Poi la vide: un'uscita. Uno spazio a tagliare i muri impenetrabili. Lo raggiunse, e da lì continuò il suo vagare.
Era come veder scorrere sempre la stessa scenografia, all'infinito. Mai nessun cambiamento significante, nessun indizio. Jolene cominciava a disperare: che cosa diamine le aveva preso a correre in quel modo da sola? Avrebbe dovuto affrontare la strada assieme a Mìreen. Chissà lei dove era, come se la stava cavando? I rovi l'avevano risparmiata per un soffio, ma se lei non fosse stata così fortunata… Scacciò quel pensiero dalla testa, incapace di affrontarlo. Mìreen aveva cercato di aiutarla, quella sera: la aveva incoraggiata ad osare, aveva dipinto le rose sul suo vestito, dando loro un po' della fiamma che credeva albergasse in Jolene. Lei non ne era molto sicura, non in quel frangente in cui il buio sfumava i suoi contorni e si insinuava nella sua mente, nel suo petto. Sentiva che non avrebbe sperimentato altra libertà se non quella illusoria e caduca dell'ebbrezza. La corsa era stata liberatoria, quando la sua mano era stretta a quella dell'amica. Ora poteva solo premere forte sulle proprie braccia, e qualsiasi traccia della leggerezza di allora era svanita. Era intrappolata più che mai: quelle linee rette e gli angoli bui erano la sua ennesima prigione. Eppure…
Poteva trovare innumerevoli somiglianze tra il labirinto e gli intricati confini in cui da sempre si rinchiudeva, eppure vi era una sostanziale differenza. Nella vita di tutti i giorni sapeva perfettamente fino a dove si estendeva la sua realtà, cosa poteva permettersi e fino a dove era lecito spingersi. Si muoveva in un territorio conosciuto palmo per palmo, creato dalla sua stessa volontà. Ma non lì. Il labirinto di rose e spine era il frutto di un'altra mente e, per quel che riguardava lei in quell'istante, poteva trattarsi della stessa volontà divina. Lei non ne conosceva l'estensione, né la forma – non aveva fatto in tempo a vedere la testa di rosa sopra al cartello all'entrata -, così i suoi erano dei tentoni al buio. Qualsiasi strada avesse scelto non avrebbe fatto la differenza: non per lei, almeno, poiché non aveva idea di dove potesse guidare. Si trovava nella situazione che più si era sforzata di evitare: priva di punti di riferimento. Come descrivere le emozioni che si mescolavano in lei a quel pensiero? Non avrebbe saputo districarle neppure nella lucidità che poteva vantare a inizio serata, prima dei tre bicchieri che ora non facevano che accrescere la sua emotività. Sentiva con una grande intensità, ma non poteva comprendere. Sapeva solo di essere, sopra a tutto, terrorizzata. Cominciava a tremare e sapeva che non avrebbe retto ancora molto alle lacrime, e tutto ciò perché era stata così stupida da perdersi in una realtà fuori dalla sua comprensione. Non se ne rendeva conto, ma era libertà quella per cui avrebbe pianto: nella sua forma più pura, terribile e contorta, nelle sue infinite possibilità che non era possibile conoscere in anticipo. Si sentiva allo sbando, come un uccellino che per una vita intera avesse cantato solo dietro alle sicure sbarre della sua gabbia e, una volta liberato da una mano misericordiosa e terribile, avesse ammutolito il suo canto.
Proseguiva a ritmo disordinato, ora correndo, ora trascinando i piedi, scoraggiata. Qual è la cosa più folle che tu abbia mai fatto? Scappare in un labirinto da sola, di notte, ed è divertente tanto quanto lo specchio. Non si preoccupava di esagerare la propria preoccupazione, poiché era tanto lontana dalla razionalità quanto i suoi nervi fragili potevano portarla. Quando liberò un altro respiro dal petto pesante, quasi non riconobbe la propria voce: «Mìreen?»Dapprima poco più di un sussurro, il richiamo si ripeté in una sonora richiesta di aiuto: «Mìreen!» Fragile, frammentato come sentiva il suo essere in quel momento, il suono si perse nelle ombre ostili. Nessuno arrivò in suo soccorso, né lo avrebbe fatto.
All'ennesima svolta un insolito chiarore la portò ad asciugarsi con furia gli occhi, convinta che il velo delle lacrime le stesse compromettendo la vista. La situazione non mutò e, anzi, più proseguiva più l'alone diventava intenso: era più caldo dell'azzurro glaciale dei corpi celesti, simile al riflesso di un fuoco immobile. Di fronte a lei si profilò la sottile silhouette di un lampione che, con la sua sorprendente presenza, torreggiava sopra ad una panchina di pietra. Incredula, Jolene si avvicinò e allungò una mano verso il sedile, convinta si trattasse di un'allucinazione. La ruvidezza era solida e concreta sotto al suo tocco, e lo rimase quando – ancora all'erta, pronta a scattare al primo segno di inganno – vi si sedette. Solo allora la stanchezza scese sui suoi arti, facendoglieli scoprire rigidi e doloranti. Alle rose si offriva in quel momento un povero spettacolo: una ragazza pallida, i cui occhi si dividevano tra la diffidenza verso l'esterno e il tormento segreto. Le mani erano sporche di terra e poche gocce di sangue avevano cessato di fuoriuscire dalle leggere ferite provocate dalla caduta. Uno strappo era mal nascosto tra le pieghe della gonna, che portava a sua volta qualche traccia di terriccio. Jolene aveva cessato di essere l'invitata di una festa elegante, prezioso gioiello di candore e delicatezza. Ora era la Smarrita, senza uno straccio di indizio sulla strada che avrebbe preso.



Edited by Jolene White - 23/4/2020, 15:23
 
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view post Posted on 30/11/2019, 18:24
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Contest a tema, Novembre 2019

Piccola nota: il testo si divide in due parti: nella prima Jolene ha sei anni; la seconda è ambientata quando ormai è un'adulta, al suo ritorno dopo i due anni passati a Livorno. La notizia dell'infarto – fortunatamente non fatale – del padre ha scosso l'intera famiglia. Premetto che questa seconda parte è una sorta di esperimento, perché non scrivevo in prima persona – al presente, poi! – da giusto qualche annetto. Non so quanto sia riuscito, però mi sembra importante provare a variare la mia scrittura, nella speranza di migliorare sempre; oltre a questo, mi è sembrato giusto cedere a Jolene l'intero palco, in un momento per lei così intenso. Spero quindi che la mia maldestrezza non incida troppo sulla lettura.



Golfo mistico
“Ogni storia d'amore è una storia di fantasmi.”
- D.f.w.

Movimento primo – una sera perfetta di tanto tempo fa

L'inchiostro nero della sera d'Aprile era una presenza lontana dietro ai vetri delle finestre, faceva appena capolino in forme irregolari tra le tende scostate. La stanza era ambrata nella luce liquida delle lampade accese, solo gli angoli si perdevano in una penombra spoglia di mistero. Bagliori metallici occhieggiavano sulle cornici degli innumerevoli quadri, che erano così ridotti a mere forme geometriche appese alle pareti lontane. A un lato della sala, là dove i fasci di luce convergevano come fari da palcoscenico, la famiglia White sedeva riunita nel suo nucleo più intimo. Marcati effetti di chiaro-scuro definivano i volti dei due coniugi mentre, in mezzo a loro, le guance piene di Jolene apparivano levigate della morbidezza dell'infanzia. Le lunghe ciglia abbassate in un accenno di sonnolenza, la bambina si appoggiava allo schienale del divano come se mancasse della forza di sostenersi da sola.
«…così abbiamo passato tutto il pomeriggio in giardino, e Jollie mi ha dato una mano con i fiori. Ci siamo divertite, non è vero, tesoro?» Il richiamo della voce materna accese un nuovo barlume di energia nella bambina, che alzò lo sguardo prima su una figura e poi sull'altra. Sorvolò, senza prestarvi attenzione, i piccoli dettagli di scena della quotidianità: una fetta smangiucchiata di crostata alle ciliegie, circondata di briciole sul suo piattino; la tazzina minuscola in cui la mamma aveva bevuto il tè; Il Profeta di quella mattina, appoggiato in equilibrio precario sul bordo del tavolino basso, accanto al whisky che piaceva solo a papà. L'uomo agitava quel che rimaneva delle due dita che si versava dopo una giornata più sfiancante del solito, e i suoi occhi le sorridevano.
«Sì, un sacco! Ho trovato due coccinelle, una aveva sette pallini, portava fortuna. È volata proprio qui, sulla mia mano.» Sollevò la mancina e la sventolò sotto al naso del padre, che si mostrò entusiasta quanto lei.
«Allora continuerai a dare una mano alla mamma, vero? Sono sicuro che sia più divertente che startene chiusa tutto il giorno in casa.» Jolene accolse con una smorfia quelle parole che aveva sentito troppo spesso, e in tutta risposta buttò la testa sul bracciolo del divano, sbadigliando teatralmente. Oscar però aveva ragione e, a dispetto della stanchezza, le sue guance conservavano ancora un sano colorito roseo.
Non aveva sentito la mamma alzarsi, era sempre silenziosa come un'ombra. Ma d'un tratto la risata profonda di papà si articolava su un sottofondo di dolce pianoforte; la musica crebbe e crebbe ancora, diffondendosi dal giradischi fino a riempire, come un profumo familiare, la stanza intera. Non ebbe difficoltà a riconoscere il pezzo preferito della mamma, quello che metteva quando era di buon umore e che canticchiava anche se non vi era alcuna voce registrata. Quando accompagnava gli strumenti aveva la sensazione – così le aveva confidato una volta –, la meravigliosa sensazione che, sbarazzatasi delle parole che normalmente tanto amava, raggiungesse il cuore stesso delle note nella loro sequenza melodica. Jolene aveva solo sei anni, e non comprendeva il significato di quel pensiero; ma poteva sentire con precisione lo stato d'animo della madre, ed era tutto ciò che aveva bisogno di conoscere.
La musica parve rallentare il tempo stesso, come un battito che si adagi negli istanti prima del sonno. Le palpebre di Jolene calarono come il più dolce dei sipari, e le parole di suo padre sfumarono fino a ridursi ad un ronzio in fondo alle orecchie. Dopo minuti incalcolabili percepì vagamente uno spostamento d'equilibrio, come se il dormiveglia l'avesse trasportata in una barca a misura di bambina. Si lasciò cullare in un tepore confortevole, le onde si manifestavano con tonfi attutiti di passi; una scricchiolò esattamente come l'undicesimo gradino della scala verso il piano di sopra, prima che la coscienza si assopisse del tutto.
Non era chiaro quanto tempo fosse passato, ma quando ebbe di nuovo una percezione di sé riconobbe il tocco fresco delle lenzuola. La testa sprofondava nel cuscino, che sapeva di bucato e dell'odore dolce del suo shampoo per bambini. Il mondo era buio, ma accogliente come un bozzolo che avesse impressa la sua forma e la avvolgesse con familiarità. Il mondo era immateriale, fatto di tepore e profumo, attraversato da una musica invisibile. Sapeva, in qualche angolo ovattato della mente, che la melodia proveniva dal basso, là dove, sotto il pavimento, la sua personale orchestra si era riunita per allietarle il sonno. Il pianoforte danzava con piedi delicati di ballerina su piste ondeggianti disegnate dagli archi; il percorso si allargava e si restringeva secondo il capriccio dei violini, ma mai una volta i tasti traballavano nella loro leggerezza.
Sul palcoscenico di coperte, Jolene si lasciava plasmare dalla musica nelle sue sensazioni e, inconsciamente, caratterizzava le note stesse attraverso il suo stato d'animo. La sua vita si muoveva secondo quegli stessi ritmi sognanti, nella casa a due piani col suo fazzoletto di giardino. Il giorno prima aveva convinto la mamma a piantare tra le aiuole di fiori un piccolo cartello, che lei stessa aveva dipinto con manine impacciate. “Giardino delle fate”, avvisava ora una scrittura panciuta e irregolare. Per quanto non si fosse vista una sola fata da quelle parti da diversi anni, per la bambina quelle parole erano totalmente veritiere poiché, come le sussurrava gentilmente un violoncello in quel momento, il suo mondo era la Casa delle Meraviglie. C'era solo da aspettarselo, che fosse così reticente ad allontanarsene: le ballerine annuivano vivacemente, si-si, si-si, non c'era molto che valesse la pena di essere esplorato là fuori.
A Jolene non piaceva giocare con i bambini del vicinato. Erano rumorosi, cacofonici, stonavano con tutto ciò che conosceva e che l'aveva plasmata. Litigavano in continuazione, i loro giochi erano schiamazzi e piagnucolii; avevano le bocche e le dita pasticciate del cioccolato delle merendine confezionate, e non conoscevano le sue favole preferite. Sembrava che nessuno di loro avesse mai ascoltato qualcosa di diverso dalle canzoncine infantili che strillavano in falsetto, e tutto ciò non faceva che aumentare la sua voglia di rifugiarsi dietro alla recinzione del giardino o, ancora meglio, di frapporre tra sé e loro tutte e quattro le mura di casa. Di cos'altro poteva avere bisogno? Era tutto lì, la sua sinfonia era completa: iniziava e finiva con i suoi genitori, con i luoghi che conosceva a memoria. C'era il piano di sopra con le due camere, la cucina e il salotto esattamente ventitré scalini più sotto – ventiquattro, per la verità, ma l'undicesimo dal basso andava saltato ogni volta, con un tonfo più rumoroso dello scricchiolio che avrebbe prodotto sotto al suo piede. La soffitta andava evitata, ma in compenso il giardino sarebbe presto stato colorato dai petali dei fiori che la mamma amava tanto. Nessuno avrebbe potuto legittimamente chiederle di uscire da dietro quel velo trasparente di familiarità; Jolene era convinta di non aver bisogno di nulla al di fuori dell'area che poteva essere coperta dalla musica del giradischi.
La sequenza melodica si tramutò in ninna nanna mentre, infine, anche l'ultimo residuo di consapevolezza stava dissolvendosi nella sera. L'orchestra suonava per lei – la sua minuscola e timida orchestra a portata di bambina –, suonava da un posto lontano e sotterraneo, protendendosi come fili di seta nel tentativo di catturare il calore della sua fronte fuori dalle coperte, agitandosi dolcemente contro il suo respiro regolare. Ondeggiava tra pupazzi e pile di libri, e osava sfiorare appena il vetro della finestra prima di allontanarsene.
Una volta la mamma le aveva detto che la musica era eterna, e che avrebbe potuto esistere anche in assenza del mondo. Per Jolene, era il suo mondo ad essere immortale.



Movimento secondo – la frattura


Qualcuno fermi il rumore, questo maledetto rumore che mi rimbomba nel cranio e fa male. Non ho mai immaginato le note più acute come lame taglienti di rasoio, ma una volta che l'idea è entrata nella mia testa non ne vuole più uscire. Un lamento prolungato di violino sembra volersi scavare la strada fino ai miei nervi, che fremono come corde tirate al limite. Mi è difficile distinguere gli incubi dalla realtà, ora che ho scoperto il potere delle cose immateriali di fare male al di là di qualsiasi metafora, in un attacco diretto al corpo stesso.
Le lenzuola puzzano di chiuso – così come il cuscino, e le tende, e i muri e ogni angolo di questa stanza che un tempo era mia, ma che è rimasta disabitata così a lungo da perdere ogni carattere che non sia di malinconia. Distinguo gli odori insistenti del legno vecchio del pavimento, della carta ingiallita dei libri sulle mensole e del leggero ma compatto strato di polvere di cui sono ricoperti, i libri e tutto il resto. Non mi ero immaginata così il mio ritorno; non me lo ero immaginata affatto, e ora vedo quanto sia stato meschino da parte mia dare tutto per scontato.
La musica ha un suono strano, qui dentro: riverbera tra i muri come negli appartamenti nuovi prima di riempirli di mobili ed oggetti, con l'unica differenza che in questo caso il passato appare più pregno del futuro. Non mi è del tutto chiaro a cosa sia dovuta la netta sensazione di assenza che mi circonda: la maggior parte degli oggetti di un tempo è rimasta al suo posto, eppure sembra che ogni atomo di materia sia immerso nella solitudine. Solo in un secondo momento capisco: il passato – quando non c'era la polvere ad attutire miseramente i rumori dell'orchestra sotterranea, ma oggetti su oggetti, ed ognuno di loro aveva un posto e un significato precisi –, quel periodo è così distante da apparire totalmente obsoleto, mentre il futuro… Il futuro non si vede, qui dentro. Sento solo l'immobilità del presente, e ho la certezza di odiare la musica distorta tra queste pareti: premo il cuscino contro le orecchie.
Serro le palpebre fino a quando non rivedo, tra i fuochi d'artificio, la stanza d'ospedale e papà steso in mezzo a tutto quel bianco. La sua pelle avrebbe potuto essere trasparente contro la federa, che era così immacolata da sembrare luminosa, e priva di grinze se non là dove avrebbe dovuto esserci il suo viso. Mi ha sorpreso vedere quanto grigio ci fosse tra i capelli: se non fosse stato per qualche ciuffo ostinatamente rosso, solo l'azzurro dei suoi occhi avrebbe interrotto l'indifferente assenza di colore di quel letto. Da quando è vecchio? Questo è stato il mio primo pensiero e, allo stesso modo in cui non potrò mai posare gli occhi su una riga di lettere senza decifrarne involontariamente il significato, credo che mi sarà impossibile d'ora in poi scindere papà dalla sua vecchiezza. Non ricordo di aver notato, quando ci eravamo visti a Natale, le stesse pieghe intorno alla bocca, né come i suoi occhi siano appesantiti da vistose borse che, sotto alla luce accecante dell'ospedale, sembravano solo le ennesime ombre. Ho provato la stessa paura di quando si contempla un evento catastrofico ed inevitabile: lo stomaco chiuso e la testa scossa dalle vertigini, mi sono dovuta sedere. Credo di essere diventata pallida, perché d'un tratto erano loro a preoccuparsi per me, in un'inversione dei ruoli che mi ha fatto sprofondare dalla vergogna. Mamma mi ha appoggiato le mani sulle spalle, la sua stretta era ferma e piena di calore; papà ha cominciato a rassicurarmi: lui si sentiva così bene, non c'era bisogno di fare quel muso lungo! Avrei voluto comportarmi diversamente, ma quando è entrata una delle infermiere per controllare i parametri vitali qualcosa dentro di me si è rotto. Un torrente di parole che ora non voglio ricordare si è visto privato di argine, libero di erompere, tale e quale alle lamentele di una bambina viziata. Perché a mio padre era riservato quel trattamento? Ero del mestiere, sapevo come andavano fatte le cose ed ero certa che lì ci fosse quell'incongruenza e quell'altra. Papà ha cominciato a tormentarsi le unghie, come fa solo quando si sente a disagio; mamma mi ha fermata con un tono così freddo da farmi trasalire.
Vorrei poter dire di non comprendere il comportamento di mamma, quando la verità è solo che mi manca la forza per imitarlo. Quando siamo tornate a casa, solo io e lei senza papà, mi sono rifiutata di parlarle: sentivo che qualsiasi filo di voce sarebbe stato spezzato non appena avessi provato a farmi sentire. Lei, incurante di tutto, ha pensato bene di accendere il giradischi. Ed ecco che qualcosa che è sempre stato riservato ai momenti di pura gioia ora viene intaccato, macchiato, viene svuotato di tutto ciò che un tempo aveva importanza per noi. Ho sbagliato molte volte, in queste ultime ore; ma credo di essere nel giusto a non potere, né tanto meno voler sopportare il gemito del violino che ha sempre suonato per cullarci dolcemente, e invece adesso imita solo i lamenti degli addolorati. Premo il cuscino con maggiore forza, ma in qualche modo questi suoni irrisori continuano a raggiungermi; non ricordavo il martellio dei timpani in questo punto, assomiglia al pulsare del sangue intorno ad una ferita aperta.
La percezione del rumore diventa sempre più acuta, tanto che sospetto mamma stia alzando il volume, di sotto. Sono infiniti i modi in cui si può leggere lo stesso spartito, ora lo so. Per quanto immateriale, la musica è più reale e più solida dei muri che mi circondano, che si piegano e distorcono al suo volere come le spire del serpente di fronte ad un incantatore. Sollevo la testa dal guanciale e apro gli occhi su un mondo pallido e tremante, scosso nelle sue fondamenta ogni volta che dita invisibili picchiano sui tasti incolori del pianoforte. Gli archi strofinano all'impazzata sulle corde, in un virtuosismo finale privo di calore. I timpani sono svaniti perché erano solo un'illusione creata dal mio stesso battito. Una musica fantasma per un mondo fantasma.

 
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view post Posted on 22/4/2020, 21:51
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Questo breve frammento altro non è se non un esercizio, scritto per il semplice piacere di scrivere. Ne ho sentito il bisogno e così eccolo qui, anche se non influenza in alcun modo il background di Jolene né si deve collocare con precisione in un momento qualsiasi. D'altra parte il nulla fa parte della vita di chiunque, e descriverlo è incredibilmente rilassante.



La casa è silenziosa, solo il fornello acceso sibila leggermente. Con la coda dell'occhio vedo le piccole fiamme azzurre tremolare costantemente sotto alla pancia del pentolino. Giocherello distrattamente con il filo attaccato alla bustina del tè e, nel non pensare a nulla, vedo e sento i corpi concreti della vita domestica – le scatole solide delle credenze, la sedia sotto di me, il tavolo freddo a contatto con la nudità del mio braccio. Non mi ero resa conto che fosse così gelido, e in quest'improvvisa consapevolezza mi ritraggo con un brivido. Per un momento mi dimentico come si fa a inspirare, il petto si comprime, incapace di trovare aria. Sono sicura che non ce ne sia più intorno a me, in tutta la cucina, dovunque. La sua mancanza si palesa con la puntura di spillo di un breve attimo di panico che si dilata, avanti e indietro nel tempo, fino a coprire un'eternità intera in cui non mi è concessa la libertà dell'aria.
Poi tutto smette, riprendo a respirare in un singulto e infine ritrovo il solito ritmo. Sedia e pavimento gemono mentre mi alzo malamente, di fretta per non pensare che per quell'unico momento infinito mi è mancata l'aria. Spengo il fornello, verso l'acqua anche se non sta ancora bollendo. Non pensare, mi dico. Se non ci pensi, domani mattina te ne sarai dimenticata. Te lo scorderai già tra dieci minuti.
Così, sforzandomi di non ragionare su quale male possa concretizzarsi in quel modo insopportabile, prendo in mano la tazza del tè e raggiungo le vetrate. La porta scivola con un fruscio di seta, così smetto di fissare il mio riflesso e mi si apre invece la vista del terrazzo. La luce gialla della lampada accesa in cucina si spinge lungo il pavimento di mattonelle, sembra riverberarvi sopra tanto sono chiare. Il resto degli oggetti, invece, la assorbe, se ne appropria per definire i propri contorni, la propria consistenza: il tessuto dei divani mostra l'intreccio preciso, le piante dispiegano le loro nervature spesse. Con il primo passo mi chiudo la porta alle spalle, voglio lasciarmi indietro le superfici solide e pesanti; con i successivi raggiungo la ringhiera, a cui mi appoggio.
È notte inoltrata e il mondo dorme, la strada e le case di fronte rispondono col silenzio al mio sguardo insistente. L'alone dei lampioni si spande sull'asfalto in pozze rarefatte attraversate unicamente dal vento, perché non c'è nemmeno un passante a quest'ora, perfino le automobili che non si fermano mai sembrano essersi dimenticate di questo pezzo di città. Chi si trova in un posto abbandonato si sente a sua volta lasciato a se stesso; eppure l'isolamento della notte non ha niente a che vedere con la qualità densa della solitudine dolorosa. Al suo interno non sono l'insetto intrappolato nella resina vischiosa; non preme fino a comprimermi i muscoli contro le ossa, ma mi permette di respirare a pieni polmoni. Inalo fino a quando non mi sento ebbra della notte stessa, ne trattengo il freddo dolce contro le labbra mentre espiro. Mi arricchisco del sentore fresco della terra bagnata – ha piovuto in serata, le foglie degli alberi nel parco di fronte sono ancora adorne di minuscoli cristalli – e della nota più pungente del cemento. Il gelo stesso ha un aroma, e la consistenza di sottilissimi aghi contro la pelle sensibile del viso, del collo, che cerco di coprire con i capelli. Stringo le mani intorno alla tazza del tè e così si riscaldano, a guardarle sono bianche contro la porcellana bianca e sembra che ogni colore sia fuggito per fare ritorno solo al mattino.
A stare qui, sotto a questo cielo opaco, la mia stessa essenza si svuota di qualsiasi tratto personale. È così che la notte mi toglie tutto, solo per riempirmi della sua placida esistenza. Domani dovrò fare i conti con tutte quelle persone che il buio ha fatto rintanare dietro alle proprie mura; domani tornerò a soffocare, ingabbiata in strati di ossa e carne e pelle che tutti chiameranno per nome. Per ora, però, mi limito a dissolvermi, nascosta fuori dal fascio dei lampioni.

 
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view post Posted on 30/5/2020, 12:42
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La rondine e i fiori selvatici

una favola

contest a tema - maggio 2020




C'

era una volta, molto tempo fa, una rondine capace di innamorarsi di ogni fiore incontrato lungo i suoi viaggi. Studiava il volo perché fosse basso e lento, così da poter contemplare con agio i suoi amanti: i ciliegi che arrossivano timidamente al momento del suo arrivo, la veronica che con occhi fragili scrutava il cielo nella speranza di vederla comparire. La sua felicità apparteneva ai vasti campi selvatici, dove il soffio del vento agitava gli steli e le foglie, facendoli ridere e sospirare per il suo giubilo. I petali dai mille colori le parevano ciascuno il minuscolo e bellissimo battito della vita; uno si sommava all'altro, e così all'infinito, fino a quando la rondine non credette che l'immortalità fosse il verde e il rosso e l'azzurro, che fosse quel mare spuntato dalla terra.
Una sera di maggio, mentre il buio calava con rapidità spaventosa, la rondine sentì le ali farsi stanche e il gelo crescerle nel petto. Aveva paura del tramonto, un terrore come non aveva mai provato. Abbassò lo sguardo su ciò che più di tutto amava e allora, dimentica della fugacità di ogni fiore, pensò che le sarebbe bastato posarsi in seno ai campi per non dover mai temere la morte. Si scavò un letto tra il tarassaco e l'achillea, e lì la colse la notte.


Il sole d'inizio estate bagnava le strade di Hogsmeade di luce dorata. Un caldo insolito rendeva l'aria densa, quasi vischiosa, tanto che i passanti avevano l'impressione di nuotare nel miele, e con movimenti fluttuanti si spostavano da una zona d'ombra all'altra. Non c'era un filo d'aria, lì tra le costruzioni da cartolina. Se solo si alzava gli occhi contro il cielo, ci si sentiva accecati dall'intensità del suo colore: una massa satura di azzurro in cui non trovava spazio nemmeno lo sbuffo di una nuvola. Bisognava ripararsi lo sguardo con una mano, e non era difficile credere di essersi solo immaginati quella macchia di nero che, fugace come una visione, tagliava l'aria sopra alle case.
Dal canto suo, la rondine non si curava delle teste sorpassate a gran velocità. Lasciava che i tetti aguzzi scorressero sotto di lei come catene montuose stranamente regolari, troppo ebbra di cielo per badare al solido e basso mondo degli uomini. Era più facile respirare a quell'altezza, i raggi che si riflettevano sul piumaggio lucido venivano scalzati dalla brezza del volo, e così non c'era nulla che disturbasse quel semplice piacere. Guidato dall'istinto e da una certa memoria passiva, l'animale disegnava la propria strada senza esitazioni. Dabbasso gli edifici si fecero più radi, in favore della vegetazione. Non un fruscio scuoteva le fronde degli alberi, che risposero solo al tocco leggero della rondine quando questa cominciò improvvisamente a scendere: aveva riconosciuto la sua meta.
La piccola abitazione, che doveva essere abbandonata ormai da molti anni, faceva timidamente capolino dietro ad alte mura color ruggine. L'edera si arrampicava rigogliosa su ogni superficie, così che il rudere non saltava all'occhio, mimetizzato com'era tra la vegetazione circostante. Si trattava di una costruzione di scarso interesse, modesta in dimensioni e piuttosto lontana dal villaggio, così che i passanti occasionali erano assai rari. La rondine l'aveva scovata solo poco tempo addietro, eleggendola immediatamente a suo rifugio prediletto.
Le mura si ergevano su un piccolo avvallamento, così che al loro interno il terreno degradava progressivamente fino alla casa che, alta e stretta, offriva all'esterno i vani vuoti delle finestre. Attraverso di esse le braccia frondose della natura si spingevano fin dentro alle stanze in rovina, che erano sempre immerse in una luce verdognola. La rondine le aveva ispezionate solo di sfuggita, abbandonando presto le pareti scalcinate e i pavimenti ricoperti di foglie in favore del vero tripudio di vita che era il giardino. Questo ultimo era inselvatichito al punto che le tracce dell'uomo si limitavano a segnarne i confini, senza esercitare alcun altro tipo di controllo. Perfino quel residuo di ordine sarebbe stato sovvertito col tempo: nella parte più alta del terreno, una grossa quercia già spingeva i rami oltre il bordo delle mura, mentre le radici contorte ne sgretolavano la base. L'erba cresceva abbastanza alta da nascondere ogni traccia di vecchi sentieri, se mai ve ne fossero stati, ma non tanto da soffocare le corolle dei fiori selvatici.
La rondine scese di quota, si avvicinò quanto poteva al meraviglioso mosaico di colori. C'erano le margherite, piccoli soli dai raggi bianchi; c'era l'erica scozzese con i suoi grappoli violetti, così sensibili da oscillare ad ogni alito di vento ma perfettamente statici in quel momento. Qua e là i papaveri scarlatti gridavano alla vista con la vitalità inconfondibile dei loro petali sottilissimi. Ogni fiore vibrava di un'esistenza piena, completa, inebriante. L'animale viveva in funzione di ciò che percepivano i suoi occhi, di ciò che ogni senso prendeva dalla natura circostante. In quel momento non conosceva che la dolcezza del pomeriggio di prima estate, che era così vasta e sfaccettata da riempire la sua intera coscienza.
Quando si alzò in volo verso i rami della quercia, qualcosa disturbò i movimenti della rondine. Le sue ali fremettero in uno spasmo incontrollato, il corpo intero prese a contorcersi, come deformato da una forza imprevista. L'animale fece appena in tempo a raggiungere uno dei rami più bassi che già era qualcos'altro: arti pallidi e sottili, una chioma ramata, un intero corpo di donna.
Jolene si aggrappò come poteva al tronco, premette le dita contro la corteccia ruvida per cercare una presa salda. Con una sensazione di vertigine vide le proprie gambe dondolare nel vuoto, un piede era senza scarpa. Accantonando la paura di cadere riuscì a spingersi verso l'attaccatura del ramo, così da poggiare la schiena contro il tronco in una posizione di equilibrio. Solo allora, dopo che un sospiro di sollievo ebbe sancito il progressivo rallentare del battito, Jolene scoppiò a ridere. Era l'ennesima trasformazione finita all'improvviso, ancora conservava i lividi e i graffi di altri episodi. Sarebbe stato semplice curarli, ma le piacevano quei segni sulla propria pelle, le ricordavano che tutto era reale: le piume, i voli, la meravigliosa esistenza della rondine. Quando assumeva la forma del volatile non era più se stessa – non interamente, non soltanto –, i suoi pensieri razionali venivano per lo più messi a tacere in favore di un istinto che la guidava con molta più naturalezza. Al momento di tornare padrona di una mente interamente umana, rimaneva il rimpianto di una semplicità ora irraggiungibile, perduta assieme alla dimensione più piena del presente. Quest'ultimo cessava di essere un vivido insieme di percezioni, andava invece ad insinuarsi tra il tempo già trascorso e il presentimento del futuro. Aveva percepito la propria esistenza in quel modo così a lungo che, quando l'Animagia le aveva offerto una nuova finestra d'osservazione, Jolene vi si era riempita lo sguardo come di una novità mai concepita. Il tutto aveva ancora il sapore della novità, c'era sempre una piccola lezione da imparare.
Osservò il giardino con i propri occhi. Lo considerava suo dalla prima volta in cui lo aveva scovato – allora l'atterraggio era stato più drammatico –, e se ne era innamorata all'istante. Si era convinta che non potessero esserci compagni più piacevoli dei fiori che, da soli, mitigavano un isolamento altrimenti perfetto. Il loro trionfo a contrasto delle mura rovinate era la conferma della superiorità che la natura avrebbe sempre avuto su ogni artefatto umano. Le corolle più brillanti non arrivavano nemmeno ai davanzali delle basse finestre della casa, eppure erano infinitamente più belle, più importanti delle meste pietre grigie. Il loro disordine spontaneo aveva il respiro che mancava all'allineamento claustrofobico di ogni masso squadrato.
Avvolta nelle vesti scure da infermiera, Jolene si sentiva quasi fuori luogo. Gli abiti erano intrisi del ricordo del castello, con le sue fredde linee rette pensate per tenere lontana la luce diretta del sole. Avrebbe voluto avere addosso qualcosa di colorato, forse così sarebbe stato più semplice assimilarsi al prato, fingendo di appartenere a quello spazio da sempre. Fin da subito aveva cercato di fare proprio quel luogo, scavando nel suo passato e, poiché non disponeva di indizi reali, ne aveva inventato lei la storia. Era appartenuto ad una Megera che detestava gli uomini al punto da rinchiudersi all'interno di mura senza porte: perché non v'era nessun accesso tra i mattoni rossi o, se pure esisteva, era stata nascosta molto bene. L'unico modo per entrare, all'apparenza, era sorvolare l'alta recinzione. Nessuno aveva pianto la Megera quando se n'era andata, naturalmente. Il suo isolamento aveva funzionato in entrambe le direzioni, e il mondo stesso si era dimenticato della sua esistenza. Tutto ciò che aveva lasciato erano un rudere e una quercia, perché Jolene potesse ammirare i fiori selvatici quando finalmente avevano preso il posto di un suolo addomesticato.
Il profumo del giardino sotto al sole di giugno le riportava alla memoria giornate simili di anni ormai passati. Lasciò che i ricordi si rincorressero disordinatamente, brevi immagini come spezzoni di una pellicola dal significato fin troppo lampante. Quella volta in cui, ancora bambina, i suoi genitori l'avevano portata in campagna poco fuori Londra; lì, nella vastità dei campi, aveva fatto dei papaveri fugaci ballerine, capaci di sopravvivere ad un'unica danza prima che avvizzissero e le loro vesti vellutate cadessero a terra. Le innumerevoli occasioni in cui suo padre portava a casa piccoli mazzi di fiori, gerbere e rose e ranuncoli e calle che si rincorrevano a finire dentro al bel vaso sul tavolo della cucina, ad appassire lì dentro in un profumo dolciastro di decadenza che faceva venir voglia di spalancare le finestre perché il vento se lo portasse via. O, ancora, le sue mani impacciate di bambina che, inconsapevoli, strappavano le ortensie più belle per donarle a sua madre, per farle vedere i risultati migliori delle sue fatiche tra le aiuole. Era così semplice strappare gli steli, scrocchiavano sotto alla pressione delle sue dita e la corolla profumata rimaneva esattamente la stessa, così che ci si poteva illudere che nessun confine fosse stato oltrepassato. I fiori morivano così velocemente. Nei suoi ricordi erano quasi sempre appassiti, giacevano lì come tra le pagine di libri enormi che li avessero pressati fino a mummificarli.
Lentamente, viaggiando da una tappa all'altra della propria infanzia, Jolene si sentì pervadere da un'inquietudine indefinita. Come un olezzo troppo dolce serpeggiò fino a sostituirsi all'odore fresco dell'estate, portava con sé il crepitio di foglie e petali secchi, di rami appesantiti dalla neve in un bosco onirico. Per scoprire la rondine aveva dovuto pagare un prezzo, così il sangue che era stato versato aveva risvegliato consapevolezze ancestrali. La consapevolezza per eccellenza, accompagnata dal suo corteo silenzioso. Era facile dimenticarsene quando si trovava nel cielo a diversi metri d'altezza, ma al momento di tornare se stessa le piume venivano sempre sostituite da vesti nere.
D'un tratto scomoda e a disagio sul ramo, si mosse per cercare di scendere. Aveva bisogno di mettere i piedi per terra, di toccare l'erba e gli steli senza premere, senza strappare nulla limitandosi invece a sentire. Fu un attimo mettere un piede in fallo, ed ecco che una mano perdeva la presa, e cielo e campi si scambiavano di posto. A dispetto della modesta altezza, l'impatto col terreno le tolse il fiato. Rimase vuota mentre il suo corpo seguiva la pendenza naturale e precipitava, sempre più in basso ad ogni giro vorticoso. Tese le mani per aggrapparsi a qualunque cosa, ma ottenne solo di ritrovarsi con ciuffi d'erba e terriccio tra le dita. Qualcosa le graffiò il viso, strinse con più forza gli occhi. L'abito le si attorcigliò intorno alle gambe, imprigionandola come un sudario.
Fu una discesa breve e, quando infine si arrestò, non osava aprire gli occhi. Tremava, stordita, sentiva la testa troppo stretta e pensare faceva male. Sporca di terra, aveva raccolto qualche petalo e alcune foglie che ora le ornavano i capelli e le vesti nere. Sentiva la superficie irregolare premere contro la guancia e scavarvi dentro uno stelo alla volta. Un odore nuovo le arrivò lentamente, costringendola a chiedersi se se lo stesse solo immaginando prima che diventasse esasperante, insopportabile. Solo allora osò guardare, e l'urlo che udì non poteva che essere il suo.
Lì, di fronte a lei, tra l'erba alta e immobile, giaceva la carogna. Un piccolo corpo in avanzato stato di decomposizione, i muscoli deformati in una massa dall'aspetto molle, malamente coperta dalle piume scure e arruffate. La puzza che emanava era insopportabile, si diffondeva nell'aria con insistenza maligna, avvelenando il tarassaco e l'achillea che le crescevano intorno come inutili omaggi alla morte, o forse come sue sentinelle. Il giallo dell'uno era una risata sguaiata e sgradevole che si beffava dell'orrore di fronte a quello spettacolo, il bianco dell'altra era il gelo delle ossa nude, di un volto privo di espressione. Jolene si sentì esposta, orribilmente scoperta come mai era stata. Nessun pensiero aveva più senso, non c'erano considerazioni su cui riflettere: ciò che era essenziale si rivelava senza ombre, nella luce accecante del sole appiccicato in un cielo afoso. Avrebbe riconosciuto l'animale anche senza il chiaro indizio della coda biforcuta: la rondine le rimaneva inconfondibile anche nella morte. La fissò con occhi sbarrati, non la perse di vista nemmeno al momento di tirarsi a sedere con uno scatto di repulsione. Provò l'impulso di correre, ma sembrava impossibile – dove, poi? Era dentro ad un recinto. Cercò la voce per gridare ancora, solo per trovare la gola ostruita da un nodo dolorosamente stretto. Le mosche ronzavano nella loro danza disgustosa, orripilante. Avrebbe voluto scacciarle, ma più di tutto, in quel momento, desiderò la pioggia. La pioggia avrebbe reso tutto più sopportabile.


 
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view post Posted on 28/6/2020, 20:48
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dove: Livorno; Jolene vi si trova ospitata da alcuni parenti per svolgere il tirocinio come infermiera.
quando: all'epoca dei fatti Jolene ha diciotto anni.



contest a tema giugno 2020 - notte

There is a light that never goes out

Take me out tonight
Where there's music and there's people
And they're young and alive.
- The Smiths


Aveva dimenticato dove si trovasse. Il largo capannone grigio era sparito dai suoi pensieri coscienti, sopra di lei avrebbe potuto anche esserci solo il cielo notturno. I muri erano troppo lontani perché la loro esistenza fosse rilevante, si perdevano nella calca di giovani che saltavano, ondeggiavano, si spintonavano nello spazio ridotto a loro disposizione. Sembrava superfluo distinguere un corpo dall'altro, i suoi stessi arti urtavano ora una spalla, ora un braccio che prontamente spariva, risucchiato nella massa disordinata. Il modo in cui la musica le riverbera nelle ossa le faceva credere che quel ritmo forsennato fosse proprio del suo stesso organismo, e che il sangue, carico di alcool e caffeina, scorresse con la medesima frenesia in ognuno di loro. In quel momento il buio esisteva solo a intermittenza, un mero capriccio delle luci stroboscopiche. Cieca e sorda nel cuore della festa, Jolene percepiva la stanchezza del proprio corpo come un'eco lontana che in quella notte non avrebbe dovuto trovare spazio. Si sentiva come sdoppiata, tra gli occhi che bruciavano per chiudersi e un'energia che divampava dalla sua stessa volontà e gridava che per dormire ci sarebbe stato tempo un'altra volta, che in quel momento voleva sentirsi viva.
Tra il piccolo gruppetto degli amici di Stella, Jolene ballava da sola. Sua cugina prendeva a braccetto ora Amina, ora Michele, e i corpi si intrecciavano per qualche minuto tra le risate mute che scoppiavano sulle loro bocche. Invidiava la loro naturalezza, con sorrisi leggeri cercava di emularla ogni qual volta incontrava lo sguardo di uno o dell'altro. Nel suo desiderio di amalgamarsi ad un'identità collettiva, Jolene si scoprì improvvisamente rigida quando si rese conto che, in fondo, non erano poi così tanto disposti ad accoglierla. Anche dopo le prime settimane, continuava a sentirsi un'estranea. La distanza si accorciava in brevi momenti luminosi, solo per ripristinarsi quando qualcuno faceva riferimento ad un avvenimento a lei sconosciuto, o usava un'espressione troppo colloquiale perché la potesse capire. Allora tutto ciò che rimaneva del desiderio di entrare in confidenza era un immediato bisogno di distacco, lo stesso che la colse in quell'istante. Il calore prodotto da tanti corpi divenne ad un tratto soffocante, il frastuono nelle orecchie insopportabile. Con un rapido sventolio della mano ad accompagnare l'espressione ora seria, Jolene voltò le spalle a Stella e agli altri.
Farsi spazio tra la calca fu un autentico inferno, ma infine riuscì ad uscire dalla pista. Qui la musica non era così forte da cancellare ogni altro suono, così qualche coppia e sporadici gruppetti se ne stavano appoggiati alle pareti a chiacchierare e a bere da cannucce di plastica nera, pochi rivolsero uno sguardo a quella sconosciuta. Jolene premette la schiena contro la parete, era gelida a contatto con la pelle accaldata. Chiuse gli occhi, ma nemmeno così riuscì a ricreare il buio: fuochi d'artificio scoppiavano in continuazione dietro alle palpebre abbassate. Come facevano a respirare, chiusi lì dentro ogni sabato sera? Come potevano ritrovare il silenzio, quando lei aveva l'impressione che quel martellare le sarebbe durato nei timpani per settimane?
«Ehi, Jolè, ti senti bene?» La voce di Amina riuscì in qualche modo a raggiungerla, e Jolene la guardò mentre la raggiungeva. Era alta quanto lei, ma emanava un'energia che la faceva sembrare molto più imponente. Non avrebbe potuto essere più diversa da Jolene, con la liscia pelle scura e le trecce lunghissime.
«Sì, ma ho bisogno di un po' d'aria», rispose, sforzando la voce, quando anche l'altra si appoggiò alla parete.
Amina la scrutò per qualche secondo. «Non ti piacciono queste feste, vero?»
Si strinse nelle spalle: non lo sapeva nemmeno lei. Rispondevano ad una frenesia a cui, però, puntualmente si alternava la necessità della solitudine.
«Senti, ma cosa facevate il sabato sera nel tuo collegio? Hemingway, no?»
«Hamilton», la corresse con il nome inventato. A quel che ne sapevano Amina e Michele, Babbani, Jolene aveva frequentato un noiosissimo collegio in Scozia. Dovevano credere che le avessero fatto il lavaggio del cervello, da quando avevano capito che non sapeva niente del mondo degli ultimi anni. «Era un po' diverso.»
«Come?»
«In ogni modo. Le notti, per esempio.»
Amina sembrava divertita. «E che avevano di speciale?»
«Lì di notte è buio sul serio.»
«E che, qui abbiamo le notti bianche?»
«No, però c'è sempre qualche luce. I lampioni, le insegne, sembra che nessuno dorma mai davvero.» Amina la guardò un po' stranita, come se stesse farneticando. D'altronde come poteva capire, lei che non aveva conosciuto il perfetto isolamento di Hogwarts? C'era solo la luna ad illuminare la notte quando l'ultima torcia veniva spenta, e se il cielo era nuvoloso rimaneva il buio pesto. Potevi aprire e chiudere gli occhi e quasi non accorgerti della differenza. In quei momenti era facile entrare davvero in contatto con se stessi, perché non esisteva nient'altro, nel mondo ovattato di buio e silenzio. Nel tempo era arrivata a modellare la propria idea di quello che era la notte proprio su quell'esempio; quando aveva deciso di trasferirsi in Italia per qualche tempo non aveva pensato che vi avrebbe trovato un'esistenza così diversa da quella che dava per scontata. Lì erano sempre tutti in movimento, intenti a correre da una parte all'altra in una lotta perpetua contro i giri dell'orologio, sforzandosi di collezionare una notte in bianco dopo l'altra.
«Dai, andiamo a prendere qualcosa da bere», concluse Amina dopo qualche istante, come se fosse la risposta a tutto. Jolene la seguì verso il bancone, dove ritrovarono Stella e Michele.
«Eccovi! Jolene, te ne sei andata durante la canzone più bella.» Stella era un concentrato di energia ad ogni ora del giorno e della notte: Jolene l'aveva vista affaccendarsi accanto a lei per ore infinite mentre in ospedale affiancavano le infermiere più esperte, ma in quel momento sembrava che solo lei avesse immagazzinato la stanchezza di entrambe. Stella infatti si mise a cantare a gran voce la melodia che tanto le piaceva, dondolando da un piede all'altro e cercando di coinvolgere anche gli altri. Infine scoppiò in una risata disordinata, gettando dietro le spalle la lunga chioma ricciuta. Pur essendo una lontana parente di Jolene, il suo era il tipico aspetto mediterraneo: occhi e capelli scuri, pelle olivastra.
«Ragazze, che cosa prendete?» La voce di Michele si tendeva in maniera innaturale quando la sforzava, dava l'impressione di doversi spezzare da un momento all'altro. Come la sua intera figura, tra l'altro, che era magra e lunga, un fascio di nervi su ossa appuntite.
«Fai quattro shot di tequila», fece Amina.
«Solo per te?»
«Per tutti, scemo.»
Tempo qualche minuto e Jolene si ritrovò in mano un bicchiere minuscolo, il tintinnio con cui colpì i vetri degli altri si sentì appena tra tutto il frastuono.
«A noi!» esclamò Stella.
«E alle notti, che qui non esistono.»
Jolene sorrise di rimando ad Amina: «Cheers!»
L'alcool le scese nello stomaco al pari di una scarica d'adrenalina di cui avesse disperatamente bisogno. Aveva imparato presto che era una parte fondamentale di quelle nottate che, infinite, si trascinavano solo per poi, al mattino, ridursi a qualche attimo di chiarezza immerso nella nebbia. Il tempo si stringeva e si dilatava secondo il proprio capriccio, al pari di una canzone dal ritmo sregolato: ora ti cullava in una lentezza piena di sensazioni, ora accelerava fino a quando non lo vedevi più, ti sembrava di esserti addormentato senza accorgertene. Aveva sempre, però, l'aspetto di un filo infinito, che potevi tirare con più o meno forza, che a volte ti sfuggiva di tra le dita, ma che non si sarebbe mai esaurito. Questa era la certezza che tutti loro condividevano, l'unica che gli permettesse di stordirsi ogni settimana come se le notti che puntualmente dimenticavano non avessero nessun peso. Il tempo stesso veniva negato, durante le feste che erano sempre una uguale all'altra: poteva cambiare il locale, che a volte era una discoteca ed altre, come in quel caso, un capannone affittato da qualche amico di amici; poteva cambiare, in parte, la compagnia, anche se alla fine si vedevano sempre le stesse facce; ma, nel complesso, erano momenti senza contesto, privi di appigli al resto della realtà, slegati come un sogno che se ne sarebbe andato ai primi accenni dell'alba. Avevano anche la stessa consistenza sfilacciata delle visioni: bastava il giusto numero di bicchieri, la musica e le luci facevano il resto.
Quella notte, come tutte le altre dello stesso tipo, Jolene vagò da una parte all'altra, ora intenta a ballare al centro della pista ora fuori, a prendere una boccata d'aria nel fresco di settembre. Bisognava stare attenti a non perdersi di vista, rimanere almeno in coppia, perché poi era un casino ritrovarsi. Così, le figure estranee di Amina e di Michele, oltre a quella di Stella, costituivano un appiglio fondamentale, e sentire le loro voci era un sollievo anche se non le avevano mai detto nulla di veramente importante. Quant'era lontana da ciò che conosceva, eppure le sembrava che quel vuoto apparente nascondesse un significato proprio che solo una sensibilità acuita dalla notte potesse cogliere poiché, al pari dell'incanto di una fiaba, scompariva alle prime luci dell'aurora.
Non le era ben chiaro che ora fosse, ma ad un certo punto si trovava sullo spiazzo all'esterno. Accanto a lei Stella dava calci alla polvere, dalla sua figura parzialmente coperta dall'oscurità faceva l'occhiolino la brace della sigaretta.
«...non capisci, Jolene. Non sono amici tuoi, non ti immagini nemmeno la fatica a mentirgli sempre. Il bisogno di tutta questa segretezza io non ce lo vedo, di loro mi fido.» Da quando si era trasferita in casa sua e la frequentava da mattina a sera anche in ospedale, Jolene era arrivata a conoscere un po' meglio la cugina. All'apparenza era una che non si dava pensiero di nulla, ma la verità era che si tormentava almeno su una questione: Stella voleva confessare ai suoi migliori amici la sua natura di Strega.
«Stella, pensaci. Se ci sono delle regole così strette è perché c'è una buona ragione.»
«Che me ne frega delle loro regole strette.» Calcò l'accento sull'errore. «Loro che le hanno fatte non conoscono nessuna di queste persone. So io di chi mi posso fidare.»
«Magari è il caso di pensarci meglio un'altra volta, non fare niente questa sera.»
«Dicevi così anche sabato scorso, sembri mia mamma, anche lei crede che non so cosa sto facendo. Senti, mi sono decisa. Questa sera...» Lasciò cadere il mozzicone di sigaretta e lo schiacciò sotto il tacco, nel frattempo le raggiunse Amina. Jolene fece passare uno sguardo preoccupato dall'una all'altra, ma d'un tratto la loro attenzione volò ad un gruppetto poco distante. Le loro voci si alzavano cariche di allegria esagerata, risate sguaiate le accompagnavano attraverso l'aria notturna fino a loro. Numerose figure si stagliavano in un rettangolo di luce fredda, tra queste una era il centro indiscusso.
«Pensavo che Michele fosse con voi. Lo stava cercando Marcello, prima», annunciò Amina, rovistando con la cannuccia tra il ghiaccio nel suo bicchiere di plastica ormai vuoto.
«E che vuole da lui? Quei due non si sopportavano nemmeno a scuola.»
«Non so, ma conosci Marcello. Vorrà fare il cazzone, così poi Michele perde le staffe e...»
Jolene non udì il resto della frase: dall'altra parte era appena spuntato Michele, dal modo in cui si stava guardando intorno era chiaro che le stesse cercando. Venne intercettato da Marcello, che gli si piazzò di fronte a braccia larghe, la voce che arrivò indistinta fino a loro sembrava sfottente. Il corpo si Stella si irrigidì all'istante, e con la coda dell'occhio Jolene vide che faceva correre la mano al fianco.
«Stella.» Un monito implicito che le costò un'occhiata in tralice, ma che non portò la cugina ad allontanare la mano dalla fondina dove teneva nascosta la bacchetta. «Stella, dai, andiamo lì e ci prendiamo Michele, poi andiamo via.»
«Non rompere le palle, Jolene, non sta mica succedendo niente. Sentili, stanno ridendo come matti. Voglio solo... rendere le cose ancora più divertenti.»
Jolene scosse la testa: le sembrava di essere approdata in un mondo alieno di cui non riusciva a comprendere le regole. Quei ragazzi avevano trascorso le loro vite intere uno a fianco dell'altro, giocando nello stesso parco del quartiere, frequentando le stesse scuole. I loro caratteri e le loro storie si erano intrecciati in modi che erano noti a tutti, tranne a lei, e proprio per questo nessuno si prendeva la briga di spiegarle il perché di tutte quelle tensioni nei momenti più impensati, delle battute che sembravano alludere a tutto e a niente, dell'ansia di non far mai incrociare questo e quello da soli quando erano ubriachi. Non possedeva gli strumenti per decifrare nessun comportamento, se non quello della cugina, che in quel momento appariva anche fin troppo chiaro: per motivi suoi, che andavano dall'enorme affetto che la legava a Michele, all'avversione esplicita per Marcello, ai sensi di colpa che la rodevano ogni volta che doveva coprire con una bugia la sua vera natura ‒ insomma, a causa di tutto questo, e di chissà cos'altro ancora, Stella stava per fare la cosa più stupida di tutte.
Nel frattempo, dall'altra parte dello spiazzo le risate si erano un po' smorzate, mentre i ragazzi si disponevano intorno a Marcello e Michele. La luce piazzata sul muro esterno della struttura scavava nei visi ombre dalla rigidità di legno, tagliando impietosamente le occhiaie profonde della stanchezza, le pieghe intorno alla bocca contratta. Sembrava impossibile che quelli fossero gli stessi volti che aveva osservato di giorno, erano completamente trasfigurati da una tensione che sentiva stesse per esplodere tra di loro ma, prima ancora, in Stella.
Ed infatti la cugina si mosse repentina, a dispetto di tutto l'alcool che aveva ingerito. Prima ancora che Jolene potesse fermarla, aveva già estratto la bacchetta e la stava puntando contro Marcello, un sorriso sbieco a far lampeggiare il bianco dei denti. Jolene si attaccò al suo braccio un attimo troppo tardi, riuscendo a cambiare la traiettoria della fattura non verbale ma senza impedirne l'esecuzione. A quel punto fu un unico istante prima che il caos esplodesse del tutto: un forte rumore di vetri infranti raschiò contro i timpani, seguito da pochi secondi di silenzio prima che le voci esplodessero in coro. I ragazzi cominciarono a muoversi disordinatamente, mentre altra gente arrivava dall'interno del capannone.
«Che cazzo è successo?» Amina le affiancò per qualche secondo prima di correre verso gli altri, era evidente che non si era accorta dei movimenti delle due cugine. Jolene scoccò a Stella un'occhiata piena di rabbia, mentre quella fissava imbambolata di fronte a sé, quasi non si capacitasse di che cosa era successo.
«Doveva essere solo uno scherzo, non doveva rompersi niente...» riuscì a borbottare, ma Jolene era già corsa dietro ad Amina.
Si stavano tutti accalcando intorno alla finestra che si era rotta: era rimasto appena qualche spuntone di vetro intorno all'intelaiatura, il resto era tutto schizzato all'interno, che fortunatamente era solo un magazzino. Ma per terra giaceva Michele, stordito, che si teneva un braccio interamente insanguinato.
«...andato contro il vetro, l'ha rotto del tutto...»
«...spinto, ho visto che l'hanno spinto!»
«Ma se non l'ha toccato nessuno...»
«Fate spazio, lasciatemi passare.» Tra tutta la calca, Jolene riuscì ad aprirsi un varco fino a raggiungere Michele. Non sapeva che incantesimo volesse fare Stella, ma il suo stato alterato, unito all'intervento di Jolene, doveva aver prodotto una spinta che aveva mandato il ragazzo contro alla finestra. Rivoli di sangue gli scorrevano dalla tempia sinistra fino a sgocciolare sul collo, mentre il braccio corrispondente era segnato da tagli in cui si erano insinuate piccole schegge. Se non era finito direttamente dall'altra parte della finestra sfondata era solo perché qualcuno aveva avuto la prontezza di afferrarlo per un braccio.
Le voci si alzavano intorno a loro al pari di una marea impazzita; tra toni increduli e spaventati, qualcuno accusava e qualcun altro mandava una risata stridula che più di tutto appariva fuori posto. Tutto quel chiasso le stringeva il cranio in una morsa dolorosa, ma incredibilmente riuscì a mantenere abbastanza lucidità per gridare di non stare lì imbambolati, di aiutarla a sollevare Michele per portarlo in ospedale. In testa le pesavano ancora i bicchieri bevuti, ma ormai erano passate un paio d'ore dall'ultimo, ed era padrona di se stessa quanto bastava per sentire come insopportabile tutto l'inutile agitarsi degli altri.
«Ti aiuto io.» Sollevò lo sguardo su Marcello: serissimo, pallido come un lenzuolo e altrettanto stropicciato nel viso contratto, le porse la sua giacca. Jolene la annodò intorno al braccio ferito, facendo attenzione a non stringere, così che non rischiasse di insinuare ancora più in profondità le schegge. A quel punto Marcello si inginocchiò accanto a loro e fece passare un braccio sotto alle spalle di Michele. «La mia macchina è di qua, lo portiamo in ospedale.» Si ricordò allora di quel che dicevano di lui, che non beveva mai nemmeno alle feste. Aveva delle allergie, o qualcosa del genere. Jolene quindi annuì, e prese a seguirli, reggendo Michele dall'altro lato quando sembrava che le gambe gli stessero per cedere.
«Oddio, Michele...» Stella li raggiunse di corsa, aveva l'aria stravolta. Dietro di lei c'era Amina.
«Non è niente di grave, Stella. Dovranno solo togliergli le schegge, magari dargli qualche punto.»
«Ma non si regge in piedi!»
«Per forza, pure prima faceva fatica.»
La macchina di Marcello era nel parcheggio poco lontano, la raggiunsero e misero Michele sul sedile posteriore. Aveva ancora gli occhi appannati, non gli usciva nessun suono dalla bocca socchiusa: aveva l'aria ottusa di un pesce che non si capacitasse di essere stato tirato fuori dall'acqua. Non ci fu modo di impedire ad Amina e Stella di salire anche loro, così la prima si piazzò davanti, accanto a Marcello che guidava, mentre le due cugine si sedettero ciascuna ad un lato del ferito.
«Voi non siete infermiere? Non potete fare qualcosa?»
«Non possiamo fare molto più di questo, con tutte schegge» rispose Jolene, lanciando un'occhiata significativa a Stella. Non avrebbero certo potuto curare Michele di fronte agli occhi di tutti, non con gli strumenti a loro disposizione.
«È colpa tua» le sibilò la cugina, il fascio di luce di un lampione che come un fulmine le si rifletteva nelle pupille nere. «Se non avessi cercato di fermarmi non sarebbe successo niente del genere.»
«Ah, no? Stella, biascichi, a malapena riesci a mettere a fuoco. È così che vuoi metterti la coscienza a posto?» Quello parve placarla, e smisero di sussurrare furiosamente una contro l'altra. Il resto del viaggio lo passarono in silenzio, l'abitacolo che di tanto in tanto veniva investito dal fascio di luce impietoso di un paio di fari. Marcello fissava la strada come se nemmeno fosse lì, Amina si girava in continuazione per vedere come stesse Michele, ma quello non si riscosse. In quel momento sembrava che nessuno trovasse strano l'aiuto di Marcello, quando solo fino a qualche minuto addietro non aspettava altro che attaccar briga. Dal canto suo, si vedeva che trovarsi insieme a quelle persone lo rendesse nervoso, e si era guardato bene dal rivolgere la parola a chiunque di loro, se non a Jolene. Non fu un viaggio piacevole, ma per fortuna ci misero poco a raggiungere il pronto soccorso.
Quando uscirono dall'auto, il cielo era una massa scura coperta da un alone vagamente fluorescente, come in tutte le città non era mai davvero nero. Inutile tentare di scorgere il puntino luminoso di qualche astro, e d'altronde i lampioni e le luci dell'ospedale erano così violenti da accecare.
Lasciarono Michele nelle mani dei medici e loro dovettero rimanere nella sala d'accettazione, non gli permisero di mettere piede oltre. Marcello resistette giusto cinque minuti prima di andare a fumarsi una sigaretta e sparire così per tutto il resto del tempo. Rimasero quindi solo le tre ragazze, ciascuna seduta su una scomoda sedia di plastica grigia. Insieme a loro c'erano un'altra mezza dozzina di persone, tutte ad occhi bassi e braccia incrociate, i visi smunti sotto alle lunghe lampade bianche incastrate nel soffitto. Si sentiva distinto il loro ronzio incessante, come quello di grosse mosche. Faceva venire il mal di testa. Era inutile chiudere gli occhi in cerca di un po' di riposo, non c'era velo dietro a cui nascondersi sotto alla luce degli ospedali. Jolene lo sapeva bene, e ritrovarsi di nuovo in quel tipico ambiente chiaro e sterile, come una grossa lavagna bianca spoglia di qualsiasi segno, le fece venire il voltastomaco. Aveva bisogno di dormire, di sentire intorno a sé l'abbraccio confortevole del buio, ed invece le veniva continuamente negato.
«Tutta questa notte sembra un maledetto incubo» borbottò Stella ad un certo punto, e Jolene dovette convenire. «Mi sa che hai ragione tu» soggiunse infine la cugina, e non ci fu bisogno di chiarirsi per capire che cosa volesse dire. Jolene si limitò ad annuire: confidarsi dopo quanto successo avrebbe gettato sulla Magia una luce impietosa almeno quanto quelle maledette lampadine ronzanti, ne avrebbe sottolineato gli aspetti grotteschi, pericolosi, avrebbe portato Michele ed Amina ad avere paura. Meglio che rimanessero all'oscuro.
Parve passare un tempo interminabile prima che ricomparisse Michele. Aveva il braccio fasciato e un paio di garze gli nascondevano parte del viso, ma finalmente i suoi occhi avevano riacquistato un'espressione cosciente. Stella corse ad abbracciarlo, seguita da Amina. Jolene si limitò a rivolgergli un sorriso leggero, a fior di labbra, che quello ricambiò impacciato ma, le parve, con un calore nuovo.
«Grazie per quello che hai fatto», le mormorò mentre stavano uscendo. «Ricordo tutto male, ma so che sei stata la prima ad aiutarmi.»
«La nostra Jolè è in gamba, vero? Allora alla fine vi serve a qualcosa, quel corso di infermiere», intervenne Amina, prendendo entrambi a braccetto mentre si dirigevano verso la macchina di Marcello: nessuno ci aveva sperato, ma alla fine li aveva aspettati.
Dapprima irrigidita al contatto con quel corpo estraneo, Jolene si rilassò fino a sciogliersi in un sorriso più largo. Guardò Stella, e anche lei aveva un'espressione più serena, ora che il mattino aveva cacciato via l'incubo. Perché il cielo si era ormai tinto delle pennellate rosate dell'alba, ed era una luce così gentile, si diffondeva soffusa sui loro visi facendoli apparire tutti giovani e belli come erano davvero.

 
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view post Posted on 28/10/2020, 11:21
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Il frammento è ambientato esattamente un anno prima rispetto al momento attuale.






E siccome tu sei speciale, la casa ti conosce. Quando urli, le luci sfarfallano, in un azzurro spettrale e discontinuo.
Quando lei dice che sei
spenta, gli interruttori della luce fanno cenno di sì con le loro testine bianche. Le tegole cigolano agli editti di lei – dev'esserti successo qualcosa di brutto per ridurti così, così come non la vuoi. Ma le finestre sbattono, in disaccordo. Nella loro sdolcinata luce senza persiane, lo vedono – qualcosa di brutto sta succedendo.
Leah Horlick, Ghost House

Casa infestata

Una casa infestata è sempre un mistero. Striscia negli angoli bui in cui non si osa guardare, si arrampica lungo le porte e dentro alle serrature in una chiusura più ermetica di quella che potrebbe avere qualsiasi chiave: è la domanda che alimenta il lungo gioco sfiancante, perché? I luoghi non nascono infusi di una natura maligna, la personalità viene loro impressa dagli eventi di cui sono palcoscenico e platea; porose come spugna, le pareti assorbono l'essenza profonda di chi le abita e infine la riversano sugli stessi, in un circolo che si alimenta in più riprese, ancora e ancora, ancora ancora finché non se ne esce impazziti. Si dice che i luoghi abbiano memoria, così diventa indispensabile, per risolvere il mistero, ripercorrere il tempo a ritroso fino a veder reincarnati i fantasmi e poterli chiamare per nome. Sono tutti d'accordo nel ritenere che solo eventi terribili possano generare spettri duraturi; allora, forse è presuntuoso pensare di confrontarsi con una casa infestata ed uscirne del tutto incolumi.
Il primo grande errore, a proposito di questo tema, è pensare che solo una casa estranea possa rivelarsi abitata da inquilini indesiderati. Niente di più falso: anche le mura in cui si ha trascorso la propria infanzia possono tingersi di pericolose ombre inaspettate.
Non è nemmeno necessaria una collocazione particolarmente isolata, perché anche il più tranquillo quartiere di Londra nasconde i propri misteri. Basta immaginarselo: è l'ora in cui le luci sono spente e le finestre cieche, quando il brusio delle televisioni è cessato già da qualche tempo; gli ultimi ritardatari sono ormai rientrati, lasciando le strade ai gatti, silenziosi, e al vento, che invece si ode stormire tra le foglie degli alberi. I rami oscillano tremano si scuotono a seconda del suo capriccio; le loro ombre penetrano attraverso una delle tante finestre e poi, stagliate contro ad una delle quattro pareti di una stanza anonima, si esibiscono in una danza disordinata per gli occhi di una spettatrice qualunque. Senza volerlo, sono entrate nella casa infestata.
Il fatto che le pareti siano quattro è importante in questo momento, perché lei – l'unica vera lei della storia – le percepisce distintamente come sentinelle della sua insonnia. Sono le stesse che l'hanno vista crescere, eppure sembra che, dopo essere state abbandonate per anni, ora siano ostili al suo ritorno. Vi è tornata come chi cerca rifugio durante un temporale ma, ora che è qui, le pare che i muri siano pregni di umidità e pronti a deformarsi intorno a lei come cartone, intrappolandola sotto al loro peso.
Lei ha un nome, naturalmente, ma non è importante. Nemmeno il suo aspetto lo è, se non nella misura in cui riflette il suo orrore: le gambe sottili attorno a cui si attorcigliano le lenzuola, bianco lunare su bianco osso, tanto che non è chiaro dove finisca il tessuto e cominci la pelle; la macchia di sangue dei suoi capelli, spanta intorno ad un volto segnato dalle ombre profonde di una stanchezza irrequieta. Il luccichio degli occhi dardeggia un unico istante prima di venire soffocato dalle palpebre pesanti: sente che gli incubi si stanno avvicinando, e non vuole guardarli. Non osa.
Anche se la casa non è vuota – ad appena un corridoio di distanza dormono una madre e un padre malato –, è sorprendente quanto profondo possa essere l'isolamento di una porta chiusa. Tra le quattro mura che chiudono ora tutto il suo mondo, lei ha paura. Aleggia per la stanza, il suo terrore, più gelido del vento ottobrino all'esterno. Basta un unico secondo di cedimento perché i polmoni si svuotino e si riempiano di nuovo, inalando il freddo come un veleno che presto pervade l'intero organismo. Allora le cose cominciano a prendere vita: i mobili, i libri, le pareti stesse brulicano di un'attività sotterranea che spinge per deformarli, strappare i loro contorni fino a renderli irriconoscibili per ciò che sono. Ma che cosa, che cosa sta succedendo? Lei lo sa, la sua pelle viene percorsa da brividi gelati e le gambe scivolano velocemente sotto alla coperta. Come se potesse proteggerla.
La stanza è piccola, soffocante. Basterebbero pochi passi per passare dal letto alla finestra, dal letto all'armadio, dal letto alla scrivania. Quest'ultima è stranamente sgombra, così il quaderno che giace aperto in un angolo attira su di sé tutta l'attenzione. Una pagina è stata strappata via come carne, i bordi frastagliati che si è lasciata dietro altrettanto bianchi; la ferita sanguina di nero da una penna che è stata abbandonata poco più in là, goccia plic plic dopo goccia l'inchiostro impregna il vecchio legno. Il quaderno è il diario di lei, la pagina tranciata una storia che, nel vuoto della sua assenza, acquista un'importanza fondamentale. La rivelazione arriva repentina: basterebbe trovare quell'unico pezzo di carta per risolvere il mistero.
Inizia la ricerca ed è frenetica: è fondamentale avere le risposte prima che tutto degeneri, prima che l'incubo faccia ripiegare la casa su se stessa per inghiottirla. Ma il foglio non si vede da nessuna parte, gli spettri devono averlo nascosto per non lasciar trapelare i loro segreti. Una sparizione lascia sempre qualche traccia, così nella stanza ci devono essere degli indizi: forse un messaggio intagliato nei graffi sulle ante dell'armadio, o, ancora, tra i libri allineati lungo gli scaffali – ma no, tutta la loro conoscenza non rivela questo particolare segreto. La finestra è solo un rapido scorcio di luce lunare e contorte trame di fronde, è inutile studiarla troppo a lungo: la casa infestata non lascerà mai le sue prede prima che si siano confrontate con tutte le risposte.
Lo specchio di districa appena dalle tenebre negli angoli, con la sua superficie stranamente appannata, quasi che la paura vi alitasse sopra una patina di condensa attraverso cui il riflesso di lei perde di nitidezza. Se solo piegasse abbastanza la testa e aprisse gli occhi verso il vetro, lei potrebbe ricambiare lo sguardo della casa. Ma non osa, ostinata si trincera nel buio dietro alle proprie palpebre, anche se non serve a fermare l'avanzata dei fantasmi.
Per primo arriva il tremito: ha albergato negli oggetti così a lungo, ne ha scosso i contorni fino a quando infine non è riuscito a tramutarsi in movimento tangibile. Anche se non fanno rumore, le gambe del letto traballano sopra al pavimento. Lei lo sa perché sente distintamente la scossa, come se l'intero mondo si piegasse al primo passo dell'avanzata di un gigante mostruoso. E mentre la stanza trema e trema il suo corpo, lei comincia a guardare ad occhi sbarrati. Spaventoso è lo sguardo in cui si riflette la casa degli orrori: dardeggia lungo il pavimento in un percorso sconnesso, disordinato, e là dove le pupille tracciano le linee del loro panico nascono crepe profonde fin nelle viscere della terra, e la terra sanguina e il sangue impregna le assi fino a quando le nervature del legno diventano vene di morti. È rosso il percorso dal letto alla finestra, dal letto dall'armadio, dal letto alla scrivania, il ruggine scorre sotto ai mobili e tra le dita del cadavere che giace riverso proprio al centro. L'uomo fissa le sue orbite morte sul lampadario che gli pende sopra alla testa come a domandargli il perché, di chi è la colpa se ora il suo guscio verrà inghiottito dalla bocca sanguinolenta della casa? Lei guarda il suo braccio teso, ora rigido e stranamente spigoloso, immagina di giacere al suo posto, ad invocare una giustizia che mai potrà arrivare senza una spiegazione. Ma, anche ad ispezionare quella carcassa – le gambe piegate ad un'angolatura innaturale, l'umidità scarlatta a macchiare il petto, le labbra, inutilmente dischiuse, cui è già sfuggito l'ultimo fiato –, anche a cercare con grande attenzione, non c'è nulla che dia conto dell'orribile crimine.
Mentre il cadavere diventa luogo di gelo, la pelle di lei, invece, comincia a venire deturpata da un calore che cresce con violenza. Tra le lenzuola che ha riscaldato con la sua febbre il fuoco si allunga a bruciarle le mani, sale fino ai gomiti con voracità demoniaca. Il dolore causato dagli spettri è reale, ed è questa, probabilmente, la parte più spaventosa; deve serrare i denti per non urlare, il loro stridio si confonde con gli scricchiolii che ora provengono dalle fondamenta della casa, sembra che l'intera struttura non sia altro che legna in procinto di ardere. Anche le lacrime bruciano, quando non riesce più a trattenerle. Le appannano la vista, così vengono accolte di buon grado, ma non fa in tempo di godere di un simile sollievo illusorio che le urla tramutano definitivamente la casa dell'infanzia nel paesaggio degli orrori. Volteggiano tutto intorno a lei, invisibili fantasmi maligni che imitano la sofferenza più feroce, la paura l'istante prima di morire tra il fuoco e sotto alle macerie della casa.
La voce di lei si unisce al coro e acuta taglia la notte con la concretezza di una lama d'acciaio. Allora, come un corpo che sia a sua volta infestato, si dimena e scalcia via la coperta – il sudario –, mulina le braccia indolenzite dalle ustioni, perfino la testa si solleva di scatto. Solo in quel momento la sua coscienza incontra lo specchio. Vi si ferma, pietrificata, cogliendo in un unico istante la realtà del proprio corpo emaciato, bianco come carta, come il foglio che giace appallottolato ai piedi del letto. Immediatamente il suo sguardo corre a cercarlo, ed è il momento che gli spettri temono fin dal principio: l'indizio che è chiave di tutto, la risoluzione finale del mistero della casa infestata. Curioso quanta importanza possa avere un foglio di carta sottile, e come le pochissime parole vergate con mano incerta gettino definitivamente luce sugli incubi della notte.
Come se percepissero di essere state chiamate per nome, le lampadine si accendono con un leggero scatto metallico. Richiamati dalle urla, la madre e il padre malato infrangono la barriera della porta e il velo del buio per correre a consolare, calmare, lenire il dolore. La casa infestata vuole isolate le proprie vittime, ma ormai la sua minaccia non ha più nulla di estraneo; un messaggio striminzito le ha tolto il potere del mistero:

31 agosto.

Solo una data, nient'altro; eppure, è sufficientemente eloquente per lei. Lei, che non ha bisogno di sentire il proprio nome pronunciato dalle voci vecchie dei genitori, perché ora non se lo tiene più nascosto. Jolene, dicono loro, nondimeno, chiamandola come lei potrebbe chiamare per nome tutti i suoi spettri. Jolene, come Ardemonio e Hogsmeade e profezia e morte, una cantilena di incubi e flashback che, al pari di un corteo funebre, segue la fatidica data di più di un mese addietro.
Madre e padre calpestano il pavimento integro, sono spariti tanto le crepe quanto il sangue di decine di feriti; anche il corpo del venditore ambulante ha ceduto il posto alla sola aria. Quando la donna, nel tentativo di calmarla, fa correre le dita sulle braccia di sua figlia, incontra liscia pelle ormai guarita dalle ustioni di incendi che sono stati reali. Arriva, così, la risposta definitiva, il tassello che infine rivela ogni fantasma per quel che è. Con l'ultima rivelazione, la tensione si allenta percettibilmente: ora che è stata fatta luce non vi è più spazio per la sorpresa. Perché è chiaro, ormai, che ogni cosa non ha mai avuto vita al di fuori di Jolene. Lei è la casa, la casa è lei, gli spettri che hanno dimora tra le pareti della sua mente le appartengono in un legame che è impossibile tranciare.

contest a tema ottobre 2020 - mistero





Piccola nota (da leggere dopo al racconto):
Come specificato all'inizio, questo particolare episodio si colloca ad ottobre, all'incirca un mese dopo l'evento Di narcisi e di fiamme, cui è strettamente legato. Jolene è stata profondamente traumatizzata da quanto vissuto in quell'occasione, e tutti i suoi spettri nascono da lì. Nel secondo post della scheda personaggio ho inserito un riassunto piuttosto preciso di tutto quello che le è accaduto nel corso del disastro; non è necessario alla lettura, lo cito solo per scrupolo, poiché può spiegare con maggiore precisione il perché di quanto rivissuto in questa occasione.


Edited by Unconsoled - 28/10/2020, 17:00
 
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view post Posted on 30/12/2020, 12:32
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Una piccola casupola polverosa è tutto ciò che rimane della reggia in cui ho trascorso quasi ogni Natale della mia infanzia. Mi chiedo come i miei genitori abbiano potuto pensare che fosse una buona idea riportarmi qui oggi, ora che ho più di vent'anni e lo sguardo di un'adulta. Chiacchierano attraverso i muri sottili, papà in soggiorno mentre tenta di accendere il vecchio camino e mamma in camera, dove sta disfacendo i bagagli. Le loro voci si rincorrono in una sonorità strana, vagano nel labirinto delle stanze vuote impiegando qualche istante di troppo prima di arrivare a destinazione. Papà tossisce per il fumo che sta uscendo dal camino ostruito, io starnutisco per la polvere che si è depositata sui mobili in tutti questi anni di abbandono. Mamma grida dall'altra stanza, papà si è portato il maglione buono per il giorno di festa?
La luce che filtra attraverso le tende ingrigite fa perdere colore ad ogni cosa: le pareti di un bianco sporco, le travi di legno del soffitto, i mobili scuri e pesanti, i quadri scoloriti appesi qua e là, e ovunque, ovunque due dita di polvere, così tanta che sembra di respirarla. Mamma insiste che avremo già rimesso tutto a nuovo per quando arriveranno i parenti dall'Italia e, anche se con la magia non ci vorrà davvero niente, fatico a credere che questo relitto del passato riacquisterà mai vita. Vedo che papà mi spia con la coda dell'occhio, devo avere in faccia il broncio di quando “divento malinconica”, come dicono loro. Quest'anno è successo spesso che diventassi malinconica, e il vuoto che sento in questa casa delle vacanze non fa che acuire la sensazione di tristezza: siamo distanti miglia e miglia da qualsiasi città, l'agglomerato più vicino è un paese piccolo e deprimente, e la neve non fa che cadere, come se fosse intenzionata a far perdere del tutto le nostre tracce.
Cerco di controllare la mia espressione in una serena indifferenza. Mi dico che ci sarà più luce quando saranno arrivati tutti gli altri, la zia, lo zio, Stella e Lisa. Fino ad allora non devo che tenermi occupata, così da non pensare.
Quasi avesse udito le mie elucubrazioni, mamma si affaccia sul salotto. «Jolene! Vai nella vostra stanza. Falle prendere un po' d'aria, disfa i bagagli. Non startene con le mani in mano».
Anche attraverso il vuoto, le sue parole trasportano un carico di ricordi che credevo ormai lontanissimi.

«Jolene, Stella, Lisa! Andate nella vostra stanza, è ora di dormire.»
Quando eravamo bambine, la casa delle vacanze era il nostro luogo preferito in assoluto. Era lì che potevamo ritrovarci due volte all'anno, a Natale e in estate. Quella volta, in particolare, era inverno, e la neve era una spolverata di zucchero a velo a decorare gli abeti e i pini intorno al giardino. Avremmo voluto rimanere sveglie per tutta la notte, io e le mie cugine. Lisa e Stella mi stavano affianco, accoccolate sotto al tavolo da pranzo, che avevamo eletto a nostro rifugio. Anche da lì sentivamo il delizioso profumo dei biscotti alla cannella, che, da solo, bastava a far venire l'acquolina in bocca. Lisa ne stava ancora smangiucchiando uno, impasticciandosi tutta la faccia con le sue manine impacciate da bambina di cinque anni. Io e Stella, che ne avevamo sette, guidavamo tutti i giochi; lei ci seguiva blanda, ora interpretando la figlia quando giocavamo a mamma e papà, ora trotterellando dietro di noi mentre scorrazzavamo per il giardino a caccia di gnomi.
In quel momento eravamo semplicemente noi stesse, intente a nasconderci dalle regole inflessibili degli adulti, confabulando a bassa voce per non far trapelare i nostri segreti.
«Forza, non fatemelo ripetere ancora. Siete rimaste sveglie abbastanza, se andate a letto troppo tardi come farà Babbo Natale a portarvi i regali, questa notte?»
Piombata su di noi come un tornado, mamma ci fece uscire che eravamo ancora imbronciate. Fuori dall'ombra del tavolo il mondo era un'esplosione di colori vivaci: il rosso sui fiocchi che decoravano le tende, sui festoni appesi tutto intorno alla cucina, sul vestito coi di volant di mamma, che era giovane; c'era poi l'oro, l'oro delle candele incantate a fluttuare appena sopra la testa dello zio, che era il più alto; e poi il verde delle ghirlande, del gigantesco albero che si intravvedeva dalla porta aperta sul soggiorno.
Ci dirigemmo di là, con la mamma ancora alle calcagna. Lo zio, la zia e papà erano davanti al caminetto, dove scoppiettava un fuoco vivace. Quando ci videro smisero di chiacchierare e vennero a darci la buona notte. Papà ci fece volteggiare in aria una alla volta, Lisa non la smetteva più di ridere.
Alla fine la mamma ci accompagnò verso la nostra camera, in fondo ad un corridoio lunghissimo e sempre più buio e freddo del resto della casa, così che anche quella volta lo percorremmo correndo a perdifiato. «Prima!», gridò Stella quando toccò la maniglia.

Il corridoio sembra molto più corto ora e, anche se so che è il mio corpo ad essere cresciuto, non riesco a scacciare l'inquietante sensazione che la casa si sia ristretta, probabilmente scossa da un violento brivido sotto al gelo di così tanti inverni. Nella penombra la mia mano è grigia mentre si protende verso la maniglia, nera la stanza su cui si spalanca la bocca della porta. Il freddo mi travolge in una zaffata di muffa e chiuso che per poco non mi toglie il fiato. A tentoni riesco a trovare l'interruttore, che con uno schiocco rivela le forme dei mobili sotto ad un fascio di luce giallognola. Due letti a castello, quattro materassi in tutto – spessi, di un bianco sporco, sembrano altrettanti blocchi di marmo. Un grosso armadio a sei ante, antico e minaccioso, si alza fino al soffitto; accanto, un basso tavolino sembra uno scarafaggio sul punto di venire schiacciato. Qualche sedia sparpagliata nel disordine residuo dell'ultima partenza è l'unico indizio a suggerire che un tempo questo luogo sia stato vivo.
Mi bastano pochi passi per raggiungere la finestra, in compenso devo armeggiare per qualche minuto prima di riuscire ad aprirla: il gelo e una patina di ruggine hanno bloccato il meccanismo, e lo stesso vale per gli scuri di legno oltre il vetro. Infine anche quel gancio cede, e dopo uno schiocco sonoro compare la prima fessura di luce, che si allarga velocemente sul paesaggio glaciale. Solo un largo prato innevato, e alberi piegati sotto al peso della neve, quella neve spessa che mi fa pungere l'aria contro alle narici. Abbasso lo sguardo sulla macchia disordinata di cespugli che cresce appena sotto la finestra: mi basterebbe allungare leggermente il braccio per sfiorarne le foglie con le dita. Da quest'altezza così modesta non è difficile immaginarsi di potersi calare fuori, perfino dei bambini potrebbero farlo. Delle bambine l'hanno fatto, una vita addietro.

Dopo che la mamma ci ebbe dato la buona notte ed ebbe spento le luci, aspettammo qualche minuto prima di riunirci tutte a confabulare sotto alle coperte di Stella. Dovemmo fare attenzione, io e Lisa, quando uscimmo dai nostri letti, perché ad ogni passo avremmo potuto inciampare nelle bambole e nelle costruzioni di cui era disseminato il tappeto, o urtare le sedie su cui erano sistemati con cura i nostri vestiti più belli, stirati e pronti per il giorno seguente.
Ognuna di noi sprofondava leggermente nel materasso, creando dei piccoli avvallamenti in cui venivano attirati i peluche preferiti di Stella. Con la coperta tirata sopra alle nostre teste, respiravamo i nostri segreti, sussurrati con aria di grande mistero nell'illuminazione dorata di una piccola torcia.
«Vi ricordate qual è il piano, vero?» Io annuii, Lisa mi imitò. Io e Stella avevamo discusso in lungo e in largo del modo in cui quella notte, la notte di Natale, saremmo sgattaiolate fuori dalla finestra per raggiungere il ruscello che scorreva a qualche minuto di cammino dal nostro giardino, oltre la piccola macchia di pini, e che ogni inverno, ghiacciando, diventava una pista di pattinaggio ideale. Conoscevamo la strada per averla percorsa più volte insieme ai nostri genitori, gli anni addietro. Ci avevano accompagnato anche durante quelle vacanze, la prima sera, ma Layorona li aveva spaventati e da allora si erano rifiutati di lasciarci andare ancora. Noi non capivamo la loro paura: certo, Layorona gridava e piangeva da spezzare il cuore, ma noi eravamo convinte che quella fata vestita di nero fosse buona. Inizialmente l'avevamo vista solo di spalle, quando, girata verso il ruscello, si lamentava alzando le mani verso il cielo. Ma erano delle mani bellissime, quelle di Layorona, piccole e bianche, affusolate come quelle delle principesse nei libri illustrati. Anche la sua schiena era sottile, e, quando ci aveva sentiti e si era girata, era chiaro che sotto al velo nero ci fosse un viso bellissimo, luminoso come la neve appena caduta. Avremmo potuto aiutarla già allora, ma la zia e papà ci avevano strattonate via, lasciando che fossero mamma e lo zio, da soli, ad avvicinarsi a lei. In seguito l'avevano chiamata donna fuori di testa, povera donna, e avevano scosso la testa con aria triste e rassegnata. Non avevano voluto dirci niente, solo per caso eravamo riuscite a sentire il suo nome, mormorato dallo zio come una brutta parola: Layorona. Layorona va a piangere a quel ruscello tutte le notti, si dicevano tra di loro i grandi quando credevano che non ascoltassimo. Ma a noi interessava moltissimo saperne di più di lei, e ci eravamo convinte che, se solo fossimo andate a consolarla, Layorona avrebbe smesso di essere triste, i suoi veli neri sarebbero diventati bianchi e lei avrebbe cominciato ad andare al ruscello per ridere, non per disperarsi.
Così, visto che non c'era verso di convincere i grandi a lasciarci andare, avevamo deciso che quella notte saremmo uscite di nascosto. Una volta ripassato il piano, sgusciammo fuori dal letto e ci mettemmo in azione. Non fu difficile: tenevamo le scarpe in un angolo della stanza, e Stella mi resse la torcia mentre allacciavo anche quelle di Lisa. Le giacche però erano fuori, nell'ingresso, così dovemmo avvolgerci intorno i piumoni dei letti, cosa che ci rese un po' maldestre quando dovemmo calarci fuori dalla finestra. La parte più complicata fu aiutare Lisa, la cui coperta si impigliò e si strappò con un suono raccapricciante, ma alla fine ruzzolammo sui cespugli sotto alla finestra e poi ci tirammo su in piedi, incredibilmente felici della nostra bravata, dell'avventura che ci prometteva il cielo limpido sopra di noi. Ci incamminammo in fila indiana, con i nostri mantelli improvvisati che spazzavano via le orme nella neve alta.

Mi ritrovo a fissare con insistenza i tronchi dei pini che contornano la distesa di neve; mi sembra che, se solo guardassi con abbastanza attenzione, potrei scorgere tre minuscole figure in marcia. Naturalmente, nella realtà è tutto deserto. Quei ricordi sono morti moltissimo tempo fa, eppure... Eppure.
Mi muovo velocemente per non darmi il tempo di pensare: chiudo la finestra, esco dalla camera e in poche, rapide falcate sono di nuovo nel salotto, dove mio padre solleva dal caminetto la faccia arrossata in cui gli occhi azzurri sembrano brillare di un interrogativo muto.
«Vado a prendere un po' d'aria» annuncio, giustificando così la mia evidente fretta. Nel breve tempo che impiego ad infilare il giaccone sia mamma che papà prendono a sciorinare gli effetti positivi delle passeggiate sull'umore, e altre banalità che normalmente non gli appartengono e che testimoniano inequivocabilmente quanto siano sollevati di vedermi prendere l'iniziativa. Sorrido velocemente prima di salutarli e chiudermi la porta alle spalle.
Fuori, i miei piedi affondano nella neve fresca proprio come allora. Ho un ricordo straordinariamente vivido di quella marcia notturna, e le sensazioni passate tornano a pervadermi repentinamente, una dopo l'altra come tasselli di un'immagine che ancora resta incompleta. La luce lattiginosa del primo pomeriggio guasta il percorso tra gli alberi di un'insopportabile banalità, rivelando un sentiero largo e dritto, una passeggiata che potrebbe fare qualunque famiglia la domenica pomeriggio. Era tutto così diverso, invece, quando ci muovemmo qui al chiaro di luna. Stella guidava il gruppo, io lo chiudevo, e di tanto in tanto dovevo correre a sostenere Lisa quando inciampava nelle piccole irregolarità del terreno che la neve nascondeva. Ci sembrò di camminare per mesi in una notte perpetua, eravamo i personaggi incantati di un libro di favole. Sembra incredibile che questi filari ordinati possano aver visto un tempo come quello, in cui tutto era intriso di una magia che oggi mi rendo conto essersi dispersa, come un ricordo privo di rilevanza. Il risultato è che i ricordi sono molto più vividi di ciò che sto vedendo in questo momento. Il ruscello – che allora ci si era mostrato in una rivelazione tanto attesa quanto improvvisa, impreziosita dalla coperta del cielo punteggiato di stelle –, lo stesso ruscello non è che una cosa priva di interesse, un corso d'acqua poco profondo reso muto da uno spesso strato di ghiaccio. Non c'è niente di mistico o maestoso in questo scorcio, le illustrazioni delle fiabe non potrebbero mai prenderne ispirazione. Me ne rendo conto, e subito dopo mi sembra che il freddo sia più intenso e mi raggiunga nelle ossa in una sgradevole sensazione pungente a cui prima non avevo badato.
Mi stringo le braccia intorno al corpo, quando un colpo di tosse alla mia destra mi fa voltare con un sussulto. Non mi ero accorta della figura nera e sottile che, china sull'acqua, mi dà le spalle, ma la sua vista mi colpisce come un impatto concreto, fisico. Il primo pensiero è l'unico possibile, quello che racconta una storia che non avrei creduto di disseppellire:

Layorona. Era lì, piegata e contorta come un vecchio tronco d'albero. Sembrava che ogni movimento le causasse un dolore atroce, perché ora un'ampia parentesi disegnata dal braccio, ora uno scatto repentino della testa le strappavano gli urli più terribili che avessimo mai sentito: entravano nelle ossa, le graffiavano con quella leggera nota rauca che instillava la terrificante idea che Layorona si lamentasse da ore, forse da sempre. Anche allora, bambine, ci rendemmo conto che tanta sofferenza non poteva appartenere solo al corpo. L'ombra delle grida ci aveva guidate nel bosco, ci aveva portate a scambiare occhiate impaurite, ma non avevamo demorso ed ora eravamo lì, ad appena qualche passo dalla fata della disperazione. Non c'era da stupirsi che non ci avesse sentite mentre ci avvicinavamo, e di certo non poteva vederci, rivolta com'era verso il ruscello, come se solo quello potesse raccogliere le sue angosce per trasportarle verso il mare.
Per qualche minuto rimanemmo immobili, annichilite. Non osammo fiatare per dircelo, ma era chiaro che a quel punto stavamo mettendo in dubbio la natura buona di Layorona: forse, dopotutto, era una strega cattiva che ci avrebbe mangiate. Ma ormai eravamo arrivate fino a lì, non potevamo darci per vinte; e le sue mani, in un baluginio d'argento, erano più belle che mai, sottili e affusolate svolazzavano come falene attratte dalla luna. Stella mi diede un piccolo spintone per convincermi ad avvicinarmi, ma anche io ero riluttante. Provai a mandare avanti lei, e così via, in uno scambio silenzioso che alla fine urtò Lisa che, più piccola e colta alla sprovvista, cadde in avanti. Io e Stella raggelammo, sapevamo che cosa stava per succedere: ed infatti il piagnucolio della piccola non tardò ad arrivare, alzandosi di secondo in secondo fino ad un lamento acuto e lacrimoso, costellato di parole indistinte tra le loro sillabe strascicate.
Layorona sobbalzò come se l'avessero punta. Come la prima volta che l'avevamo vista, anche allora, quando si voltò, aveva la testa coperta da un velo nero. Dietro si scorgevano solo delle ombre vagamente rassomiglianti ad una faccia, ma in qualche modo il suo sguardo ci impietrì sul posto. Provai l'impulso di correre, ma per qualche ragione le gambe non ne vollero sapere di obbedirmi. E, mentre sia io che Stella ci stringevamo più forte nei nostri mantelli improvvisati, i piagnucolii di Lisa si alzarono ancora e ancora, sempre più insistenti dopo aver preso il posto degli ululati strazianti di Layorona. La fata, infatti, era silenziosa quando avanzò di un passo – camminava rigida, e il velo oscillò catturando un buio ora un po' più intenso, ora meno.
«Bella?» Quando non urlava la sua voce era sottile, di una dolcezza resa straziante da un fondo di raucedine. Una voce piccola e provata per un corpo piccolo e provato, sbilenco mentre avanzava tra le irregolarità del terreno.
Io e Stella ci guardammo, ma nessuna riuscì a spiccicare parola.
«Bella... Bella, piccola mia, piangi ancora? Hai sempre pianto così tanto, sempre, singhiozzi peggio del torrente.» Concluse su un'allarmante nota di insofferenza, ormai ci dividevano solo pochi passi. Il suo vestito nero assorbiva completamente i raggi della luna, portava il buio intorno a sé. Il velo era diverso: il velo era mobile, sembrava acqua scura che scorresse su sabbia bianca; non riuscivo a staccare gli occhi dal suo velo.
«Non piangere, piccola Bella» prese a cantilenare. «O il torrente ti trascinerà via per le tue lacrime, ti porta al mare, ti sei persa in mare.»
«Signora Layorona...» cominciò Stella, ma si interruppe.
Proseguii io: «Ci scusi, non volevamo... Andiamo via ora, Lisa, dai vieni».
«Dove volete portare la mia Bella?» Il suo tono mi raggelò sul posto, non osai abbassarmi per far arrivare a Lisa la mano che avevo proteso per aiutarla ad alzarsi. Guardai terrorizzata quel velo minaccioso. «Pensate di poterla portare via come ha fatto il fiume? Di farla perdere in mare come se non fosse mai stata mia, pensate che la dimenticherò?» C'era una nota isterica nella sua voce di fata, ci spaventò.
Stella cominciò a stillare: «Lisa, Lisa, alzati!», e si sentiva che voleva piangere anche lei.
«Io non lascio mia figlia! Bella, vieni qui, vieni dalla mamma.» Ma Lisa non la finiva di singhiozzare, nel modo rumoroso e interrotto dei bambini, ogni tanto tirava su col naso. Scalciò con le gambe per allontanarsi da Layorona, e quel gesto parve fare male alla strega. «Non mi riconosci? Sono la mamma, siamo due gocce d'acqua.»

A questo punto, i miei ricordi si fanno confusi, perdendosi nell'immagine isolata di una mano argentea sollevata contro un velo, e poi nei fotogrammi frammentari di una corsa a rotto di collo nel bosco. Ci inseguì solo un pianto di donna, questo lo ricordo, ma era già sparito quando, una alla volta, ci arrampicammo per sgusciare in camera attraverso la finestra aperta. Ci raggomitolammo tutte e tre nel letto di Stella, e lì rimanemmo a tremare fino a quando non prendemmo sonno. Il giorno dopo non ce la facemmo a tenerci tutto dentro, i nostri genitori non dovettero insistere a lungo per scucirci la verità; ci fecero promettere che non avremmo mai più fatto una cosa del genere, perché quella donna in lutto perenne era pericolosa. Loro non ce lo dissero esplicitamente, ma ci bastò origliare qualche mezzo discorso e, associatolo a quanto vissuto sulla nostra pelle, ci facemmo un'idea piuttosto precisa di chi fosse veramente Layorona: non fata, ma strega malvagia, aveva annegato la sua stessa figlia, Bella, nel ruscello dove tornava a piangerla, invano. La pazzia l'aveva consumata, ne aveva fatto un essere terribile, come confermavamo nel rievocare quella notte spaventosa. Eppure, anche allora, ricordo la sensazione di incompletezza di un racconto smozzicato e interrotto prima della fine.
È sempre mancato un pezzo, ma in questo momento – ora che fisso il nero sagomato nella forma di una persona esile, proprio come allora –, in questo momento ho l'immotivata sensazione che qualcosa possa tornare al suo posto.
Mi muovo in avanti, schiarendomi la gola per attirare l'attenzione, il mio sguardo fermamente puntato su chi ho davanti. Quando si gira, la delusione mi fa rilasciare il fiato che non mi ero accorta di aver trattenuto. È solo un uomo sulla cinquantina, la sua piccola faccia paonazza si accartoccia in una sorta di sorriso.
«Buongiorno, signorina!» Accenna a togliersi il cappello di feltro che ha in testa ed inchinarsi, ma perde l'equilibrio e si ritrova a barcollare. Le imprecazioni che gli sfuggono sono strascicate, come se avesse bevuto troppo. Io mantengo il silenzio, guardinga.
Alla fine è lui a riprendere: «Lei deve essere in vacanza in una di quelle casupole che affittano laggiù, eh?» Se è del paese, è ovvio che mi abbia subito inquadrata come una sconosciuta. Io annuisco.
«Non sarà venuta a pattinare, spero. Quest'anno il ghiaccio è sottile così.» Avvicina indice e pollice, vi pone enfasi come se fosse un gesto molto importante. «Nessuno con del sale in zucca proverebbe a salirci. C'è della gente che ci ha rimesso le penne, sa, ed era pure un inverno molto più freddo di questo. Una bambina piccolissima, pace all'anima sua.»
Improvvisamente, gli presto maggiore attenzione. Ha gli occhi di un azzurro chiarissimo, un po' appannati, sono rossi agli angoli. «È sempre una tragedia» dico. «I genitori devono aver sofferto moltissimo.»
«Non immagina nemmeno, signorina! Aveva solo la madre, poveraccia, e quella donna è impazzita del tutto. Ha perso la testa, per davvero. Veniva qui la notte e si metteva a strillare come un'indemoniata, la gente aveva paura.»
«Credo di aver sentito qualcuno parlarne... Dicevano che la avesse annegata lei, non è vero?»
«Stronzate, sono solo gli stupidi che ricamano storie. Quella non avrebbe fatto del male a una mosca, dia retta a me. La gente non vuole credere a quello che gli sta sotto il naso, come se il ghiaccio non si spaccasse e non ci fossero incidenti quasi ogni anno. L'unica colpa di quella donna è stata di aver lasciato la bambina da sola, e ha pagato pure fin troppo, se chiede a me.»
Rimango in silenzio per qualche tempo, non so cosa dire. L'uomo si soffia rumorosamente il naso, più volte cerca di raddrizzarsi il cappello in testa, ma quello gli finisce ora su un occhio, ora su un altro. Ha le mani tozze e crepate dal freddo, le seguo con lo sguardo nei loro movimenti esagerati, poco calibrati. Alla fine, dico alle mani: «Impazzita del tutto, dice?».
Le mani hanno uno spasmo, come se non vedessero l'ora di raccontare altro. «Oh sì, fuori come un balcone, mai visto niente del genere. Dicono che si è chiusa a chiave in casa e ha cercato di darsi fuoco, ma se sente me, per me è stato solo un incidente. Non che questo cambi le conseguenze, sa. I vicini ci hanno messo troppo a tirarla fuori, le hanno risparmiato il peggio, ma quella poveraccia ci ha rimesso comunque tanto, tanto...»
E mentre guardo le mani rosse di questo ubriaco dalla parlata strascicata, qualcosa mi colpisce: un'immagine del passato, la conclusione che non credevo di poter ricordare. Vedo un'altra mano, bianca e piccola come quella di una fata, che immerge la punta delle dita in un nero velo liquido; i polpastrelli spariscono e il tessuto si solleva, si solleva a scoprire un'imitazione approssimativa di una faccia. È stato questo il mio primo pensiero, ora ricordo: che Layorona indossasse una maschera di cartapesta, una cosa ruvida e irregolare che catturava la luce della luna in crepacci profondi, e ogni centimetro di quella spessa pelle sembrava dolorosamente tirato. Non so che idea mi feci allora, ma ora riconosco il potere distruttivo delle fiamme, qualcosa che mi fece paura perché già ero terrorizzata per le urla e le strane parole, e la sensazione che Layorona volesse portarsi via Lisa. Ma più della faccia, furono gli occhi a farmi tirare per mano mia cugina più piccola, quegli occhi che brillavano senza essere stati toccati dall'incendio. Piangeva davvero, Layorona, e dall'espressione dei suoi occhi sembrava che le scivolasse fuori la sua stessa anima, in un dolore insopportabile.
«...morta pochi anni dopo per un colpo al cuore, sulla sua tomba non c'è nemmeno un ritratto, niente di niente. La gente non ce la voleva la sua faccia, lì, né com'era prima né com'era dopo, voleva solo dimenticarsela.»
Ovviamente volevano solo dimenticarla: come avrebbero potuto vivere con il ricordo costante di tanto dolore? Erano i suoi occhi, erano quelli che si volevano dimenticare, quelli che lei aveva nascosto col suo velo. A nessuno sarebbe potuto piacere quello sguardo umido, riempito solo di lacrime, perché nient'altro rimaneva a dargli uno spessore e definirlo come quello di una persona viva. Arrivo ora a comprendere ciò che a sette anni non avrei mai potuto nemmeno concepire: vale a dire, Layorona non è mai stata né fata né strega; non si è mai neppure avvicinata ad essere Layorona o, per meglio dire, la Llorona, lo spirito della madre disperata a cui zio Nicolò, da appassionato della cultura messicana, l'aveva associata. Era solo una donna di cui nessuno vuole più pronunciare il nome, perché quel nome incarnerebbe con concretezza insopportabile la banalità di cui sono intrise le nostre vite e perfino le sofferenze che ci annientano completamente. Perché non è stata distrutta da una passione, né dalla pazzia; è stato il semplice caso a toglierle tutto, lo stesso strato di ghiaccio troppo sottile che cede ogni anno e che a volte può rivelarsi innocuo, così come può demolire tutto con l'implacabile indifferenza delle cose.
«Lei, però, se la ricorda» dico ad un certo punto, e questa volta mi rivolgo all'uomo, lo guardo negli occhi chiarissimi.
Lui si interrompe, il fiato sembra abbandonarlo e lasciarlo sgonfio. Si limita a ricambiare il mio sguardo, tira di nuovo su col naso. Il vento soffia gelido, porta la neve.

 
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In the woods somewhere

contest a tema - agosto 2021 (Yūgen)


Ogni cammino porta in ogni parte,
ogni cammino
in ogni punto suo si biforca
e uno porta dove indica la strada,
l'altro è solo.

Uno porta alla fine della mera strada, si ferma
dove è finito.
L'altro è l'astratto margine.

F. Pessoa

Il sentiero serpeggia stretto di fronte a me, tagliando la vegetazione fino a perdervisi in lontananza. Il terreno cede molle sotto ai miei piedi, e la natura tutta porta i segni della recente pioggia: piccole gocce imperlano le foglie dei cespugli più bassi; di tanto in tanto, le fronde degli alberi se ne scrollano di dosso qualcuna. Respiro a fondo il sentore di terra umida, costruendo un buon ritmo a sostegno della mia avanzata. Il sole, che fa capolino tra le nubi chiare, promette di scacciare presto il ricordo freddo del temporale.
Sono arrivata qui quando le ultime gocce avevano da poco cessato di cadere. Inizialmente mi sono semplicemente guardata intorno, risalendo con lo sguardo il percorso che il maltempo aveva reso solitario. Alcuni cartelli riportavano indicazioni per gli escursionisti, ma non mi sono fermata a leggerli: ciò che mi interessa in questo momento non può essere riassunto in una freccia verniciata su una tavola di legno. Non saprei indicare con esattezza il momento in cui ho deciso di fare questo viaggio: una parte di me crede che stesse aspettando già da anni, ma se dovessi tracciare un percorso preciso, un nodo cruciale sarebbe sicuramente la chiacchierata che ho avuto qualche giorno fa con Mrs Butler.
Anche allora pioveva: le gocce tamburellavano il loro ritmo monotono e incessante contro i vetri dell'appartamento della mia anziana amica; l'acustica curiosa faceva sempre sì che quel rumore riverberasse ovunque, tra le pareti macchiate d'umidità e i mobili ingombranti ammantati nella penombra. Avrei potuto alzare gli occhi aspettandomi che il soffitto fosse scomparso nel nulla. Quando ero piccola questa particolarità mi spaventava sempre un po', e spesso mi nascondevo sotto al tavolo per paura che da un momento all'altro mi arrivasse addosso una secchiata d'acqua. Il giorno di cui parlo, però, di quelle bizze infantili non rimaneva che il ricordo, così me ne stavo seduta allo stesso tavolo a rimescolare distrattamente la mia tazza di tè.
Ora non so ripetere con precisione di che cosa stessimo parlando io e Mrs Butler – qualcosa riguardo ad un articolo speciale che Mr Sinister le stava tenendo da parte, forse –, ma ricordo come ad un certo punto lei si fosse lamentata della consistenza dell'intruglio che stava rigirando. Era ai fornelli, così mi dava le spalle, e io potevo vedere solo la sua schiena minuta e il braccio che si agitava energicamente nello sforzo di vincere contro all'impasto troppo colloso.
«Ti serve una mano?» le chiesi, subito alzandomi in piedi.
Normalmente non mi permetteva di avvicinarmi ai suoi intrugli, ed infatti scosse la testa: «No, no, lascia perdere. Devo solo aggiungerci un po' di acqua».
Si allontanò, e io mi sporsi per vedere cosa cuocesse nella pentola. «Polenta?» chiesi, tastandomi le tasche alla ricerca della bacchetta.
«No, veleno per topi.»
«Ah.» Soppressi un brivido; era quella la ragione per cui da bambina mi era sempre stato severamente vietato di avvicinarmi ai fornelli di Mrs Butler: non si sapeva mai che cosa stesse rimestando. Una volta, incoraggiata da un profumino delizioso, le chiesi se stesse preparando lo stufato per la cena; mi rispose di sì, per la cena del jikininki che infestava il cimitero vicino.
Erano molti anni che Mirs Butler si doveva arrangiare senza bacchetta e, anche se questo sembrava non averla mai scoraggiata, sapevo che a volte un po' di magia poteva far comodo. Così, intenzionata ad aiutarla, estrassi la bacchetta e la puntai verso la pentola.
«Per le mutande sudate di Merlino! Cosa stai facendo, ragazza?» Con uno scatto allungò un braccio per allontanarmi, finendo per colpire la bacchetta e facendola finire dritta nella pentola.
«Oh, no.»
Ripenso a quella scena non un sorriso divertito, ma allora ci ritrovammo entrambe piuttosto di malumore: lei perché se avessi continuato a ficcare il naso avrei guastato il veleno, io perché era impossibile pulire la bacchetta da quella sostanza giallognola e collosa.
Ad un certo punto dovetti essermi lamentata, perché Mrs Butler sbuffò: «Voi ragazzi non sapete nemmeno allacciarvi le scarpe senza magia. Da' qua».
Le tesi la bacchetta. Non sapevo cosa avesse intenzione di fare: sul momento la tenne semplicemente in mano, le dita nodose strette a ciascun capo, avvicinandola agli occhi miopi. Ciò che disse in seguito, e che aprì una parentesi totalmente inaspettata, fu pressapoco questo: «Il modo più veloce per pulirla sarebbe buttarla in cantina e aspettare che le pantegane facciano il loro lavoro. Ma senti, è larice 'sta roba, vero?».

Il mio fiato si fa corto per la salita sempre più ripida. Dovrei fare attenzione a non scivolare sulle radici bagnate, ma continuo ad alzare lo sguardo sugli alberi che costeggiano il sentiero: per lo più abeti, mentre qua e là si innalza il tronco spesso di una quercia. Posso udire distintamente i tanti suoni della vita che si risveglia: il ronzio degli insetti, il battito d'ali degli uccelli che si alzano in volo dai loro nidi. Si richiamano da un ramo all'altro, i loro cinguettii mi fanno venire voglia di cantare.
Sono venuta qui con un obiettivo preciso in mente, ma solo ora mi rendo conto che l'incanto di questo piccolo squarcio è sufficiente, da solo, a dare un senso al mio vagabondaggio. Così, d'un tratto, mi fermo. Aspetto che il mio respiro torni regolare e non disturbi più le melodie del bosco, che voglio udire in ciascuna loro nota. Mi colpisce l'intima sensazione che esse siano un richiamo – per chi, e verso cosa, non so. Per me, forse, se solo sapessi ascoltare fino in fondo. Allo stesso modo, quando spingo lo sguardo tra la formazione disordinata di alberi, vorrei che esso fosse in grado di penetrare più a fondo nella penombra che presto si impossessa del bosco. Sento che ci sia qualcosa lì, appena fuori dal sentiero, che non riesco a raggiungere. D'altronde la mia visione delle cose è terribilmente limitata, come mi ha fatto notare Mrs Butler stessa.
Non avevo mai creduto che avesse delle conoscenze particolari in merito all'arte di fabbricare bacchette. Invece, come si scoprì quel giorno, era molto più informata di me. Mi chiese che cosa sapessi dei legni magici, e a malincuore dovetti ammettere che non era molto.
«Sai almeno perché possa averti scelta proprio una bacchetta di larice?»
«Sapevo che fosse attratto dai talenti nascosti.»
Annuì. «Proprio così. È un legno molto potente, sai, perché ti fa scoprire cosa puoi arrivare veramente a fare.»
A quel punto aveva catturato del tutto la mia curiosità. La invitai a sedersi con me al tavolo, e a raccontarmi tutto quello che sapeva. Mi sarebbe difficile riportare parola per parola ciò che mi disse: in questi ultimi giorni me lo sono ripetuta mille volte, sostituendo alla voce e alle tipiche espressioni di Mrs Butler quelle che appartengono a me. Ho ragionato tanto, e sono entrata in un dialogo così sentito con quelle rivelazioni, che ormai mi sarebbe difficile distinguere tra ciò che mi è stato detto e ciò a cui sono approdata per conto mio. Va da sé che non potrei essere fedele nemmeno se lo volessi; ad ogni modo, ciò che mi disse fu pressapoco questo:
«Ogni cosa della natura si porta dietro il suo bagaglio di leggende, che per molto tempo sono state il modo preferito dai popoli per cercare di afferrare qualcosa fuori dalla loro portata, e il larice non fa eccezione. Tra i tanti significati che gli sono stati attribuiti, penso che il filo conduttore sia il concetto di cura. Nel folklore europeo si pensa che possa proteggere contro gli spiriti malvagi, e io non vedo perché non estendere questo concetto e dire che il larice ci salvaguarda dai nostri stessi demoni. Sai, è un albero indubbiamente resistente, non si lascia scoraggiare nemmeno dalle temperature più rigide, e anche nel sottosuolo più povero trova nutrimento per molti, molti anni di vita. Gli antichi credevano che potesse trasmettere le sue qualità anche a noi, in certa misura. Indubbiamente, se in un larice scorre la vena di magia giusta per poterne fare una bacchetta, può dare molto al Mago che la possiederà. Parlavi di talenti nascosti: è vero, il larice è particolarmente adatto per scoprirli. Questo perché con la sua forza nutre la tua, specie nei momenti in cui sei più in difficoltà e pensi che sia impossibile rimettere insieme tutti i tuoi cocci. A differenza nostra, l'albero è solido e resistente, così tanto che si pensava che alcune specie fossero addirittura impenetrabili al fuoco: ci pensi, un legno che rifiuta di bruciare? Puoi dire che sia impossibile, che siano solo vecchie leggende, ma non sottovalutare il potere delle credenze, perché spesso parlano di noi molto più di quanto non parlino del resto. Sarebbe bello avere un po' della resistenza del larice, no? E non cedere nemmeno di fronte alle fiamme. Ma siamo umani, veniamo continuamente feriti. Il larice è saggio anche in questo, e ci ricorda di riposarci e darci il tempo di guarire nelle nostre ferite più profonde. Possiamo appoggiarci a ciò che crediamo magico, e forse lo è davvero, se può servirci per rimetterci insieme: a volte può essere utile uscire da noi stessi per guardare le cose da un'altra prospettiva, diciamo quella di un albero le cui radici lo mettono in collegamento con il cuore stesso della terra. La sua visione del tempo è più ampia, più saggia della nostra».
A quel punto del discorso di Mrs Butler, penso che fossi così sopraffatta dai miei pensieri da non prestare più grande attenzione al resto. Gli ultimi momenti del nostro incontro sono sfocati nella mia memoria; un unico scambio mi è rimasto impresso.
«E tu, Mrs Butler? Di che legno era la tua bacchetta? Sai, prima che venisse...» ...spezzata. Non osai completare la domanda a voce alta.
Lei rimase in silenzio a lungo. Alla fine, quando ormai credevo di aver osato troppo, mormorò solo: «Frassino. Era di frassino».

Le nostre parole si rincorrono nella mia mente, leggermente diverse ad ogni nuova ricostruzione. Frassino. Era frassino. Stringo tra le dita la mia bacchetta – il larice –, incapace perfino di immaginare come mi sentirei se mi venisse tolta per sempre. Non ho mai saputo quali circostanze abbiano portato Mrs Butler a venire privata della sua e, insieme ad essa, di una parte fondamentale della sua magia. Sono così misteriose, le leggi che ci regolano: bisogna essere nati con il dono infuso nelle vene, ma esso ci può essere tolto in ogni momento con un gesto così semplice. Cosa rimane del potenziale privo di sbocchi, dopo tanti anni? Da soli non possiamo coltivarlo al massimo delle sue potenzialità, dobbiamo unirci alla magia che è intorno a noi, e che incapsuliamo in involucri lignei. Capisco un po' meglio, ora, ciò che Mrs Butler voleva dire riguardo al cercare sostegno in un'esistenza più antica e più profonda della nostra: un'azione banale come stringere le dita intorno all'impugnatura della mia bacchetta mi infonde una forza d'animo che mi fa sentire più grande, piena e vicina a me stessa come ad ogni altra cosa. Arrivo, così, a fidarmi di un istinto che altrimenti non avrei assecondato: senza voltarmi indietro abbandono il sentiero e mi inoltro nella macchia di abeti.
Non perdo tempo a cercare di comprendere: in questo momento sarebbe sbagliato. Mi lascio guidare nella mia ricerca dall'immediatezza con cui metto un piede davanti all'altro, disegnando un percorso irregolare tra i tronchi. Qui l'odore del bosco è più forte, un sentore pungente che riconosco da sempre e sempre riconoscerò. Scivolo sul terreno accidentato, ma non me ne curo. A malapena sento il dolore dei palmi che raschiano contro alla corteccia ruvida nel tentativo di mantenermi in piedi – tutto ciò a cui riesco a pensare è come possa il legno resistere alle fiamme.
Quando incontro il primo esemplare di larice, per poco non lo oltrepasso scambiandolo per l'ennesimo abete. Ma una seconda occhiata, più attenta, spezza la mia frenesia nel momento stesso del riconoscimento.
Il tronco s'innalza snello fino a dove gli ultimi rami, sempre più corti, sfociano nell'azzurro incerto del cielo. Un verde leggermente più chiaro distingue questo esemplare dalle altre specie di conifere che lo circondano e, ad osservare con attenzione, la disposizione stessa degli aghi è diversa. Carpisco questi dettagli mentre il mio battito si regolarizza ed una calma nuova scende su di me. È un albero. Sono partita da Londra senza pensarci due volte, ho fatto tanta strada e mi sono inoltrata nel bosco per questo momento, e di fronte a me ritrovo solo un albero – ed è tutto quello di cui ho bisogno.
All'improvviso, tutta la mia solitudine mi cala sulle spalle come un mantello di stanchezza. Non so più da che parte sia il sentiero, ovunque mi giri il bosco è identico intorno a me. Ho perso perfino la cognizione del tempo: potrebbe essere qualunque ora del mattino, addirittura potrebbe già essere passato mezzogiorno. Qui sono fuori dalle mappe, fuori dai giri incessanti dell'orologio, e senza i limiti tracciati da questi piccoli concetti ogni cosa è così vasta che potrei dirmi che il bosco si estende per tutto l'universo, e pensare che sia vero. Il vento si alza a far mormorare gli alberi, e io ne inspiro il suono dolce e ne odo il sentore di terra e resina, degli aghi delle conifere. Chiudo gli occhi, stanca, continuando a vedere ogni cosa: uno scoiattolo grigio che si arrampica rapido sul tronco del larice; in alto, un fringuello dispiega le ali e si lancia in volo dal ramo più alto – senza curarsi di me, che sono minuscola come una pietruzza sul fondo di un ruscello.
Allungo le braccia, tocco la corteccia ruvida di grinze profonde. Lascio che scorra sulle dita e sui palmi, a risvegliare il bruciore di piccole ferite. Ora so che stavo cercando il legno impenetrabile al fuoco – l'ho trovato. Il larice non brucia, non ha il tempo di diventare cenere. Quando alzo lo sguardo verso gli squarci di cielo, a malapena mi accorgo di avere la visione offuscata dalle lacrime.


words of magic:
soul, prova n.1: Approfondisci il legame del PG con il legno della sua bacchetta.
miscellanea, prova n.5: Unisci una delle prove al contest a tema del mese.



Edited by Unconsoled - 11/8/2021, 12:04
 
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view post Posted on 10/10/2021, 19:44
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Dove: Llanrhaeadr-ym-Mochnant, piccolo paese nel Wales, dove Jolene andava spesso in vacanza insieme ai genitori, agli zii e alle cugine italiani
Quando: all'epoca dei fatti Jolene aveva 13 anni, e aveva da poco finito il secondo anno ad Hogwarts


«Non verrà.»
«Sì che verrà, dobbiamo solo aspettare ancora un po'.»
«In ogni caso è un'idea stupida.»
«Eppure sei qui anche tu.»
Per qualche istante Stella e Lisa rimasero in silenzio, limitandosi a fissarsi in cagnesco nella penombra della sera. Dal punto in cui si trovavano potevano ancora udire, attutiti, i suoni della festa che avrebbe animato il villaggio fino all'alba. Lì, dove la strada usciva dal cuore del centro abitato e proseguiva affiancata dai vasti campi di grano, le note allegre dei musicisti si mescolavano al frinire delle cicale. Jolene se ne stava zitta, le orecchie piene dei suoni della notte e del litigio delle cugine. Seduta a cavalcioni di un muretto di pietra, strizzava gli occhi nell'oscurità che stava velocemente inghiottendo le case più vicine.
«Sei solo una fifona.» Jolene si accigliò quando Stella riprese a schernire la sorellina più piccola. «Di' semplicemente che hai paura di entrare nel cimitero.»
Con la coda dell'occhio, Jolene vide Lisa stringere le labbra. Quando parlò, la ragazzina cambiò argomento: «I nostri genitori si chiederanno dove siamo».
«I nostri genitori hanno già bevuto troppo vino per farsi tante domande.»
«Stella!»
«Eccolo!» Jolene saltò giù dal muretto, e insieme alle cugine rimase ad aspettare la figura smilza che dal villaggio si avvicinava verso di loro. Arjun aveva un'andatura dinoccolata, da ragazzo cresciuto in fretta e che ancora non sapeva bene cosa farsene delle gambe e delle braccia troppo lunghe. Jolene sentì il battito farsi un po' più accelerato, come ogni volta che sentiva su di sé gli occhi del ragazzo. Se solo l'avesse guardata un po' più a lungo, invece di soffermarsi sempre su Stella...
«Ci siete davvero, allora! Non vi avrei dato mezzo penny.»
«Solo perché non ci conosci abbastanza.»
Il sorriso di Arjun si allargò. Non si fermò quando le raggiunse, ma proseguì sul bordo della strada, invitandole a seguirlo con un cenno della testa. Le tre non si fecero pregare: Jolene in testa, cercando di precedere Stella, e Lisa per ultima, ancora imbronciata.
«Dite, l'avete mai visto un fantasma?»
«Certo che sì. Dove vado io a scuola ce ne sono almeno quattro che girano tutti i giorni per i corridoi, e noi li salutiamo e ci facciamo colazione insieme.»
Arjun le lanciò un'occhiata diffidente. Non fu l'unico, in realtà, dal momento che anche le cugine non avevano mai visto Jolene pronunciare più di tre parole di fila in presenza di una persona che conosceva così poco. Jolene era grata del buio, perché le guance le bruciavano.
«Sì, beh...» Arjun era un Babbano, non poteva sapere che la ragazza aveva detto la pura verità. «Io intendo un fantasma vero. Di quelli che se li vedi ti si rizzano i capelli in testa e ci rimani pazzo dalla paura.»
«No, quelli li avete solo voi di Mochnant, nel vostro cimitero.»
«Non ci credi, eh? Te l'ho detto, io e i miei amici li abbiamo incontrati. Facevano tipo... BUH!» Stella strillò quando Arjun le afferrò la spalla. Le risate di lui risuonavano ancora quando arrivarono di fronte al cimitero.
Il cancello era di ferro battuto, altissimo. Jolene alzò il naso al cielo per riuscire a scorgerne la sommità, i ghirigori fantasiosi come una corona stagliata sul nero manto stellato. Non avrebbe saputo dire se fosse solo una sua impressione, ma avrebbe giurato che lì faceva un po' più freddo.
«Come entriamo?»
«Questa è solo la facciata che fa scena. Hanno voluto il cancello bello e poi sono rimasti senza soldi per finire la staccionata. Dietro c'è solo un muretto di mattoni.»
Era come aveva detto: bastò costeggiare per qualche metro la staccionata di ferro per arrivare al punto in cui rimaneva solo una struttura abbastanza bassa da potercisi arrampicare sopra. Uno a uno atterrarono dall'altra parte, ritrovandosi all'interno del cimitero.
Sul momento, Jolene si disse che non faceva poi così paura. Le lapidi si susseguivano regolari, come vicini educati; erano pulite, e qua e là c'erano perfino dei mazzi di fiori. La ragazza cercò la mano di Lisa, dandole una stretta leggera; la cugina le accennò un sorriso, come a confermare che anche per lei non era così terribile come si sarebbe aspettata.
«Questa è la parte nuova.» Arjun ora sussurrava. «Noi abbiamo visto i fantasmi dall'altra parte, quella con le tombe più vecchie. Di qui.»
Avanzarono in fila indiana, il ragazzo in testa e le cugine a chiudere la fila. Jolene si strinse nelle braccia: era ricoperta di pelle d'oca nella canottiera e i pantaloni leggeri. Le sere erano sempre fresche, ma le sembrava che ci fosse qualcosa di spettrale in quel particolare freddo. Si girò più volte ad accertarsi che Lisa stesse bene: si sentiva in colpa ad averla trascinata fino a lì, tra tutte e tre lei era stata l'unica ad essersi fermamente opposta all'invito di Arjun. Stella era subito stata elettrizzata; Jolene, dal canto suo, aveva soffocato i propri dubbi fino a convincersi che non era poi una pessima idea. Il fatto che glielo avesse chiesto proprio Arjun aveva influito solo in parte, perché, per quanto non condividesse la natura spericolata della cugina sua coetanea, nondimeno Jolene amava le sfide e le esplorazioni. Non era del tutto scettica, pensava che il ragazzo e i suoi amici potessero davvero aver visto un fantasma: perché no, in fondo, quando nel mondo magico quegli incontri potevano essere all'ordine del giorno? Chissà che tipo di spirito potesse vivere – “vivere” – nel cimitero di un paesino come quello, piccolo e abitato per lo più da Babbani. Jolene se lo immaginava come una versione provinciale della Dama Grigia, di Nick Quasi-Senza-Testa o del Frate Grasso; anche se fosse stato più simile all'inquietante Barone Sanguinario, non le sarebbe dispiaciuto così tanto conoscerlo. Negli ultimi due anni Hogwarts l'aveva allenata a dovere, e credeva che sarebbe bastato il piccolo accorgimento di non farsi mai attraversare dal fantasma per dare vita ad un incontro tutto sommato piacevole.
Era un po' diverso immaginarsi di camminare tra le lapidi al buio e farlo davvero, però. Bastò avere una prima volta l'impressione che qualcosa si muovesse tra le tombe, e quell'idea non l'abbandonò più. Girava la testa a destra e a manca, cercando di distinguere ciò che coglieva solo con la coda dell'occhio; ad un certo punto le sembrò perfino, assurdità delle assurdità, che un cipresso si fosse spostato di qualche metro.
«Quanto è grande il cimitero?» domandò tagliando di qualche passo la distanza che la separava da Arjun.
«Tanto» rispose quello. Jolene non sapeva perché si ostinasse a sussurrare, ma le dava sui nervi. Era come se si impegnasse a raccontare una storia dell'orrore a delle bambine. «Non avrai già paura? Tu non facevi colazione con i fantasmi?»
«Sì, beh, a stare a sentirti siamo in due.»
Si fece improvvisamente serio. «Io non racconto balle, Jolene. A casa mia accadono davvero delle cose... strane, non saprei come altro definirle. Che siano fantasmi o una sfiga maledetta, questo non lo so.»
Jolene si sfregò le braccia, un po' a disagio di fronte a quel tono che non scherzava più. Era dall'inizio di agosto, quando lei e le sue cugine erano arrivate per le solite vacanze, che Arjun andava avanti con quella storia. Ne parlava con loro, ma anche di fronte agli altri ragazzi del villaggio, che un po' compativano le innegabili sfortune che si erano abbattute sulla fattoria dei suoi, ma che allo stesso tempo lo prendevano in giro per essere così superstizioso. C'erano mille ragioni per cui un mese le cose potessero andare storte, senza tirare in ballo demoni stanziati nella casa. Lo invitavano ridendo a guardare meno film horror.
Uno strillo acuto li fece bloccare. Si voltarono verso le due sorelle: Lisa aveva gli occhi grandi e spaventati. «Qualcosa mi ha toccato la caviglia!»
«Sarà stata una felce» commentò Stella.
«Ed era una felce anche quella che ho visto sparire dietro a una lapide poco fa?»
«Te l'ho già detto, te lo sei immaginato.»
«Non è vero!»
Jolene sospinse Arjun, invitandolo a proseguire, mentre le sorelle continuavano a litigare in sussurri furiosi: avevano preso l'abitudine della loro guida.
Quindi non era l'unica a vedere strani movimenti tra le tombe. Jolene era tentata di chiedere a Lisa se avesse notato anche un albero che pareva scomparire quando non lo si guardava che di sfuggita, per poi ricomparire appena qualche metro più avanti o indietro. Ma probabilmente era tutta suggestione, non a caso lei e Lisa erano le più impressionabili del gruppo.
Alcuni mutamenti nel cimitero non erano solo effetto della sua paura, però. La luce fredda della luna definiva ora i contorni di un nuovo abbandono, con le lapidi ammassate irregolari e storte come denti guasti di una bocca gigantesca. Le tracce del sentiero si perdevano tra le erbacce, a tratti dovevano semplicemente inventarselo, aggirando croci pendenti di sbieco, lastre di pietra rese illeggibili dal muschio. I cipressi qui si erano fatti più radi, ma continuavano a superarne qualcuno a distanze irregolari.
E se fosse sempre stato lo stesso? Un pensiero improvviso, gelido, frutto della paranoia, e proprio per questo impossibile da scacciar via. Cominciò a studiare con diffidenza gli alberi che incontravano – altissimi, come dita artigliate indicavano la luna. Sempre le stesse forme, la stessa altezza.
«Basta, torniamo indietro.» Si girò per trascinare con sé le cugine, ma di loro non v'era traccia. «Lisa? Stella?» Nessuna risposta.
«Torniamo a cercarle» propose Arjun, subito mettendosi in moto. Jolene credette di avergli udito per la prima volta una traccia di inquietudine nella voce.
Camminavano più veloci, ora, come per un tacito accordo. La patina di calma che si era imposta fino a quel momento stava piano piano scivolandole via di dosso, scoprendone nuda l'agitazione. Non fece abbastanza attenzione a dove metteva i piedi, così nella fretta inciampò in una croce riversa a terra e nascosta tra l'erba alta.
«Non è niente» si affrettò a rassicurare Arjun, che veniva per aiutarla a rialzarsi. Ignorando il bruciore delle ginocchia sbucciate fece per tirarsi in piedi da sola, ma si bloccò. All'altezza dei suoi occhi, inciso su una lapide che più delle altre era stata risparmiata dal tempo, Jolene riconosceva il profilo delle torri di Hogwarts. Aveva visto quelle linee stagliarsi contro al cielo in così tante occasioni – il viaggio in barca del suo primo anno come studentessa, in particolare, era ancora ben impresso nella sua memoria –, non avrebbe mai potuto confonderlo con nessun altro castello.
«Arjun.» Era più difficile distinguere le scritte, su cui passò le dita, come incantata. Bertha Kleevex. Sorella, amica... Jolene raschiò via il poco muschio che si era abbarbicato all'ultima parola. «Qui dice che questa signora era una strega. Ne hai mai sentito parlare?»
Dietro di lei, Arjun suonava interdetto, leggermente impaziente. «Penso sia solo ironia, Jolene.»
Era certa che non lo fosse affatto. Mentre alle sue spalle i passi del ragazzo si allontanavano, Jolene rimase ancora qualche secondo ad osservare le iscrizioni. Non vi erano Maghi in quel villaggio, che lei sapesse, ma evidentemente non era sempre stato così. Il popolo magico viveva spesso nascosto, ed era pressoché impossibile affermare con certezza che un determinato luogo non ne ospitasse nemmeno uno. La logica diceva questo; ma nondimeno la nuova scoperta aveva sorpreso Jolene, che cominciò a guardare il villaggio con occhi nuovi – non come un insediamento di soli Babbani, ma come un posto dove la magia poteva davvero trovare posto, innegabilmente concreta.
Si rialzò, e fece per raggiungere Arjun, che nel frattempo si era allontanato di qualche metro. Ma esitò, quando, appena alla sua destra, notò un'ombra di cui prima non si era minimamente accorta: un altro cipresso, ancora una volta. Vi si avvicinò come attratta a dispetto dell'istinto che le diceva di trovare le cugine ed uscire subito da quel posto. Si fermò così vicino che avrebbe potuto sfiorare il tronco se solo avesse allungato un braccio. Ma non lo fece. Una strana inquietudine cercava di avvertirla di qualcosa fuori posto, ma non avrebbe saputo indicarla con precisione. A piccoli passi cauti girò intorno al cipresso, osservandone la corteccia ruvida, inalandone il sentore intenso di resina. Poteva sembrare un albero come qualsiasi altro, eppure...
E poi, la colpì la consapevolezza improvvisa di che cosa era sbagliato. Il silenzio. Dal cipresso proveniva un'assenza totale di suoni, che si imponeva nell'aria come un avvertimento. L'incessante frinire delle cicale pareva ora distante, schiacciato ai bordi di quel vuoto assordante. Eppure, Jolene sapeva che, tra tutti gli alberi, quegli insetti prediligevano proprio le conifere – non c'era niente di naturale nella loro assenza.
Sentì montare la paura, nutrita da ciò che non comprendeva, dalle mille suggestioni accumulatesi negli ultimi minuti. Indietreggiò di uno, due passi, prima di cominciare a correre.
«Arjun!» Il suo grido si sovrappose a quelli inarticolati di altre voci femminili – lontane, da qualche parte tra i sentieri incerti del cimitero, Lisa e Stella stavano urlando.
Qualcuno le afferrò il polso strattonandola. Jolene cercò di divincolarsi, terrorizzata, ma era solo Arjun, che si mise un dito sulle labbra e la tirò per farla abbassare.
«Cosa sta...»
«Shhh!»
Le fece capire che dovevano rimanere nascosti. Con il cuore che le batteva furiosamente in petto, Jolene ubbidì. Cercarono di fare meno rumore possibile mentre si spostavano chini da una lapide all'altra. Dove erano Lisa e Stella? Che cosa le aveva spaventate? Ora perfino Arjun sembrava incerto.
Si ripararono dietro al largo tronco di un albero. Arjun vi si appoggiava, cercando di sbirciare oltre senza farsi vedere, e Jolene, dietro di lui, sfiorò appena la corteccia prima di ritirare la mano come se si fosse scottata. Quello era un cipresso.
Cercò di strattonare via Arjun, ma quello fece resistenza. «Ehi, stai ferma...»
Caddero insieme attraverso il tronco. Jolene si rimise in piedi per prima, allontanandosi subito dal cipresso. Era ancora lì, apparentemente uguale a qualsiasi albero – i raggi della luna non lo attraversavano, venivano anzi risucchiati dalla sua chioma scura e silenziosa. Eppure loro vi erano passati attraverso come se fosse stata aria fredda.
«Che cosa...»
«Vieni. Andiamo via.»
«No, aspetta. Hai visto anche tu, vero? Mi ero appoggiato al tronco e ci siamo passati dentro.»
«Ti prego, Arjun, allontaniamoci da qui.»
Non la ascoltò. Sembrava attratto da quello strano albero, allungò la mano per sfiorarlo.
Jolene si aggrappò al suo braccio. «Non farlo!»
«Perché?»
«Non lo so. Ma non penso che...»
La notte esplose in lunghe grida. Una banda di demoni urlanti si riversò intorno a loro dalle tombe: si agitavano, saltavano, correvano, agitavano le braccia alla luna. Jolene strinse il braccio di Arjun fino a fargli male e chiuse gli occhi, non voleva vedere gli ultimi orrori della notte.
Ma, sotto alla loro bestialità feroce, le voci erano conosciute. Quando si tramutarono in risate, Jolene aveva ormai capito.
«Dovevate vedere la vostra faccia!»
«Aaah, no, i fantasmi, aiuuuto!»
«Jolene!» Lisa la raggiunse di corsa, si gettò ad abbracciarla. Jolene la strinse d'istinto, la paura che veniva velocemente sostituita dalla rabbia alla vista degli amici di Arjun. Erano una mezza dozzina, dai dodici ai sedici anni, ghignanti fino alle orecchie per la loro stupida bravata. Avevano architettato quello scherzo fin dall'inizio: le storie sui fantasmi che avrebbero visto, tutte balle per prendere in giro le figlie dei turisti. E loro ci erano cascate con tutte le scarpe. Lisa tremava tra le sue braccia, Stella se ne stava imbronciata, appoggiata a braccia conserte ad una croce. Jolene si scoprì furiosa.
«Siete dei cretini, non avevate di meglio da fare?!»
«Oooh, andiamo, rossa, non sai stare al gioco. Non è colpa nostra se siete delle credulone. Eh, Arjun? Arjun?»
Immobile, lui osservava l'aria vuota di fronte a sé, là dove si era trovato il cipresso. Di esso non c'era traccia.
«Qui c'era un albero. L'hai visto anche tu, vero?»
Jolene si sentì a disagio sotto al suo sguardo. Lui continuò: «Un cipresso, ci siamo passati attraverso, così, come se fosse aria, e adesso è sparito».
I suoi amici lo guardarono strano, uno si fece ruotare l'indice vicino alla tempia. Ma Arjun insistette, e voleva l'appoggio di Jolene. Lei, però, non era sicura che incoraggiarlo fosse la scelta giusta. Quello che era accaduto era innegabilmente magia: doveva trattarsi di una qualche specie che ancora non aveva studiato a erbologia, una sorta di albero fantasma. Per quanto desiderasse rassicurare il ragazzo su quello che aveva visto, aveva paura di dove avrebbe potuto portarlo un'eccessiva curiosità. Così si strinse nelle spalle; si sentiva minuscola mentre borbottava qualcosa riguardo al buio e alla paura che giocano brutti scherzi. Dallo sguardo di Arjun comprese che si sentiva tradito.
Rimase silenziosa mentre attraversavano il cimitero; né Lisa né Stella riuscirono a scucirle più di due parole, nemmeno mentre tornavano verso il villaggio, dove la musica continuava a permeare l'aria, trasportata attraverso i campi dalla fredda brezza notturna.


words of magic: soul 7
Racconta di come il tuo PG incappa negli alberi spettrali
 
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view post Posted on 4/11/2021, 11:02
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Dove: Llanrhaeadr-ym-Mochnant, piccolo paese nel Wales, dove Jolene andava spesso in vacanza insieme ai genitori, agli zii e alle cugine italiani
Quando: all'epoca dei fatti Jolene aveva 13 anni, e aveva da poco finito il secondo anno ad Hogwarts


Le settimane di vacanza si rincorrevano veloci, volatili come brezze estive. Dopo tanti anni, Jolene poteva dire di conoscere bene Mochnant, anche se non vi trascorreva mai nemmeno due mesi all'anno. La forza della reiterazione le faceva percepire il villaggio come una seconda o terza casa, un luogo la cui solidità non aveva niente a che fare con la sensazione di irrealtà che spesso contraddistingue le mete di rapidi viaggi. Così, ogni anno si illudeva che il suo soggiorno sarebbe durato per sempre e quando, come quella sera, le veniva ricordato che sarebbero partiti tra meno di una settimana, era come se la svegliassero nel cuore della notte dicendole che avrebbe dovuto fare i bagagli e abbandonare la propria casa: si ritrovava spaesata, e malinconica per l'anticipazione dei saluti.
Quell'anno, in particolare, la partenza sarebbe stata ancor più difficile. Il motivo era uno, aveva profondi occhi scuri e le ciglia così lunghe da sfiorare ad ogni battito le guance color cannella: la sbandata per Arjun non voleva darle pace. Jolene aveva avuto paura che dopo l'episodio nel cimitero il ragazzo si sarebbe allontanato; al contrario, però, l'esperienza contribuì ad avvicinarli, attraverso la condivisione di un segreto solo loro. Jolene aveva rinunciato presto a fingersi scettica riguardo allo strano episodio del cipresso fantasma: ciò che avevano visto era reale e, nonostante non avesse nessuna intenzione di rivelare ad Arjun la verità, aveva giudicato inutile negargli almeno il conforto di non sentirsi pazzo. Jolene ormai sapeva che si erano imbattuti in un albero spettrale – così l'avevano chiamato i suoi genitori quando, omettendo la propria bravata nel cimitero, aveva descritto loro la curiosa pianta. Per Arjun, invece, si trattava ancora di un fenomeno inspiegabile, che amava approfondire in lunghi discorsi concitati, con Jolene che letteralmente pendeva dalle sue labbra.
Arjun si sentiva perseguitato dal sovrannaturale. Dopo quanto avvenuto nel cimitero, non si stancava di ripetere come la fattoria dei suoi fosse infestata da un poltergeist o altro spirito maligno. I strani fenomeni si ripetevano già da qualche settimana, ma, come diceva lui, solo il contatto con gli spettri tra le lapidi gli aveva aperto gli occhi su dei fenomeni che altrimenti avrebbe scambiato per un'ostinata sfortuna.
Gli altri ragazzi del villaggio non mancavano mai di prenderlo in giro per essere così superstizioso, ma Jolene aveva la sgradevole sensazione che non si stesse affatto inventando tutto. Lei per prima aveva avuto modo di constatare alcuni strani avvenimenti, quando, insieme alle cugine, era stata invitata a casa di Arjun. Si trattava di un'ampia fattoria, disposta su due piani, pittoresca nei suoi toni del legno e della terra. La circondava un cortile immenso, dove scorrazzavano galline e tacchini, delle oche piuttosto aggressive, delle capre e alcuni maialini da latte accompagnati dalla pesante scrofa; Jolene e Lisa avevano passato minuti buoni ad accarezzare i conigli che Arjun aveva tirato fuori dalla loro lunga gabbia; l'animale di cui tutti andavano più fieri, invece, era un agile puledro baio. Appena dopo aver sentito elogiare la mansuetudine dell'animale, le tre ragazze avevano gridato spaventate quando quello, imbizzarrito senza motivo apparente, aveva preso a scalciare mancando di poco la fronte del padre di Arjun. Era poi fuggito scavalcando un punto in cui la staccionata si era da poco rotta, e ci erano volute ore intere per ritrovarlo nel bosco accanto alla fattoria.
A sentire Arjun e i suoi genitori, quella non era la prima volta che un animale assumeva comportamenti insoliti e aggressivi. Venivano svegliati nel cuore della notte dagli starnazzi impazziti delle galline, che si beccavano a sangue tra di loro; non era mai successo niente del genere, ma d'altronde quegli animali erano nuovi alla fattoria, perché solo tre settimane prima una volpe si era introdotta nel cortile facendo strage di tutto il pollame. Il latte delle capre inacidiva durante la notte; nella stalla, una buona porzione delle assi del tetto era marcita dall'oggi al domani. Nemmeno la casa vera e propria era risparmiata, perché sembrava impossibile prendere in mano un piatto, o appoggiarlo su un ripiano, senza che in qualche modo cadesse a terra, spaccandosi immancabilmente in mille pezzi. Queste e altre sfortune si accumulavano inspiegabilmente di giorno in giorno. Jolene si era impietosita a vedere la tristezza mista a preoccupazione nello sguardo della madre di Arjun, così simile a quello del figlio. Anche il padre le era sembrato esausto, in balia di qualcosa di incomprensibile.
«Se fosse stato un altro secolo, avrebbero dato la colpa alle maledizioni delle streghe» rifletté cupamente Stella. Erano da poco tornate dalla fattoria, durante la cena avevano raccontato ogni cosa ai propri genitori. Questi si scambiavano occhiate serie e meditabonde.
«Sì, ma ora la gente non crede più a queste cose. Non sanno che pesci pigliare.»
«Arjun sembra avere le idee piuttosto chiare.» borbottò Jolene. Il ragazzo le aveva invitate ad assistere ai rituali con cui avrebbe disinfestato la fattoria dalle presenze maligne.
«Sì, beh, non credo che un fantasma possa davvero fare tutte quelle cose» intervenne Lisa. «Non è vero, papà?»
Niccolò si prese qualche istante per rispondere. «Non che io sappia... Dicevate che tutti gli animali stanno imbizzarrendo?»
«Sì, più o meno. Il signor Fernsby dice che non si sorprenderebbe se un giorno si svegliasse e vedesse che alla scrofa e ai maialini sono spuntate le ali e stanno volando sopra alla fattoria.» I presenti sorrisero, qualcuno rise debolmente; solo Virginia rimase impassibile, lo spazio sopra il naso solcato dalla ruga che compariva sempre quando era concentrata. Jolene non ci fece caso.

«Non dovremmo disegnare strisce di sale alle finestre o qualcosa del genere?» Stella non ci provava nemmeno a nascondere il suo scetticismo, e in realtà Jolene non poteva biasimarla. Soffocò un colpo di tosse, al contrario di Lisa, che sembrava particolarmente irritata dai fumi che riempivano la stanza. Jolene aveva contato quattro bastoncini di erbe secche, uno in ciascun angolo della stanza. Arjun li aveva accesi uno a uno con una candela bianca.
«Sei pazza?» disse il ragazzo, che dopo aver messo via la candela stava facendo tintinnare dei cristalli in un sacchetto di stoffa. Jolene non sapeva a che diamine dovesse servire. «Sai cosa succederebbe se lo spirito fosse in casa in questo momento? Rimarrebbe intrappolato qui, con noi, e avremmo non solo uno spettro in casa, ma uno spettro arrabbiato
«Ah-a.»
«Hai visto anche tu il cavallo, ieri. E queste cose vanno avanti da settimane...»
«Arjun.»
«...e Jolene sa che non sono stupidaggini, anche lei era al cimitero...»
«Sì, ma, Arjun...»
«Questa sfortuna non può essere normale, c'è una maledizione...»
«Arjun! La tenda ha preso fuoco!»
Il ragazzo saltò sul posto. Uno dei bastoncini di incenso bruciava nei pressi della finestra, e un alito di vento doveva aver spinto le tende fino alle fiamme. Cercarono di soffocare l'incendio, ma il sostegno delle tende cedette e cadde tutto a terra. Pestarono con i piedi fino a quando non rimase che il fumo.
«Cosa ti dicevo della sfiga...»
«Ehi, ma quelli chi sono?» Lisa indicò fuori dalla finestra: un gruppetto di tre uomini era entrato nel cortile e stava parlando con la signora Fernsby.
«Degli scappati dal circo?» fece Arjun. In effetti, il trio aveva un aspetto singolare: chi portava una cravatta allacciata al contrario, pendente sulla schiena; chi aveva abbinato una giacca elegante a dei bermuda con i fenicotteri; uno aveva legato intorno alla testa un boa di struzzo arancione, che faceva ondeggiare di qua e di là mentre scuoteva la testa. Le tre cugine si scambiarono uno sguardo: solo dei maghi avrebbero potuto indossare tanto maldestramente degli indumenti babbani.
«Usciamo a vedere cosa vogliono.»
Compresero, prima ancora di distinguere tutte le parole, che i tre cercavano di convincere Mrs Fernsby a farli entrare nelle stalle, e che quest'ultima era piuttosto scettica.
«È di vitale importanza, signora, abbiamo ricevuto dalle fattorie vicine la segnalazione di una grave epidemia porcina. Dobbiamo controllare che i vostri animali non siano già stati infettati» furono le prime parole che distinsero.
Mrs Fernsby protestò: quei tizi strambi non le ispiravano fiducia.
«Le ripeto che c'è il rischio che il morbo si trasmetta anche ai babb... ehm, agli esseri umani. Non vorrebbe contrarlo, signora, mi creda...»
«Oh no, è assolutamente terribile» confermò uno.
«Raccapricciante» rincarò il terzo.
«Pustole su tutta la faccia...»
«E non solo la faccia, ma non ci faccia diventare espliciti davanti a una signora e dei ragazzi...»
«La pelle si squama come scaglie di sapone, ed è contagioso.»
«Molto contagioso.»
«E allora voi come vorreste controllare, se è così pericoloso?»
«Noi mandiamo avanti i cani, lo riconoscono ma a loro non si trasmette.» Solo allora Jolene fece caso ai due grossi cani sdraiati ai piedi degli individui. Erano perfettamente bianchi, dalle orecchie alla punta della coda, con occhi rosa. Era la prima volta che Jolene vedeva dei cani albini.
Mrs Fernsby era ancora contrariata, ma stava per cedere. Non sembrava poi così improbabile che, dopo alla lunga serie di sfortune, quell'ultima arrivasse come la ciliegina sulla torta. Jolene credeva che nulla l'avrebbe più sorpresa.
«È successo nelle fattorie vicine, dite?»
«Esatto. E abbiamo il sospetto che una forma alleggerita della malattia possa passare anche ad altri animali, rovinando il latte delle capre e delle mucche, rendendo aggressivo il pollame.»
«Anche i cavalli?»
L'uomo con la cravatta al rovescio annuì cupamente. Quello sembrò infine convincere la donna, che ancora un po' riluttante dette loro il permesso di mandare i cani nella stalla. «Io vado a chiamare mio marito, così spiegate ogni cosa anche a lui.» Con un ultimo sguardo allarmato a suo figlio, sparì in casa.
«Ragazzi, è meglio che vi allontaniate anche voi. Per sicurezza.»
Esitarono, ma gli uomini li incalzarono. Allora si fecero un po' da parte.
«C'è un punto in cui manca ancora qualche asse della stalla» sussurrò Arjun alle tre ragazze. «Possiamo guardare da lì. Venite.»
Stella e Lisa lo seguirono immediatamente, ma Jolene esitò ancora. Anche due dei tre uomini erano spariti, insieme ai cani albini. Rimaneva solo quello con il boa di struzzo intorno alla testa.
Jolene gli si avvicinò.
«Hai sentito, è pericoloso. Non puoi rimanere qui.»
«Sa che i babbani non indossano così quella cosa, vero?» L'uomo la guardò con rinnovata attenzione. «Va messo intorno alle spalle, come una sciarpa. Se lo porta male è chiaro che saranno sospettosi.» Non accennò al fatto che sarebbero stati sospettosi comunque, perché nessuno indossava un boa di struzzo al di fuori di una festa.
«Oh, grazie. Ecco perché mi fissavano così.» Si affrettò a fare come gli diceva.
«C'è davvero un morbo pericoloso?»
«Hm...» la valutò per qualche istante, come a pensare se potesse dirle tutta la verità. Alla fine si strinse nelle spalle. «No, niente del genere. Ci è stato segnalato che probabilmente questa fattoria è maledetta da un nogtail. La storia della malattia ci serve per allontanare i babbani.»
«Un nog che?»
«Nogtail. È un demone molto simile a un maiale, si intrufola nei porcili per farsi allattare dalle scrofe, e allora lancia una maledizione sulla fattoria che lo ospita. Più a lungo rimane, più la maledizione si protrae.»
Jolene era tutta orecchi. Non aveva mai sentito parlare di quella creatura. «Qui ne sono capitate di tutti i colori, una sfortuna dietro l'altra per più di un mese. È per il nogtail?»
L'uomo si strinse nelle spalle. «Siamo qui per scoprirlo. Se c'è, i nostri cani lo cacceranno via e non potrà più tornare.»
«Sono cani magici?»
Rise. «No, importa solo che siano albini. Al Ministero li addestriamo apposta per queste situazioni. Non sono così comuni, di questi tempi, ma ogni tanto capita.»
«Gli faranno del male? Al nogtail?»
Quella domanda parve prenderlo contropiede. Esitò, e proprio in quel momento una strana creatura schizzò fuori dalla stalla: sembrava un maiale dalle zampe eccezionalmente lunghe e sottili. Scavalcò il recinto nella parte in cui era rovinato, sparendo nel bosco; dietro di lui, i due cani bianchi si lanciarono all'inseguimento abbaiando all'impazzata.
«Eccolo qui!» Il Ministeriale si batté le cosce, soddisfatto. I suoi colleghi comparvero sulla soglia della porta, anche loro sembravano contenti di non aver fatto un buco nell'acqua. Poi sparirono anche loro dietro ai cani. Rimase solo quello del boa di struzzo, ad aspettare il ritorno dei coniugi Fernsby. Jolene non riuscì più a fargli altre domande, ma non smise di pensare all'animale che aveva visto per qualche fugace istante: spaventato, braccato, non era così che si sarebbe immaginata un demone.

Ai Fernsby venne detto che i loro maiali non potevano essere più sani di così; presto furono tanto felici di veder sparire la sfortuna da dimenticare qualsiasi preoccupazione, comprese quelle intorno agli strani figuri. Arjun si convinse di aver scacciato con i suoi fumi magici lo spirito maligno, il che lo incoraggiò ad approfondire ancora di più il mondo del mistico e del sovrannaturale. Le tre cugine scoprirono la verità, ovvero che era stata Virginia a contattare il Ministero della Magia, dopo aver intuito qualcosa dai racconti delle ragazze. Tutti si potevano considerare soddisfatti, pronti a lasciarsi quell'episodio alle spalle.
Tutti, ma non Jolene. Non riusciva a dimenticare l'impressione che le aveva fatto il nogtail, con quelle zampe fragili di ragno, inseguito dai due enormi mastini. Si chiedeva se gli avessero fatto del male, o se l'avessero catturato per rinchiuderlo in una qualche gabbia stretta nel reparto di regolamentazione delle creature magiche. Alla fine, si decise a cercare nel bosco, con la flebile speranza di trovare delle tracce che le suggerissero il destino del nogtail.
Alla fine, fu la creatura a trovare lei. Jolene non aveva preventivato di addormentarsi nella radura, eppure fu quello il risultato dello stomaco pieno dopo il pranzo abbondante, e della calura di fine agosto. Il piccolo imprevisto giocò a suo favore, perché quando si svegliò, la creatura la stava annusando con circospezione. Vedendola muoversi, immediatamente il nogtail si tirò indietro. Jolene allora trattenne il fiato, cercando di non contrarre nemmeno un muscolo. Ora che lo vedeva da vicino, poteva studiare meglio l'animale, imprimendosi nella memoria le sue curiose fattezze. Il grugno era del tutto simile a quello di un comune maiale, con due occhietti stretti e nerissimi. Non le parvero cattivi. Aveva una coda grossa e ispida che, assieme alle zampe lunghissime, costituiva la sua caratteristica più singolare. Jolene si incantò ad ammirare il gioco delle zampe sottili, snodate ed eleganti come quelle di un cerbiatto. Sembravano così fragili. L'intero aspetto della creatura era innocuo, sembrava impossibile che potesse davvero gettare una maledizione su un'intera fattoria. Eppure, i fatti erano innegabili. Jolene sapeva che quello era un demone, tutt'altro che innocuo. Però...
Non le faceva paura. Si alzò a sedere lentamente, riuscendo a non farlo scappare. Si fissavano attentamente, lei curiosa, sospettosa la creatura. Allora i Ministeriali si erano limitati a cacciarla e poi l'avevano lasciata in pace. O forse era semplicemente scampata ai mastini? Jolene non lo sapeva, ma era contenta che fosse andata così. Aveva paura di quello che sarebbe potuto accadere altrimenti, non voleva pensarci. Cosa si fa di una creatura che porta sfortuna? Una creatura scomoda, potenzialmente dannosa, che, per quel che ne sapeva Jolene, non era addomesticabile e non poteva essere utile in nessun modo all'uomo. Avrebbe dovuto esserne disgustata, forse, o quantomeno diffidente. Ma tutto ciò che provava era fascino, pietà, un rimorso informe che ricacciò sul fondo senza esaminarlo. Sapeva cosa significava trovarsi in trappola senza nessun'altra ragione se non la propria identità, il proprio modo di essere; quella sensazione era stata una costante nell'ultimo anno, come se crescere richiedesse un prezzo da pagare. La magia era più grande di lei, più grande del nogtail, e contrastarla sarebbe stato contro natura, oltre che impossibile. Sarebbe stato bello se ogni cosa fosse sempre stata gentile, pensò nel distendere cautamente una mano verso il muso dell'animale. Riuscì appena a sfiorarlo in un contatto fugace, prima che questo scappasse tra gli alberi.
In seguito, non ebbero più nessun incontro tanto ravvicinato. Nei pochi giorni prima del ritorno a casa, Jolene si recò regolarmente nel bosco, nella medesima radura, lasciandovi ghiande, patate e frutta sgraffignate dalla dispensa. Quando tornava, il cibo era regolarmente sparito. Pur senza saper dire perché, era convinta che fosse sempre il nogtail a mangiarlo. Credette di riconoscerne la conferma quando scorse nel folto della vegetazione un movimento rapido, il guizzo chiaro di una lunga zampa sottile. Ma il tempo passava in fretta, e la fine delle vacanze arrivò presto – dovette dire addio al villaggio, con i suoi misteri, i suoi affetti e le storie da favola dal sapore caldo dell'estate.


words of magic: soul 2
Racconta della prima esperienza del tuo PG con una creatura XXX.

Note: tutte le informazioni sul nogtail sono prese dalla relativa pagina sulla wikipedia del fandom di HP. non ho trovato nessun riferimento all'eventuale aggressività della creatura, e ho dedotto che la classificazione xxx non ha a che vedere con la capacità di ferire direttamente un essere umano. per questo ho pensato che anche una ragazzina di tredici anni, non autorizzata ad usare la magia, potesse interagire fino ad un certo punto con l'animale senza correre grossi pericoli.


Edited by Unconsoled - 4/11/2021, 20:56
 
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