| | | In principio, Rune Antiche non era stato un corso che aveva preso in considerazione. Una parte di sé ne era incuriosita, non avrebbe potuto negarlo, e si esprimeva in quel modo con una sete di conoscenza che poneva in allerta tutti i suoi sensi. Fin da quando aveva sperimentato il potenziale degli amuleti nella Stanza delle Necessità, ne era stato attratto intimamente. Il colore adamantino delle monete d'argento che si fondevano le une alle altre, e quello splendente dell'oro che impreziosiva il braciere sempiterno, lo stesso sul quale operava magia antica, magia primordiale, la magia delle rune. Aveva preso forma sotto il suo sguardo inesperto, aveva assistito all'incresparsi delle fiammelle sui metalli preziosi, e in quel funereo incastro aveva sentito il desiderio di saperne di più, di informarsi, di avvicinarsi - in modo tangibile, in modo pieno. Un'altra parte di sé, invece, aveva sussurrato a lungo il pericolo che una disciplina come quella avrebbe portato per lui, e tutto il rischio che ne poteva sempre conseguire. Era lo stesso discorso che aveva compiuto nei riguardi della Divinazione. Un trampolino di lancio, un tuffo giù per la scogliera, e difatti quella che per lui appariva anche come necessità: aveva immaginato di allontanarsene, di studiare da autodidatta, di sfogliare e sfogliare ancora le pagine dei libri d'arte mantica, tutti quelli che aveva. Da Vablatsky a Malécrit, dalla saggistica alla drammaturgia, erano lì i segreti cui si era affidato, ed erano lì misteri che aveva sperato di svelare. C'era stato un tempo, agli esordi, in cui aveva pensato di poter continuare su quella scia, di non dover frequentare né Divinazione né Rune Antiche, di poter fare tutto da sé. Lui, studente attento, aveva saltato i primi giorni dell'uno e l'altro corso, in bilico tra volontà e preoccupazione. Perché era evidente, e sempre lo sarebbe stato: attingere al Divenire, in luoghi dove i confini risultavano così labili, era per lui estasi e condanna. Le discipline che infine aveva scelto nel suo percorso scolastico erano di gran lunga quelle in cui sentiva di avere più affinità, la prima in particolare: ma era altrettanto chiaro, per lui, di dover prestare un controllo maggiore, di continuo. Non avrebbe potuto lasciarsi andare, e mai - forse - avrebbe potuto essere se stesso, in un'aula che pullulava di studenti, di presenze, e almeno in parte di incomprensioni. Le Rune spaventavano il suo cuore, in quel risveglio che affascinava e tormentava insieme, in quel risveglio che lasciava un segno. Poteva accadere in ogni circostanza, in ogni incontro: mentre si esercitava con un compagno di banco, mentre rispondeva ad una domanda del Docente, già mentre slacciava il sacchetto che conteneva le sue rune. Le stesse, in effetti, che aveva perso in quel momento - le vedeva, alcune vicine, altre così lontane. Si disperdevano in una ragnatela indistinta, da un capo al successivo, all'apparenza in una geometria indistinta. Ma percepiva, percepiva un canto unanime - le Rune stavano parlando, era come se stessero indicando qualcosa. Un segreto, un sussurro, un messaggio - le Rune comunicavano. Si accorse di essersi fermato, di scatto. Era il preludio di una rivelazione, com'era stato, come sempre sarebbe stato. La voce di Megan, poco distante, lo raggiunse come una carezza, e cullò in sé la promessa di una scoperta, e di una gentilezza. Un cenno del capo, leggero: stava bene, e gli studenti che lo avevano spinto - forse involontariamente - già non erano più nel suo raggio visivo, e forse mai lo erano stati. C'era lei, lì di fronte. C'è lei, sentì dirsi. In solitudine, tacitamente, un pensiero tra molti altri. Da lungo andare Oliver non credeva più alle coincidenze, non credeva neanche più agli incontri fortuiti. C'era qualcosa, qualcosa di profondo. E se solo avesse porto ascolto, avrebbe potuto carpirne ogni altra litania, ogni altra confidenza. Le Rune dialogavano, oramai libere, non più ignorate; era come se avessero custodito una confessione, un punto di contatto, e in quel senso erano finalmente pronte all'ultima manifestazione. C'era lei, lì di fronte. C'era lei. Riusciva a vederla anche senza sollevarne il volto, riusciva a catturarne la figura, il lineamento di stile, l'eleganza che una persona come lei indissolubilmente ricamava, e già vestiva. Riusciva a vederla, al confine tra i tempi. Si scoprì attratto, forse più di quanto non gli fosse mai capitato. Il Culto dei Misteri danzava lì, nel corridoio assente: tra Oliver e Megan, tra loro. Ed era una danza che non era mai iniziata, una danza che riprendeva dal passo d'esordio. «Un viaggio.» Si portò in piedi, alcune rune tra le mani. Lasciò che scivolassero nelle tasche, alla rinfusa: le avrebbe sistemate e riposte per bene nel sacchetto d'appartenenza, a suo tempo. Aveva invece commentato in fretta, in un soffio di voce. C'è qualcosa che devo fare, aveva detto Megan. C'è qualcosa che devo fare, ripeté tra sé. «Hai un viaggio in programma?» Un primo, timido sorriso. Appena abbozzato, catturava una nota di gentilezza sul viso del Caposcuola Grifondoro. Quella Runa, tra tutte, ritornava anche da lui di continuo: in avanscoperta rispetto alle altre, ogni volta che scioglieva il nodo del sacchetto che le conteneva; ogni volta che interrogava i misteri antichi, e ogni volta che chiudeva gli occhi. Era lì, Perthro. Come una vecchia, fidata presenza, e attendeva soltanto di essere compresa, di essere accettata. Le parole della Corvonero, subito dopo, spiazzarono ogni equilibrio: sulla sua bocca il sorriso si tinse di amaro; incontrollabile, il cuore riprendeva un battito più intenso, più deciso, mentre la gola tendeva in costrizione. Non si accorse di come stesse trattenendo il respiro, di come ad un tratto tutto il suo corpo stesse mandando segnali, di come la pelle pizzicasse di un brivido, e di come - ancora - si fosse immobilizzato. Quando la mano destra sfiorò la cerniera della tasca, là dove aveva appena riposto alcune tra le rune recuperate, Oliver bloccò indirettamente anche quella. Le dita si strinsero, si chiusero le une sulle altre, in preda ad un moto che comprendeva. Quello era per lui un argomento taboo. Né Penny né Herbelia gli avevano mai chiesto di parlarne, né i suoi più fidati amici né ormai la sua stessa famiglia. Era un'ombra che mutava in segugio, e anche quando chiudeva gli occhi - affidandosi al riposo della notte - la pace si tempestava di incubi passeggeri, di gemiti, di singulti. Quello che aveva visto, quello che aveva sperimentato su di sé, quello che era infine accaduto - il tormento aveva il prezzo del silenzio, e trascinava tuttora il sacrilegio di un'esperienza che lui, volente o meno che fosse, non avrebbe mai potuto dimenticare. Si accorse di come le nocche fossero sbiancate, nella stretta del palmo destro. C'era qualcosa, lì racchiuso, perché faceva male: volse lo sguardo in basso, sentendo la testa esplodere in un pacato, estremo silenzio; quando aprì la mano, scoprì una runa superstite, una di quelle che aveva recuperato poco prima e una di quelle che avrebbe dovuto sistemare nella tasca con le altre. Ma le parole di Megan lo avevano fermato, e rapide avevano attirato ogni attenzione. Sulla pelle arrossata dalla presa di ferro, un simbolo semplice, appena un angolo, svettava in inchiostro scuro sul legno di biancospino della runa. Kenaz si ridestava, si esprimeva come scintilla nascente. La Runa della Fiaccola, la Runa del Fuoco - controllato, luminoso, iridescente, più delicato dei suoi corrispettivi, più intenso di molti altri. Ricordava il suo valore, ricordava il suo significato: la Runa dell'Illuminazione, la Runa della Guarigione. Rischiarava il buio in uno e più miti, e attendeva di essere colta, di essere accudita: solo in quel caso si rendeva fertile, e solo in quel caso si rivelava curativa. Chiuse il palmo, di nuovo. La Runa Kenaz si nascose così, sulla pelle, e sottopelle. Gli parve un segno, a sua volta, a dispetto di ogni fede e titubanza che potesse avere al riguardo: Kenaz, tra tutte, era la sopravvissuta. Il cambiamento si cristallizzava lì, nel corridoio. Di nuovo, di nuovo. Quando parlò, avanzò di un passo. Piccolo, leggero, minuto - un passo di danza, Kenaz da un lato, Perthro dall'altro. Per un attimo gli parve che il ballo di fine anno, al quale lui e Megan erano stati destinati, si stesse infine portando a compimento. Di pari modo, la coppia di Rune sanciva un confine. Il viaggio di Perthro, la guarigione di Kenaz. La Runa Destinata, la Runa Celata. Erano lì, oltre tutte le altre rune. Sono felice che tu stia bene. Liberò il respiro da poco trattenuto, in un soffio che mutò in sospiro. Sentiva il cuore farsi pesante e leggero, allo stesso tempo, mentre alzava gli occhi per cercare il volto dell'altra. Tra di loro era come se vi fosse qualcosa di sospeso, una trama che non aveva avuto occasione, e forse le Rune altro non avevano fatto che riprenderne il primo filo, il primo nodo. Sostenne il momento, lo rese parte di sé. Tutto in lui gridava di andare via, di non parlarne, di non vivere ancora - neanche in ricordo - quanto davvero accaduto. Tutto in lui, invece, imponeva di esserci, imponeva di restare. Era ferito, e non era più in grado di nasconderlo: con i suoi compagni, con i suoi concasati, con la sua famiglia, con gli affetti che aveva creduto al suo fianco. La solitudine era stata meschina nei suoi confronti, e non una sola volta aveva saputo perdonarla. Megan, però, riuscì a sorprenderlo. Aveva pensato a lungo all'altra, fin dalla prima notte di degenza - alla sua figura, al suo volto, alla sua vicinanza prima che tutto prendesse forma, prima che tutto si completasse. Megan era lì, era lì al ballo di fine anno. Aveva pensato a lungo a lei, e intimamente aveva voluto scriverle, aveva voluto sentirla. Non aveva risentimento nei suoi confronti, a malincuore sapeva di non vantare una relazione così stretta con l'altra da attenderla nel periodo successivo al suo ricovero, ma... ma c'era altro, c'era altro. Il volto di Megan era stato l'ultimo che aveva visto - con i suoi occhi, e con il suo Dono. Era stato l'ultimo. «È stato...» Parlò anche lui, mentre scorgeva la Corvonero tornare alle Rune. Voleva essere gentile, voleva chiederle di non preoccuparsi di recuperare tutti i mattoncini che ancora mancavano nel suo sacchetto, voleva semplicemente dirle di poter andare via, se avesse voluto, se avesse avuto altre lezioni, se avesse avuto qualsiasi impegno. Invece, lo sentì. Voleva dirle di attendere, voleva dirle di restare, e non si spiegava di primo acchito il motivo. È stato, aveva iniziato così. Non poté aggiungere altro, e mai come in quel momento la risposta gli parve calzante. Era stato, era ormai stato - in passato, con tutto quello che aveva trascinato con sé, con tutto il dramma che ne era scaturito. Non aveva tuttora parole per descrivere quello che aveva provato. Sollevò la mano destra, ancora stretta alla Runa Kenaz, e la portò al cuore. «Ti ringrazio, Megan. È qualcosa che pochi mi hanno detto, e per me ha valore.» Immobile, strinse un lembo della divisa scolastica, e riprese subito. «Ti prego, lascia perdere le rune.» Una nota delicata, un suono che tradiva tensione e timore. Di un discorso a lungo taciuto, di un incontro a lungo rimandato. «Tu eri lì, eri con me.» Le Rune invitavano a proseguire, le sentiva. «Non ti ho mai chiesto come sia stato. No.» Un altro passo. La danza iniziava, la danza continuava. Si corresse subito. «Non ti ho mai chiesto come tu sia stata, e anche se in ritardo, voglio che tu sappia che mai avrei voluto coinvolgerti in quel modo.» Non è colpa mia. L'aveva detto, l'aveva ripetuto. Alla sua famiglia, a Jasdel, ai Medimaghi. L'aveva sussurrato e l'aveva gridato, l'aveva gridato fino a perderne la voce. Non una sola volta vi aveva creduto.
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| Trovai i miei limiti, ma non i miei confini; si esprimeva così il culto dei misteri, principio e fine, tasselli in congiunzione: le norne soffuse, le luci soffuse, i contatti soffusi. Oltreconfine, prologo e epilogo, la resa dei conti e ancora di più. |
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