Jolene non si considerava una persona autoritaria: così come detestava ricevere ordini, riservava la medesima avversione anche all'imporli. Anche nel suo ruolo al Castello, preferiva che le sue indicazioni si mantenessero su toni amichevoli, e si affidava al camice per sopperire alla totale incapacità di suscitare quel leggero timore che generalmente provano gli studenti di fronte alle figure adulte di una scuola. Dava per scontata la collaborazione dei giovani pazienti; quando, tuttavia, questa sembrava mancare, non c'era da prenderla sottogamba.
Miles Travis – Grifondoro del quarto anno, un ragazzino agile e nervoso, tutto pelle e ossa cresciute troppo in fretta – aveva imparato a proprie spese che, sotto alla pacatezza dell'infermiera, si nascondeva una creatura cocciuta e terribile almeno quanto lui. Decisamente non era stata una buona idea tentare di svignarsela dal suo letto di ricovero prima del via libera della White: la donna lo aveva scoperto quando era a metà della rampa di scale che l'avrebbe portato alla Sala Comune, dove la sua Nimbus 2000 aspettava di essere inforcata per l'allenamento di Quidditch di quel pomeriggio. Non che lei avesse perso la calma; sarebbe stato meglio, addirittura liberatorio se avesse fatto la solita sfuriata, magari diventando rossa in viso e mulinando le mani per aria con fare esasperato e minaccioso. No, no. Jolene non aveva fatto nulla del genere: al contrario, lo aveva letteralmente sommerso di ogni premura. Fino ad annegarlo, lentamente ed inesorabilmente. Inutile dire che non l'aveva lasciato andare all'allenamento: anzi, per poco non l'aveva riportato di peso in Infermeria, preoccupata che la corsa alla chetichella con cui vi si era allontanato l'avesse improvvisamente reso moribondo. Da allora – ed erano passati parecchi, parecchi giorni – Miles doveva fare finta di dormire profondamente per sfuggire all'assillante presenza di Jolene. La giovane aveva preso sul personale quel tentativo di fuga: cosa poteva spingere un ragazzino a zoppicare furiosamente fuori dal suo sguardo? Poteva essere che facesse il suo lavoro in modo così terribile? Aveva quindi preso ogni premura affinché svolgesse un servizio impeccabile – il che voleva dire che era continuamente appresso al poverino, che lo assillava con preoccupazioni esagerate, che aveva sempre qualche attività per distrarlo dalla noia, e chiacchierava incessantemente con quella che credeva una voce gaia e piacevole, ma che dopo le prime ore si faceva sentire come punture di spillo nei timpani e nella testa. Privato di ogni energia, Miles non avrebbe più tentato nessuna fuga, di questo era certo.
Jolene stava giusto proponendo una partita a Gobbiglie, chiedendosi e rispondendosi da sola al dilemma se non fosse, forse, un gioco troppo movimentato per il malato, quando un gufo cominciò a picchiettare alla finestra. Andò ad aprirgli, ma senza smettere di parlare – avrebbe subito chiuso la finestra, non voleva che uno spiffero invernale raggiungesse il suo letto, dall'altra parte della stanza. Quando improvvisamente tacque, il silenzio fu dapprima piacevole, ma presto si caricò di un gelo ben più pesante di quello che si era introdotto dalla finestra aperta. Gli occhi scorsero più volte le poche righe vergate con una scrittura incerta, soffermandosi con orrore sulle macchie rugginose. Chiuse di scatto il foglio, le nocche sbiancate in una stretta eccessiva. Sotto allo sguardo interrogativo del Grifondoro, prese a muoversi come un vortice intorno all'armadietto delle Pozioni. Raccolta una discreta quantità di ampolle, le infilò velocemente in una borsa di cuoio, i movimenti improvvisamente ridotti allo stretto indispensabile, in brevi scatti nervosi ma funzionali. A Miles non fu chiaro che cosa stesse succedendo se non quando, ormai sulla soglia, Jolene si voltò verso di lui e, con un tono che non le aveva mai sentito adottare, lo informò che doveva andare via, ma che avrebbe chiamato qualcuno a sorvegliare l'Infermeria al posto suo.
«È un'emergenza», disse, e la sua voce era vuota e intensa allo stesso tempo.
Non si Materializzò davanti al Testa di Porco solo perché non sapeva bene dove si trovasse. Aveva avvisato che doveva recarsi d'urgenza al villaggio, e la preoccupazione che le tendeva il volto era stata più che convincente. Erano bastate poche parole di Rowena per risvegliare in lei un tumulto che non si sarebbe placato se non quando si fosse assicurata personalmente che la donna stesse bene. Credeva di conoscerla, almeno un po', ed era certa che non l'avrebbe contattata se non avesse avuto davvero bisogno di lei. Il sangue che macchiava il messaggio l'aveva spronata più di qualsiasi parola: vedeva già l'amica gravemente ferita, il rosso che zampillava dalla carne viva, sentiva la fatica che doveva esserle costato vergare quel messaggio. Muoversi non era nemmeno stato una decisione, ma una risposta immediata del suo stesso corpo. Le ampolle tintinnavano al suo fianco – erano le Pozioni che utilizzava nella maggior parte delle cure, mentre il Larice era fissato al suo solito posto, nell'apposita fodera.
Riuscì a trovare il locale grazie alle indicazioni di un passante e, se l'esterno la lasciò un po' perplessa, una volta entrata non seppe impedirsi di storcere il naso: quel posto pareva incrostato della sporcizia di anni interi. Lo aveva conosciuto solo di fama, fino a quel momento, ed era, inutile dirlo, una pessima fama. Perché Rowena, con ogni probabilità ferita, avesse scelto proprio quel posto per rimettersi in sesto, Jolene non avrebbe saputo indovinarlo. Sotto alla preoccupazione, cominciò a crescere un sospetto ancora informe.
Dopo aver capito come raggiungere la stanza numero quattro, vi si avviò senza indugio. Non aveva notato subito le gocce di sangue che macchiavano il pavimento, ma non poté ignorarle quando scoprì che la precedevano fino alla stanza di Rowena.
Giunta di fronte alla porta, batté due colpi, prima di abbassare la maniglia senza neppure attendere una risposta.
«Rowena?», scandì a un volume forse troppo alto.
«Sono io, Jolene. Sono partita appena ho ricevuto il gufo...»