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Ekaterina ObraztsovaRussia▴87 anni▴Purosangue▴Neutrale Malvagia▴Ministeriale V Livello Marzo 1941 La luce della grande sala da pranzo del palazzo di Cracovia si rifletteva nelle posate d'argento e nei vassoi lucidi. I piatti di porcellana di Meisen, bordati in oro, erano colmi di tutte le leccornie che i loro potenti protettori erano riusciti a procurare. Suo padre, ingobbito da una postura da sempre china, era piegato sul piatto. I lisci capelli biondi scivolavano a lato del visto, evasi dalla stretta del nastro di velluto nero, mentre le mani portavano alla bocca il pollo; la figlia dall'altro capo del tavolo lo guardava con la bocca piegata in segno di disgusto e, vagamente disturbata dalla scena, intingeva un pezzo di pane nel sugo del suo arrosto. Il padre tossì un pezzo di pollo fino a metà del tavolo, scena non infrequente vista la voracità con cui, il piccolo uomo grezzo, riusciva a spolpare la carcassa cotta che era stata poggiata, come offerta sacrificale ad un dio crudele, nel suo piatto, e prese a parlare «Trina devo dirti una cosa e voglio che tu mi ascolti con calma. Non voglio che tu faccia scenate perché se le farai dovrò punirti e sai che non mi piace farlo perché le tue grida disturbano il mio sonno. Come tua madre hai una voce troppo acuta ed io ho le orecchie così sensibili.» addentò un altro pezzo di pollo portandosi alla bocca anche una pagnotta che divorò in pochi istanti strappandola a morsi come avrebbe fatto un qualunque cane. «Mangia, Trina, sai quanto io odi mangiare da solo » la piccola continuava a intingere pigramente il pane nel sugo dell'arrosto. Il suo pensiero scivolava con paura alla cisterna del cortile in cui il padre la gettava di notte quando voleva punirla di qualcosa. Il suono delle grida che il padre sentiva attraverso la sottile finestra della sua camera, appoggiato ai guanciali di seta del letto a baldacchino, erano le stesse che le ritornavano in un'eco spaventosa che le perforava il cranio. Nessun appiglio se non un piccolo mattone a cui aveva legato la sua vita tante volte con determinazione. «Trina? Mi ascolti? » chiese il padre. « Si padre, ti ascolto» Rispose con la voce spenta, indecisa quasi tremante. « Lo sai, Trina, che non mi piace quando non parli bene, ti fa sembrare debole. Te non sei debole, vero Trina? Perché se avessi una figlia debole tutti riderebbero di me! Vuoi che la gente rida di me? Stai sempre lì a complottare qualcosa ai miei danni, vero Catarina? » in un rapido climax il tono s'era fatto, da tranquillo, profondamente aggressivo e dicendo ciò si alzò spingendo indietro la sedia con le gambe. Non era raro che avesse questo genere di scatti d'ira, Ewald, e la bambina aveva quasi vinto quel nemico anche se non lo sapeva. Gli occhi, iniettati di sangue, si schiarirono e le membra furiosamente tremanti, lentamente, si placarono. « Vedi cosa mi fai fare, Trina? Lo fai apposta perché io ti getti nel pozzo, pensi di meritarlo? Beh avresti ragione. Tutti meritiamo una punizione. Ricordati, figlia mia, " Ciascuno ha ciò che si merita, niente di più e niente di meno." Se sei sola, con me come unico appiglio alla vita, è perché te lo meriti. » A quel punto l'attenzione di Ewald entrò nell'orbita del vino posto davanti al piatto e vi si scagliò contro trangugiandolo con sete vorace. I rivoli di sostanza rossastra gli scendevano negl'incavi rugosi ai lati della bocca e cadevano sul bavero della pelliccia che indossava. Dopo aver emesso una serie di rumori, frutto della fame d'aria dovuta all'apnea in cui si era costretto bevendo, riprese a parlare « Vedi, figlia, te sei troppo piccola per ricordare la tua storia e la mia ed è per questo che è il caso che te la racconti. Il tuo nome non è Catarina de Wit, ed il mio non è Ewald. Noi siamo fuggiti da Leningrad anni fa quando il corpo morto di tua madre era ancora caldo al piano nobile della nostra casa. Ricorderai il periodo trascorso nella dacia nelle campagne, ti ricordi quando andammo via di corsa? Beh era perché quel traditore di Lavrentinij aveva spiattellato tutto alla guardia rossa. Insomma, te il prossimo anno andrai a Durmstrang, dove ho studiato io, e non potrai andarci come Catarina de Wit. Catarina de Wit non esiste. Mi capisci?» Meccanicamente, la bambina, fece si con la testa in risposta allo sguardo alterato del padre ma non era vero, lei non ci stava capendo niente. Chi era Catarina de Wit se non Catarina de Wit? Chi erano loro, allora? «Ecco ciò che ti devo dire, ma voglio che tu stia calma e che non ti agiti con domande assurde, chi? Chi? Chi? Perché? Perché? Perché? » la canzonò « io ti dico quello che ti è permesso sapere, ogni domanda in più sarà un'ora di punizione. Bene? » lei rimase in silenzio, non avrebbe saputo cosa dire. « Io ti restituisco una cosa che ti tolsi anni fa: il tuo nome, figlia mia. Questa è l'unica cosa reale della tua vita: il tuo nome non potranno strappartelo mai più. Il tuo nome, figlia, è Ekaterina Elena Sergeevna Obraztsova, ed io mi chiamo Sergeij Vladimirovich Obraztsov» La bambina sembrò accigliarsi un poco, aveva solo nove anni e ancora non capiva bene il senso delle cose, l'avrebbe poi capito a lungo andare e avrebbe continuato ad arrovellarsi sul nome che le aveva appena detto per molto tempo da quell'istante fatale in poi. "Yekatarina Elena Sergevabrassova" ripeté mentalmente, con una punta di soddisfazione. Il padre non lo capiva, per lui quell'essere con due braccia e due gambe, un torso minuscolo, una testa coronata di capelli bruni e due occhi azzurri come l'acqua della Neva era in toto un'adulta in miniatura, mentre, per quanto la piccola Trina, fosse molto brillante non poteva afferrare allora il perché di quel discorso, qualche anno dopo lo comprese, eccome se lo fece. « Padre » disse lei seria « Però mi insegni a scriverlo ». L'uomo sorrise, trovava ironico che, con tutto quello che comportava una situazione simile, lei si preoccupasse di imparare a scriverlo.
L'anziana donna scosse la testa come a voler lasciar che vecchi ricordi scivolassero nel limbo da cui erano ritornati. Circondata da tavolini rosei e da merletti e trine si lasciò andare sulla sedia, cercando una comoda posizione. Era tanto tempo che non vi pensava più, quegli anni portavano solo un tetro e cupo retaggio che la distraeva dai ricordi lieti dei periodi successivi. Le erano tornati in mente mentre ascoltava una matinée dedicata a Schubert. Come suo solito aveva saccheggiato dal programma ciò che le interessava, rimanendo giusto il tempo di sentire il quartetto Der Tod und das Mädchen, e poi si era diretta all'appuntamento. L'esecuzione l'aveva toccata più profondamente di quanto volesse confessare anche a sé stessa. Alzò la manica, della giacca grigia, del tailleur grigio antracite, che indossava, e guardò il Reverso che brillava sotto la seta bianca della camicetta, nel quadrante la più corta striscia d'oro lambiva il cinque mentre la lunga, dei minuti, arrancava verso il nove disegnato in oro, come di consueto la lancetta dei secondi sembrava girare vorticosamente, ubriaca. Il programma del concerto sbucava ancora, solo per un angolo, dalla borsetta in coccodrillo. La pioggia picchiettava sui vetri incastonati nelle aste di legno, tinte di rosa, e dentro, stretti l'un l'altra per difendersi, idealmente giacché il clima interno era riscaldato da un caminetto scoppiettante, dalle ultime grinfie stanche del gelo invernale, i piccioncini tubavano ammantati dai fumi tenui e dai colori pastello. Ekaterina sbuffò. L'odore della sua crema per le mani al cedro del libano e delle sigarette senza filtro si spargeva come un'aura mefitica costantemente ostacolata dai profumi dei tè, dei dolci, che sembravano scivolare, sui vassoi, di tavolo in tavolo e spargersi di bocca in bocca. Il piccolo tavolino che aveva prenotato era posto lontano dalla finestra ma, comunque, riusciva a veder la strada . Attendeva assorta già da qualche minuto ma preferiva aspettare rispetto ad essere aspettata, in certe occasioni. Rufus l'aveva accompagnata fino alla porta del locale e, incoraggiante, aveva chiesto « E' sicura, Signorina? » lei aveva chiuso « Ricordati del vestito che ho in sartoria, Rufus, vallo a prendere prima che chiuda» . Ed eccola lì, seduta a ricordare di ere passate conclusesi nel sangue. "Questa è l'unica cosa reale della tua vita, il tuo nome: nessuno potrà mai più strappartelo" lei aveva fatto di peggio, a suo padre, aveva divelto quel nome da ogni fibra del suo corpo. L'aveva condannato e nessuno sapeva che fine gli fosse toccata, nessuno eccetto lei. Era stata una figlia ingrata? Figlia carnefice di un carnefice? Nessuno avrebbe potuto dirlo ma non era pentita. Ogni cosa che aveva fatto era stata necessaria e non ci si può pentire delle necessità: una cosa necessaria va fatta a prescindere dal godimento, o dal disgusto, che si prova nel farla. Ekaterina era sopravvissuta per tanti anni perché aveva saputo capire questa regola che trascende la morale e l'etica, supera le leggi di una comunità e raggiunge il senso del divino. La donna aveva sempre creduto in un dio crudele, vendicativo, creatore imparziale, spietato, e incapace di perdono, aveva, insomma, creato dio a sua immagine e somiglianza. Ripassò mentalmente alcune parti di ciò che avrebbe detto di lì a poco alla giovane ma, improvvisamente, la sua testa si vuotò di ogni immagine e discorso persuasivo, la mente vagò vacua. Perché l'aveva convocata? Cosa avrebbe potuto dirle? Era d'accordo con l'Ekaterina di trent'anni prima: ciò che c'era in quel fascicolo doveva rimanere in quel fascicolo, non poteva essere disvelato, certo non così presto. E allora cosa? Improvvisa nacque in lei una nuova idea. Sì, avrebbe fatto così. Si rilassò sulla sediola appoggiando i gomiti sui braccioli di legno e si concesse di lanciare uno sguardo disgustato a ciò che la circondava. La mano corse istintivamente al portasigarette. "Maledetto vizio! Maledetto, dolce, vizio" pensò ritirando la mano con un sorriso teso sulle labbra. Code & image by Keyser Söze. Edited by Katherine Lee-Carter - 28/4/2019, 12:11
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