A different kind of human, frammenti di A. A. Vinstav

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view post Posted on 30/11/2019, 20:05
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"Gran Sacerdote del Tempio della Pizza"

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Ariel Astride Vinstav
22 y.o. ☘ giornalista e fotografa ☘ Canzone ☘ scheda [x]


Q
uando si sentiva oppressa dalla routine, Ariel si lasciava andare ai suoni che la circondavano e alle immagini che questi stimolavano nella sua mente; ricordi veraci che riuscivano ad affiorare nel turbinio di pensieri.
Poi viaggiava.
Uno schiocco, come di ramo spezzato e si era ritrovata lontana dal vicolo buio vicino al Carkitt Market, ma immersa nella tundra islandese.
Ad annunciare il suo arrivo si levò il coro del vento, come sibili dei fiati che nel prepararsi allo spettacolo, richiamavano gli spettatori ai propri posti.
Poi vennero i crepitii del legno, quando i ramoscelli venivano percorsi dalla corrente o dai denti di roditori curiosi a caccia di bacche succose; erano rumori contigui che ricordavano il battere delle gocce di pioggia.
Si udiva vicino, ancora, il percuotersi ritmico delle ali arruffate di una skua, intenta a cingersi i fianchi stretti e il petto ampio e chiaro.
Similmente faceva Ariel. Le braccia sottili e flessuose erano state portate contro il petto, intrecciando polsi di ghiaccio e sfiorando con i palmi seni morbidi, percorsi lungo il profilo degli abiti da dita lunghe, ossute, spezzate nella regolarità del bianco da venature grigiastre - cicatrici e leggeri rigonfiamenti callosi.
Era, in quell'istante, cittadina del mondo e figlia della natura.
Non una nuova Giornalista accolta dalla celebratissima Gazzetta del Profeta, né l'eccentrica e istrionica fotografa francese.
Non era lì per ruolo, né tantomeno per scopo.
Ariel era in quel momento alla stregua della Grande Skua che ghermiva lì vicino un salmerino alpino.

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Era giunta nel cuore dell'Hornstrandir, una delle riserve nazionali del paese e non a caso, uno dei centri abitati di soli maghi e ibridi più popolato del territorio.
Quel luogo, nello specifico, le era particolarmente familiare.
Suo nonno l'aveva portata lì per anni, il giorno prima di ogni Solstizio d'Inverno, accompagnandosi occasionalmente a qualche amico di famiglia che abitava nelle Comunità mannare sparse per la regione. La pietra levigata era sempre la stessa, dipinta di rossi, verdi e dorati per i muschi e le ericacee che la percorrevano. Non vi erano alberi a ripararla dalla brezza gelida; c'era troppo freddo perché la terra potesse essere fertile per la crescita di piante simili.
Ariel era distesa lungo una conca alla base della cascata che sormontava l'altopiano, là dove la corrente aveva scavato nel terreno più morbido, lasciando -alla formazione di un nuovo dislivello- un letto di muschi asciutti sul quale poter trovare facilmente conforto.
Lo scrosciare dell'acqua veniva accolto dalle sue orecchie come una litania rilassante, un poema in una lingua che i Vinstav da secoli ostinavano sostenere di saper comprendere, anche senza poterla parlare.
La cascata narrava delle sue strazianti cadute, di come la volta rocciosa la rigettasse puntualmente nella fossa vulcanica, rimpinguando un lago gelido e ignorando le sue urla.
I granelli rocciosi che cedevano per il flusso, franando lentamente insieme all'acqua, erano un coro a sostegno dei zampilli che occasionalmente raggiungevano il volto di Ariel o esplodevano contro le rive esterne, imperlando le pellicce di piccole volpi selvatiche e topi di campagna.

«The world is covered by our trails
Scars we cover up with paint.»


Aveva cominciato a cantare insieme alla natura, lasciando che le parole di una vecchia canzone scivolassero oltre le labbra arrossate. Aveva un timbro alto, una forza del diaframma utile a mantenere le note più lunghe, ma non possedeva la conoscenza tecnica - o l'interesse - necessario a ripulire la voce delle sue naturali irregolarità, dove ogni tanto la musica si scontrava con le pareti della gola, rendendo alcune parole più graffiate, o senza schermare l'emozione dall'impostazione vocale, lasciando trasparire una certa melanconia.
Lo sguardo attento si muoveva lungo i profili spezzati della roccia, soffermandosi dove la pietra plastica era stata scalfita e levigata a formare la conca dove ora si trovava.
Anche lì le pareti erano dipinte di muschi: la testimonianza del passaggio della natura in quei luoghi. Quella era, per lei, una magia ben più grande e potente di quella posseduta dai maghi o ambita per potere.

«Watch them preach in sour lies
I would rather see this world through the eyes of a child.»


Ancora cantava, non potendo evitare di mettere a disagio la Grande Skua poco distante, una volta percepita la nota combattuta nella voce della giovane donna.
Dispiegò le alì, staccandosi poco dopo dalla riva del lago per allontanarsi dal canto improvviso e straziato.

«Darker times will come and go
Times you need to see her smile.»


La conformazione del terreno amplificava la voce, trasportandola in un eco che rimbalzava fino a riempire le orecchie di Ariel stessa.
Quest'ultima chiuse lentamente gli occhi, celando le sfumature chiarissime delle iridi azzurre. Si strinse nelle spalle, lasciando che la pelliccia interna al cappotto le cingesse il collo tornito e il corpo magro, sormontando la sciarpa ampia in maglia verde e il maglioncino grigio che le sormontava il petto.
Continuava la nenia, ora non più tramite parole, ma come suoni intrappolati fra le labbra e la gola.
Cantava alla terra, cantava alla Madre Verde che aveva fabbricato il suo letto di licheni colorati.

«And mothers hearts are warm and mild
I would rather feel this world through the skin of a child.»


Cantava per chi non c'era più, o a chi c'era ma capiva quanto soffocante poteva essere quel mondo insanguinato, fra attentati che ghermivano vittime solo per il piacere del potere, fra i volti scossi di famiglie che avevano perduto compagni e amici.
I Vinstav cantavavano per la Terra, Ariel invece cantava per l'Uomo, quando non poteva consolarlo con foto o trafiletti inchiostrati sulle pagine di un giornale.

original
«Through the skin of a child...
When a human strokes your skin
That is when you let them in»


Nel ventre della valle rieccheggiava la sua voce, si innalzava insieme al canto della Natura; lo spettacolo di quel primo pomeriggio era una dedica a chi ha lo strazio di esser testimone; testimone dei vivi e dei loro malaffari.
"Senti troppo, Asta. A volte ho paura che la cosa ti spezzi, figlia mia."
Suo padre, Einar, glielo diceva spesso da piccola, quando ancora il cuore era scoperto alle parole del prossimo e le lacrime erano frequenti bagnarle il volto.
E ora dopo tutti quegli anni, Ariel stessa si sentiva di dargli ragione: sentiva sempre e comunque molto, abbastanza da costringerla a smaterializzarsi lì ogni tanto per lasciar andare la presa al cuore e sfogarsi.
Esplorare Londra e la sua gente, per ordine del suo Redattore, era stata una scelta saggia per la sua attività formativa, quanto un'opera masochista nel suo essere fin troppo sensibile. Le conseguenze dell'Attacco gravavano ancora nel cuore di molti e non poche erano le note di panico, risentimento, rabbia, o semplice paura che le erano state rivolte in merito.
Ogni sguardo, ogni fremito delle labbra nel parlare potevano avere una conseguenza emotiva e psico-somatica in lei, sebbene fosse acuta e capace abbastanza da non farlo notare facilmente o a soffocare i primi disagi, ponendosi come priorità.
Il suo cuore si era abituato a incassare i colpi, ma non poteva evitare occasionalmente di chiedere una pausa, quando i lividi accumulati erano semplicemente troppi.
A volte si distraeva così: cantando; riprendendo le parole di altri uomini, o le proprie scritte su pergamene stracciate e accantonate.
Per lei, del resto, esisteva sempre una parola per tutto e per tutti. Anche ora che lodava la Natura, l'unica costante incrollabile dei suoi racconti; ora che si sentiva come un bambino in un mondo di adulti - l'unica con occhi pronti a cogliere ogni sfumatura delle situazioni e delle persone, in mezzo a sguardi spenti e arrabbiati, feriti e delusi che per le bellezze del mondo non sembrano più avere interesse.

«Let them in before they go
I would rather feel alive with a childlike soul
With a childlike soul.»


Era il canto disperato di un'orchestra di esploratori del mondo e artisti dell'anima. Il suo era il riecheggiare delle emozioni, l'esplosione dietro parole e significati figurati del dolore degli altri.
In quell'istante nella pancia della Cascata, era l'urlo collettivo di Scaldi infuriati, bagnati del sangue di chi era caduto e le lacrime lente di Bardi incantati dalla forza d'animo di chi era ancora vivo.
La Natura sarebbe stato il suo unico testimone di quel momento di sfogo, lo Spettatore di un'Orchestra di emozioni.
Quindi cantava, per liberare il petto dall'abisso dei sentimenti, sostituendo le note alle urla e le lacrime che le pizzicavano le labbra e gli angoli degli occhi.

PS: 166 ☘ PC: 116 ☘ PM: 116 ☘ EXP: 24


 
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view post Posted on 29/7/2020, 12:01
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"Gran Sacerdote del Tempio della Pizza"

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Berkano Eru völur allar frá Viðolfi, en seiðberendr frá Svarthöfða
Il rumore delle rune si fermò per un attimo, prima di riprendere.
Sua madre era irrequieta.
Ariel poteva sentirlo nel cozzare disarmonico della pietra sul tavolino della sala.
Aggrottò la fronte, costringendosi a non voltare lo sguardo verso Ragna, intenta a consultare (picchiare?) le sue rune a pochi metri da lei.

Sua madre era irrequieta, ma questo non significava dovesse cercare di trovare una soluzione al suo stato d'animo.
"Forse potrei solo chiederle se ha bisogno di una mano."
Avrebbe voluto, però: non era un caso se per professione si occupasse di impicciarsi degli affari altrui.
Non era semplice curiosità la sua, quanto un bisogno intimo di prodigarsi per il prossimo.
Era una vocazione egoista: era abituata tanto ad accorgersi delle emozioni degli altri, quanto ad immedesimarsi in queste, assorbendole come una spugna a contatto con l'acqua; se qualcuno stava male, voleva farlo ridere, o sarebbe finita con lo stare male pure lei di lì a poco.

"Non aprire gli occhi"
Si disse, costringendosi all'immobilità sul divano sotto la coperta in patchwork.
Una scelta sconsolata quella di rimanere a contatto con lo scontento della madre.
Era una spugna, si era detto e quindi ora si sentiva in soggezione.
"Forse è successo qualcosa"
Gli occhi si mossero a destra e manca da sotto le palpebre, mentre la bocca si contraeva in una smorfia.
"Forse ha un blocco e non riesce a leggere le rune. Avrebbe senso."

Era tornata in Francia per pochi giorni, approfittando delle vacanze natalizie, per poter festeggiare il compleanno di suo padre.
Solitamente in quella stagione Einar la portava in giro per i boschi di Grima Sable, organizzando escursioni a mezzanotte per il taglio dell'erba fondente e intrattenendosi in casa con la preparazione di stufati, pasticci e dolci scandinavi. Ragna non era mai di malumore in quelle giornate, anzi, sembrava riuscire a rilassarsi una volta tanto fra le continue tisane, uunijuusto e munkki che Einar e Ariel tendevano a propinarle.
E ora era irrequieta, la sentiva borbottare suoni duri, parole troncate sul nascere contro il palato.
Stava parlando islandese e Ariel non poteva vantare la stessa scioltezza di un madre lingua, quindi capiva ben poco del farfugliare sconnesso di Ragna.

«Vuoi ... parlarne?»
Strabuzzò gli occhi.
"Ma perché ho parlato? Ma non posso farmeli gli affaracci miei?"

Il rumore delle rune si fermò per un attimo, prima di riprendere privo di puntualità, carico della frustrazione dietro il muoversi frenetico delle dita della madre.

«Un giorno Dagaz o Eihwaz circonderanno Isa e mostrerai all'alba una mente pronta con parole ferme.»
La voce della madre mancava della sua naturale fermezza, mostrando oggi una nota di irritazione che portò Ariel a raggelarsi, ma non abbastanza da portarla a chiudere lì la conversazione.
«Cioè?»
Il rumore delle rune si fermò per un attimo, prima di riprendere.
«Un giorno sarai grande abbastanza e sveglia abbastanza da capire quando non parlare.»

"L'avevo detto che dovevo farmi gli affari miei. Dovevo andare a giocare a Quidditch con gli altri in radura. Giocare a carte. A gobbiglie. Fare il lancio libero dello Gnomo. Andare con papà a lavoro..."
Era già partita con la lunga lista di rimproveri per se stessa, convintissima dovesse starsene zittta per amor proprio. Non era nemmeno strano che Ragna non volesse dirle cosa non andasse.
Sua madre aveva un ruolo da educatore, in primis, da genitore solo in secundis.
Evidentemente, però, l'aveva educata male, perché non riusciva a cucirsi la bocca..
«La lettura che ti sta facendo arrabbiare è su di me?»
Il rumore delle rune si fermò per un attimo, prima di riprendere.

«Non sono arrabbiata.»
Ribatté, usando un tono che sembrava voler esprimere proprio il contrario.
Ariel aggrottò la fronte, ma si costrinse a non girarsi ancora. «Non hai detto non sia su di me, però. Vuoi dirmi cosa farò che ti sta facendo arrabbiare?»
"Magari così si sfoga."
«Non si sfoga la frustrazione di una lettura esponendone i suoi dettagli, dóttir. La lettura non serve per facilitare la vita, solo ad aiutare ad affrontare meglio cosa ti aspetta. Non leggo risposte, leggo possibilità.»
Le rune vennero di nuovo raccolte e poi rimescolate nervosamente.

«Qualche Runa si ripete rovesciata?»
Azzardò, mentre nuovamente la madre reagì alla vista delle proprie rune con qualche sbuffo.
Ogni tanto il rumore della pietra si fermava, accompagnato dal tonfo sordo di singole rune disposte sul tappeto di pelle incisa su cui era solita eseguire le letture.
Il tempo di metterle a fuoco che erano già tornate nel sacchetto e rimescolate col passaggio delle mani fra il legno del tavolo e la pelle del contenitore.
«Una delle prime?»
Stava calcando la mano, ne era cosciente e il fatto che la madre la intrattenesse con la sinfonia stonata delle rune martoriate più che con le parole, avrebbe dovuto farle capire di dover lasciare lì il discorso.

«E' rabbia per me o per la lettura?»
Invece insisteva, come faceva la madre con le sue pietre di luna, scosse e rimestate da dita nodose e frementi.
Ragna si imponeva di non risponderle, borbottando chant in islandese ad anticipare l'ennesimo fallimento (o successo?) della sua opera divinatoria.

«Chiamo papà così puoi parlargliene?»
Il rumore delle rune si fermò per un attimo, prima di riprendere.
«Ci sono due Berkano nella lettura.»
Dovette sporgersi verso il tavolo per sentirla.
«Non puoi avere dei doppioni nel set: perché stai usando due rune uguali?»
Si voltò, fronte aggrottata e nasino arricciato.
Davanti a lei Ragna era china sulle sue rune opalescenti. Le pietre di luna venivano raccolte dalle dita e nuovamente rimescolate senza controllo, prima di venire nuovamente ridisposte sulla pelle conciata al centro del tavolo.
Le bastò sporgersi sul posto per mettere a fuoco qualcuna delle rune e confermare come effettivamente la madre avesse appena pescato e disposto una coppia di pietre uguali.
Di cinque rune, quelle all'estrema destra e sinistra erano Berkano di cui una rovesciata alla sinistra.
«Continuo a toglierne una e rimescolarle, ma puntualmente ritorna nella mia mano.»
«Significa che è giusto così: forse devono essercene due.»
La leggerezza con cui si pronunciò fece irrigidire sua madre, portandola a riempire nuovamente la stanza dell'ennesimo insieme di suoni, rimescolando le sue rune con la frustrazione di chi non accettava la realtà dei fatti.

Ariel avrebbe potuto scrivere su uno spartito quelle note di rabbia, fatte di pietre percosse, pizzicate e graffiate. I movimenti circolari delle mani e le braccia di Ragna erano sempre gli stessi, rendendo simili i rumori prodotti dalle rune.

Sarebbe stato gradevole lasciarsi cullare nel suono della pietra, ma in quell'occasione la musica che stava sentendo da mezz'ora era sinonimo di una rabbia che la stava angosciando.
«Berkano è la primavera, giusto? La nascita, la liberazione.»
Il rumore delle rune si fermò per un attimo.
La seconda Berkano era stata nuovamente disposta a sinistra. Rovesciata.
«O l'opposto.»
"O l'opposto."
Il rumore riprese, la lettura venne ricominciata da capo.
"L'opposto di Nascita-- oh."

«Mamma, la lettura non è su di me. Vero?»
Il rumore delle rune si fermò per un attimo.
Non riprese. La porta d'ingresso venne spalancata in quel momento, annunciando un Einar ammantato in una pelliccia puntellata di fiocchi di neve.
«Qualcuno può darmi una mano in cortile? Devo coprire il campo dalla neve»
La voce graffiata di suo padre accompagnò il sollevarsi burrascoso di Ragna dal suo posto a sedere.
Ariel non ebbe il tempo di fermarla che quella era già uscita, anticipando il marito nella strada verso l'orto, lasciandolo immobile all'ingresso.
«E' successo qualcosa?»
Scoccò un'occhiata preoccupata alla figlia, la stessa che immobile non riusciva a distogliere lo sguardo dalle cinque rune sul tavolo.
Berkano rovesciata a sinistra, Berkano dritta a destra.
L'ostacolo alla domanda del divinatore, la risposta alla domanda del divinatore.
«Non ancora»
La risposta arrivò in ritardo, trattenuta nella gola come un rantolio.
Quando Einar si allontanò per raggiungere la moglie al campo, Ariel non si mosse dalla sua posizione.
Sentiva ancora il rumore delle rune, il rimestare della madre in cerca di una risposta, una risposta diversa.
Si rese conto solo in quel momento che non era rabbia a muovere Ragna, ma preoccupazione.
✕ schema role by psiche

 
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view post Posted on 31/8/2020, 22:44
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"Gran Sacerdote del Tempio della Pizza"

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Sometimes I think, I need a spare heart to feel all the things I feel. The world is a tragedy to those who feel, but a comedy to those who think.
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«Il tuo problema è che sei ancora impulsiva ed emotiva come al tuo primo anno in Accademia. Pensavo che mandarti ad una scuola così rigorosa ti avrebbe aiutata.»

Ariel non stava camminando per i boschi della Loira, ma marciando, schiacciando il manto erboso con passi pesanti carichi di una rabbia repressa che rischiava di esploderle in petto da un momento all'altro. Grima Sable, il villaggio di soli maghi in cui era cresciuta, distava ad un chilometro buono di distanza, lontano quanto bastasse perché lei e sua madre non si potessero scontrare ancora.

«Piangere in continuazione non è una comportamento da adulti.»

La voce di Ragna le riempiva ancora le orecchie con la sua freddezza e il suo disappunto.
Sentiva il fuoco dell’irritazione ribollirle in gola e l’angoscia raffreddarle la pelle, facendola rabbrividire.
Non capiva se si sentisse più ferita o adirata. Nel dubbio muschi, aghi e foglie venivano spezzati e appiattiti dal suo passo celere.

«Ho permesso a tuo padre di viziarti quando non ero in casa e a quella scuola di darti troppo libero arbitrio fuori dai banchi e guarda qua il risultato!»

Le mani tremavano, strette in pugni pallidi, caldi per il sole di Agosto.
Le labbra serrate, vennero tese e contratte d’improvviso, srotolando un tappeto elaborato di insulti a fior di labbra.
«Non va mai bene nulla. E perché quello e perché quell'altro. “La fotografia non è un mestiere. Scrivere è per pochi, sicura faccia per te?".»
Scimmiottò le parole di Ragna in una pessima imitazione, ostacolata dalla gola stretta per le lacrime non versate. Le tremava la voce e se qualcuno l'avesse potuta vedere con la sua tunica sporca di terra e lacera lungo l'orlo della gonna, sarebbe sembrata li lì per avere un crollo isterico.
Alla cieca scivolò oltre alcune file d’alberi, scansando arbusti e funghi per proseguire nella sua fuga.
«Perché non ho continuato pozioni? "Era una scelta sicura". Porco di quel grandissimo erumpent di tua madre
Si interruppe, solo per assestare un calcio di sbieco ad un sasso poco distante, lo stesso che a cozzare contro la suola del sandalo finì col graffiarle l’alluce e rotolare oltre il fusto di un albero, scomparendo fra le sue radici scomposte.
Sospirò, scuotendo il capo. «Scusa nonna.» sussurrò, scuotendo il piede dolorante fra le foglie ruvide di alcune erbe selvatiche.

Riprese a camminare, tenendo la testa alta e il naso puntato fra i rami verdi.
La luce nella profondità del bosco raggiungeva con difficoltà il terreno smosso: se non fosse stato pomeriggio avrebbe rischiato di inciampare nelle radici esposte coperte dagli aghi di pino. «Ma perché non vado mai bene?»
Continuava il suo monologo, non riuscendo ad evitare di suonare lamentosa e stridula.
«Non è colpa mia se piango e rido sempre. Non lo faccio apposta.»
La marcia scemò in un graduale trascinarsi dei piedi fra i letti pungenti di aghi rossastri.
«Sento così tante cose e sembra che sono stupida per questo.»
D’istinto le mani si portarono contro il volto, scoprendo con sua sorpresa una guance umide per le lacrime.
“Ecco perché non ci vedo bene.”
Si rese conto troppo tardi come il piede sinistro non toccasse più terra.
Quel tratto boschivo aveva subito un'improvvisa pendenza nel ridiscendere il fianco della collina e lei ovviamente non aveva potuto notare nulla con gli occhi velati di lacrime, la testa presa dallo star dietro alle emozioni e il naso all'insù verso i rami.
Così, si ritrovò col ruzzolare e scivolare fra la terra e i licheni.
Trattenne fra le braccia la piccola tracolla, tenendo gli occhi stretti per lo spavento.
Fra qualche gemito di dolore e un insulto non troppo velato e fantasioso, finì pancia sotto col muso sporco di terra a distanza ravvicinata da una distesa d'erba umida.
«Ahia, ahia ...ahia.»
Le ci volle qualche secondo per capire come muoversi. Dolorante, immersa in abiti di lino sporchi di verde, marrone e rosso, si lasciò andare al pianto. Singhiozzò, aiutata dalla piccola scarpata che ne soffocava i suoni e le dava la libertà di lasciarsi andare.
Le braccia graffiate chiuse attorno al petto e la sua borsa si portarono in alto, cercando di spingerla e farla rotolare di fianco a pancia in su.

«Il problema è che ti comporti come una bambina e questo significa che noi dovremo continuare a preoccuparci: perché chi non ha la mente lucida si mette nei guai.»

Le parole di Ragna tornarono a riempirle la mente, accompagnate dalla consapevolezza di aver appena dimostrato alla madre come avesse ragione.
Perché se fosse in controllo di stessa, ponderata e distaccata come lei, ora non sarebbe andata nel bosco alla cieca, rischiando di spezzarsi l’osso del collo come un incosciente.
Forse aveva ragione sua madre.
“Ma non sono solo questo, lo giuro. C'è di più.”

na0ShHA

Ci mise un'ora a riprendersi e tornare a casa a casa. Einar, suo padre, l'accolse offrendole dolci e infusi freddi, correndo alla rimessa per recuperare qualche unguento.
Ragna, ovviamente, aveva colto la palla al balzo designando Ariel col titolo di "bambina sconsiderata".
Non si parlarono per una settimana, la stessa che vide Ariel alternare i suoi stati d'animo dalla melanconia profonda alla rabbia impulsiva.
Era abituata a sentirsi incompresa da quando era piccola, ma non riusciva a gestire questa realtà quando era fra le mura di casa.
Sua madre avrebbe dovuto capire ci fosse altro oltre la facciata di lacrime facili e risate spensierate.
Ariel sapeva di essere emotiva, troppo sensibile, ma sapeva anche come potesse essere di più: Beauxbatons le aveva insegnato a scoprire nuovi lati del suo carattere e a saperli adattare alla situazione. Nella libertà di casa, però, aveva pensato di potersi lasciar andare a pensieri, libertà e parole.
«Dovrei riflettere di più? Certo, ma se a diciassette anni avessi risolto ogni mio problema sarei una specie di genio cavalca-unicorni
Quindi eccola di nuovo lì, nello stesso tratto di foresta di due settimane prima, meno lacrime in corpo e un'ora di vagare per Grima Sable sputando sentenze e insulti a denti stretti.
«Se fosse un po' più flessibile lei, invece, capirebbe che non posso spegnere il cervello dal sentire e pensare: o sento, o sento.»
Parlava, parlava e straparlava, sventolando a destra e manca le mani in un gesticolare eccessivo e inusuale, assorbito da qualche compagno d'Accademia dei Balcani.
E' nel raggiungere nuovamente la zona di pendenza della collina che rallentò il passo, tenendo lo sguardo attento verso il terreno, allungando le mani verso i tronchi di pino più vicini per avere un sostegno sicuro lungo la traversata.
Fu così che notò Amir.
Un solco segnava gli aghi secchi dove un corpo piccolo era rotolato, fermandosi nel ricadere dentro un arbusto.
Ariel nemmeno se ne rese conto, ma in un battito di ciglia aveva già recuperato dalla borsa la bacchetta di vite e questa era stata puntata verso l'alto, contro l'albero alla sua sinistra. Le bastò solo notare il panico nel suo sguardo, perché meccanicamente ogni sua emozione venisse ripresa e controllata, appiattita.
Improvvisamente la rabbia era stata appiattita, la tristezza calciata contro il fondo dello stomaco.
Tre cerchi vennero tracciati contigui dalla bacchetta, ruotando il polso in senso orario, puntando con
lo sguardo il ramo più massiccio alla sua portata.
«Carpe Retràctum»
Suonava seria, composta e particolarmente sicura nell'enunciare la formula dell'incantesimo, mentre nella sua mente si ricreava vivida l'immagine della corda e la resistenza che questa avrebbe fare alla tensione della bacchetta, una volta annodatasi attorno al ramo.
Amir la osservava con occhi grandi per la paura e la sorpresa.
«Ariel! Ariel! 'iuto
Amir era uno dei pochi bambini di Grima Sable: cinque anni e una cascata di ricci sulla testa, sempre pronto a giocare sulle scope dei fratelli più grandi, suoi colleghi a Beauxbatons e cercare di fare giochi pericolosi per attirare l'attenzione della famiglia su di sé. Giochi stupidi, come le corse e i nascondini nel bosco.
Non si perse in parole. Ariel era un'eterna bambina per i suoi familiari, ma fuori da casa si adattava all'interlocutore: non a caso ora dimostrava una sicurezza improvvisa, ma credibile, atta a voler calmare il piccoletto davanti a lei.
Tenendosi alla bacchetta, aggirò la scarpata per avvicinarsi all'arbusto contro cui Amir era caduto,cercando di afferrarlo col braccio destro e risalire quanto le bastasse per poterlo sospingere fra i cespugli bassi, nella zona piana della boscaglia.
Le ci vollero quindici minuti, ostacolata dalla sua forza fisica non sviluppata abbastanza da permetterle di soccorrere Amir senza sforzo.
Non batté ciglio per buona parte dell'operazione, mostrandosi sempre pacata e calma, sfoggiando sorrisi rassicuranti.
Visti i graffi e i tagli sparsi sul corpo del piccolo, Ariel si era vista offrirgli la schiena.
«Non correre più a giocare da solo fino a qui, sei troppo piccolo Amir»
Il bambino tirò su col naso, prima di attorcigliare le braccia attorno al collo della ragazza, rischiando nel sollevarsi di soffocarla. Annuì frettolosamente, pentito.
Ariel tossì alla pressione delle braccia altrui, mentre a fatica intascava la bacchetta nei pantaloncini.
«Ti porto su per un po' finché non usciamo dal bosco e poi torniamo insieme a piedi.»
Contro il tessuto della maglietta, Ariel poté sentire farfugliare qualcosa che nell'insieme avrebbe potuto ricordare un biascicato «shcusa tia
Lei si limitò a sospirare, prima di cominciare a muovere. Parlò soltanto quando era sicura che il bambino avesse smesso di piangerle contro.
«Amir, puoi fare un piacere alla zia e non dire ai miei che ti ho preso io?»
Il faccione arrossato del bambino fece capolino oltre la spalla, mostrandosi confuso. Ariel barcollò per lo spostamento, riuscendo per miracolo a rimanere dritta e riprendere a camminare senza rovinare in terra, Amir ancora caricato sulle sue spalle.
«Pecché?»
Ariel storse le labbra in una smorfia, mentre cercò di risollevare le gambette del bambino poco sopra i fianchi.
«Perché sono come Owlwiz: animagus eroe di notte, giornalista di giorno. Non possiamo far sapere che salvo i bambini!»
Ecco che la serietà di chi vuole mostrarsi adulta che veniva già messa alla dura prova dall'inventiva becera di Ariel. Trattenne lei stessa le risate per miracolo.
«Ma non tei un gufo.»
Fortuna voleva che il suo interlocutore fosse un bambino di cinque anni. Non rispose, preferendo riprendere a parlare poco dopo, cambiando bruscamente argomento e cercando a modo suo di voler suonare più sincera e diretta.
«Ho litigato da poco con mia madre: dice che sono troppo una bambina perché piango sempre. Non penso voglia parlarmi.»
Nuovamente Amir si scosse, rischiando di farla inciampare fra le radici di un albero. Allungò le manine tozze contro le guance di Ariel, scuotendo una coppia di pugni in segno di protesta.
«Ma Tia Ariel è grande! Mio fratello è grande grande, ma ha bisogno della Tia per fare i compiti. Tu non piange mai, tu aiuta sempre, tu sempre calma e seria!»
Ariel sbuffò, trattenendo a malapena una risata: combattuta fra il bizzarro modo di parlare che aveva il bambino e il genuino tentativo di risollevarla che questo stava mandando avanti, continuando a picchiarle la testa.
«Ariel sa piangere tanto, Amir. E fare tante cose stupide.»
Le arrivò un altro schiaffo dritto dritto contro lo zigomo, ma con una forza tanto misera da portarla a ritrarre appena la testa.
«Invece»
proseguì, ignorando la protesta di Amir, presumibilmente convinto di essere sulle spalle di un'eroina «Ariel se vede qualcun altro in difficoltà, non piange mai e pensa sempre. E' il mio personale super potere magico, capito? Non lo sanno in tanti: per questo deve rimanere un segreto e non bisogna dirlo ai miei genitori. Specialmente mia madre
«Allora tu non piangi mai con mamma e papà, così non ti dicono più cose brutte...»
Amir aggrottò la fronte, confuso e interdetto.
Ariel non riuscì a rispondere, limitandosi a tirare dritto. Si strinse nelle spalle, tenendo il bambino sulle sue spalle.
"Fosse così facile non tenere le due cose separate, lo farei."

Mezz'ora dopo, madida di sudore Ariel lasciava scivolare oltre le spalle Amir di fronte alla porta del suo cottage. Appena raggiunta la porta di casa, il bambino si girò puntandole il dito contro con fare accusatorio
«Tao tao Owlwiz!» prima di zoppicare oltre la porta, al riparo dalla reazione della sua "eroina".
Ariel rimase immobile, occhi strabuzzati a fissare la porta in quercia del cottage prima di esplodere in una risata fragorosa.
✕ schema role by psiche

 
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view post Posted on 31/12/2020, 04:54
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"Gran Sacerdote del Tempio della Pizza"

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Skjøl in islandese significava "rifugio", "mantello", "nascondiglio". Era la residenza di chi dalla società doveva trovare riparo, era il drappo che ti nascondeva dal giudizio, dai soprusi e che diventava per chi si sentiva solo nel mondo un sinonimo di casa. Era la sede dei Vinstav da generazioni.
Trecentonovantacinque anni di spettri (come il Ministero della Magia britannico amava chiamarli), portavoci di una morte non richiesta, ma sempre disponibile all'uscio delle loro porte.
Trecentonovantacinque anni di persecuzione e giudizio dal mondo magico e babbano che avevano creato quel mantello protettivo lontano dal rifiuto, la paura e la rabbia.
Skjøl raramente chiudeva le sue porte a chi voleva smettere di sentirsi solo: se le sue tradizioni venivano accolte e le sue regole non infrante, veniva offerto un posto a cui poter sempre tornare e Vinstav ad affiancare il proprio nome, da indossare con fierezza come un amuleto protettivo, una medaglia d'onore.
«Non lo sanno ancora, Afi.»
Il salone del rifugio era immerso nella tipica penombra islandese, tranne dove alcune candele erano state accese sui loro piedistalli di ferro battuto e nei pressi del camino centrale.
Ariel sedeva di fianco a questo, abbandonata contro i piedi di una poltrona occupata.
«Stai facendo attenzione, lítill. E' nella nostra natura essere attenti»
La poltrona dietro di lei scricchiolò, sostenendo per miracolo il peso del corpo che su questo si muoveva incauto. Dita callose affiorarono oltre le ciocche bionde della fotografa, scompigliandole leggermente in una carezza energica che la portò a stringere istintivamente di scatto gli occhi.
Ariel sbuffò, costringendosi a parlare soltanto quando sentì picchiettare contro la sua spalla del legno.
«So che non è credibile per molti sentire queste parole da una giornalista, ma io detesto mentire
Le fiamme che lambivano il legno di betulla proiettavano sui grandi occhi blu della fotoreporter ombre sinuose, onde cupe che ne screziavano il volto, accentuando i lineamenti più pronunciati e deviando il candore delle espressioni; così seria, così immersa nei suoi pensieri, Ariel non era facile da vedere.
Introspettiva lo era – a detta di alcuni forse anche troppo –, ma se sfruttava spesso la sua capacità di riflessione e di sentire per aiutare il prossimo, aveva cura a non farlo mai per farsi aiutare.
"Perché è più giusto così." Si disse.
Georg, suo nonno, che fosse fatta così lo sapeva fin troppo bene e come da tradizione, durante ogni loro incontro fra le pareti della Grande Casa cercava di smuovere tutti i tasselli che Ariel aveva deciso di tenere per sé.
«Lítill La voce calda dell'anziano venne spezzata da un sospiro pesante. Nuovamente qualcosa le picchiettò contro la spalla e voltandosi Ariel vide poggiato sulla spalla il bocchino metallico di una pipa.
La sfilò di mano senza fiatare e con naturalezza la portò fra le labbra, aspirando i fumi della Belladonna che con le sue proprietà magiche e piccole aggiunte di Georg si sarebbero manifestati in sbuffi porpora che alla luce delle fiamme sarebbero risultati iridescenti, come percorsi da una coltre di glitter dorati.
«Non dire qualcosa non è mentire: eviti di parlare di te, ti chiudi, ma questo non significa tu stia dicendo qualcosa di sbagliato ai tuoi amici in Inghilterra. E sai benissimo perché lo fai,tutti noi capiamo perché lo fai.»
Tutti lo sapevano, ma Ariel preferì sfuggire ad un confronto diretto e rifugiarsi dietro la pipa del nonno e la flebile sensazione di rilassatezza che le proprietà della Belladonna le trasmettevano.
Imperterrito, Georg continuò a parlare, come una grossa voce fuoricampo che avrebbe narrato ad Ariel cosa stava succedendo nella sua vita, mentre lei cercava di disconnettersi da questa.
«Allora, vediamo se ho capito. Questo qui è Mœritz... Morgana benedetta, potevi trovartene uno con un nome più facile!»
D'istinto Ariel si voltò di scatto, spingendosi con il dorso della mano destra per guadagnare spazio e poter guardare a tre-quarti il nonno. Gli sfoderò un'occhiataccia ammonitrice, prima di borbottare rapidamente: «Maurizio. Non sfottere solo perché non sai leggere il suo nome, nonno.»
Georg in tutta risposta le mostrò la lingua, grossa e viola come una mora per la quantità imbarazzante di liquori fruttati che aveva degustato al pranzo natalizio. Sul naso un paio di grossi occhiali da vista dalle velate lenti blu stavano analizzando una serie di fotografie che Ariel aveva incautamente lasciato sul tavolo del pranzo qualche ora prima.
«Ha la faccia da "cavalco Firebolt e donzelle ogni dì". Non so, mi devo preoccupare per te? Non è che mi sbuchi come tua madre a vent'anni con un Cavolo Farfallino al posto della pancia?»
Ariel venne avvolta da sentimenti contrastanti: il disagio all'immagine della madre incinta di un grosso cavolo farfallino e l'euforia all'idea di aver sentito suo nonno descrivere Maurizio con la frase "cavalco firebolt e donzelle ogni dì". «Tecnicamente non posso finire incinta a vent'anni perché ne ho già ventitré –– e no, Maurizio ed io siamo vicini, ma non stiamo insieme. Ugh, cavolo farfallino, poi: ma che immagine è?!»
In tutta risposta le venne lanciata una foto dritta contro il naso, accompagnando nella sua caduta leggera il volto sorridente di Maurizio, occhiali da sole poggiati sulla testa.
Ariel se la ricordava fin troppo bene le giornate di bevute folli che li aveva portati a quella foto: era stata scattata fuori da un Pub in uno dei quartieri magici di Londra, per festeggiare la prima di una lunga serie di bottiglie che avrebbero accompagnato le loro scorribande. Non era successo niente di fuori dall'ordinario quella sera, ma Ariel ricordava con nostalgia come si fosse divertita a passare il tempo con qualcuno senza doversi occupare della propria inquietudine e solitudine

Non fece nemmeno in tempo a togliersi la foto di Maurizio dal naso che una seconda le picchiettò la fronte.
«Ok ok, allora lei? Anche lei è un bel breskur
Jolene White era stata immortalata a Novembre lungo il cornicione della finestra, capelli leggermente scompigliati dalla pressione contro il cuscino. Le prime luci della mattina rendevano nitidi i dettagli delle pieghe del tessuto e il contrasto di rossi fra il capo e alcuni indumenti.
Ariel non trovò una pronta a risposta a quella foto, stavolta. Si limitò a distogliere lo sguardo dalla foto, poggiarla con cura di fianco a quella di Maurizio sul pavimento di legno e riprendere a fumare dalla pipa del nonno.
«È lei che ti fa sentire di stare mentendo, eh?»
Da dietro la schiena Ariel sentì la punta degli scarponi di Georg tamburellare contro di lei, cercando di spronarla a voltarsi. Non lo ascoltò e lui di tutto rimando decise di continuare a parlare.
«Pensi se ne possa andare? Noi Vinstav veniamo spesso lasciati indietro, ma chi rimane è per sempre, lítill. Se questo Maurizio, o questa ragazza così importante valgono quanto senti, non dovresti avere problemi a parlare di noi. Siamo cauti, lítill, ma non mostriamo mai vergogna delle nostre origini: chi non accetta i Vinstav, può rimanere indietro
Il fumo porpora si librò oltre le ciocche arruffate dei capelli biondi di Ariel, ne increspò il naso lungo, spezzando le ombre irregolari che il camino le disegnava e creando una composizione più uniforme sotto l'unica grande nuvola brillante che la Belladonna tostata aveva tracciato.
«Si chiama Jolene White e non voglio si allontani perché scopre qualcosa che la spaventa e le fa ricordare di nuovo qualcosa che l'ha fatta soffrire.» Con un gesto della mano destra andò coprendo dalla visuale le fiamme del camino, cercando di celare la sua esistenza dietro la protezione bieca delle dita.
"Stupido dannatissimo fuoco." Si ritrovò a pensare, non potendo impedire di vivere con sdegno la presenza delle fiamme nel ripensare a Jolene e la sofferenza che il rogo di High Street le aveva lasciato e la frustrazione che Maurizio si teneva dentro da allora, dopo il tentativo di intervenire e catturare gli attentatori di Hogsmeade. Il fuoco li aveva feriti e lei nel tentativo di proteggerli dalla sofferenza, si sentiva ferita dal fuoco a sua volta.
«Se Maurizio se ne andasse, sarebbe come perdere il proprio partner perfetto a scacchi: c'è sempre qualcosa dall'altra parte che ti fa riflettere con lui, ma allo stesso tempo ti fa divertire e ti fa godere il momento. Ho ricordato tante cose delle persone grazie a lui. Non voglio rischiare di dover lasciare tutto questo perché esporrei una realtà che non capirebbe.»
La pipa verrebbe a quel punto sollevata oltre la testa, tesa alla cieca verso Georg che ora, conscio di aver scosso abbastanza la nipote da farla sentire a suo agio nello sfogarsi, poteva riprendere mano alla pipa e godersi un tiro o due di premio con la Belladonna rimasta.
«Ma con Jolene è diverso. Se glielo dicessi e si spaventasse, se capisse il peso che stare con una donna dei Vinstav compete per chi l'affianca, allora il problema non starebbe nell'andare avanti e lasciarla indietro, ma il contrario: non voglio che mi lasci da sola, non lo accetto; mi rifiuto.»
E' in quel momento che dietro di lei Georg sembrò capire.
Strabuzzò gli occhi grandi e blu, esattamente come Ariel era solita fare quando viveva al cento per cento la sorpresa. Si soffocò nei fumi, sbuffando viola qua e là e liberando una coltre di brillantini magici che gli appannarono gli occhiali. La catenella di unicorni giocattolo e perline che reggeva questi ultimi vibrò contro le falde del cappello che si costringeva a indossare anche dentro casa.
Gli ci volle qualche secondo per calmare il petto, prima di borbottare con mal celato entusiasmo un: «Ltill è questo il problema, vero? Che non sai se puoi dire di noi alla tua cotta
Ariel non rispose, si limitò ad affondare la testa fra le ginocchia e cingersi in un abbraccio stretto.
Si stava chiudendo di nuovo. Quell'anno sembrava più bello se dimenticava le verità più spigolose.
«Se non glielo dirai rischi di soffrire per il senso di colpa che avrai dopo, lo sai: e quello non si dimentica facilmente – a meno che tu non voglia usare un Oblivion.»

Per tutta risposta Ariel si sporse di lato, riacciuffando le fotografie accanto a sé e cercando di intascarle nervosamente nel pantalone.
Il naso si era tinto di rosso e gli occhi lucidi per la tristezza sfuggivano allo sguardo del nonno per l’imbarazzo. Evitava di guardare Georg in volto mentre aggirava la sua poltrona per ritornare in salone dal resto dei parenti in festa.
«Piuttosto che usare un Oblivion per dimenticare quest'anno, mi spezzo la bacchetta, Afi.»
«Prova a dirlo a questa Gyolìnn: magari la convinci a non scappare dalle sirene letali delle tue parenti ed è la volta buona che porti qualcuno in visita; lei e il tuo amico grosso come un trattore
Ariel non era ben sicura di cosa fosse un trattore, ma decise di concludere lì la conversazione e tornare dal resto della famiglia, sbrogliando la tensione con una risata stentata.
Che anno che aveva avuto. Che anno!

Note per la lettura:
«Dialoghi Ariel»
«Dialoghi Georg.»
Georg è il nonno materno di Ariel, un magonò che vive a Skjøl, la casa dei Vinstav in Islanda.
Legatissimo al nonno, trova in lui uno dei pochi con cui riesce a sfogarsi e lasciarsi andare ai sentimenti, sebbene cerchi sempre di tenere tutti i suoi pensieri e problemi imbottigliati per sé.
Qualcosa esce a galla nel riflettere sull'anno al suo termine, specialmente parlando degli incontri importanti che questo ha portato con sé.
Note Islandesi di contorno:
[1] Afi = nonno;
[2] Lítill = bambina;
[3] breskur = britannici;


Entry per il Contest a Tema, Settantanovesima Edizione: "Oblivion".



Edited by petrichor. - 31/12/2020, 16:18
 
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view post Posted on 30/4/2021, 22:49
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"Gran Sacerdote del Tempio della Pizza"

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La one-shot è ambientata durante gli anni di Beauxbatons, quando Ariel ha quattordici anni.
Il testo vuole esplorare qualcuna delle esperienze nel vissuto del PG che spieghino perché ad oggi faccia fatica a legare a lungo termine con le persone e aprirsi sul suo privato e la sua famiglia.

To do list:
outburst of angry energy
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Cold Water
Accademia di Beauxbatons
11 Novembre, Quarto Anno
Fontana a Nicolas Flamel
Wizard Chess Club
Damn Bigotry
Emotional Outburst
Fury
Accadde tutto molto in fretta, troppo in fretta.
Un attimo prima era sul bordo marmoreo della fontana dedicata a Nicolas Flamel nei giardini del castello, l'attimo dopo il contatto improvviso con l'acqua gelida le mozzava il respiro.
D'istinto aprì la bocca, cercando di urlare, ricevendo in risposta solo la stretta asfissiante dell'acqua dolce.
Una volta toccato il fondo si diede una spinta con le mani.
Si accorse solo così che erano vuote.
Riemerse con un suono raccapricciante, l'annaspare disperato di chi non sembra concepire di avere aria nei polmoni.
Le mani pallide percorsero il torso, cercando di sfilare nervosamente di dosso la divisa di seta blu che pregna d'acqua le risultava troppo appiccicosa, asfissiante.
Il petto si abbassava e alzava frenetico, dando segno di come nonostante tutto Ariel stesse effettivamente respirando.
Eppure, stentava a crederci. Tossiva l'acqua in singulti che non riusciva a controllare e per gestire il senso d'asfissia che gli abiti le lasciavano, si stava spogliando nel bel mezzo dei giardini di Beauxbatons con il corpo ancora per metà immerso nella grande fontana all'alchimia.
I compagni del Club di Scacchi sparsi attorno a lei erano immobili, inermi davanti alla sua disperazione. Forse poteva sembrare eccessivo: era stata spinta in acqua e sebbene il clima invernale sconsigliasse farsi un bagno, in un mondo di magia tutto era facilmente risolvibile con un colpo di bacchetta.
Per Ariel, però, la spinta non era soltanto l'ennesimo tiro mancino che il bullo di torno le assestava, ma un trigger ad una delle cose che più di tutte la spaventava: la mancanza di respiro.
Non tollerava la sensazione opprimente nelle strette durature, tranne che in quelle delle persone a cui era più affezionata e dentro cui si sentiva al sicuro, non sopportava le toccassero il collo, detestava tutto ciò che era ingombrante e pesante su di lei. Si sentiva soffocare con una facilità disarmante che fin da piccola la madre le aveva descritto essere naturale in famiglia "Siamo spiriti liberi", diceva; Ariel si sentiva soltanto sola quando le veniva detto, l'ennesima stranezza che l'avrebbe condannata a sentirsi sola e fuori posto.
C'era un motivo se nella divisa dell'Accademia vi era sempre qualche piccola irregolarità: il cappello non rimaneva a lungo sulla sua testa, il fiocco alla blusa non era mai stretto e le scarpe d'ordinanza erano state sostituite da tempo da quelle meno eleganti e più consunte di tela alla moda babbana.
Quindi ora che la seta e il cotone le si stringeva contro il corpo, sentiva di stare morendo.
Era il principio di un attacco di panico e nessuno attorno a lei sembrava comprendere il problema.
Ariel che invece aveva imparato a conoscersi e prendersi cura di sé, cercava nella confusione di salvarsi togliendosi gli abiti fin dove possibile e poi cercando di arrampicarsi fuori dalla fontana.
Aveva bisogno di sentire i piedi per terra, recuperare la bacchetta e asciugarsi.
«Vinstav e questo che cavolo significa?»
Fu la voce di Roche a riportarla con i piedi per terra.
Roche Turgot era il cacciatore di una delle squadre scolastiche di Quidditch, un bigotto classista tradizionalista della società magica cresciuto per credere in pregiudizi banali e antichi.
Ariel che era sempre stata "fuori dagli schemi" era diventata il target delle sue angherie fin dal primo anno.
E l'aveva appena buttata nella fontana con un Retro coactus e ora vittorioso le si avvicinava tronfio della sua vittoria con in mano ...
«Quella è mia, ridammela.» la lettera dei suoi genitori.
Anziché ricorrere alla magia, Ariel si ritrovò improvvisamente a camminargli intorno. Marciava, anzi, spinta da un'indignazione e una forza d'animo che solo al nominare la sua famiglia poteva sentire. Il peso delle vesti sembrò scomparire, la paura soffocata di qualcosa di più grande: rabbia.
Che Roche la mettesse di malumore era risaputo e più che lecito, ma Ariel era sempre stata più facile alla tristezza: ad ogni episodio di bullismo che riceveva, reagiva piangendo, scappando o al più con finta indifferenza, cercando di farsi scivolare tutto addosso.
Per questo vederla accigliarsi portò Roche a interrompersi e osservarla, preso alla sprovvista da una reazione diversa dalla fuga. Forse per questo interpretò il tutto come una sfida.
«Lo so ed è quello il problema: ci sono parole da vomito qua sopra e riguardano proprio te, stramba. Che fossi pazza e un po' un'idiota l'ho sempre pensato, ma i tuoi amici lo sanno che sei anche pericolosa
Era un bene che fosse grondante d'acqua, perché nessuno avrebbe notato le lacrime che avevano cominciato a rigarle il volto.
«La mia famiglia è ben distante dall'idea di "pericoloso", Roche. Non c'è bisogno di essere bigotti. Siamo antichi. Non conosci la nostra storia e non hai diritto di giudicarla.»
Riciclava parole che le erano state impartite come insegnamenti dai suoi parenti.
Emulava una freddezza e una fermezza che apparteneva a sua madre Ragna, la sua guida spirituale appuntata dalla Reggente, la capostipite. Se soltanto bisnonna Astrid fosse lì, avrebbe avuto da chi correre: Roche si sarebbe messo in ginocchio per la paura se avesse fatto arrabbiare qualcuno come lei!
Allora, però, era da sola. Sola e circondata da amici presunti che non avevano ancora mosso un piede in suo soccorso e con davanti il suo aguzzino di quattro anni d'Accademia che arrivava a prendersi gioco anche della sua famiglia.
Le tremarono le mani per la rabbia crescente, la stessa che ad occhio esterno sarebbe potuta sembrare più una logica reazione al gelo invernale su un colpo grondante d'acqua.
«Parlano di Banshee, qui.» Roche scosse la lettera nella mano sinistra, facendo fremere la pergamena contro la leggera brezza del nord. Ariel rabbrividì, ma non per il freddo.
«Sei questo? Vorresti urlarmi nelle orecchie fino a farmi esplodere il cervello? E Coven? E' un modo molto vecchio di dire che siete un branco di animali, Vinstav, ecco cosa so. Animali pericolosi che cerchiamo di ammazzare da seco–!
Roche non finì mai il suo discorso.
Le nocche gelide e arrossate della mano destra di Roche impattarono con il suo naso.
Un suono sordo anticipò quello secco delle piccole ossa piatte del volto cedevoli sotto la spinta del dritto.
Ai posteri Ariel avrebbe detto di essersi fatta malissimo e di non avere totalmente idea di saper fare del male fisico alle persone, avrebbe pianto contro il cuscino del lettino dell'infermeria per i sensi di colpa.
Ai posteri, però, la Ariel nei giardini era solo arrabbiata, furbionda.
Il petto si affrettava contro il tessuto ingombrante della camicia aperta, non più per la paura, ma per uno scoppio d'ira che le fece avvampare il volto.
Roche fece giusto in tempo a rialzare il capo che Ariel gli andò addosso di nuovo.
«Non osare.» Allungò la testa di scatto, dandosi una spinta con le gambe: lo colpì sotto il mento con la cima della testa e il rinculo la portò a stringere gli occhi di scatto, accusando lei stessa la botta della testata che gli aveva appena dato. «Insultare la mia famiglia.»
Roche arretrò, portandosi istintivamente la mano libera contro il volto.
Non gli diede nemmeno il tempo di fargli puntare la bacchetta contro: si lanciò contro di lui, urlando con una rabbia che fino a quel momento le era estranea.
Cominciò a colpirlo, muovendo i pugni all'impazzata contro il suo petto e contro il suo volto, mossa da una furia cieca improvvisa e spaventosa.
Nessuno intervenì ad aiutare Roche, proprio come nessuno era intervenuto ad aiutare Ariel.
«La mia famiglia è grande, la mia famiglia accetta tutti. Non c'è spazio per le fottute teste di ca**o come te
Le si incrinò la voce nell'urlare, mentre sotto i suoi pugni il corpo robusto di Roche si muoveva cercando di reagire. Gli bastò la spingesse perché Ariel si ritrovasse improvvisamente per terra, sormontata dalla forza ben superiore del cacciatore.
Il pugno allo stomacò le mozzò il fiato. Inarcò la testa all'indietro, cozzando contro il prato gelido.
«C'è un motivo se si parla male di gente come voi da generazioni: portate la morte dove andate, voi Banshee e chi vi sta dietro è più pazzo e malato di voi.»
Ariel era una persona empatica e affettuosa, ma era anche estremamente sensibile, specialmente a quattordici anni. Fu una reazione più che ragionevole, quindi, vederla rialzarsi di scatto e fiondarsi su Roche per ... morderlo.
Gli morse la mano con cui reggeva la bacchetta e poi con uno scatto della mano destra gli graffiò il volto.
Gli urlò contro con rabbia. Improperi in lingua madre e in lingua islandese, nati da una miscellanea bilingue che la perdita di controllo aveva innescato.
Non prendeva fiato se non quando l'urlare troppo le faceva tornare alla mente la nauseante sensazione di soffocamento di qualche minuto prima.
Continuava a colpirlo e a venire colpita, rialzandosi puntualmente per poter ribattere.
Non era una questione di principio legata più a se stessa, adesso. Ariel non reagiva con violenza per proteggersi, ma per proteggere il nome di chi non c'era.
«Sei uno stronzo.»
I Vinstav erano una Coven e sì, era nata e gestita da generazioni dalle Banshee e le sue discendenti, ma non erano animali e non erano portatrici di morte come il folklore e la superstizione volevano.
Loro accoglievano chi era stato cacciato: maghi, ibridi ed esseri che fossero, se si accettava di seguire delle regole per vivere in armonia, ci si poteva considerare un Vinstav e vivere tra di loro.
Ariel non poteva che andare fiera delle sue origini e Roche Turgot aveva appena toccato una delle cose che amava di più.
«Sei un'idiota, un bigotto, un animale. Non li tocchi, hai capito?»
Non si fermò a nulla, né quando cominciarono.a chiamare il suo nome per intimarla e fermarsi, né quando Roche stesso cercò di ritrarsi per il sangue che perdeva dal labbro.
«Rimangiati tutto, rimangiati tutto, adesso adesso!»
E lo colpiva, furibonda, urlandogli contro con tutta la rabbia che le ribolliva in petto.
Le nocche rosse per il freddo e per la pressione con cui le dibatteva contro il corpo altrui si erano sporcate d'un lato di striature scarlatte, le stesse che sporcavano la seta blu della divisa maschile sotto cui si trovava.
Quando gli era finita sopra per colpirlo? Quando Roche aveva smesso di ribattere?
Fu questa consapevolezza a farla titubare per un momento e dare il tempo alle persone dietro di lei per reagire.
Venne strattonata via di peso, stretta da più braccia e allontanata da Roche.
«Ariel, Morgana mia, datti una calmata. Lo hai steso. Se chiamano i professori sei nella merda.»
La voce di Marie, una delle sue compagne del club di scacchi, fu ciò che la riportò con i piedi per terra.
Si guardò attorno, attonita. Sembrava totalmente estranea agli eventi appena accaduti.
Solo in quel momento si rese conto di aver freddo e di sentire dolore alla testa e alle mani.
Se le guardò con espressione confusa e si sorprese quando notò i segni che le puntellavano la pelle.

Roche dall'altra parte aveva ripreso a muoversi solo per nascondere il volto fra le mani.
Urlava qualcosa, insulti forse, o richiesta d'aiuto. Ariel, però, non sentì un bel niente.
Era sorda davanti alla consapevolezza di aver appena perso il controllo, di aver appena arrecato del male.
L'unica cosa che sentiva erano le parole di Roche.
"Sei un mostro"
Ariel si sentì di dargli ragione.
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Too. Many. Feelings.
Be quiet. Be quiet.
©


Edited by petrichor. - 11/3/2022, 12:57
 
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"Gran Sacerdote del Tempio della Pizza"

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La one-shot è ambientata durante i primi mesi di lavoro alla Gazzetta del Profeta.
E' un testo scritto di getto per approfittare del Contest a Tema "Fanciullino" per esplorare un po' le difficoltà che Ariel affronta una risata alla volta quando non viene presa sul serio per la sua eccentricità e infantilità.

The child is in me still and sometimes not so still.
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Bobby Blobby
Gazzetta del Profeta
Febbraio
Ufficio del Correttore Bozze
Ariel Vinstav vs Seymour Burst
Glitter e unicorni
Creative Child
And Lots of Pettiness
Se c'era una cosa che Ariel faticava a ottenere era il rispetto dei suoi coetanei: veniva sempre considerata una bambina, una ragazzina eccentrica che si era rifiutata di crescere e si chiudeva nella sua bolla di fantasie e pensieri incomprensibili.
Un tempo avrebbe detto che era vero, che era una bambina e che ne andava fiera, perché si godeva meglio la vita un sentimento e un pensiero impulsivo alla volta.
Ora, invece, seduta di fronte alla pomposa scrivania di mogano di uno dei suoi superiori, si disse che d'apparir bambini si era stufata.
Seymour Buster la osservava da dietro occhiali tondi con una nota di sdegno e perplessità, osservando a malapena la pergamena che gli era stata consegnata qualche minuto prima.
Non l'aveva nemmeno letta, ma Ariel sapeva già cosa le stava per venir detto: l'ennesimo rifiuto senza critiche concrete del vecchiardo che le era malauguratamente capitato come revisore bozze per quella settimana.
"Il tuo testo è acerbo", "manca dell'esperienza che una persona giovane come te non può comprendere": se la sentiva già al voce gracchiante di quel maledettissimo vecchio, come piatti d'ottone percossi contro le sue orecchie.
D'istinto si strinse sulla sedia di legno, facendo picchiare le ginocchia magre tra di loro.
«Che dire.» Seymour sospirò, accompagnando al gesto uno sconsolato scuotere del capo.
Eccolo, si disse, l'ennesimo tiro mancino alla sua stravaganza.
«Comprendo perché il buon Octavian l'abbia assunta, davvero, ma manca ancora qualcosa alla sua pergamena, Signorina. E' troppo ... troppo sentimentale e poco tecnica. Ci vuole un certo polso che con la sua mancanza di esperienza non penso possa comprendere.»
A questo punto Ariel si sarebbe potuta dare un virtuale batti cinque per aver predetto nuovamente cosa il Giornalista le avrebbe detto, ma ahinoi la sua testa ragionava diversamente.
«E che ne pensa di Bobby?» Si ritrovò a dire, sporgendosi sul posto in avanti.
I piedi avevano ripreso a muoversi avanti ed indietro, dondolando fra le gambe della sedia nel tentativo di scaricare la tensione del momento.
Voleva suonare calma, ma il suo corpo la tradiva: faceva sempre così quando era costretta a star ferma – proprio come il bambino che cercava di non essere.
«Mi scusi?» Il Correttore portò nervosamente la mano all'interno della barba arruffata, scoccando un'occhiata torva a Ariel che di rimandò incalzò con il suo solito tono arioso, leggero, di chi non sembra curarsi assolutamente delle opinioni altrui.
«Ho detto: come le è sembrata la storia di Bobby?» Allungò la mano sinistra per picchiettare con l'indice il bordo laterale della pergamena.
Così Seymour avrebbe potuto notare come lungo il fianco della bozza, Ariel avesse tracciato una serie di scarabocchi in carboncino.
Un grosso unicorno tozzo con gambe corte e una sottile decorazione in glitter babbani sul corno svettava in pose sceniche, salutando il lettore o rivolgendosi a piccoli animali abbozzati agli angoli della carta.
Una delle nuvolette riportava la scritta "Sono Bobby Blobby, il tuo amico unicorno, ciao Seymour!" .
Almeno per una volta Ariel poté dire di aver visto il vecchiastro tenere veramente conto di cosa stesse tenendo fra le mani, seppur per i motivi sbagliati.
«E questo che dovrebbe significare?» Borbottò. Le sopracciglia folte, unite per l'espressione corrucciata, le resero difficile capire se fosse arrabbiato o semplicemente confuso da quella bravata.
Ariel si ritrovò per contro a dondolare con più forza sulla sedia, mostrando un sorrisone a trentadue denti che l'avrebbe fatta sembrare ancora più vicina all'età di uno studente di Hogwarts.
«Il fatto è che mi sono resa conto che non mi legge, quindi ho deciso di spendere del tempo per decorare il bordo, mentre che c'ero. Tanto la bozza è la stessa da una settimana.»
«E le note che le avevo fatto?»
Ah sì, era arrabbiato, si disse. E questo la portò ad arrestare il corpo.
Forse avrebbe dovuto semplicemente chiedere scusa, appoggiarsi alla sua infantilità per venire scusata e tornare a lavorare in ufficio.
«Erano sulla mia età e non su cosa avevo scritto, come al solito. Quindi ho deciso di accontentarla e scriverle una bambinata: a pagina due Bobby fa indigestione di gelatine tutti gusti più uno e pagina tre prova a imparare il cha cha.»
E invece no.
Dietro un'osservazione acuta e spigliata di chi voleva tutelare il suo ego e le sue capacità professionali, usciva fuori la vena da eterno bambino: sfogliando le pagine della bozza, Seymour Burst si ritrovò col scoprire decine e decine di vignette nascoste tutte per lui, segno di come Ariel se la fosse legata al dito.

Un Unicorno che si perdeva nel bosco, una rondine parlante a tenergli compagnia e un gruppo di bracconieri alle sue calcagna.
Ariel nel voler intrattenere la sua fantasia aveva scritto le basi per un fumetto usando cinque fogli di pergamena protocollati della Gazzetta. Notevole, avrebbe detto qualcuno, incredibilmente inutile ai fini della sua carriera avrebbero ribattuto altri.
«Ho messo i glitter solo nella prima pagina o le finiscono nella barba per anni.»
A quel punto sarebbe dovuta stare zitta, ma "se devo sembrar bambina, tanto vale che lo faccia bene".
Scivolò oltre la sedia, facendo qualche passo indietro senza dare mai le spalle al supervisore.
Il sorriso ancora stampato sul volto giovane si storse in una smorfia accennata, facendo spazio alla punta della lingua rosata.
«Eeee ora vado in pausa pranzo, perché ha le orecchie rosse e mi ricorda mia madre quando si arrabbia. Au revoir.»

Si sarebbe data alla fuga così, senza nemmeno attendere responso, approfittando della sorpresa che Seymour Burst faticava ancora a digerire.
L'urlo indignato dell'anziano l'avrebbe raggiunta quando si trovava già in fondo al corridoio del terzo piano, gambe levate verso l'uscita del Palazzo.
Almeno se volevano sottovalutarla, poteva farcisi due risate sopra.
Ariel Vinstav, una bambina di talento, adulta solo per part-time.

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Everything seemed possible, when I looked through they eyes of a child.
And every once in a while; I remember,
I still have the chance to be that wild.
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view post Posted on 2/11/2021, 17:45
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Questa serie di Frammenti è legata all'iniziativa Words of Magic,
sfruttata per poter esplorare il gioco lavorativo di Ariel come spunto di role sul campo.
Seguiranno altri frammenti su questa "mini-storia" giornalistica.


Ariel Vinstav a banshee on the job
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SPIRIT
4. Racconta di come il tuo PG entra in contatto con la cultura magica locale di un posto.



I
l cimitero di Exwick ad Exeter era uno dei principali punti di sepoltura della città, ma anche uno dei più distanti dal centro urbano. Non era quindi un caso che arrivata alle prime ore della sera Ariel poté entrare indisturbata nei suoi giardini, senza lo sguardo di un custode o di un visitatore a seguirla.
Il clima umido creava una tenue coltre di nebbia lungo il tappeto di foglie autunnali spezzate al passaggio della fotoreporter.
Alla vista si presentava come una ragazzina anonima, una fra le tante che difficilmente avrebbe destato l'attenzione di qualcuno - mago o babbano che fosse.
I capelli biondi erano stati lasciati liberi sulle spalle ad eccezione di una coppia di trecce sottili che si riunivano dietro il capo in una piccola corona. Un maglione verde, bianco e marrone dalla trama nordica era sovrastato al petto da una salopette di velluto a coste color caffè che si stringeva fino alle ginocchia dove un paio di stivaletti marciavano con forza per rendere quanto più secco e chiassoso lo scricchiolio delle foglie, passo dopo passo.
La borsa a tracolla ciondolava contro la schiena seguendo parallelamente il ciondolare della macchina fotografica che le pendeva dal collo.
In un'epoca fatta di celebrazione del vintage la Lumière magica era una macchina come altre, anonima agli occhi di un inesperto e difficile da considerare magica, un po' come quel posto: apparentemente privo di un qualunque dettaglio che potrebbero renderlo diverso da un comune cimitero.

Ariel, però, sapeva che c'era molto di più di quanto l'occhio potesse tradire.
Si mosse come se sapesse già dove andare, svoltando a destra e poi a sinistra fra i viottoli che segnavano il divisorio delle lapidi. Piccole cripte familiari vennero guadate con sguardo accorto, mentre navigava lungo i banchi di nebbia. Un cenno del capo veniva mosso verso gli angeli piangenti che facevano la guardia dalle loro guglie alle cappelle più sinistre, inchiostrate di licheni e fango.
«Buonasera. Buonasera a lei.»
Parlava da sola, salutando lapidi, funghi che risalivano il manto rialzato di una tomba dimenticata da generazioni e montagne di foglie raccolte dai custodi e abbandonate sotto i cipressi.

Poi si fermò di scatto, affondando per la fretta le punte degli stivali nel terreno umido.
«Qui?»
A chi lo chiedeva? Era da sola.
Annusò l'aria, si guardò attorno come un cane in cerca di un indizio. Gli occhi chiari si perdevano fra le fronde degli alberi, poi si riabbassavano verso le prime lapide e placche commemorative ed infine si fermarono contro una statua granitica di un uomo anziano, avvolto da un mantello e con lo sguardo proteso verso il terreno.
Saltellò verso di lui, portando la mano sinistra verso le sue mani, raccolte contro il petto e poi discendendo lungo le pieghe nella pietra che ricreavano la trama del tessuto della tunica.
Giunta ai suoi piedi, ormai china per seguire il profilo della statua, Ariel cominciò a seguire il solco delle parole incise nella pietra.

"In memoria di tutte le donne e gli uomini ingiustamente processati dei crimini di stregoneria.
Exeter, madre della prima e ultima esecuzione a streghe e stregoni di Inghilterra fra il 1500 e il 1600."


Lesse l'iscrizione nella sua mente per poi alzare il capo dalla statua con un sospiro.
Quando si girò la planimetria del cimitero era cambiata, le lapidi che aveva prima attraversato erano sostituite con delle nuove e dove prima sostavano degli alberi, ora si trovavano piccole cappelle e cripte riportanti nuovi nomi, antichi e particolari; erano tutti maghi, tutte streghe e stregoni che nonostante la storia macabra della città, avevano deciso di trovare lì il luogo in cui riposare.

"Benvenuti al Cimitero per Maghi di Exeter, immagino?"

Se lo disse da sola con una nota umoristica amara di chi non sembrava affatto entusiasta di essere lì.
La mano destra andò istintivamente alla gola, massaggiando gli incavi del collo prima e poi scostando il colletto del maglione.
Ricordava nel linguaggio del corpo qualcuno accaldato o che per qualche motivo facesse fatica a respirare.
«Signor Montgomery?»
Quando riprese a parlare la voce era meno soave del solito: la leggerezza e la calma erano state sostituite dalla tensione e l'apprensione, come se d'improvviso trovarsi lì dove era fin da principio diretta, si fosse rivelata essere una pessima idea.
Spaurita, si guardò attorno, mentre ogni passo veniva mosso con lentezza e pesantezza.
Strano che qualcuno come lei si mostrasse cose intimidita da un luogo del genere.


«Ariel Vinstav, aye?»
La voce di un uomo l'avrebbe fatta girare di scatto, trovando oltre il tettuccio spiovente la figura allampanata dell'anziano custode.
Rubrum Montgomery, per amici "Monty" era da anni custode del cimitero. Un magonò innamorato dell'erbologia che nella calma del cimitero di Exwick, fra i suoi alberi e i suoi fiori, aveva trovato un mondo in cui rifugiarsi.
Era lui il suo contatto per quel caso e il primo testimone di una piccola inchiesta che stava gestendo per la Gazzetta del Profeta.
Gli rispose prima col volto, donandogli un sorriso luminoso - o almeno, una qualcosa di simile vista la tensione che non sembrava riuscire a lasciarla - poi con un cenno della mano.
Quando si raggiunsero, circondati dalle lapidi imbrunite dai licheni, Ariel scoprì come Monty fosse particolarmente basso rispetto a lei, arrivando a sfiorarle con la visiera del berretto la spalla.
«Piacere piacere! Ha già avuto modo di vedere le nostre statue? Tutta gente importante che ha convenzionato il cimitero, sa': ha una bella storia Exeter per Voi maghi; se si poteva bruciare uno strano, quello finiva qui sicuro.»
Aveva cominciato a parlare ancora prima che Ariel potesse aver tempo per i convenevoli.
La mano sinistra sarebbe corsa alla borsa a tracolla, cercando di slacciare le cinghie per poter recuperare qualche foglio di pergamena e la piuma inchiostrata lillà.
«Sessantaquattro morti per mano babbana registrati, se sta per chiedermelo: me lo chiedono tutti, sà. E' nei libri di storia questo posto e io sono l'unico che lo pulisce.»
Parlava forse più di Ariel che ebbe giusto il tempo di tirare fuori la bacchetta prima di poterci mettere del suo.
«Quindi pensa che ciò che è accaduto qui non sia un caso, Signor Montgomery? Magari, in qualche modo, potrebbe venire interpretata come una scelta voluta per riscattare chi è morto secoli fa?»
Monty storse il naso e arricciò le labbra sottili in una smorfia deformata: di denti attaccati alle gengive ne erano rimasti ben pochi e quindi le sue espressioni facciali risultavano grottesche, irregolari.
«Non è però la prima volta che si parla di Exeter come protagonista di strani rituali - spesso sono per mano di babbani che alla magia credono, ma senza averne accesso e reale nozione.»
Prendeva tempo riconducendo la discussione sui binari giusti.
Era lì non solo per analizzare la storia del Cimitero, ma anche ciò che di recente era accaduto.
Il custode si guardò attorno pensoso, prima di fare un cenno con le mani coperte da guanti di pelle di drago. La invitò così a seguirla, mentre riprendeva a camminare. Le mani affondarono nei jeans usurati per estrarvi una pesante catena da cui pendevano una dozzina di chiavi di metalliche.
«Deve capire, Signorina Vinstav che di aspiranti medium ne ho visti spesso nel lato babbano e sono ragazzini di solito, scemotti che si sfidano per vedere chi scappa per primo quando cala il buio, ma questi? Questi erano come noi, anzi, come lei: bacchette funzionanti e tutto.» Scosse persino la mano come ad imitare lo sferruzzare di un catalizzatore nell'enunciare un incantesimo, come per rendere più chiaro il punto della situazione.
«Ma lei questo lo sa già: la squadra disinfestazione ho provato a contattarla quando ho capito che schifo stessero facendo. Il punto è che sono arrivati tardi e io mi sono dovuto cacciare in gola una pozione per calmare l'ansia mentre correvo come un matto lontano da quei cosi merdosi.» L'irritazione del vecchio era vivida e più si avvicinavano alla loro destinazione, più questa sembrava gradualmente specchiarsi nell'animo di Ariel che si rendeva conto metro dopo metro di essere sempre più tesa. Sentiva i muscoli tendersi, come se il corpo stesso le stesse suggerendo di dover stare all'erta, tenersi pronta a saltare da un momento all'altro.
Ma perché?
«Se è scappato, allora, immagino non possa effettivamente darmi un dettaglio su quanto accaduto, giusto? Niente che non possa rileggere in un rapporto del Capo Spettrologo, per lo meno.»
Eppure, tentava di parlare e condurre la conversazione con calma comunque. Ogni tanto si voltava per sollevare la macchina fotografica e cercare di immortalare alcune statue circondate dal paesaggio cupo dell'autunno britannico, ma più proseguivano per il cimitero, più il corpo le sembrava essere più pesante e i sensi meno collaborativi e scattanti.
Monty non sembrava per nulla rendersene conto.
«Esatto, però volevo venisse qualcuno di voi se dovevate scriverci qualcosa, perché un testimone lo ho. Il vecchio Robbie, quel povero bastardo, aveva la lapide vicino alla Cripta quando è successo. Ti può raccontare tutto quello che è successo lui, è attendibile, glielo giuro: anche i morti si annoiano dopo un po' di tempo che sono inchiodati dove volevano stare.»
Fu in quel momento che qualcosa si incastrò nella sua testa e il peso al centro del petto, così come la morsa attorno alla gola, diventarono sensazioni più familiari, nostalgiche.

Il testimone del caso non era il custode del cimitero, ma un fantasma.
Il suo corpo lo aveva capito prima di lei, doveva solo abituarsi ad ascoltare i sintomi.
"Mai una gioia, Merlino impestato."
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view post Posted on 4/11/2021, 23:07
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Questa serie di Frammenti è legata all'iniziativa Words of Magic,
sfruttata per poter esplorare il gioco lavorativo di Ariel come spunto di role sul campo.
Seguiranno altri frammenti su questa "mini-storia" giornalistica.


Ariel Vinstav a banshee on the job
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SPIRIT
5. Racconta dell'incontro con un essere, spirito o entità di basso pericolo.



L
a traversata nel cimitero di Exwick occupò una decina di minuti, intervallati qua e là da poche domande sul posto da parte di Ariel e ben più risposte del necessario da parte di "Monty", il custode.
Era chiaramente abituato a passare il tempo da solo o occasionalmente in compagnia degli spettri locali e una compagna esterna doveva essere per lui motivo di entusiasmo, quello o Ariel doveva apparire molto più affabile e simpatica di quanto fosse normale, perché una volta giunti nell'ala Est del Cimitero, presso le rive di un piccolo stagno, le ci volle una dozzina di secondi perché Montgomery capisse di dover interrompere la narrazione dell'ennesimo aneddoto "quella volta in cui ho trovato questa cosa bizzarra in una tomba".
Normalmente Ariel avrebbe passato le giornate a sentire le sue storie, ma ora che aveva superato la protezione magica che separava il Cimitero per maghi da quello babbano, non poteva evitare di sentirsi particolarmente a disagio.

«Monty, amico mio, penso la ragazza stia cercando di finire il suo lavoro.»
Quando una terza voce si aggiunse improvvisamente alla conversazione, Montgomery sobbalzò sul posto e Ariel invece si irrigidì, chiudendo le mani attorno alla macchina fotografica magica.
Non si voltò subito, ma non aveva bisogno di farlo per rendersi conto di cosa avesse alle sue spalle.
Un fantasma, Il fantasma e il testimone per il suo articolo.
«Il Signor Montgomery ha sicuramente molte storie interessanti da dirmi, ma mi ha accennato che la sua potrebbe essere quella che sto cercando al momento.»
Parlò con meno entusiasmo e genuina cortesia del solito, risultando più simile a qualcuno che con freddezza recita un copione con totale mancanza di coinvolgimento emotivo.
Quando si voltò, fu facile comprendere come non fosse tesa, quanto più spaventata.
«E' la prima volta che vede un fantasma?»
C'era una nota di empatia nella voce dello spettro, una tenerezza di fondo che la portò istintivamente a sorridere. Scosse il capo in segno di diniego: no, non era la prima volta e doveva accettare non sarebbe di sicuro stata l'ultima, non per lei per lo meno. «Oh no, no. Era solo ... nulla, una sensazione, davvero.»
La mano destra salì nervosamente al collo, cercando come sempre di massaggiarne gli incavi e cercare di allentare quella parziale sensazione di soffocamento che l'ansia le causava.
Era così che sarebbe andata ogni volta che si sarebbe avvicinata alle trame più sottili del velo?
Il suo Udito era davvero così difficile da governare davanti agli echi degli spiriti?
«Mi dispiace per il cappuccio: mi rendo conto non aiuti.»
Una mano rovinata e nodosa affiorò dall'ampia manica del mantello per grattarsi nervosamente la nuca in segno di imbarazzo. «Ma non mi piace la mia faccia, quindi rimarrà qui per sempre.»
Non era una battuta, Ariel ebbe l'istinto di inclinarsi per rendersi conto di come il corpo dello spettro fosse stato plasmato dalla volontà e la magia: diversificare dove iniziasse il tessuto e dove la pelle era difficile, segno di come nel legarsi a quella terra avesse deciso di vestire abiti diversi, coprirsi del tutto alla vista di chi l'avrebbe potuto incontrare.
"E' vergogna?" si chiese "O necessità di nascondersi anche nella seconda vita?"
La curiosità nei suoi occhi tradì le sue intenzioni.
«Sono morto per una pozione andata storto. Il mio corpo non ha reagito bene all'esplosione»
Ariel abbassò il capo rischiando di risultare particolarmente invadente e scortese dopo quanto detto.
Niente, era troppo curiosa anche da intimorita: voleva capire cosa gli era successo ancora prima di chiederlo.
«Cicatrici, ragazza. Semplicemente cicatrici, ma niente che qualcuno possa voler vedere. Non lo volevo io da vivo, non lo voglio da morto.» Gli scappò una risata leggera, fatta più allo scopo di alleggerire la tensione che per effettivo entusiasmo.
Fece spallucce, mentre fluttuando a mezz'aria decisa di spostarsi lungo la riva dello stagno, costringendo così Ariel a doverlo seguire per poter proseguire la storia.
Si strinse nella salopette, cercando conforto nel tessuto a coste.
«Quindi lei è disposto a parlare per la Gazzetta del Profeta?»
Decise finalmente di andare oltre, tornare al punto della questione: indagare sul caso e parlare col testimone. Se poi si fosse abituata alla spiacevole sensazione che le opprimeva il petto, avrebbe anche cercato di scoprire di più sul buon Robert e magari riottenere un po' di dignità ai suoi occhi.
«Certamente, ho proposto io a Montgomery questo incontro. Può riportare i miei dati per intero: Robert Callum Blake, nato nel 1891 e morto nel 1938. Ero un pozionista a Topsham, qui nel Devon e per tradizone di famiglia noi Blake siamo quasi tutti sotterrati qui, da dove scappammo durante le persecuzioni del seicento.»
Sembrava aver capito solo da uno sguardo quanto Ariel bruciasse dalla curiosità e volesse sapere di più dello spirito. Non a caso si voltò un attimo nel suo fluttuare, rallentando l'escursione nel cimitero per scoccare un'occhiata di sbieco alla giornalista, annuendo soddisfatto quando scoprì la ragazza armata magicamente di un taccuino e la sua piuma lillà autoinchiostrante.
«Qualcosa andò storto quel Febbraio. Non so bene cosa, non so bene come - sospetto con onestà mi abbiano manomesso la soluzione reagente - un momento rimesto, un momento dopo sono ... ovunque e poi qui. Immagino non volessi andarmene, né perdere la mia dignità mostrandomi a brandelli. E' stato utile, nessuno di quei folli mi ha visto ad Halloween quando passavo per il lago.»
E' a quel punto che avanzando lo spettro si fermò a pochi centimetri dal terreno ai piedi della porta di una cripta familiare, percorsa lungo le pareti da uno spesso strato di muschio marrone e verde.
«Le consiglio di prendere una pagina nuova: è una storia complicata.»
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view post Posted on 4/11/2021, 23:54
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sfruttata per poter esplorare il gioco lavorativo di Ariel come spunto di role sul campo.
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BODY
3. Il tuo PG incontra un PNG sconosciuto e si fa raccontare la sua storia.



I
l piccolo cartello con su scritto "Stagno di Exwick - Non date da mangiare alle papere!" creava aspettative ben diverse dalla realtà oltre lo spettro di Robert Blake.
"Stagno" era riduttivo e di papere all'atto pratico non se ne vedeva nemmeno l'ombra.
Ariel sollevò la macchina fotografica per fare qualche scatto del luogo, superando con un brivido RObert per poter prendere una panoramica da un'angolazione diversa.
La pelle accapponata e percorsa dai brividi trasmetteva sempre più vividi impulsi al corpo: avvicinati, immergiti, è successo qualcosa qua, esplora, ascolta.
Poteva sentirlo sotto pelle l'odore del mistero, se avesse chiuso gli occhi e cercato di svuotare la mente, chissà, forse avrebbe persino sentito qualcosa.
Una volta tanto Ariel non era curiosa abbastanza di voler rischiare e scoprirsi nel giusto.

«Tutto bene?»
La voce di Robert dietro di lei la riscosse dai suoi pensieri.
"Non dissociare ora, porca bacchetta, svegliati."
Staccò con fatica lo sguardo dallo specchio cupo dello stagno, voltandosi verso lo spirito e donandogli un sorriso flebile «E' successo lì?»
La mano sinistra si sollevò di istinto verso uno delle sponde opposte a loro, all'ombra di un albero dove ad osservare con più attenzione il terreno si sarebbe potuto notare un dissesto nei pressi dell'acqua, creando un'irregolarità nel manto erboso.
«Ha un buon occhio per averlo notato da qui. Hanno dovuto coprire molto, ma Monty non ha la magia e quindi ha potuto fare poco con la vanga»
Ariel avrebbe voluto tanto dire che era il buon occhio ad averle fatto indovinare e non l'innaturale sesto senso che le sussurrava di attraversare l'acqua e arrivare fino all'ombra del cipresso imbrunito. «Il fascicolo del Ministero mi ha detto che hanno arrestato tre persone: tutti maghi locali e che la segnalazione iniziale fosse per attività paranormali riportate prima alle attività babbane e poi rimbalzate alla squadra disinfestazione»
«Le hanno detto bene: il nostro è un cimitero popoloso e a volte succede che ... non tutti amano la privacy e rimanere nel suo e vanno oltre, dove non dovrebbero.»
Che fosse per intrattenersi o per motivi personali a cercare il contatto umano, Ariel non era stupita dall'idea di fantasmi che si aggiravano per l'Exeter: era alla base della storia babbana e magica che quella città fosse il fulcro dell'occulto della Contea del Devon; erano accadute troppe morti perché la magia e il suo legame col velo non fossero forti lì.
"Forse ho sbagliato a venire qui da sola."
Sospirò e cercò di andare avanti, mentre estraeva di nuovo dalla tasca frontale della salopette il taccuino e la piuma lilla, riprendendo a scrivere.
«Ma poi sono dovuti intervenire domatori, obliviatori e flagellatori.»
«E dei tre criminali ne sono rimasti due.»
La penna si fermò a metà percorso sulla carta, sollevandosi ad un centimetro dalla carta. Storse il naso e mormorò una piccola correzione «Uno. Il secondo sopravvissuto è morto al San Mungo: le sue condizioni erano troppo gravi.»
Per un attimo giurò di aver intravisto nella sagoma incappucciata di Robert un volto: labbra strette tremarono oltre la trama del mantello, prima di scomparire oltre il velo delle vesti spettrali; non poteva discernere le sue espressioni, ma l'istinto le suggeriva un latente senso di colpa e dispiacere.
«Le autorità mi hanno detto che il signor Monty è arrivato sul posto che erano stati già feriti dalle creature, quindi se è stato lei a chiamarlo, sappia non avrebbe potuto fare di meglio. Ha salvato una persona, si soffermi su questo dato della storia: senza il suo intervento non avremmo avuto superstiti.»
Non poteva dire con onestà di essere sicura delle sue parole, ma l'empatia di Ariel la costringeva a cercare di lenire il dolore delle altre persone e per leggero egoismo, cercare anche di prevenire così che la sofferenza di chi la circondava divenisse anche la sua.
Riprese a scrivere
«Mi dica cosa ha visto.» e ricondusse la conversazione sulla storia, la storia di Robert Blake e quel terribile incidente.
«Era notte fonda, Monty era già nella sua casupola da ore..»
Erano le tre del mattino, Ariel lo sapeva benissimo perché aveva riletto il fascicolo su quell'inchiesta ameno sei volte prima di partire alla volta del Devon.
«Quindi devono aver pensato fosse una buona idea andare al lago di nascosto. Erano più grandi di te, sicuramente, almeno una trentina d'anni.»
Trentasei, trentuno e trantatré -- Ariel aveva imparato a memoria anche quello.
«Li ho sentiti perché lanciavano cose nel lago e mi disturbavano mentre passeggiavo per la cripta di famiglia. Ero pronto a dire "non ci sono Papere, sono tutte belle che andate", poi ho visto meglio e: erano corpi. Pezzi di corpi.»
Ariel si fermò di scatto, aggrottando la fronte: questo dettaglio non c'era nel suo fascicolo.
Non fece nemmeno in tempo a fare una domanda per sapere di più che Robert le indicò di nuovo il lago, riprendendo a parlare.
«Temevo stessero trafugando qualcosa, ci sono spesso pazzi disperati che provano a trovare un bottino nelle tombe. Poi l'ho visto e ho cambiato totalmente teoria.»
A quel punto fluttuò oltre la sponda, spostandosi con un ampio movimento fluido sullo specchio d'acqua a pochi metri dalla sponda opposta del laghetto.
Alzò il tono di voce per farsi sentire fin da laggiù. Ariel intuiva cosa stesse per dirgli.
«Due Kappa affamati e arrabbiati come due bolidi manomessi, storditi chissà da quale schifo messo nel lago.»
A quel punto ad Ariel che l'analisi nelle storie piaceva troppo, non poté evitare di sbuffare e soddisfatta mostrare un mezzo sorriso: «Ora sapete cosa ha ucciso le papere.»
Robert sbuffò e annuì, mentre dal fondo del cimitero una terza voce, quella di Monty, si levò indignata: «Hanno ammazzato le mie cocche, quei bastardi!»
"Ma è ancora qua?"
Ariel si guardò intorno, confusa e sorpresa, ma di Montogmery non sembrava esserci traccia.
Possibile fosse nascosto da qualche parte sulle sue lapidi ma troppo annoiato per potersi perdere quel bizzarro incontro.
«Le loro pozioni, però, dovevano fare una gran pena, perché uno di loro è riuscito ad uscire dall'acqua e tirarne uno per la caviglia. E una volta che uno è caduto, gli altri sono andati nel panico e da lì .. le urla. A quel punto ho cercato di fare rumore, sa, per sperare si distraessero e fossero troppo stupidi per capire che io carne non ne ho.»
Si interruppe per scoccare un'occhiata a Robert e con un cenno fargli capire stesse seguendo il racconto.
«Ma i demoni non sono tutti stupidi, ahimé e un Kappa stordito, ma mal nutrito, evidentemente sente il sangue e il corpo prima ancora di vederlo. A quel punto appena ho visto che gli altri venivano aggrediti sono corso a cercare Monty.»
«E io ho mandato il mio gufo e poi sono venuto qua, cagandomi addosso come un pazzo, armato della mia vecchia Comet e Bezzy, la mia vanga.»
Ariel si girò di nuovo: ma da dove diavolo stava parlando il Custode?
Si spinse persino sulla punta dei piedi e ... niente, quel custode era impossibile da scovare.
«Quindi a quel punto cosa ha visto nell'attesa?»
«Sangue. Parecchio e dettagli che non sono il massimo da dire e scrivere su un giornale: diciamo che quanto avevano gettato nel lago è tornato a galla più fresco.»
Rabbrividì e istintivamente fece qualche passo lontano dal lago.
Forse voleva avvicinarsi per quello, non per la forte presenza di spiriti, ma per l'atrocità che si era da poco avverata lì; il Presagio doveva essere stato forte, pesante, tanto quanto cruenta era stata la strage.
«Ho volato sopra di loro ad un certo punto, sperando di far paura e uno dei due Kappa ha effettivamente perso tempo a seguirmi con la zampa, ma appena ha sentito il freddo è tornato in acqua.»
La piuma venne scossa, cercando di far fluire nuovamente l'inchiostro e riprendere a scrivere.
«Ha fatto tanto signor Blake e anche lei Signor Monty» "Ovunque tu ti sia nascosto" «Le disturba se rimango ancora qui a fare delle foto prima di ripassare per delle ultime domande?»
Robert si limitò ad annuire e riprendere a fluttuare oltre l'acqua, mentre da dietro l'albero una mano si sollevò mostrando un pollice sollevato come a dare l'"ok".

Ecco, ora aveva una storia e aveva anche ritrovato il custode.
"La prossima volta articolo sulle Gelatine Tutti Gusti più uno."
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Contest a Tema, Ottantunesima Edizione
"Lanterna"




Villaggio di Fljótsdalur, Islanda.
24 Dicembre, Vigilia di Natale.

Festival delle Lanterne di Neve.
Snjóljósahátíð




I
l ricordo del Ballo delle Orme sbiadiva davanti al Festival delle Lanterne di Neve.
Cinquecento ventiquattro abitanti vivevano all'interno della valle di Fljótsdalur ed essendo sparsi in un'area di quasi duemila kilometri, incontrare fisicamente qualcuno era molto difficile.
Così Skjòl, il rifugio dei Vinstav, era risultato negli anni un nascondiglio perfetto non solo dai babbani, ma anche dai maghi.
Occasionalmente, però, le due comunità confluivano per apprezzare i pochi eventi festivi che la politica locale istituiva e la Coven aveva finalmente una scusa per uscire allo scoperto.
In questo caso tutta la famiglia si era data appuntamento a Selfoss, una delle città più popolose del paese, per quello che da dieci anni era diventato uno degli eventi portanti della tradizione natalizia islandese.
Ariel aveva raggiunto la città a bordo di scopa volante, unendosi a suo padre nella traversata della Valle e occupandosi di tenere entrambi al caldo con l'uso del Fuocondro.



Capire di essere arrivati al punto di incontro fu facile: la stretta di suo padre si fece improvvisamente più salda e il suo volto cupo e serio.
«Non ti concentrare sul numero, pà. Pensa a cosa vorrai scrivere nella lanterna. Respironi.»
«Mh. Tu non ti preoccupare per me. Va tutto bene, andrò a disturbare tua madre.»
Einar soffriva spesso l'ansia sociale: l'idea di partecipare alle riunioni dei Vinstav lo portava sempre a irrigidirsi per trattenere un panico e una confusione ferventi che solitamente si permetteva di mostrare solo ad Ariel e sua moglie Ragna, apparendo ai più solo come un omaccione burbero e silenzioso.
Come biasimarlo però davanti al caos che era la Coven?
Quarantadue persone erano raccolte lungo la sponda del fiume che attraversava la città, ognuno chino sulla neve per cercare di raccoglierla in stampi di pietra. Ben pochi erano in silenzio e il brusio delle loro chiacchiere portava i babbani più vicini a scoccare loro occhiate torve.
Nel mezzo Georg, il nonno di Ariel, era l'unico ancora impegnato a raccogliere neve, interrompendosi ad ogni opportunità possibile per creare una palla e lanciarla in testa ad un nipote.
«THE COLD NEVER BOTHERED ME ANYWAY.»
Suo padre sobbalzò per lo spavento accanto a lei, mentre Georg si dava ad un balletto free style nella sua enorme giacca turchese dietro al corpo gelido di Jakob Vinstav, colpito in pieno volto da una delle sue munizioni. «Canta di nuovo quelle cose in scatola che si ostina a vedere?»
«Cartoni animati, Papà. Come fumetti in movimento: solo che in quelli del nonno cantano tutti.»
Einar rabbrividì «E' un incubo. Ti prego vai a giocare con lui.» Anche interpretabile come un "ti prego, tienilo lontano da me".
Senza farselo ripetere due volte, Ariel cominciò a correre verso il nonno materno, lasciandosi andare in una brusca scivolata sulla neve per schiantarsi di pancia contro il fianco del cumulo e di conseguenza sbalzare Georg di lato.
«CIAO NONNOO.» Georg sobbalzò, finendo con la barba nella neve.
«La mia lìitill! Ho raccolto la neve per fare una lanterna solo noi due e bombardare ogni parente. Mancavi solo tu.»



Georg rotolò su un fianco per scendere dal cumulo e con l'aiuto di tutte e due le mani, si tirò su, sistemandosi la falda del cappello grigio.
«Sai già cosa bruciarci dentro?»
Era tradizione natalizia scrivere desideri e promesse da lasciar bruciare dentro le lanterne di neve e ghiaccio, mentre queste venivano lasciare scorrere lungo il fiume.
La risposta di Georg era sempre la stessa da anni
«Commenti sconci per tua nonna e tutte quelle cose che ti farebbero venire le carie. E tu? Qualcosina per Georgina?» Non lo stava guardando in volto, ma era evidente stesse sogghignando.
«Jolene, Afi. Si chiama Jolene.»
Ariel sperò in cuor suo che il rossore delle guance venisse attribuito al freddo e non all'imbarazzo. Si strinse nel cappotto e si voltò per sfuggire allo scherno del nonno, che con la scusa di raccogliere altra neve negli stampi si era sporto apposta per scoccarle un occhiolino.
«Guardala protettiva come sua madre. Quindi? Sa già di noi? La porti qui alla prossima visita o hai ancora il cag--»
Una palla di neve gli finì dritto in bocca, zittito da un lancio ben assestato di Jakob: la sua personale vendetta per il tiro mancino di prima.
Ariel gli mimò con le labbra un "Grazie, cugino", prima di ribattere un.
«No, non sa nulla. Se non che siamo tanti, chiassosi e che tu sei molto più strano di me.»
Georg si inchinò, reggendo la fedora con la mano sinistra.
«Lo prendo come un complimento. Come dicono i giovani "grazie a bomba".»
Ariel digrignò i denti in tutta risposta, forzando dei brividi in tutto il corpo.
«Per carità non dire più quella frase, torna
a parlare come la mummia inopportuna che sei.»

Georg scoppiò a ridere prima di tornare a lavorare sulla sua lanterna.



Un'ora dopo la riva del fiume veniva puntellata qua e là da lumi arancioni: piramidi di palle di neve racchiudevano candele e lanternini lasciati dagli abitanti di Selfoss e le valli vicine.
Lungo il pelo dell'acqua le lanterne di neve o ghiaccio più resistenti venivano abbandonate alla corrente, alimentate da promemoria e offerte, promesse di carta da bruciare per consolidarle nel fuoco.
Georg e Ariel, fianco a fianco, erano immersi in un silenzio religioso che da figure come loro sembrava innaturale.
Oltre le falde dei cappotti i loro mignoli avevano trovato rifugio in un intreccio.
"Un abbraccio e una risata calda da qua a dove riposi"
Il biglietto era stato allungato in silenzio verso la loro lanterna comune. Georg lo faceva da anni, camuffando ogni pensiero per la moglie defunta dietro risate sguaiate e un umorismo tagliente.
Ariel si chinò verso di lui, baciandogli la guancia ispida.
I suoi messaggi di quell'anno, invece, erano tutti brevi, formati da parole chiave che ad un occhio qualunque sarebbero apparse come vuote, incomplete.
"Jolene White."
"Irunn Vinstav"
"Orgoglio."
Quando i biglietti vennero lasciati bruciare e la lanterna abbandonata sull'acqua, Georg la strinse in un abbraccio silenzioso.
«Credi funzioni?» Sussurrò contro la sua spalla.
«Credi nel non rompere le promesse?» Ariel annuì, nascosta nella lana azzurra del suo cappotto.
«Allora andrà tutto bene.»
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9 replies since 30/11/2019, 20:05   454 views
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