Aveva dimenticato dove si trovasse. Il largo capannone grigio era sparito dai suoi pensieri coscienti, sopra di lei avrebbe potuto anche esserci solo il cielo notturno. I muri erano troppo lontani perché la loro esistenza fosse rilevante, si perdevano nella calca di giovani che saltavano, ondeggiavano, si spintonavano nello spazio ridotto a loro disposizione. Sembrava superfluo distinguere un corpo dall'altro, i suoi stessi arti urtavano ora una spalla, ora un braccio che prontamente spariva, risucchiato nella massa disordinata. Il modo in cui la musica le riverbera nelle ossa le faceva credere che quel ritmo forsennato fosse proprio del suo stesso organismo, e che il sangue, carico di alcool e caffeina, scorresse con la medesima frenesia in ognuno di loro. In quel momento il buio esisteva solo a intermittenza, un mero capriccio delle luci stroboscopiche. Cieca e sorda nel cuore della festa, Jolene percepiva la stanchezza del proprio corpo come un'eco lontana che in quella notte non avrebbe dovuto trovare spazio. Si sentiva come sdoppiata, tra gli occhi che bruciavano per chiudersi e un'energia che divampava dalla sua stessa volontà e gridava che per dormire ci sarebbe stato tempo un'altra volta, che in quel momento voleva sentirsi viva.
Tra il piccolo gruppetto degli amici di Stella, Jolene ballava da sola. Sua cugina prendeva a braccetto ora Amina, ora Michele, e i corpi si intrecciavano per qualche minuto tra le risate mute che scoppiavano sulle loro bocche. Invidiava la loro naturalezza, con sorrisi leggeri cercava di emularla ogni qual volta incontrava lo sguardo di uno o dell'altro. Nel suo desiderio di amalgamarsi ad un'identità collettiva, Jolene si scoprì improvvisamente rigida quando si rese conto che, in fondo, non erano poi così tanto disposti ad accoglierla. Anche dopo le prime settimane, continuava a sentirsi un'estranea. La distanza si accorciava in brevi momenti luminosi, solo per ripristinarsi quando qualcuno faceva riferimento ad un avvenimento a lei sconosciuto, o usava un'espressione troppo colloquiale perché la potesse capire. Allora tutto ciò che rimaneva del desiderio di entrare in confidenza era un immediato bisogno di distacco, lo stesso che la colse in quell'istante. Il calore prodotto da tanti corpi divenne ad un tratto soffocante, il frastuono nelle orecchie insopportabile. Con un rapido sventolio della mano ad accompagnare l'espressione ora seria, Jolene voltò le spalle a Stella e agli altri.
Farsi spazio tra la calca fu un autentico inferno, ma infine riuscì ad uscire dalla pista. Qui la musica non era così forte da cancellare ogni altro suono, così qualche coppia e sporadici gruppetti se ne stavano appoggiati alle pareti a chiacchierare e a bere da cannucce di plastica nera, pochi rivolsero uno sguardo a quella sconosciuta. Jolene premette la schiena contro la parete, era gelida a contatto con la pelle accaldata. Chiuse gli occhi, ma nemmeno così riuscì a ricreare il buio: fuochi d'artificio scoppiavano in continuazione dietro alle palpebre abbassate. Come facevano a respirare, chiusi lì dentro ogni sabato sera? Come potevano ritrovare il silenzio, quando lei aveva l'impressione che quel martellare le sarebbe durato nei timpani per settimane?
«Ehi, Jolè, ti senti bene?» La voce di Amina riuscì in qualche modo a raggiungerla, e Jolene la guardò mentre la raggiungeva. Era alta quanto lei, ma emanava un'energia che la faceva sembrare molto più imponente. Non avrebbe potuto essere più diversa da Jolene, con la liscia pelle scura e le trecce lunghissime.
«Sì, ma ho bisogno di un po' d'aria», rispose, sforzando la voce, quando anche l'altra si appoggiò alla parete.
Amina la scrutò per qualche secondo. «Non ti piacciono queste feste, vero?»
Si strinse nelle spalle: non lo sapeva nemmeno lei. Rispondevano ad una frenesia a cui, però, puntualmente si alternava la necessità della solitudine.
«Senti, ma cosa facevate il sabato sera nel tuo collegio? Hemingway, no?»
«Hamilton», la corresse con il nome inventato. A quel che ne sapevano Amina e Michele, Babbani, Jolene aveva frequentato un noiosissimo collegio in Scozia. Dovevano credere che le avessero fatto il lavaggio del cervello, da quando avevano capito che non sapeva niente del mondo degli ultimi anni. «Era un po' diverso.»
«Come?»
«In ogni modo. Le notti, per esempio.»
Amina sembrava divertita. «E che avevano di speciale?»
«Lì di notte è buio sul serio.»
«E che, qui abbiamo le notti bianche?»
«No, però c'è sempre qualche luce. I lampioni, le insegne, sembra che nessuno dorma mai davvero.» Amina la guardò un po' stranita, come se stesse farneticando. D'altronde come poteva capire, lei che non aveva conosciuto il perfetto isolamento di Hogwarts? C'era solo la luna ad illuminare la notte quando l'ultima torcia veniva spenta, e se il cielo era nuvoloso rimaneva il buio pesto. Potevi aprire e chiudere gli occhi e quasi non accorgerti della differenza. In quei momenti era facile entrare davvero in contatto con se stessi, perché non esisteva nient'altro, nel mondo ovattato di buio e silenzio. Nel tempo era arrivata a modellare la propria idea di quello che era la notte proprio su quell'esempio; quando aveva deciso di trasferirsi in Italia per qualche tempo non aveva pensato che vi avrebbe trovato un'esistenza così diversa da quella che dava per scontata. Lì erano sempre tutti in movimento, intenti a correre da una parte all'altra in una lotta perpetua contro i giri dell'orologio, sforzandosi di collezionare una notte in bianco dopo l'altra.
«Dai, andiamo a prendere qualcosa da bere», concluse Amina dopo qualche istante, come se fosse la risposta a tutto. Jolene la seguì verso il bancone, dove ritrovarono Stella e Michele.
«Eccovi! Jolene, te ne sei andata durante la canzone più bella.» Stella era un concentrato di energia ad ogni ora del giorno e della notte: Jolene l'aveva vista affaccendarsi accanto a lei per ore infinite mentre in ospedale affiancavano le infermiere più esperte, ma in quel momento sembrava che solo lei avesse immagazzinato la stanchezza di entrambe. Stella infatti si mise a cantare a gran voce la melodia che tanto le piaceva, dondolando da un piede all'altro e cercando di coinvolgere anche gli altri. Infine scoppiò in una risata disordinata, gettando dietro le spalle la lunga chioma ricciuta. Pur essendo una lontana parente di Jolene, il suo era il tipico aspetto mediterraneo: occhi e capelli scuri, pelle olivastra.
«Ragazze, che cosa prendete?» La voce di Michele si tendeva in maniera innaturale quando la sforzava, dava l'impressione di doversi spezzare da un momento all'altro. Come la sua intera figura, tra l'altro, che era magra e lunga, un fascio di nervi su ossa appuntite.
«Fai quattro shot di tequila», fece Amina.
«Solo per te?»
«Per tutti, scemo.»
Tempo qualche minuto e Jolene si ritrovò in mano un bicchiere minuscolo, il tintinnio con cui colpì i vetri degli altri si sentì appena tra tutto il frastuono.
«A noi!» esclamò Stella.
«E alle notti, che qui non esistono.»
Jolene sorrise di rimando ad Amina: «
Cheers!»
L'alcool le scese nello stomaco al pari di una scarica d'adrenalina di cui avesse disperatamente bisogno. Aveva imparato presto che era una parte fondamentale di quelle nottate che, infinite, si trascinavano solo per poi, al mattino, ridursi a qualche attimo di chiarezza immerso nella nebbia. Il tempo si stringeva e si dilatava secondo il proprio capriccio, al pari di una canzone dal ritmo sregolato: ora ti cullava in una lentezza piena di sensazioni, ora accelerava fino a quando non lo vedevi più, ti sembrava di esserti addormentato senza accorgertene. Aveva sempre, però, l'aspetto di un filo infinito, che potevi tirare con più o meno forza, che a volte ti sfuggiva di tra le dita, ma che non si sarebbe mai esaurito. Questa era la certezza che tutti loro condividevano, l'unica che gli permettesse di stordirsi ogni settimana come se le notti che puntualmente dimenticavano non avessero nessun peso. Il tempo stesso veniva negato, durante le feste che erano sempre una uguale all'altra: poteva cambiare il locale, che a volte era una discoteca ed altre, come in quel caso, un capannone affittato da qualche amico di amici; poteva cambiare, in parte, la compagnia, anche se alla fine si vedevano sempre le stesse facce; ma, nel complesso, erano momenti senza contesto, privi di appigli al resto della realtà, slegati come un sogno che se ne sarebbe andato ai primi accenni dell'alba. Avevano anche la stessa consistenza sfilacciata delle visioni: bastava il giusto numero di bicchieri, la musica e le luci facevano il resto.
Quella notte, come tutte le altre dello stesso tipo, Jolene vagò da una parte all'altra, ora intenta a ballare al centro della pista ora fuori, a prendere una boccata d'aria nel fresco di settembre. Bisognava stare attenti a non perdersi di vista, rimanere almeno in coppia, perché poi era un casino ritrovarsi. Così, le figure estranee di Amina e di Michele, oltre a quella di Stella, costituivano un appiglio fondamentale, e sentire le loro voci era un sollievo anche se non le avevano mai detto nulla di veramente importante. Quant'era lontana da ciò che conosceva, eppure le sembrava che quel vuoto apparente nascondesse un significato proprio che solo una sensibilità acuita dalla notte potesse cogliere poiché, al pari dell'incanto di una fiaba, scompariva alle prime luci dell'aurora.
Non le era ben chiaro che ora fosse, ma ad un certo punto si trovava sullo spiazzo all'esterno. Accanto a lei Stella dava calci alla polvere, dalla sua figura parzialmente coperta dall'oscurità faceva l'occhiolino la brace della sigaretta.
«...non capisci, Jolene. Non sono amici tuoi, non ti immagini nemmeno la fatica a mentirgli sempre. Il bisogno di tutta questa segretezza io non ce lo vedo, di loro mi fido.» Da quando si era trasferita in casa sua e la frequentava da mattina a sera anche in ospedale, Jolene era arrivata a conoscere un po' meglio la cugina. All'apparenza era una che non si dava pensiero di nulla, ma la verità era che si tormentava almeno su una questione: Stella voleva confessare ai suoi migliori amici la sua natura di Strega.
«Stella, pensaci. Se ci sono delle regole così strette è perché c'è una buona ragione.»
«Che me ne frega delle loro regole
strette.» Calcò l'accento sull'errore. «Loro che le hanno fatte non conoscono nessuna di queste persone. So io di chi mi posso fidare.»
«Magari è il caso di pensarci meglio un'altra volta, non fare niente questa sera.»
«Dicevi così anche sabato scorso, sembri mia mamma, anche lei crede che non so cosa sto facendo. Senti, mi sono decisa. Questa sera...» Lasciò cadere il mozzicone di sigaretta e lo schiacciò sotto il tacco, nel frattempo le raggiunse Amina. Jolene fece passare uno sguardo preoccupato dall'una all'altra, ma d'un tratto la loro attenzione volò ad un gruppetto poco distante. Le loro voci si alzavano cariche di allegria esagerata, risate sguaiate le accompagnavano attraverso l'aria notturna fino a loro. Numerose figure si stagliavano in un rettangolo di luce fredda, tra queste una era il centro indiscusso.
«Pensavo che Michele fosse con voi. Lo stava cercando Marcello, prima», annunciò Amina, rovistando con la cannuccia tra il ghiaccio nel suo bicchiere di plastica ormai vuoto.
«E che vuole da lui? Quei due non si sopportavano nemmeno a scuola.»
«Non so, ma conosci Marcello. Vorrà fare il cazzone, così poi Michele perde le staffe e...»
Jolene non udì il resto della frase: dall'altra parte era appena spuntato Michele, dal modo in cui si stava guardando intorno era chiaro che le stesse cercando. Venne intercettato da Marcello, che gli si piazzò di fronte a braccia larghe, la voce che arrivò indistinta fino a loro sembrava sfottente. Il corpo si Stella si irrigidì all'istante, e con la coda dell'occhio Jolene vide che faceva correre la mano al fianco.
«Stella.» Un monito implicito che le costò un'occhiata in tralice, ma che non portò la cugina ad allontanare la mano dalla fondina dove teneva nascosta la bacchetta. «Stella, dai, andiamo lì e ci prendiamo Michele, poi andiamo via.»
«Non rompere le palle, Jolene, non sta mica succedendo niente. Sentili, stanno ridendo come matti. Voglio solo... rendere le cose ancora più divertenti.»
Jolene scosse la testa: le sembrava di essere approdata in un mondo alieno di cui non riusciva a comprendere le regole. Quei ragazzi avevano trascorso le loro vite intere uno a fianco dell'altro, giocando nello stesso parco del quartiere, frequentando le stesse scuole. I loro caratteri e le loro storie si erano intrecciati in modi che erano noti a tutti, tranne a lei, e proprio per questo nessuno si prendeva la briga di spiegarle il perché di tutte quelle tensioni nei momenti più impensati, delle battute che sembravano alludere a tutto e a niente, dell'ansia di non far mai incrociare questo e quello da soli quando erano ubriachi. Non possedeva gli strumenti per decifrare nessun comportamento, se non quello della cugina, che in quel momento appariva anche fin troppo chiaro: per motivi suoi, che andavano dall'enorme affetto che la legava a Michele, all'avversione esplicita per Marcello, ai sensi di colpa che la rodevano ogni volta che doveva coprire con una bugia la sua vera natura ‒ insomma, a causa di tutto questo, e di chissà cos'altro ancora, Stella stava per fare la cosa più stupida di tutte.
Nel frattempo, dall'altra parte dello spiazzo le risate si erano un po' smorzate, mentre i ragazzi si disponevano intorno a Marcello e Michele. La luce piazzata sul muro esterno della struttura scavava nei visi ombre dalla rigidità di legno, tagliando impietosamente le occhiaie profonde della stanchezza, le pieghe intorno alla bocca contratta. Sembrava impossibile che quelli fossero gli stessi volti che aveva osservato di giorno, erano completamente trasfigurati da una tensione che sentiva stesse per esplodere tra di loro ma, prima ancora, in Stella.
Ed infatti la cugina si mosse repentina, a dispetto di tutto l'alcool che aveva ingerito. Prima ancora che Jolene potesse fermarla, aveva già estratto la bacchetta e la stava puntando contro Marcello, un sorriso sbieco a far lampeggiare il bianco dei denti. Jolene si attaccò al suo braccio un attimo troppo tardi, riuscendo a cambiare la traiettoria della fattura non verbale ma senza impedirne l'esecuzione. A quel punto fu un unico istante prima che il caos esplodesse del tutto: un forte rumore di vetri infranti raschiò contro i timpani, seguito da pochi secondi di silenzio prima che le voci esplodessero in coro. I ragazzi cominciarono a muoversi disordinatamente, mentre altra gente arrivava dall'interno del capannone.
«Che cazzo è successo?» Amina le affiancò per qualche secondo prima di correre verso gli altri, era evidente che non si era accorta dei movimenti delle due cugine. Jolene scoccò a Stella un'occhiata piena di rabbia, mentre quella fissava imbambolata di fronte a sé, quasi non si capacitasse di che cosa era successo.
«Doveva essere solo uno scherzo, non doveva rompersi niente...» riuscì a borbottare, ma Jolene era già corsa dietro ad Amina.
Si stavano tutti accalcando intorno alla finestra che si era rotta: era rimasto appena qualche spuntone di vetro intorno all'intelaiatura, il resto era tutto schizzato all'interno, che fortunatamente era solo un magazzino. Ma per terra giaceva Michele, stordito, che si teneva un braccio interamente insanguinato.
«...andato contro il vetro, l'ha rotto del tutto...»
«...spinto, ho visto che l'hanno spinto!»
«Ma se non l'ha toccato nessuno...»
«Fate spazio, lasciatemi passare.» Tra tutta la calca, Jolene riuscì ad aprirsi un varco fino a raggiungere Michele. Non sapeva che incantesimo volesse fare Stella, ma il suo stato alterato, unito all'intervento di Jolene, doveva aver prodotto una spinta che aveva mandato il ragazzo contro alla finestra. Rivoli di sangue gli scorrevano dalla tempia sinistra fino a sgocciolare sul collo, mentre il braccio corrispondente era segnato da tagli in cui si erano insinuate piccole schegge. Se non era finito direttamente dall'altra parte della finestra sfondata era solo perché qualcuno aveva avuto la prontezza di afferrarlo per un braccio.
Le voci si alzavano intorno a loro al pari di una marea impazzita; tra toni increduli e spaventati, qualcuno accusava e qualcun altro mandava una risata stridula che più di tutto appariva fuori posto. Tutto quel chiasso le stringeva il cranio in una morsa dolorosa, ma incredibilmente riuscì a mantenere abbastanza lucidità per gridare di non stare lì imbambolati, di aiutarla a sollevare Michele per portarlo in ospedale. In testa le pesavano ancora i bicchieri bevuti, ma ormai erano passate un paio d'ore dall'ultimo, ed era padrona di se stessa quanto bastava per sentire come insopportabile tutto l'inutile agitarsi degli altri.
«Ti aiuto io.» Sollevò lo sguardo su Marcello: serissimo, pallido come un lenzuolo e altrettanto stropicciato nel viso contratto, le porse la sua giacca. Jolene la annodò intorno al braccio ferito, facendo attenzione a non stringere, così che non rischiasse di insinuare ancora più in profondità le schegge. A quel punto Marcello si inginocchiò accanto a loro e fece passare un braccio sotto alle spalle di Michele. «La mia macchina è di qua, lo portiamo in ospedale.» Si ricordò allora di quel che dicevano di lui, che non beveva mai nemmeno alle feste. Aveva delle allergie, o qualcosa del genere. Jolene quindi annuì, e prese a seguirli, reggendo Michele dall'altro lato quando sembrava che le gambe gli stessero per cedere.
«Oddio, Michele...» Stella li raggiunse di corsa, aveva l'aria stravolta. Dietro di lei c'era Amina.
«Non è niente di grave, Stella. Dovranno solo togliergli le schegge, magari dargli qualche punto.»
«Ma non si regge in piedi!»
«Per forza, pure prima faceva fatica.»
La macchina di Marcello era nel parcheggio poco lontano, la raggiunsero e misero Michele sul sedile posteriore. Aveva ancora gli occhi appannati, non gli usciva nessun suono dalla bocca socchiusa: aveva l'aria ottusa di un pesce che non si capacitasse di essere stato tirato fuori dall'acqua. Non ci fu modo di impedire ad Amina e Stella di salire anche loro, così la prima si piazzò davanti, accanto a Marcello che guidava, mentre le due cugine si sedettero ciascuna ad un lato del ferito.
«Voi non siete infermiere? Non potete fare qualcosa?»
«Non possiamo fare molto più di questo, con tutte schegge» rispose Jolene, lanciando un'occhiata significativa a Stella. Non avrebbero certo potuto curare Michele di fronte agli occhi di tutti, non con gli strumenti a loro disposizione.
«È colpa tua» le sibilò la cugina, il fascio di luce di un lampione che come un fulmine le si rifletteva nelle pupille nere. «Se non avessi cercato di fermarmi non sarebbe successo niente del genere.»
«Ah, no? Stella, biascichi, a malapena riesci a mettere a fuoco. È così che vuoi metterti la coscienza a posto?» Quello parve placarla, e smisero di sussurrare furiosamente una contro l'altra. Il resto del viaggio lo passarono in silenzio, l'abitacolo che di tanto in tanto veniva investito dal fascio di luce impietoso di un paio di fari. Marcello fissava la strada come se nemmeno fosse lì, Amina si girava in continuazione per vedere come stesse Michele, ma quello non si riscosse. In quel momento sembrava che nessuno trovasse strano l'aiuto di Marcello, quando solo fino a qualche minuto addietro non aspettava altro che attaccar briga. Dal canto suo, si vedeva che trovarsi insieme a quelle persone lo rendesse nervoso, e si era guardato bene dal rivolgere la parola a chiunque di loro, se non a Jolene. Non fu un viaggio piacevole, ma per fortuna ci misero poco a raggiungere il pronto soccorso.
Quando uscirono dall'auto, il cielo era una massa scura coperta da un alone vagamente fluorescente, come in tutte le città non era mai davvero nero. Inutile tentare di scorgere il puntino luminoso di qualche astro, e d'altronde i lampioni e le luci dell'ospedale erano così violenti da accecare.
Lasciarono Michele nelle mani dei medici e loro dovettero rimanere nella sala d'accettazione, non gli permisero di mettere piede oltre. Marcello resistette giusto cinque minuti prima di andare a fumarsi una sigaretta e sparire così per tutto il resto del tempo. Rimasero quindi solo le tre ragazze, ciascuna seduta su una scomoda sedia di plastica grigia. Insieme a loro c'erano un'altra mezza dozzina di persone, tutte ad occhi bassi e braccia incrociate, i visi smunti sotto alle lunghe lampade bianche incastrate nel soffitto. Si sentiva distinto il loro ronzio incessante, come quello di grosse mosche. Faceva venire il mal di testa. Era inutile chiudere gli occhi in cerca di un po' di riposo, non c'era velo dietro a cui nascondersi sotto alla luce degli ospedali. Jolene lo sapeva bene, e ritrovarsi di nuovo in quel tipico ambiente chiaro e sterile, come una grossa lavagna bianca spoglia di qualsiasi segno, le fece venire il voltastomaco. Aveva bisogno di dormire, di sentire intorno a sé l'abbraccio confortevole del buio, ed invece le veniva continuamente negato.
«Tutta questa notte sembra un maledetto incubo» borbottò Stella ad un certo punto, e Jolene dovette convenire. «Mi sa che hai ragione tu» soggiunse infine la cugina, e non ci fu bisogno di chiarirsi per capire che cosa volesse dire. Jolene si limitò ad annuire: confidarsi dopo quanto successo avrebbe gettato sulla Magia una luce impietosa almeno quanto quelle maledette lampadine ronzanti, ne avrebbe sottolineato gli aspetti grotteschi, pericolosi, avrebbe portato Michele ed Amina ad avere paura. Meglio che rimanessero all'oscuro.
Parve passare un tempo interminabile prima che ricomparisse Michele. Aveva il braccio fasciato e un paio di garze gli nascondevano parte del viso, ma finalmente i suoi occhi avevano riacquistato un'espressione cosciente. Stella corse ad abbracciarlo, seguita da Amina. Jolene si limitò a rivolgergli un sorriso leggero, a fior di labbra, che quello ricambiò impacciato ma, le parve, con un calore nuovo.
«Grazie per quello che hai fatto», le mormorò mentre stavano uscendo. «Ricordo tutto male, ma so che sei stata la prima ad aiutarmi.»
«La nostra Jolè è in gamba, vero? Allora alla fine vi serve a qualcosa, quel corso di infermiere», intervenne Amina, prendendo entrambi a braccetto mentre si dirigevano verso la macchina di Marcello: nessuno ci aveva sperato, ma alla fine li aveva aspettati.
Dapprima irrigidita al contatto con quel corpo estraneo, Jolene si rilassò fino a sciogliersi in un sorriso più largo. Guardò Stella, e anche lei aveva un'espressione più serena, ora che il mattino aveva cacciato via l'incubo. Perché il cielo si era ormai tinto delle pennellate rosate dell'alba, ed era una luce così gentile, si diffondeva soffusa sui loro visi facendoli apparire tutti giovani e belli come erano davvero.