Ariel Astride Vinstav
22 y.o. ☘ giornalista e fotografa ☘
Canzone ☘ scheda [
x]
Q
uando si sentiva oppressa dalla routine, Ariel si lasciava andare ai suoni che la circondavano e alle immagini che questi stimolavano nella sua mente; ricordi veraci che riuscivano ad affiorare nel turbinio di pensieri.
Poi viaggiava.
Uno schiocco, come di ramo spezzato e si era ritrovata lontana dal vicolo buio vicino al Carkitt Market, ma immersa nella tundra islandese.
Ad annunciare il suo arrivo si levò il coro del vento, come sibili dei fiati che nel prepararsi allo spettacolo, richiamavano gli spettatori ai propri posti.
Poi vennero i crepitii del legno, quando i ramoscelli venivano percorsi dalla corrente o dai denti di roditori curiosi a caccia di bacche succose; erano rumori contigui che ricordavano il battere delle gocce di pioggia.
Si udiva vicino, ancora, il percuotersi ritmico delle ali arruffate di una skua, intenta a cingersi i fianchi stretti e il petto ampio e chiaro.
Similmente faceva Ariel. Le braccia sottili e flessuose erano state portate contro il petto, intrecciando polsi di ghiaccio e sfiorando con i palmi seni morbidi, percorsi lungo il profilo degli abiti da dita lunghe, ossute, spezzate nella regolarità del bianco da venature grigiastre - cicatrici e leggeri rigonfiamenti callosi.
Era, in quell'istante, cittadina del mondo e figlia della natura.
Non una nuova Giornalista accolta dalla celebratissima Gazzetta del Profeta, né l'eccentrica e istrionica fotografa francese.
Non era lì per ruolo, né tantomeno per scopo.
Ariel era in quel momento alla stregua della Grande Skua che ghermiva lì vicino un salmerino alpino.
Era giunta nel cuore dell'Hornstrandir, una delle riserve nazionali del paese e non a caso, uno dei centri abitati di soli maghi e ibridi più popolato del territorio.
Quel luogo, nello specifico, le era particolarmente familiare.
Suo nonno l'aveva portata lì per anni, il giorno prima di ogni Solstizio d'Inverno, accompagnandosi occasionalmente a qualche amico di famiglia che abitava nelle Comunità mannare sparse per la regione. La pietra levigata era sempre la stessa, dipinta di rossi, verdi e dorati per i muschi e le ericacee che la percorrevano. Non vi erano alberi a ripararla dalla brezza gelida; c'era troppo freddo perché la terra potesse essere fertile per la crescita di piante simili.
Ariel era distesa lungo una conca alla base della cascata che sormontava l'altopiano, là dove la corrente aveva scavato nel terreno più morbido, lasciando -alla formazione di un nuovo dislivello- un letto di muschi asciutti sul quale poter trovare facilmente conforto.
Lo scrosciare dell'acqua veniva accolto dalle sue orecchie come una litania rilassante, un poema in una lingua che i Vinstav da secoli ostinavano sostenere di saper comprendere, anche senza poterla parlare.
La cascata narrava delle sue strazianti cadute, di come la volta rocciosa la rigettasse puntualmente nella fossa vulcanica, rimpinguando un lago gelido e ignorando le sue urla.
I granelli rocciosi che cedevano per il flusso, franando lentamente insieme all'acqua, erano un coro a sostegno dei zampilli che occasionalmente raggiungevano il volto di Ariel o esplodevano contro le rive esterne, imperlando le pellicce di piccole volpi selvatiche e topi di campagna.
«The world is covered by our trails
Scars we cover up with paint.»
Aveva cominciato a cantare insieme alla natura, lasciando che le parole di una vecchia canzone scivolassero oltre le labbra arrossate. Aveva un timbro alto, una forza del diaframma utile a mantenere le note più lunghe, ma non possedeva la conoscenza tecnica - o l'interesse - necessario a ripulire la voce delle sue naturali irregolarità, dove ogni tanto la musica si scontrava con le pareti della gola, rendendo alcune parole più graffiate, o senza schermare l'emozione dall'impostazione vocale, lasciando trasparire una certa melanconia.
Lo sguardo attento si muoveva lungo i profili spezzati della roccia, soffermandosi dove la pietra plastica era stata scalfita e levigata a formare la conca dove ora si trovava.
Anche lì le pareti erano dipinte di muschi: la testimonianza del passaggio della natura in quei luoghi. Quella era, per lei, una magia ben più grande e potente di quella posseduta dai maghi o ambita per potere.
«Watch them preach in sour lies
I would rather see this world through the eyes of a child.»
Ancora cantava, non potendo evitare di mettere a disagio la Grande Skua poco distante, una volta percepita la nota combattuta nella voce della giovane donna.
Dispiegò le alì, staccandosi poco dopo dalla riva del lago per allontanarsi dal canto improvviso e straziato.
«Darker times will come and go
Times you need to see her smile.»
La conformazione del terreno amplificava la voce, trasportandola in un eco che rimbalzava fino a riempire le orecchie di Ariel stessa.
Quest'ultima chiuse lentamente gli occhi, celando le sfumature chiarissime delle iridi azzurre. Si strinse nelle spalle, lasciando che la pelliccia interna al cappotto le cingesse il collo tornito e il corpo magro, sormontando la sciarpa ampia in maglia verde e il maglioncino grigio che le sormontava il petto.
Continuava la nenia, ora non più tramite parole, ma come suoni intrappolati fra le labbra e la gola.
Cantava alla terra, cantava alla Madre Verde che aveva fabbricato il suo letto di licheni colorati.
«And mothers hearts are warm and mild
I would rather feel this world through the skin of a child.»
Cantava per chi non c'era più, o a chi c'era ma capiva quanto soffocante poteva essere quel mondo insanguinato, fra attentati che ghermivano vittime solo per il piacere del potere, fra i volti scossi di famiglie che avevano perduto compagni e amici.
I Vinstav cantavavano per la Terra, Ariel invece cantava per l'Uomo, quando non poteva consolarlo con foto o trafiletti inchiostrati sulle pagine di un giornale.
«Through the skin of a child...
When a human strokes your skin
That is when you let them in»
Nel ventre della valle rieccheggiava la sua voce, si innalzava insieme al canto della Natura; lo spettacolo di quel primo pomeriggio era una dedica a chi ha lo strazio di esser testimone; testimone dei vivi e dei loro malaffari.
"
Senti troppo, Asta. A volte ho paura che la cosa ti spezzi, figlia mia."
Suo padre, Einar, glielo diceva spesso da piccola, quando ancora il cuore era scoperto alle parole del prossimo e le lacrime erano frequenti bagnarle il volto.
E ora dopo tutti quegli anni, Ariel stessa si sentiva di dargli ragione: sentiva sempre e comunque molto, abbastanza da costringerla a smaterializzarsi lì ogni tanto per lasciar andare la presa al cuore e sfogarsi.
Esplorare Londra e la sua gente, per ordine del suo Redattore, era stata una scelta saggia per la sua attività formativa, quanto un'opera masochista nel suo essere fin troppo sensibile. Le conseguenze dell'Attacco gravavano ancora nel cuore di molti e non poche erano le note di panico, risentimento, rabbia, o semplice paura che le erano state rivolte in merito.
Ogni sguardo, ogni fremito delle labbra nel parlare potevano avere una conseguenza emotiva e psico-somatica in lei, sebbene fosse acuta e capace abbastanza da non farlo notare facilmente o a soffocare i primi disagi, ponendosi come priorità.
Il suo cuore si era abituato a incassare i colpi, ma non poteva evitare occasionalmente di chiedere una pausa, quando i lividi accumulati erano semplicemente troppi.
A volte si distraeva così: cantando; riprendendo le parole di altri uomini, o le proprie scritte su pergamene stracciate e accantonate.
Per lei, del resto, esisteva sempre una parola per tutto e per tutti. Anche ora che lodava la Natura, l'unica costante incrollabile dei suoi racconti; ora che si sentiva come un bambino in un mondo di adulti - l'unica con occhi pronti a cogliere ogni sfumatura delle situazioni e delle persone, in mezzo a sguardi spenti e arrabbiati, feriti e delusi che per le bellezze del mondo non sembrano più avere interesse.
«Let them in before they go
I would rather feel alive with a childlike soul
With a childlike soul.»
Era il canto disperato di un'orchestra di esploratori del mondo e artisti dell'anima. Il suo era il riecheggiare delle emozioni, l'esplosione dietro parole e significati figurati del dolore degli altri.
In quell'istante nella pancia della Cascata, era l'urlo collettivo di
Scaldi infuriati, bagnati del sangue di
chi era caduto e le lacrime lente di
Bardi incantati dalla forza d'animo di chi
era ancora vivo.
La Natura sarebbe stato il suo unico testimone di quel momento di sfogo, lo
Spettatore di un'Orchestra di emozioni.
Quindi cantava, per liberare il petto dall'abisso dei sentimenti, sostituendo le note alle
urla e le
lacrime che le pizzicavano le labbra e gli angoli degli occhi.
PS: 166 ☘ PC: 116 ☘ PM: 116 ☘ EXP: 24