Oltreconfine, Privata

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view post Posted on 19/2/2020, 16:52
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Quando anche l'ultimo elmetto dell'armatura al Quarto Piano sembrò sigillarsi per bene, il clangore più acuto a fare da sottofondo, Oliver finalmente poté trarre un respiro di puro, atteso, intenso sollievo. Era tardissimo e bastava uno sguardo veloce alle ampie finestre circolari nel corridoio in cui si trovava per accorgersi di quanto a lungo fosse durata la sua ronda notturna: dall'esterno scivolava infatti un fascio di luce soffusa, così delicata da bagnare appena vetri e pareti. Il Castello accoglieva un nuovo giorno, l'alba si faceva spazio in un intreccio di buio e di colori pastello - l'armonia del rosa e dell'arancio più chiaro, l'ocra desertico sfumava nel bianco più candido, quasi panna, mentre l'azzurro si imponeva sul buio cobalto, e sul nero, e sul porpora tipicamente segreti. Un risvegliarsi, agli occhi stanchi di Oliver, che non aveva paragoni in termini di incanto. Uno spettacolo di bellezza allo stato puro, così genuina da presenziare ogni giorno, tutti i giorni. A dispetto del fisico spossato, delle occhiaie profonde e degli zigomi già più infossati, il Caposcuola si sentì nuovamente meglio, in pace con se stesso come gli capitava di rado. Le marachelle di Pix il Poltergeist potevano dirsi finalmente sistemate, il Quarto Piano tornava ad essere pienamente agibile: tutte le armature che erano state vittime del sortilegio più bizzarro dello Spettro di Hogwarts, in effetti, erano rientrate alle loro usuali postazioni - qualcuna batteva ancora un piede sul pavimento a mo' di marcia, qualcuna invece digrignava in un martellare continuo, e già più flebile. Tutto sommato, non era stato troppo complicato, anche se il tempo si era mostrato tiranno; con la cravatta rosso-oro in parte slacciata, un ciuffo di capelli più in disordine del solito e il corpo temprato da ore e ore in piedi per porre un freno ai disagi che Pix aveva creato, Oliver sentiva l'impellente necessità di bere un doppio, forse triplo caffè e di mettere qualcosa sotto i denti. La visione dell'alba lo cullò invece con infinita dolcezza, quasi una ninnananna, e al cremisi del cielo il giovane Caposcuola si lasciò cadere accanto un'armatura; vi rivolse il capo lentamente, pelle contro metallo più freddo, e scongiurando ogni brivido sostenne invece l'equilibrio di luci e colori nei cieli di Hogwarts - lì, ad appena pochi passi fuori dalla finestra, un arco verso il mondo. Non si accorse di come gli occhi si stessero chiudendo, ma l'ultimo pensiero prima del dormiveglia andò bizzarramente ad un Cavaliere in acciaio che chiedeva di essere sfidato all'ultimo ferro.

Sì risvegliò per un fastidioso ticchettio che sentiva fin da vicino; gli occhi socchiusi, le palpebre in parte ancora calate, Oliver impiegò qualche istante di più per collegare tutto e ricordare dove fosse finito. Alla fine si era addormentato in un corridoio del Quarto Piano del Castello, proprio accanto una di quelle armature che aveva bloccato a colpi di bacchetta: in effetti era proprio quella, in quel momento, a battere meccanicamente con un braccio metallico sulla testa del Grifondoro. Un ritmo ben scandito, tic tic tic, e soltanto una buona dose di pazienza e la certezza di aver recuperato energia permisero ad Oliver di non sfoggiare la peggiore vendetta. Avrebbe tanto voluto trasfigurare l'armatura in uno spaventapasseri di paglia, invece si sistemò in piedi e si diresse a passo rapido verso il corridoio sulla destra; il sole era ormai sorto da un pezzo e recuperando l'orologio da taschino che Aiden gli aveva regalato lo scorso Natale, per Oliver fu un'amara rassegnazione scoprire di avere soltanto quindici minuti per la prima lezione della giornata. Si chiuse nell'Ufficio dei Caposcuola - una parte di sé rimpianse di non essere andato lì per un riposo più tranquillo, d'altronde era sullo stesso piano -, e si affrettò a cambiarsi e sistemarsi al meglio possibile. La cravatta ben stretta al collo, il completo pulito di camicia e divisa scolastica, la spilla da Caposcuola bene appuntata, un po' di pasta cancella-lividi sulle occhiaie, infine si pizzicò le guance e si ritenne abbastanza soddisfatto con un ultimo sguardo allo specchio. Forse nessuno avrebbe notato la sua stanchezza e quando recuperò un paio di biscotti stantii dal cassetto della scrivania centrale - qualcuno li aveva lasciati lì prima di lui -, si ritenne già più in forma. Raggiungere l'Aula di Rune Antiche per la prima lezione non risultò difficile, un pizzico di fortuna si delineava ancora una volta e ancora una volta la stanza si trovava infatti sullo stesso pianerottolo. Forse, si disse, era la compassione di Hogwarts dopo una notte insonne. Con la borsa a tracolla piena di libri e il sacchetto di rune sacre nella tasca della divisa, di lì a breve Oliver entrò in perfetto orario - pochi secondi al suono della campanella - e si affrettò a prendere posto verso uno dei banchi più indietro, alle ultime file. Il manuale di testo si aprì alla pagina della lezione del giorno, mentre altri studenti si preparavano e sistemavano a loro volta. Quello era un corso che Oliver aveva scelto con cognizione di causa: un po' per passione per le arti mistiche e i segreti che le rune celavano agli occhi di tutti, un po' per innata curiosità. Un po', ne era sempre più convinto, per la speranza di coglierne un sostegno vero e proprio per la Vista che aveva ereditato da tempo; aveva seguito il consiglio di alcune persone a lui care e subito dopo l'istinto si era reso conferma assoluta: le rune antiche avrebbero potuto aiutarlo più di qualsiasi altra cosa, forse più degli affetti più vicini. Al di là della verve divinatoria che si trascinavano fin dagli albori più remoti, i messaggi che veicolavano si ponevano ai suoi occhi come rivelazioni piene, preziose a più non posso: rivelazioni continue, per giunta, e in quello studio ora sempre più maturo, il Veggente sentiva una precisa appartenenza. Mentre spingeva la boccetta di inchiostro sul tavolino, poco più avanti della piuma già ricaricata, e mentre il blocchetto di pergamene si sistemava al centro per gli appunti della Docente Bennett, il Caposcuola percepiva la stanchezza farsi strada altrove, in una distanza che portava con sé il frutto dell'attenzione più necessaria. Non una sola lezione di quella disciplina aveva deluso le sue aspettative, non fino a quella volta, e più vi si invischiava, più ne comprendeva il potenziale - per lui, forse, più di chiunque altri. In passato c'era già stato qualcuno che lo aveva insignito di una conoscenza di valore in quel campo: gli amuleti lungo il corpo e altri nei cassetti in dormitorio, le rune incise su abiti che avevano conquistato il suo gusto, tutto era prova di un interesse ben più viscerale di quanto potesse lontanamente testimoniare. Il sacchetto di rune antiche che aveva con sé quasi ogni giorno, per giunta, apparteneva soltanto a lui e alla natura più intima di cui era portavoce: un dono importantissimo che Sirius, suo mentore, gli aveva fatto tempo addietro; un dono di rune all'apparenza semplici, come tante altre, ricamate tuttavia sul legno di biancospino, il legno pregiato, il legno candido - il legno, Oliver lo sapeva, consacrato ad un bagno di luce lunare, così da divenire esse stesse Divenire.
Le rune mantiche, le rune sacre. Sentì in lontananza un suono di pagine che gli rimandò al gracchiare di un corvo, in modo curioso per giunta; l'Aula si stava riempiendo, la lezione poteva iniziare, e i posti più avanti erano ormai stati occupati. Al suo fianco, invece, un banco libero: approfittò di quel momento solitario, lontano da occhi indiscreti, e recuperò il sacchetto di rune sacre; non iniziò alcuna lettura, nonostante avesse imparato a riconoscerne l'ausilio con estrema attenzione. Al contrario, ne estrasse appena una solitaria, la prima in superficie, un po' casuale come gesto: un tassello di legno con l'incisione di una linea verticale, piegata agli estremi - di inizio e di fine - con quella che appariva come un'appendice laterale.
«Perthro» sussurrò. La runa dei confini e dei suoi opposti, la runa degli esordi e degli epiloghi più prossimi; il passato che tornava a farsi vivo, a battere alla propria porta, un colpetto secco come il fruscìo di una pergamena antica e nuova insieme: si rendeva presente, annunciava il futuro, la runa era congiunzione tra l'uno e l'altro tempo. Deglutì, rigirandosi Perhtro tra le mani, incurante per un attimo di qualsiasi altra cosa. La runa oltreconfine.

Trovai i miei limiti, ma non i miei confini; si esprimeva così il culto dei misteri, principio e fine, tasselli in congiunzione: le norne soffuse, le luci soffuse, i contatti soffusi. Oltreconfine, prologo e epilogo, la resa dei conti e ancora di più.
 
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view post Posted on 4/3/2020, 23:07
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La guancia posava sul palmo sinistro della mano. Megan osservava assopita il cucchiaio girare nel caffellatte, concentrandosi sul piccolo mulinello creato dal movimento. Avrebbe voluto dormire di più ma le circostanze non le avevano permesso di chiudere occhio la scorsa notte. Era stata costretta a chiedere un cambio per la ronda, la nausea le aveva dato il tormento, e solo dopo aver fatto visita in infermeria era riuscita a trovare un po’ di pace. L’intruglio amaro era andato giù con estrema difficoltà, Miss Jolene le aveva garantito che sarebbe presto passata e non aveva avuto altra scelta che fidarsi. Dopo aver passato ore ad osservare il cielo nel dormitorio, ricordando a memoria le pieghe delle tende che posavano sopra al baldacchino, aveva finito per addormentarsi. La mattina era arrivata solo qualche ora più tardi, un paio forse, e Megan era stata svegliata dalla luce del sole che, filtrando dalla finestra, le fece strizzare gli occhi infastiditi. Così era cominciato la giornata, non nel miglior modo possibile; Grace aveva già iniziato a parlottare fastidiosamente dalle prime luci dell’alba e non aveva smesso nemmeno lì, in Sala Grande, mentre lo sguardo di Megan era assorto fra pensieri confusi.
«Meg? Megan! Mi stai ascoltando?»
La voce della compagna la fece sussultare appena ma non si mosse da quella posizione comoda. Ebbe solo la buona cortesia di alzare lo sguardo su Grace con le sopracciglia aggrottate, giusto per farle capire che l’aveva sentita dopo l’ennesima chiamata.
«Sinceramente? No. Vuoi i miei appunti di Pozioni? Eccoli ma basta parlare ti prego» aveva risposto arresa, prendendo dalla sacca ciò che la compagna le aveva chiesto sotto le righe.
«Non voglio niente in cambio. Il tuo silenzio può bastare» aveva concluso tagliente. Un finto sorriso accentuò l’espressione irritata senza dare modo alla compagna di replicare. Grace si chiedeva se stesse solo scherzando ma nel dubbio afferrò le pergamene precipitando nel silenzio, nessuna sillaba fuoriuscì più dalle sue labbra.
Megan non si preoccupò affatto delle proprie azioni, di averla offesa in qualche modo, finì per sentirsi sollevata e basta. Grace aveva la capacità di farla innervosire in una sola manciata di secondi; la maggior parte delle volte cercava di evitarla ma la sera, fra le mura della torre, non aveva mai scampo.
Alzò la testa e tornò seduta composta, poi bevve un sorso del liquido amaro nella tazza e addentò il pane tostato con il burro d’arachidi. Il cibo le aveva dato un po’ di colore: la pelle pallida, bianca come il latte, iniziava ad arrossarsi leggermente sulle gote. Lo spruzzo di lentiggini, tuttavia, era ancora molto evidente e le regalava un volto nuovo insieme agli occhi che, dal color cobalto, avevano assunto sfumature chiare, tendenti al grigio. La stanchezza, però, era perspicua, nonostante l’accurata precisione nel mascherare le occhiaie con un trucco leggero, il gonfiore sotto le palpebre le spegneva lo sguardo.
«Ma tu non hai una lezione di Rune?»
L’attimo di quiete fu interrotta dalla domanda di Grace che con un sorriso in tralice le aveva restituito un favore. Certo a suo modo, sapeva perfettamente quanto la diligenza fosse per Megan cosa cara e si era ben vista nel ricordarle la faccenda nello stesso istante in cui la lezione avrebbe dovuto avere inizio. Una piccola vendetta?
Megan con uno scatto finì per rovesciare la tazza sul tavolo. «Cavolo! Che ore sono?»
«E’ iniziata, faresti bene ad affrettarti che il quarto piano è lontano» replicò la studentessa alzando le spalle, non si era scomposta minimamente. In risposta Megan la guardò truce e bastò per far calare nuovamente il gelo.
La scelta di seguire il corso di Rune fu decisa dalla Corvonero solamente dopo il Barnabus. La prima prova aveva lasciato in lei ricordi terribili proprio a causa della mancata conoscenza di quella materia. L’enigma finale le aveva chiesto qualcosa di semplice, ad oggi poteva esserne certa, e lei per la sua impreparazione – che mai si era perdonata – aveva finito per fallire. In parte, però, doveva essere grata di aver avuto un’occasione come quella, ad oggi Rune Antiche era una delle sue materie preferite.
Con la borsa a tracolla e a passo svelto Megan percorreva i lunghi corridoi senza degnare di alcuno sguardo le persone che incontrava. Aveva rischiato di prendere in pieno due Tassorosso e di finire a terra inciampando sul selciato irregolare.
Quando mise piede al Quarto Piano si ricordò di prendere un profondo respiro. Il cuore batteva agitato, tornando regolare nel momento in cui fece la sua entrata nell’aula.
La lezione aveva da poco preso piega e la presenza improvvisa del Prefetto fu motivo di distrazione per gli studenti.
«Professoressa, perdoni il ritardo» disse Megan riprendendo il pieno controllo delle proprie capacità psichiche e fisiche. «Scusate l’interruzione» aveva poi rivolto lo sguardo ai presenti con un sorriso di circostanza; sempre sicura di sé mentre dentro moriva. Non si era mai sentita così in imbarazzo come in quel preciso istante, il centro dell’attenzione non era il suo luogo preferito, anzi.
Pochi istanti e tutto tornò alla normalità, tanto da permetterle di cercare un posto senza alcuna pressione.
I banchi erano tutti occupati ad eccezione di uno soltanto fra le ultime file. Lo sguardo del Prefetto non mancò nell’individuare chi occupava, verso la sua direzione, il lato esterno: Oliver Brior.
Le labbra si schiusero e il panico sopraggiunse. Per Megan non fu facile mantenere il controllo mentre, spinta dall’obbligo, prendeva posto affianco al Caposcuola.
Le mani tremavano, impercettibili, solo occhi vicini avrebbero potuto accorgersi del lieve movimento. Cercava di controllarsi e lenta posò tutto l’occorrente sul banchetto. Non disse una sola parola, si limitò a portare le mani lungo le gambe e, rigida, rimase immobile. Gli occhi fissavano la giovane insegnante, la mente era altrove.
Dal giorno del Ballo delle Rose e delle Spine, Megan aveva sempre evitato Oliver, anche quando situazioni di responsabilità scolastiche richiedevano la presenza di entrambi nella stessa stanza; rimaneva da una parte, spesso nel lato opposto, ben attenta a non incrociare il suo sguardo.
Da quando lo aveva visto a terra in quello stato, Megan ogni volta che aveva avuto il coraggio di avvicinarsi per chiedergli come stava provava la stessa paura, angoscia; lo stesso orrore. Tornava sempre a fare un passo indietro, sconfitta dal fatto che fosse solamente una codarda. Tuttavia, non lo accettava e questo alimentava la frustrazione, la rabbia.
Era cosciente del fatto che Oliver stava bene ma non riusciva a vedere altro che la proiezione di quell’immagine terribile. Lo vedeva sempre su quella pista, illuminato dal bagliore di una luna velata da nubi improvvise, inerme, in una pozza di sangue.
Lui era lì adesso, al suo fianco, ma aveva timore di guardarlo. Allo stesso modo aveva bisogno di farlo.

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view post Posted on 17/4/2020, 11:27
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Un singulto, il tremito del cuore; continuò a stringere la Runa del Viaggio tra indice e pollice della mano destra, la pressione si fece sempre più intensa e le nocche sbiancarono in quel modo da un punto all'altro - seguì l'effluvio del rosso bagnarsi di bianco, mutare in candore, in visione eterea, mentre il battito fin nel petto scandiva un ritmo delineato, ben cadenzato. Il pugno chiuso, il palmo così stretto, apparve come una prigionia, e la Runa ne fu vinta e costretta per tutto il tempo; più cercava di avvinghiarla, più la superficie spigolosa puntellava la pelle del ragazzo. Gli parve di essere alla mercé di uno scontro: lui, il Veggente; Perthro, il Destino. In quel mutamento, in quella cornice d'insieme, non c'era equilibrio e prima o poi, Oliver lo sapeva, uno tra loro due avrebbe dovuto compiere un passo indietro. Non comprendeva pienamente il fastidio che aveva coinvolto il suo animo, fin nel profondo, alla scoperta di Perthro. Una runa tra le tante, di certo una tra le più complesse, ma restava all'occorrenza un rettangolino di legno con un'incisione in superficie. Agli occhi del distratto Osservatore, Perthro non avrebbe significato nulla, e il manufatto sarebbe tornato ad essere tassello di un puzzle di per sé già compromesso. C'era altro, però; quelle Rune, quel legno che vestiva ogni occulto potenziale, tutto quello era più prezioso di quanto si potesse immaginare. Sul banco di studio, lì nell'Aula di Hogwarts, c'era infatti una coppia di sacchetti - e di per sé apparivano identici, tanto nella forma quanto nella posizione, ad eccezione di un filo a chiuderne i lembi, un colore scuro sull'uno e un colore bianco sull'altro. Le prime, Rune comuni; le seconde, Rune sacre. Quella che stringeva convulsamente nella mano destra, come prigioniero, era stata realizzata dagli artigiani più esperti: la corteccia di Biancospino, albero singolare per una e più mistiche ragioni, ne preservava i confini magici più vividi; bagnata al chiarore di una notte di Plenilunio, la Runa - come le altre, in parto gemellare - si era resa così portavoce della Divinazione dei Tempi. In quella trama, in quella peculiarità, si esprimeva la differenza con le altre rune, nel primo e comune sacchetto, tutte in legno. Perthro, per giunta, aveva cominciato ad inseguirlo. Come una preda, come un cacciatore, e l'una e l'altro convivevano in un moto che aveva esordio, ma non epilogo; Oliver aveva indagato uno e più pensieri, aveva porto ascolto alle sensazioni, aveva assecondato i presentimenti più reconditi, invano. Il segreto confinante in Perthro, in quella Runa da Divinazione, restava invalicabile perfino per lui. C'era un messaggio, c'era un Velo, ed era oltreconfine. In lontananza, la voce dell'Insegnante parve per Oliver un'eco distante, come un canto in sottofondo; percepì invece altro, ben più intenso, e un pizzicore dolciastro coinvolse il naso in un fremito, e dischiuse di pari modo la bocca in un sospiro spezzato. Profumo di Biancospino, gli parve, e si chiese se non provenisse proprio dalla Runa che aveva catturato. Chiuse gli occhi, un fremito di palpebre, in modo distratto; provò a padroneggiare il momento, a perdersi e ritrovarsi, ma un fruscìo indistinto al suo fianco attirò ogni attenzione e pose così ogni senso in allerta. Non si era accorto di una figura accanto né di come la lezione fosse ormai avviata; nel singulto di sorpresa che ne conseguì, la mano di Oliver scattò improvvisa: come scrigno e tesoro insieme, la Runa vestita di bianco si liberò in fretta, guadagnò dimestichezza di spazio e di tempo, e rotolò fino al banco vicino. Quando il Caposcuola sollevò lo sguardo, si accorse di riconoscere nel volto dell'altra una figura familiare. «Megan» Mormorò il suo nome, una nota di sorpresa. Non avrebbe dovuto, in effetti, come Grifondoro era abituato a seguire lezioni di Rune Antiche con i Corvonero. Era stato tuttavia sovrappensiero, fin troppo, e gli strascichi delle sensazioni precedenti restavano sospesi a mezz'aria, fin nel petto e nella mente. «Abbiamo appena iniziato, pagina venti.» Si sistemò meglio sulla propria sedia, tornando al suo manuale, già aperto all'Invocazione Istantanea come argomento del giorno.
«È bello rivederti.»
Non riuscì a spiegarsi perché quel commento; aveva avuto modo di scorgere la ragazza in giro per il Castello, e in Sala Grande, più di una volta: Megan Haven era Prefetto di Priscilla, e di certo non era un volto sconosciuto ai più, men che meno a lui. Aveva tuttavia sentito il bisogno di dirlo; la consapevolezza di poter tornare lì, a quei ricordi, era nitida come l'incubo peggiore. Si concentrò sul Manuale di Rune, per un attimo dimentico perfino del Destino di Pertrho, sul banco della compagna.
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Si preparava da mesi a quel momento e mai era stata realmente pronta, men che meno fronte a quella situazione improvvisa che complicava ogni cosa. Per quanto desiderasse liberarsi da quel peso, non riusciva mai ad essere pronta per farlo. Oliver le era affianco e lei non faceva altro che mettere un muro spesso, invalicabile.
La lezione proseguiva calma. Gli interventi dei vari studenti diedero vita a un vero e proprio dibattito che in parte rispondeva alle domande di molti. Cosa rappresentavano le Rune? V’era forse un vero senso logico dietro a quei simboli? Megan continuava a esserne tormentata.
Vivevano ancora in lei i ricordi degli incubi dopo la prima prova del Barnabus. Il rimpianto di non aver saputo superare quella sfida, la mancata conoscenza delle rune che sarebbe stata l’unica soluzione di un enigma semplice, nascosto dietro altre scritture; il mostro che alla fine l’afferrava portandola con sé. Il senso di angoscia e di terrore provati in quelle notti avevano preoccupato le compagne di stanza. Ricordava Alice averle portato un bicchiere d’acqua, una delle notti peggiori: Megan occupava un angolo del letto, in posizione fetale stringeva le gambe al petto terrorizzata.
L’anima si corrodeva lentamente, senza tralasciare alcun dettaglio.

Lo sguardo della Corvonero volgeva in avanti, trovando distrazione nei movimenti che si mischiavano nell’ambiente. Il picchiettare lento della punta di una piuma, il suo frusciare su una pergamena; il movimento tamburellante di dita annoiate. Poi, la studentessa venne distratta dal suono che si propagò al di sotto del mento e posò gli occhi alla ricerca del responsabile. Una pietra bianca, un porta verso il destino, la Grande Madre: Pertrho.
«E’ bello rivederti!»
Un sussulto, Megan trattenne il respiro per qualche secondo prima di incrociare gli occhi del Grifondoro. Abbozzò un sorriso nervoso mentre la mano destra strinse fra le dita la runa. «Anche per me» rispose.
Come si sentiva in quegli istanti non parve lasciare spazio ad un unico aggettivo: colpevole. Il cuore in tumulto le arrivò in gola. Pochi secondi ancora e tornò a guardare in avanti, chiudendo quegli istanti di lettura. «Ti è scivolata questa» Megan sollevò la mano e portò il palmo verso l’alto. Le dita si schiusero liberando la Runa, mentre la freddezza della voce aveva aveva reso chiaro il suo distacco.
«Buona lezione, Oliver» concluse.
Poco più di un quarto d’ora li distanziava dalla fine dell’ora. Megan sarebbe rimasta in silenzio mentre i pensieri gravavano nella sua mente, dandole senso di nausea.
Pensava di aver chiuso e invece le sensazioni provate le suggerivano altro. Suonata la campanella avrebbe preso le sue cose sparendo dalla vista di tutti, lasciandosi di quel breve incontro solo l’amaro in bocca che difficilmente avrebbe mandato giù. Eppure questa volta l’istinto le suggeriva altro, la consapevolezza di voler chiudere quella pagina definitivamente, lasciando che tutto le scivolasse addosso. Si affidò al codice etico che le era stato insegnato: doveva essere giusta, rispettare ciò che le era stato detto e andare avanti impassibile agli eventi. Scusarsi probabilmente era la soluzione, questione di prendere l’orgoglio fra le mani e gettarlo a terra; indossare una maschera ben salda e mantenerla fino alla fine.



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Alle prime, semplici parole di Megan, sentì il desiderio di voler aggiungere qualcosa. Anche se banale, anche se superficiale, perfino se fuori dal contesto: a dispetto di tutto il suo carattere, dello stile pacato dei suoi movimenti, il corpo tradì una stilla di tensione. Forse, si disse, non era più abituato al silenzio, non da quando aveva avuto modo di viverlo, sperimentarlo, combatterlo sulla propria pelle. Era stato un compagno di lunga data, per più di due mesi: una presenza che non aveva stimato neanche una volta, e che mai, mai per davvero aveva chiamato all'appello. Mentre la lezione prendeva il suo corso e le parole dell'Insegnante si ponevano come guida dell'argomento, Oliver si ritrovò sovrappensiero. Non era la prima volta, era già capitato: quando tentennava, per una ragione o per un'altra, comprendeva il pericolo di un traguardo. Dove quelle riflessioni avrebbero potuto condurlo, in che tempo avrebbero potuto trascinarlo - per uno come lui, era il divario assoluto, l'estasi di raggiungere un confine inesplorato, la condanna di esserne appena osservatore. Quanto era accaduto in passato, in effetti, altro non era che una di quelle conseguenze estremizzate: per volere del Destino, forse; per casualità, più probabilmente. L'ordine ammetteva il libero arbitrio, l'aveva sempre saputo: Oliver non credeva affatto alle coincidenze, non ne era più stuzzicato come da bambino, perché il peso che aveva acquisito come eredità vera e propria aveva saputo aprire tutta una serie di spiragli nuovi. Quello che aveva vissuto l'Estate precedente era soltanto la goccia di un vaso traboccante, ma rinnegare la consapevolezza che fosse stato già riempito, per lungo andare, sarebbe stata una sconfitta anche per lui. Quello che si ripeté in quel momento, nell'aula di lezione, era quello che già aveva avuto modo di considerare, per molti giorni e infinite altre notti: era lì, al Ballo di Fine Anno, al momento sbagliato e al posto sbagliato. Tutti quelli che avevano visto, tutti quelli che poi avevano parlato, tuttora Oliver si chiedeva quanti avessero colto almeno una parvenza di verità, e quanti si crogiolassero nell'indifferenza verso la sua persona, verso l'esito della sua stessa incolumità. Si domandò se Megan pensasse a quell'episodio tante volte quanto lui; e se, come Oliver, anche la Corvonero vivesse talvolta l'incubo di quell'incontro, di quell'ultima danza, una danza mai portata a termine. Nessuno lo sapeva, neanche i suoi concasati con i quali condivideva il dormitorio, ma sotto gli strati di piume, boccette d'inchiostro ricaricabile e carta pergamenata, si nascondeva un rametto di biancospino, lo stesso che Oliver aveva indossato come decorazione dell'abito estivo, proprio alla festa. La corona si era spezzata, probabilmente nella caduta seguita alla perdita dei sensi, poco dopo aver compiuto la Profezia; i due punti estremi non formavano più il cerchio perfetto cui erano stati destinati, e sembrava più una freccia scoccata. Là dove si era impigliata alla spalla della giacca bianca indossata, scivolando così dal capo verso il basso, la corona di biancospino non aveva abbandonato il giovane Veggente, e l'aveva accompagnato fino all'Infermeria - il corpo sospeso dai filamenti lanuginosi dell'incantesimo dell'Auror Weiss, seguito da Jolene White. Sulla corolla di petali bianchi, così luminosi, era scivolata una goccia vermiglia: il sangue aveva bagnato un fiore, in solitaria, e tanto era bastato per rovinare l'armonia dell'ornamento. Quando si era ripreso in Infermeria, a tarda notte, aveva dovuto cambiare i propri abiti a favore di una veste più leggera, molto più comoda. Il sapore del sangue, però, era rimasto insieme a quello delle ferite, del timore, della solitudine soprattutto. Nessuno lo sapeva, ma quella corona - ancora macchiata - era stata conservata con attenzione, e mai più ripresa dal terzo cassetto, insieme agli strumenti da scrittura e da studio. In fondo, più in fondo di tutto il resto, ma sempre presente. Il breve scambio di battute tra lui e Megan aveva aperto una voragine tra pensieri e ricordi, e soltanto quando la ragazza parlò di nuovo, Oliver scattò sull'attenti. Si accorse di aver perso effettivamente una Runa che gli apparteneva, avrebbe riconosciuto il legno più lucido e candido del biancospino tra molti altri: quelle Rune, quelle erano preziose, più di quanto si potesse immaginare. Ringraziò con un cenno del capo, riprendendo controllo del momento e accettando con gentilezza la restituzione del piccolo oggetto. In superficie, stilizzata e impressa poi fino in fondo, Perthro si rivelava ancora una volta. Era di nuovo lei tra tutte, la Runa dei Segreti inviolabili, la stessa che aveva ritrovato in primo piano pochi attimi precedenti. Non riuscì ad aggiungere molto, e lasciò che l'esercitazione dell'Insegnante colmasse qualsiasi altro prosieguo.
Man mano che la lezione procedeva, Oliver sentiva di essere sempre più distratto. Aveva riposto con cura la maggior parte delle Rune di Divinazione di nuovo nel sacchetto giusto, lì sul banco, e aveva preso pochi, frettolosi appunti sull'argomento in corso. Avrebbe approfondito con maggiore lucidità, una volta di rientro in Sala Comune e qualora necessario, avrebbe fatto un salto anche in Biblioteca già quel giorno. Abbandonò un paragrafo per andare a fondo libro, all'ultima pagina, dove il dizionario runico indicava significati, definizioni e precisazioni di ogni elemento dell'alfabeto futhark. Alla fine, trovò quanto desiderato, e lesse rapidamente.
Perthro o Perth, la Runa Segreta. In relazione con il Destino, permette di entrare in contatto con le Norne - equivalente semantico delle Moire e delle Parche. [...] Runa nascente, runa della rinascita, sul piano fisico e sul piano spirituale. Il Presente come punto di partenza verso i misteri futuri, Perthro come Runa dell'iniziazione. Alla sua lettura si rinnova...
Alla fine dell'esercitazione, si accorse di un certo movimento in classe e di come si fosse estraniato troppo per poter seguirne come avrebbe dovuto. Abbassò lo sguardo sul libro, e pregò intensamente che la Docente non chiamasse il suo nome, per nessuna ragione al mondo. Più si procedeva, più il tempo della lezione scorreva, e da un argomento all'altro il quadro generale fu ben delineato anche quel giorno. Quando finalmente suonò il campanello, Oliver trasse un respiro di sollievo e sistemò tutte le cose - astuccio, piume, boccette, libri e rune classiche nella borsa a tracolla, preparandosi ad uscire dall'aula. Ripose Perthro nel sacchetto giusto, l'unico che tenne stretto nella mano destra ancora per un po'. Quando gli studenti cominciarono a lasciare la stanza, cercò la figura di Megan prima che potesse perderla pienamente di vista. Avrebbe voluto raggiungerla, qualora fosse stata già più avanti di lui. Aveva come l'impressione che il silenzio fosse stato troppo intenso per quell'incontro, e a prescindere da qualsiasi sottinteso, non voleva che restasse così. In più, doveva ammetterlo, aveva bisogno di sapere quale fosse stato l'assegno per la lezione successiva, distratto com'era. Appena fuori la porta però sentì di essere travolto da un tornado in piena, spinto leggermente di lato dalla furia di un paio di studenti. Non riuscì ad individuarli né a riconoscerli, perché correvano così velocemente da non guardarsi indietro: uno dei due parve gridare anche qualcosa come "scusa davvero", ma il danno era tratto. Nel trambusto creatosi, Oliver per fortuna aveva fatto peso sul piede destro e si era ritrovato con il sostegno laterale del muro; era incolume, sebbene infastidito, ma aveva perso l'aggancio sul sacchetto che stringeva nella mano destra. Scivolando in basso, poco più avanti, liberò tutto il suo contenuto ancora una volta. Slacciato com'era, era prevedibile: ancora una volta, le rune di biancospino - brillanti come frammenti, di vernice bianca - si sparpagliarono ovunque sul corridoio, sotto lo sguardo di alcuni studenti. «Maledizione
Alcune tra le rune si erano spinte ben oltre, e alla fine - ironia della sorte - un paio potevano essere arrivate prima di lui dalla Corvonero che avrebbe voluto raggiungere. Alle coincidenze infinite, Perthro era di nuovo visibile. La più lontana da Oliver, e forse accidentalmente la più vicina a Megan.
Trovai i miei limiti, ma non i miei confini; si esprimeva così il culto dei misteri, principio e fine, tasselli in congiunzione: le norne soffuse, le luci soffuse, i contatti soffusi. Oltreconfine, prologo e epilogo, la resa dei conti e ancora di più.
 
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Il ticchettio interminabile dell’orologio faceva da sfondo ai pensieri di Megan. L’agitazione non aveva smesso di logorarla, tant’è che per lei fu difficile seguire la lezione. Il foglio di pergamena, che posava sulla superficie del banco, era macchiato d’inchiostro; per lo più frasi incomplete ne ricoprivano la prima metà, frutto di un’attenzione sommaria. Così, prima che il trillo della campanella stabilisse la fine dell’ora, la Corvonero scrisse le ultime insignificanti parole. La calligrafia era nient’altro che un riflesso delle proprie sensazioni: lettere trascritte con un tremolio ben visibile nelle curve di alcune vocali e consonanti. Aveva l’intenzione di volersi dimostrare indifferente, totalmente a proprio agio, ma più andava avanti più sentiva l’agitazione palpitare nel petto, rimbombare nella testa. Era davvero terribile.
Quando la professoressa richiamò all’attenzione l’intera classe, per appuntare i compiti che avrebbero dovuto svolgere nei prossimi giorni, Megan fu scossa da un leggero spasmo che la fece tornare finalmente alla realtà, interrompendo lo stato di catalessi in cui era inabissata. Tutto era finito, ora avrebbe preso le sue cose e sarebbe corsa via trovando rifugio da qualche parte, probabilmente nella sua amata biblioteca. Trascrisse i compiti assegnati lasciando che quel breve lasso di tempo ristabilisse la calma che le apparteneva; l’illusione di averne dentro di sé. Non era stata mai davvero pronta a quel momento, anche se aveva immaginato la situazione in mille modi diversi. Nelle proiezioni di quegli istanti lei era la padrona assoluta e vinceva, non provava nulla; ma adesso le carte venivano mescolate e sollevandole una ad una, non riconosceva quale avrebbe dovuto avanzare per prima, quale avrebbe vinto sull’altra. Sistemò tutto nella tracolla, gesti composti come se nulla fosse davvero successo dentro di lei, come se le acque fossero rimaste placide nel frastuono di una tempesta. Andava via, semplicemente, come aveva sempre fatto.

Muovendo i primi passi, allontanandosi dal banco, Megan salutò con un cenno del capo alcuni studenti Corvonero. «Meg, approfittiamo di queste due ore di buco, vieni con noi?» Abigail si era piazzata davanti a lei bloccandole l’uscita. «Veramente ho delle questioni da sbrigare e questo tempo è oro. Ti ringrazio, comunque.»
Il sorriso cordiale non mancò e la giovane compagna le restituì la stessa identica smorfia in segno di comprensione, così Megan varcò la soglia tornando finalmente a respirare. Pochi attimi di quiete, che furono interrotti da una corsa sfrenata di alcuni ragazzi, e il caos si propagò alle proprie spalle. Un suono simile al tonfo di una decina di sassi sul pavimento che portò inevitabilmente Megan a voltarsi in direzione dell’accaduto.
«Maledizione.»
Oliver si trovava dietro di lei, appoggiato al muro in cerca di riprendere l’equilibrio, mentre il sacchetto delle rune lasciava cadere a terra il proprio contenuto. Megan posò lo sguardo su di lui e poi su alcune pietre arrivate quasi a toccarle i piedi. Ancora una volta potè riconoscere il candido colore di Perthro, la più vicina, e inevitabile fu il fragore che le scoppiò nel petto.
«Che imbecilli! Tutto okay?» chiese d’istinto, mentre lo sguardo di alcuni curiosi posava su di loro. Bastò una semplice occhiata fugace e intensa a sciogliere l’attenzione che sfumò via lasciandoli soli. Lei e Oliver adesso, solo loro, come allora ma in maniera diversa.
Megan compì qualche passo nella direzione del ragazzo, poi piegò le ginocchia afferrando da terra la runa bianca, stringendola fra le dita. «È strano, non trovi?» chiuse il palmo imprigionando la pietra nella mano. «C’è qualcosa… Lei.» trattenne il respiro per qualche attimo, il tempo di riuscire a gestire il tumulto di emozioni che tornavano allo scoperto. «Il destino. C’è qualcosa che devo fare» sussurrò queste ultime parole prendendo consapevolezza di ogni cosa. Aveva taciuto a lungo il dolore provato, peccato di codardia, di rabbia e ora Perthro le stava dando una possibilità. Manciate di secondi a scandire il silenzio che di colpo pesava più di quanto avesse mai provato, lo stesso che amava e che ora non vedeva l’ora di cancellare. Qualcuno doveva fare rumore, ristabilire il caos e fare sì che l’intensità provata cessasse di esistere; adesso. In tal modo, sarebbe scappata ancora, sarebbe fuggita dal destino che le concedeva l’occasione; la stessa che in cuor suo – seppur nascosta – aveva da tempo atteso.
Così, si alzò: il palmo aperto e lo sguardo rivolto su di esso. Megan pensava a cosa avrebbe dovuto dire, o fare e non era sicura di poter avere il controllo questa volta. Gli occhi, colmi di una incontrollata lucidità, si posarono definitivamente su Oliver; l’intenso colore delle iridi cobalto veniva illuminato da una patina lucida e vibrante. Rivivere gli istanti di quella sera ogni volta che vedeva il Grifondoro era tremendo, una parte di lei non aveva avuto più pace da allora; i sogni testimoni.
«Mi dispiace, Oliver» la voce le tremò. «So di non essermi comportata bene, lo so. Solo che… Oh, lascia stare. Sono felice che tu stia bene!»
L'incertezza e la difficoltà provata in quelle poche parole non sfumarono nel mezzo sorriso che, forzato, si fece spazio fra le labbra. Era così estremamente complicato per lei lasciarsi andare e ammettere ciò che sentiva veramente.
Oliver non era niente per lei ma era legata a lui; un filo invisibile tessuto definitivamente quella sera di un’estate non troppo lontana, reciso in parte ma che si teneva ancora ancorato con tutte le sue ultime forze.
Così, provò a distogliere lo sguardo prima ancora che potesse ricevere una risposta. Si piegò e raccolse le altre pietre poco distanti da lei.
Ma cosa sto facendo? Si chiese. Forse stava facendo la cosa giusta dopo tanto tempo.



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In principio, Rune Antiche non era stato un corso che aveva preso in considerazione. Una parte di sé ne era incuriosita, non avrebbe potuto negarlo, e si esprimeva in quel modo con una sete di conoscenza che poneva in allerta tutti i suoi sensi. Fin da quando aveva sperimentato il potenziale degli amuleti nella Stanza delle Necessità, ne era stato attratto intimamente. Il colore adamantino delle monete d'argento che si fondevano le une alle altre, e quello splendente dell'oro che impreziosiva il braciere sempiterno, lo stesso sul quale operava magia antica, magia primordiale, la magia delle rune. Aveva preso forma sotto il suo sguardo inesperto, aveva assistito all'incresparsi delle fiammelle sui metalli preziosi, e in quel funereo incastro aveva sentito il desiderio di saperne di più, di informarsi, di avvicinarsi - in modo tangibile, in modo pieno. Un'altra parte di sé, invece, aveva sussurrato a lungo il pericolo che una disciplina come quella avrebbe portato per lui, e tutto il rischio che ne poteva sempre conseguire. Era lo stesso discorso che aveva compiuto nei riguardi della Divinazione. Un trampolino di lancio, un tuffo giù per la scogliera, e difatti quella che per lui appariva anche come necessità: aveva immaginato di allontanarsene, di studiare da autodidatta, di sfogliare e sfogliare ancora le pagine dei libri d'arte mantica, tutti quelli che aveva. Da Vablatsky a Malécrit, dalla saggistica alla drammaturgia, erano lì i segreti cui si era affidato, ed erano lì misteri che aveva sperato di svelare. C'era stato un tempo, agli esordi, in cui aveva pensato di poter continuare su quella scia, di non dover frequentare né Divinazione né Rune Antiche, di poter fare tutto da sé. Lui, studente attento, aveva saltato i primi giorni dell'uno e l'altro corso, in bilico tra volontà e preoccupazione. Perché era evidente, e sempre lo sarebbe stato: attingere al Divenire, in luoghi dove i confini risultavano così labili, era per lui estasi e condanna. Le discipline che infine aveva scelto nel suo percorso scolastico erano di gran lunga quelle in cui sentiva di avere più affinità, la prima in particolare: ma era altrettanto chiaro, per lui, di dover prestare un controllo maggiore, di continuo. Non avrebbe potuto lasciarsi andare, e mai - forse - avrebbe potuto essere se stesso, in un'aula che pullulava di studenti, di presenze, e almeno in parte di incomprensioni. Le Rune spaventavano il suo cuore, in quel risveglio che affascinava e tormentava insieme, in quel risveglio che lasciava un segno. Poteva accadere in ogni circostanza, in ogni incontro: mentre si esercitava con un compagno di banco, mentre rispondeva ad una domanda del Docente, già mentre slacciava il sacchetto che conteneva le sue rune. Le stesse, in effetti, che aveva perso in quel momento - le vedeva, alcune vicine, altre così lontane. Si disperdevano in una ragnatela indistinta, da un capo al successivo, all'apparenza in una geometria indistinta. Ma percepiva, percepiva un canto unanime - le Rune stavano parlando, era come se stessero indicando qualcosa. Un segreto, un sussurro, un messaggio - le Rune comunicavano. Si accorse di essersi fermato, di scatto. Era il preludio di una rivelazione, com'era stato, come sempre sarebbe stato. La voce di Megan, poco distante, lo raggiunse come una carezza, e cullò in sé la promessa di una scoperta, e di una gentilezza. Un cenno del capo, leggero: stava bene, e gli studenti che lo avevano spinto - forse involontariamente - già non erano più nel suo raggio visivo, e forse mai lo erano stati. C'era lei, lì di fronte. C'è lei, sentì dirsi. In solitudine, tacitamente, un pensiero tra molti altri. Da lungo andare Oliver non credeva più alle coincidenze, non credeva neanche più agli incontri fortuiti. C'era qualcosa, qualcosa di profondo. E se solo avesse porto ascolto, avrebbe potuto carpirne ogni altra litania, ogni altra confidenza. Le Rune dialogavano, oramai libere, non più ignorate; era come se avessero custodito una confessione, un punto di contatto, e in quel senso erano finalmente pronte all'ultima manifestazione. C'era lei, lì di fronte. C'era lei. Riusciva a vederla anche senza sollevarne il volto, riusciva a catturarne la figura, il lineamento di stile, l'eleganza che una persona come lei indissolubilmente ricamava, e già vestiva. Riusciva a vederla, al confine tra i tempi. Si scoprì attratto, forse più di quanto non gli fosse mai capitato. Il Culto dei Misteri danzava lì, nel corridoio assente: tra Oliver e Megan, tra loro. Ed era una danza che non era mai iniziata, una danza che riprendeva dal passo d'esordio. «Un viaggio.» Si portò in piedi, alcune rune tra le mani. Lasciò che scivolassero nelle tasche, alla rinfusa: le avrebbe sistemate e riposte per bene nel sacchetto d'appartenenza, a suo tempo. Aveva invece commentato in fretta, in un soffio di voce. C'è qualcosa che devo fare, aveva detto Megan. C'è qualcosa che devo fare, ripeté tra sé.
«Hai un viaggio in programma?»
Un primo, timido sorriso. Appena abbozzato, catturava una nota di gentilezza sul viso del Caposcuola Grifondoro. Quella Runa, tra tutte, ritornava anche da lui di continuo: in avanscoperta rispetto alle altre, ogni volta che scioglieva il nodo del sacchetto che le conteneva; ogni volta che interrogava i misteri antichi, e ogni volta che chiudeva gli occhi. Era lì, Perthro. Come una vecchia, fidata presenza, e attendeva soltanto di essere compresa, di essere accettata. Le parole della Corvonero, subito dopo, spiazzarono ogni equilibrio: sulla sua bocca il sorriso si tinse di amaro; incontrollabile, il cuore riprendeva un battito più intenso, più deciso, mentre la gola tendeva in costrizione. Non si accorse di come stesse trattenendo il respiro, di come ad un tratto tutto il suo corpo stesse mandando segnali, di come la pelle pizzicasse di un brivido, e di come - ancora - si fosse immobilizzato. Quando la mano destra sfiorò la cerniera della tasca, là dove aveva appena riposto alcune tra le rune recuperate, Oliver bloccò indirettamente anche quella. Le dita si strinsero, si chiusero le une sulle altre, in preda ad un moto che comprendeva. Quello era per lui un argomento taboo. Né Penny né Herbelia gli avevano mai chiesto di parlarne, né i suoi più fidati amici né ormai la sua stessa famiglia. Era un'ombra che mutava in segugio, e anche quando chiudeva gli occhi - affidandosi al riposo della notte - la pace si tempestava di incubi passeggeri, di gemiti, di singulti. Quello che aveva visto, quello che aveva sperimentato su di sé, quello che era infine accaduto - il tormento aveva il prezzo del silenzio, e trascinava tuttora il sacrilegio di un'esperienza che lui, volente o meno che fosse, non avrebbe mai potuto dimenticare. Si accorse di come le nocche fossero sbiancate, nella stretta del palmo destro. C'era qualcosa, lì racchiuso, perché faceva male: volse lo sguardo in basso, sentendo la testa esplodere in un pacato, estremo silenzio; quando aprì la mano, scoprì una runa superstite, una di quelle che aveva recuperato poco prima e una di quelle che avrebbe dovuto sistemare nella tasca con le altre. Ma le parole di Megan lo avevano fermato, e rapide avevano attirato ogni attenzione. Sulla pelle arrossata dalla presa di ferro, un simbolo semplice, appena un angolo, svettava in inchiostro scuro sul legno di biancospino della runa.
Kenaz si ridestava, si esprimeva come scintilla nascente. La Runa della Fiaccola, la Runa del Fuoco - controllato, luminoso, iridescente, più delicato dei suoi corrispettivi, più intenso di molti altri. Ricordava il suo valore, ricordava il suo significato: la Runa dell'Illuminazione, la Runa della Guarigione. Rischiarava il buio in uno e più miti, e attendeva di essere colta, di essere accudita: solo in quel caso si rendeva fertile, e solo in quel caso si rivelava curativa. Chiuse il palmo, di nuovo. La Runa Kenaz si nascose così, sulla pelle, e sottopelle. Gli parve un segno, a sua volta, a dispetto di ogni fede e titubanza che potesse avere al riguardo: Kenaz, tra tutte, era la sopravvissuta. Il cambiamento si cristallizzava lì, nel corridoio. Di nuovo, di nuovo.
Quando parlò, avanzò di un passo. Piccolo, leggero, minuto - un passo di danza, Kenaz da un lato, Perthro dall'altro. Per un attimo gli parve che il ballo di fine anno, al quale lui e Megan erano stati destinati, si stesse infine portando a compimento. Di pari modo, la coppia di Rune sanciva un confine. Il viaggio di Perthro, la guarigione di Kenaz. La Runa Destinata, la Runa Celata. Erano lì, oltre tutte le altre rune.
Sono felice che tu stia bene.
Liberò il respiro da poco trattenuto, in un soffio che mutò in sospiro. Sentiva il cuore farsi pesante e leggero, allo stesso tempo, mentre alzava gli occhi per cercare il volto dell'altra. Tra di loro era come se vi fosse qualcosa di sospeso, una trama che non aveva avuto occasione, e forse le Rune altro non avevano fatto che riprenderne il primo filo, il primo nodo. Sostenne il momento, lo rese parte di sé. Tutto in lui gridava di andare via, di non parlarne, di non vivere ancora - neanche in ricordo - quanto davvero accaduto. Tutto in lui, invece, imponeva di esserci, imponeva di restare. Era ferito, e non era più in grado di nasconderlo: con i suoi compagni, con i suoi concasati, con la sua famiglia, con gli affetti che aveva creduto al suo fianco. La solitudine era stata meschina nei suoi confronti, e non una sola volta aveva saputo perdonarla. Megan, però, riuscì a sorprenderlo. Aveva pensato a lungo all'altra, fin dalla prima notte di degenza - alla sua figura, al suo volto, alla sua vicinanza prima che tutto prendesse forma, prima che tutto si completasse. Megan era lì, era lì al ballo di fine anno. Aveva pensato a lungo a lei, e intimamente aveva voluto scriverle, aveva voluto sentirla. Non aveva risentimento nei suoi confronti, a malincuore sapeva di non vantare una relazione così stretta con l'altra da attenderla nel periodo successivo al suo ricovero, ma... ma c'era altro, c'era altro. Il volto di Megan era stato l'ultimo che aveva visto - con i suoi occhi, e con il suo Dono. Era stato l'ultimo.
«È stato...» Parlò anche lui, mentre scorgeva la Corvonero tornare alle Rune. Voleva essere gentile, voleva chiederle di non preoccuparsi di recuperare tutti i mattoncini che ancora mancavano nel suo sacchetto, voleva semplicemente dirle di poter andare via, se avesse voluto, se avesse avuto altre lezioni, se avesse avuto qualsiasi impegno. Invece, lo sentì. Voleva dirle di attendere, voleva dirle di restare, e non si spiegava di primo acchito il motivo. È stato, aveva iniziato così. Non poté aggiungere altro, e mai come in quel momento la risposta gli parve calzante. Era stato, era ormai stato - in passato, con tutto quello che aveva trascinato con sé, con tutto il dramma che ne era scaturito. Non aveva tuttora parole per descrivere quello che aveva provato. Sollevò la mano destra, ancora stretta alla Runa Kenaz, e la portò al cuore. «Ti ringrazio, Megan. È qualcosa che pochi mi hanno detto, e per me ha valore.» Immobile, strinse un lembo della divisa scolastica, e riprese subito. «Ti prego, lascia perdere le rune.» Una nota delicata, un suono che tradiva tensione e timore. Di un discorso a lungo taciuto, di un incontro a lungo rimandato. «Tu eri lì, eri con me.»
Le Rune invitavano a proseguire, le sentiva.
«Non ti ho mai chiesto come sia stato. No Un altro passo. La danza iniziava, la danza continuava. Si corresse subito.
«Non ti ho mai chiesto come tu sia stata, e anche se in ritardo, voglio che tu sappia che mai avrei voluto coinvolgerti in quel modo.»
Non è colpa mia. L'aveva detto, l'aveva ripetuto. Alla sua famiglia, a Jasdel, ai Medimaghi. L'aveva sussurrato e l'aveva gridato, l'aveva gridato fino a perderne la voce. Non una sola volta vi aveva creduto.
Trovai i miei limiti, ma non i miei confini; si esprimeva così il culto dei misteri, principio e fine, tasselli in congiunzione: le norne soffuse, le luci soffuse, i contatti soffusi. Oltreconfine, prologo e epilogo, la resa dei conti e ancora di più.

 
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Le mani si spinsero a raccogliere le restanti pietre rimaste a terra. Quei pochi attimi di silenzio non fecero cessare i battiti accelerati che pulsavano con forza sotto la pelle del Prefetto. Megan sentiva il suono colpire le tempie, rimbombare nella testa; era tormento, dolore, quel che avvertiva dentro di sé. Strinse le palpebre, provando a scuotere il torpore a cui il corpo si stava abituando: le gambe schiacciate dalla pressione del busto e della testa, s’erano leggermente assopite. Quando fu per rialzarsi, le parole del Grifondoro la fermarono — si era avvicinato e lei, non ci aveva fatto troppo caso. Così, trattenne il respiro per alcuni secondi, le frasi di Oliver scorrevano con accortezza, delicate. In quel momento sarebbe stato facile provare sollievo, libertà, ma per Megan la paura tornò a scuoterla. Non se la sarebbe cavata con quelle poche parole espresse, men che meno con un cordiale congedo. Serviva altro? Le scuse erano state fatte, la coscienza lentamente si sarebbe ripulita; eppure… Serviva altro.
Megan si spinse in posizione eretta, porgendogli le ultime pietre raccolte. Trattenne Perthro nel pugno destro ma con l’indice afferrò la tracolla della borsa portandosela sulla spalla. Nello stesso istante aprì le dita invitando il Caposcuola a raccogliere le Rune sul suo palmo. Sorrise, finalmente, grata delle parole del Grifondoro e ne restava sorpresa, per certi versi, per il tono calmo e sottile.
«Io ero lì» disse visibilmente scossa dal momento. Tre parole che portarono alla luce quel ricordo così nitido nella sua mente. In quegli istanti, osservava Oliver sforzandosi a non abbassare lo sguardo, guardava in faccia la realtà e provava ad assumersi ogni responsabilità del caso.
«È stato… Ho potuto avvertirlo quel dolore. Ho provato a chiamarti» le labbra liberarono un piccolo fremito, che venne mostrato da una leggera vibrazione sulla loro parte inferiore. «Non riuscivo, non riuscivo a fare niente. Mi dispiace...» Si alzò.
Questa volta non fu in grado di sostenere lo sguardo, si perse altrove; quella confessione inaspettata le stava procurando la nausea. Doveva essere facile, come togliersi un sassolino dalla scarpa e mantenere la compostezza dietro un sorriso di circostanza. Eppure, più guardava il Grifondoro più gli attimi di quel ballo venivano alla luce. Una leggerezza volata via troppo presto, nemmeno il tempo di un passo falso sotto le note di quella lontana melodia. Lui poteva avvertire il tormento che quei ricordi le procuravano.
«Non è stata colpa tua, Oliver» parlò di nuovo dopo alcuni secondi di silenzio. «Non so cosa ti sia successo nello specifico ma... Non hai colpe» tornò a guardarlo: l’espressione si era fatta d’improvviso seria e la voce suonò più austera. «Sei stato un mezzo per qualcosa di più grande e non potevi sapere chi sarebbe rimasto coinvolto» continuò, e via via la voce parve addolcirsi. «Ti senti responsabile?» chiese in fine, accorciando di mezzo passo le distanze.
In quegli istanti così intensi, Megan non parve accorgersi di come una leggera calma l’avesse avvolta. Passeggera, certo ma si beò di quel leggero formicolio lungo il corpo. Era stata arrabbiata con Oliver in passato, in un primo momento; le colpe le aveva addossate tutte a lui per poi comprendere quanto fosse stupido un tale pensiero. Lei stessa aveva capito quanto la propria debolezza rappresentava un ostacolo; celare il dolore dietro alla rabbia, fuggire via compiendo azioni sbagliate e giudicando in maniera affrettata. Anche quella volta era accaduto, stessa dinamica. Quanto avrebbe resistito ancora? Non molto. Nonostante tutto non riusciva a comportarsi diversamente, a buttare giù quel dannato muro davanti a sé. Qualcuno un tempo le aveva detto: «Una guerra personale si combatte semplicemente… Arrendendosi. » Lei non aveva saputo seguire quel consiglio e mai, probabilmente, lo avrebbe fatto. La sensibilità che provava un tempo s’era rifugiata nella parte più profonda di sé, uscendo allo scoperto solo quando qualcosa riusciva a colpirla, a lasciarla inerme. Quella sera, pochi mesi prima, era successo: ciò che aveva visto aveva scaturito in lei una rabbia profonda, senso di colpa e il passato tornare a tormentarla. Emily Rose fu la prima persona a capire chi fosse realmente Megan Milford-Haven e cosa si celasse dietro la parete di cemento. Oliver quale ruolo avrebbe avuto nella sua vita?

Così, in quegli attimi di quiete cullata dai loro sguardi, Megan sapeva cosa fare per la prima volta. Non era colpa di Oliver né la sua; anche se era consapevole che avrebbe potuto agire diversamente, ora non poteva fare niente per cambiare le cose. In quel momento, però, quell’incontro le dava una sottile possibilità di rimediare. Non scappava, non lo avrebbe fatto stavolta. Per questa volta.
Perthro era stretta ancora nella mano destra, Megan poteva avvertire la durezza del materiale premere sulla carne. Tuttavia, non sentiva nulla; come se nel pugno stesse stringendo nient’altro che le proprie dita. Eppure, la runa era lì, la guidava verso Oliver e lei non aveva fatto altro che assecondarla.

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view post Posted on 14/12/2020, 19:38
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Nel corso degli ultimi mesi, fin da quando aveva vissuto l'Ardemonio sulla pelle, si era ripromesso di non parlare più di quanto accaduto l'estate precedente - con nessuno, mai una volta. Viveva il tormento fin nel profondo, cesellava memorie che non avrebbe potuto dimenticare e che sferzavano, sferzavano tutto in lui giorno dopo giorno. Per lunghe notti si era risvegliato in convulsioni che non avevano avuto ragione d'esistere, e che in lui acquisivano il disprezzo di tremori continui, così forti da giungere a travolgere il corpo per intero. Per lunghe notti aveva seguito gli incubi più disparati, e dagli incubi a sua volta era stato inseguito. Mutava in preda, e in cacciatore, e in preda di nuovo, ancora una volta, e per sempre. Aveva creduto di non poter uscirne indenne, di non poter più tornare ad una parvenza di normalità come in passato. Aveva avuto paura, viscerale, di non essere più Oliver Brior - com'era stato, come avrebbe voluto ancora essere. Tuttora, se avesse chiuso appena gli occhi, sotto le palpebre avrebbe potuto scorgere frammenti di una vita che non immaginava potesse appartenergli, che non una volta aveva sentito come propria. Il sussurro dei Medimaghi al suo volto spento, le parole vibranti di speranze sopite, le stesse che aveva a lungo disprezzato, rinnegato, respinto. Possiate morire tutti, aveva detto. Sulla sua bocca, un tempo profetica, condanne impossibili si erano sospese ovunque, prive di destinazione. Inafferrabili, incomprensibili, così inattese, avevano ferito l'uno e l'altro - i dottori che accoglievano la sua degenza al San Mungo, i suoi affetti in visite sporadiche, i suoi genitori presso una dimora che non aveva saputo riconoscere. Perfino la stanzetta della sua infanzia trascinava memorie e sensazioni che non poteva accettare, tutte si rivelavano alla sua mente come incaute fantasie di un bambino. Il prodigio di un animo positivo, com'era sempre stato, si spegneva lentamente; seccava così gli occhi di smeraldo, turbinava invece di ombre, e ombre, e ancora ombre. Aveva sofferto. Pienamente, consapevolmente, con tutto se stesso. Aveva sofferto più di quanto previsto, e aveva scelto nella solitudine l'unica via di fuga, l'unica terra promessa. Ne aveva bisogno, aveva detto la prima volta. Ne ho bisogno, per favore. L'aveva ripetuto così tante volte da lasciare, infine, che aleggiasse attorno come un velo, come un promemoria. Aveva perso appetito, e aveva avuto fame vorace; aveva perso interesse, e aveva avuto desiderio di scoprire altro; aveva disprezzato la Vista così intensamente da convincersi di non poter viverla più in alcun modo, e quando ne era stato a digiuno ne aveva avuto nostalgia, avida come mai prima di allora. Al suo sguardo, già perfino sotto le bende che ne solleticavano le ciglia, il paradosso rinnovava un'esistenza inusuale, tanto atipica da sciorinare dubbi. Non era un periodo che avrebbe voluto ricordare, non avrebbe potuto chiedere quello al suo corpo né al suo cuore; quello era stato il tempo della vergogna, della codardia, della perfidia, e l'uno e l'altro tra gli elementi mal s'addicevano - da sempre - al suo carattere. Era una vita che non avrebbe neanche lontanamente immaginato, ed era una vita che si era bagnata d'oltraggio. Una vita che vita non era, e una morte che aveva sussurrato al suo orecchio, e che maliziosamente si era rivelata al suo Occhio. I sensi, in quei mesi di distacco, si erano consumati al fervore della notte. Aveva sofferto, si diceva. Ne cercava una giustifica ad ogni comportamento, ne scavava a fondo una possibilità, una qualsiasi, in grado di risparmiargli un vero e proprio rimorso. Per quello che aveva visto, per quello che aveva vissuto, per quello che aveva fatto. Quello, si diceva, non poteva essere stato lui. Non avrebbe potuto, non una volta; e più sua madre volgeva sorrisi di mestizia, più la sua schiena si aggravava di un peso insopportabile; e più suo padre respingeva la sua vicinanza, più un'infestante rabbia nutriva il suo animo, le sue imposizioni, i suoi progetti per un futuro in cui aveva creduto, e che oramai non vedeva, non più. Mai avrebbe pensato di imbastire una conversazione verso quelle memorie, tuttora - a distanza di molti mesi - ne avvertiva il rischio di compromessi che potevano cedere e di pericoli per la sua mente, per il suo equilibrio, per l'empatia del suo cuore. Ne provò timore, di nuovo, fin sottopelle; mentre abbassava lo sguardo, peccando nel coraggio, l'eco delle parole di Megan giungeva come un'onda d'urto senza eguali. Ho provato a chiamarti, aveva appena detto. Ho provato a chiamarti. Carezzò il volto di Oliver di rammarico, perché lui - tra tutti - era l'unico che avrebbe potuto comprenderla. E lei, tra tutti ancora una volta, era la sola che avrebbe potuto capire lui. Parve dischiudere la bocca in modo impercettibile, il tremore di una risposta che non giungeva, che non poteva più giungere lì tra loro. Mentre l'altra continuava, lui ricordava. Ricordava la fine, ben prima dell'inizio; ricordava dettagli che non erano mai stati sopiti: dalle pieghe delicate dell'abito di gala dell'altra fino al chiarore di timide stelle nei suoi occhi; dalle sue mani che le cingevano la vita fino all'approssimarsi di un ballo che non aveva avuto destino; ricordava tutto, ricordava lei.
Megan Haven, Regina delle Rose. Ne ricordava petali cremisi sfumare intorno, ritirarsi all'incanto che l'altra vestiva, e ricordava l'armonia di un canto che avrebbe dovuto accompagnare entrambi nella cerimonia di incoronazione. Ma lui, lui non ne era stato degno. E le Rose, sul suo capo, si erano punte di fiamme e di cenere - in visioni, intime come mai prima di quel giorno. Come un re, come Re delle Spine.
«Mi dispiace.» Come un sussurro, come tacito dolore. Concludeva allo stesso modo dell'altra, in una condivisione che non aveva meriti; per loro, in modi diversi, il ballo era stato infranto al pari di un'illusione nascente. Avrebbe voluto dirle di ricordare, di ricordare tutto - il suo volto, la sua voce, il suo richiamo; avrebbe voluto dirle cosa fosse accaduto, quali conseguenze avesse portato anche per lui, e in che modo, in che modo fosse davvero responsabile. Sarebbe stato liberatorio, per la prima volta da tempo. Perthro ne aveva guidato l'esordio come Runa di Rinascita più preziosa. Gli parve che l'ultimo suono in quel corridoio ormai solitario volgesse ad un cambiamento, ad una trama che neanche lui - sebbene avesse risvegliato la Vista - riusciva ad interpretare, ad anticipare da ogni confine. Desiderò restare in silenzio, di restarvi per ore fino al calar della notte, e le lezioni successive ad un tratto persero ogni valore, ogni attenzione. Si lasciò andare all'indietro, lentamente, fino a poggiare la schiena alla parete fredda del Castello di Hogwarts. Voleva sedersi, voleva calmarsi, e voleva... voleva che lei restasse. Anche se in cuor suo respingeva quel percorso fino al passato, fino a quanto accaduto lo scorso anno, tutto in lui rinverdiva coraggio, attesa, e promesse vere. Così rispose. Per la prima volta consapevolmente, per la prima volta per scelta. Non c'era alcun Medimago ad indugiare sulle ferite che avevano deturpato il suo corpo, non c'era alcun Auror ad interrogarlo a lungo circa quanto previsto, quanto vissuto. Non c'era nessuno, oltre loro due. I confini si piegavano al momento esatto di quell'incontro, e Perthro - soffusa - ne ricamava spazio e tempo, fino a mutare in un punto fisso. Non poté dire di conoscere bene la Studentessa lì con lui, ma lei era stata nel suo passato, nell'intreccio peggiore, e giungeva ad ora quando cercava sostegno, e vivida empatia. Megan Haven fermava il tempo e al suo sguardo cristallizzava il presente.
«Ricordo il tuo volto.» Iniziò così, delicatamente.
Gli occhi svelavano dolore, ancor prima che profondo timore.
«Lo ricordo fin da quando mi sono risvegliato in Infermeria, da solo.» Lo era stato. Così a lungo, troppo a lungo. Sollevò l'attenzione sull'altra, e riprese subito. «All'inizio sì, ho creduto di essere responsabile. Con il tempo, però, mi sono sentito respinto. Dalle persone che avevo creduto amiche, da tanto ancora. Per settimane sono stato in Infermeria e mi prenderai per pazzo, ma la compagnia più costante è stata quella di Nick-Quasi-Senza-Testa.» Abbozzò un sorriso velato di tristezza. «Pensi che dopo aver stretto così tante relazioni, qualcuno arriverà nel momento del bisogno. E sia chiaro, ci sono stati.» Vide il volto di Jolene, di Sirius, di Leah, di Aiden, e tanti altri. Sentì pungersi dall'egoismo di un viziato, come a credere di aver sottovalutato un bene che aveva avuto, e di cui aveva fatto tesoro. Ma per lui, per Oliver Brior, non era bastato. Non dopo quello che aveva seminato, non l'aveva meritato.
«Tutte le voci che sono girate al Castello dopo quanto accaduto, sai, in parte sono arrivate anche a me.» Un borbottio confuso, un'espressione sferzante. Parlava sommessamente, soltanto per lei. Ma nessuno, in quell'angolo di Hogwarts, attendeva con loro: di fronte, l'Aula di Rune Antiche era ormai spoglia, e con tutta probabilità entrambi stavano perdendo la lezione successiva sui rispettivi programmi scolastici. «Sono stato arrabbiato, sono stato ferito. Forse... sì, io credo di esserlo ancora. Per non essere stato ascoltato, per essere stato respinto, per tanto altro. Quello che è accaduto al Villaggio di Hogsmeade, lo scorso Agosto, io immagino tu abbia letto.» La Tragedia di Hogsmeade, l'avevano soprannominata. La pelle rabbrividì, paradossale, al ricordo del fuoco maledetto; e le piaghe, oramai rimarginate da così tanto, pizzicarono al punto da spingerlo a passare le mani sulle braccia. «Per una serie di circostanze, Megan, io ero lì. Ho assistito alla morte, ho visto corpi bruciare, ho sentito le loro grida. E...» *E ho perso, Megan, ho perso così tanto.*
Tacque, l'ultima frase brillò in un pensiero inarticolato. Aveva parlato come un fiume in piena, eppure cadenzando pause con uno sforzo che poteva essere evidente. Provava infatti fatica nel raccontare tutto quello, nel vivere di nuovo quanto accantonato per pura necessità. Non avrebbe saputo spiegare come mai stesse confidandosi con Megan, non sapeva se vi fosse di mezzo l'antica magia runica o cos'altro. Quello che sapeva, guardandola, era che ne aveva bisogno.
«Non penso che lo supererò mai. Credimi, ne ho paura. Non di quello che ho vissuto, non soltanto. Ho paura di perdermi, ti capita mai? Paura di non riconoscersi, di essere... di essere...» Le palpebre calarono lente a trattenere una nota di imbarazzo, e un'altra di un incubo che aveva infine reso testimonianza.
«Paura di essere cambiato.»
Trovai i miei limiti, ma non i miei confini; si esprimeva così il culto dei misteri, principio e fine, tasselli in congiunzione: le norne soffuse, le luci soffuse, i contatti soffusi. Oltreconfine, prologo e epilogo, la resa dei conti e ancora di più.
 
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view post Posted on 20/1/2021, 23:37
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Silenzio. Quarto Piano, Aula di Rune Antiche. Non c’era più alcuna voce tra i corridoi. Le mura assistevano a quel momento, racchiudendo le due figure in un spazio senza tempo. Lenti respiri e sguardi colmi di profonda tristezza prendevano scena seguendo le emozioni che, lentamente, palpitavano nel cuore in un tormento da tempo in parte represso. Megan non aveva mosso alcun muscolo, in attesa aveva dato il tempo necessario a Oliver di rispondere. Indubbio era la difficoltà provata, il Grifondoro avrebbe potuto notarla nell’espressione colma d’angoscia che ora trovava difficoltà a nascondere. Ricordo il tuo volto le aveva detto. E lei, a quelle parole, tornò indietro nel passato, e chiaro fu il volto del Re delle Spine; l’invito a unirsi a quelle danze e le stelle, puntini nelle infinite tenebre.
Non lasciarmi. Aveva sussurrato quella sera. Prima che il caos fermasse il tempo e lo annientasse. Una danza mai iniziata, un passo dalla fine. Un ultimo sguardo e poi il dolore.
Un pugno nello stomaco e il presente tornò a farsi avanti. Con quest'ultimo la consapevolezza: Lei lo aveva lasciato.
Ad ogni parola, sentiva il respiro mancare e il dolore invaderle il corpo. Oliver poggiava le spalle contro la parete e avrebbe voluto lasciarsi andare, cadere a terra mentre vomitava parole colme di rabbia, paura e sconforto; cercava in Megan un sostegno.
I sensi di colpa vennero alla luce, la difficoltà provata di fronte a quella situazione aumentava ad ogni secondo passato. Lei pensò di non farcela.
Le ferite erano le stesse, sebbene le loro fossero storie ben distinte. Lei credeva di poter comprendere.
Di fronte agli interrogativi di Oliver volse lo sguardo altrove. Le palpebre si chiusero per quietare il pizzicore nelle iridi oltremare; il petto si gonfiò d’aria e un sospiro, silenzioso, si liberò fra le sue labbra.
«Ti capisco. Conosco quelle sensazioni» parlò con un filo di voce; iniziava a mostrare parte delle sue emozioni. In piedi, in posizione statica, lasciò finalmente le spalle cadere verso il basso, curvando di poco il busto in avanti. Inspirò ed espirò a fatica, ingoiando la tensione che serrava le sue labbra rosee.
«È lecito per te provare tutto questo. La rabbia lo è...» Ricordava dei fatti accaduti a Hogsmeade e la reazione avuta leggendo vari articoli sulla Gazzetta. Quante vite erano andate perdute, schiacciate dal peso delle macerie e bruciate dal fuoco. Un evento che aveva segnato il mondo magico e che lasciava ancora molti interrogativi. La Corvonero, oggi come allora, continuava a chiedersi se le autorità competenti avrebbero mai scoperto cosa si celava dietro a tutta quella violenza. Doveva essere stato tremendo per Oliver vivere quell’evento sulla propria pelle. Megan sentì il cuore tamburellare agitato e un brivido scorrere lungo la spina dorsale.
«Mi dispiace che tu abbia dovuto sopportare tutto questo: vedere sofferenza e morte. Ho saputo di Hogsmeade, ne hanno parlato ovunque, deve essere stato orribile. E, Oliver, non credo che tu possa essere la stessa persona di prima dopo tutto quello che è accaduto» sembrò concludere con un filo di voce.
Poi riprese. «Anche io ho paura. Il cambiamento è un processo che non riusciamo in alcun modo ad evitare. Il mondo ci influenza e noi che ne siamo parte dobbiamo avere la capacità di adattarci e cercare di rimanere in piedi. » Lei era rimasta in piedi? Il volto di Megan fu attraversato da una successione di espressioni contrastanti, finché non si avvicinò poggiando le spalle al muro, affiancando Oliver.
«Ho perso tanto. Se la vita non mi avesse riservato così tanta sofferenza, forse oggi sarei una persona completamente diversa. Non dovrei fingere, né aver paura» confessò sentendo stringere lo stomaco.
«Ho il terrore di non riuscire a staccarmi dal mio dolore. Di non riuscire ad andare avanti. Di non riuscire ad essere me stessa, senza filtri.» Un respiro soltanto, un attimo di pausa per osservare lo spazio di fronte a sé. «La verità è che mi sento tremendamente in colpa per essermi ridotta in questo stato. Ma non posso evitare che la mia vita vada in questo modo. Nessuno può. Devo accettarlo e conviverci» accennò appena un sorriso. «Con te sono stata una codarda, Oliver. Avevo paura di affrontare il dolore, di nuovo, e ho pensato fosse meglio allontanarmi.» Silenzio. Si prese qualche secondo prima di continuare. «Ma ora lo so. Non si può fuggire dai sensi di colpa, dai rimorsi. Ci perseguitano… Mi hanno perseguitata» e lo faranno ancora. Picchiettò le dita contro il muro e finalmente si voltò a guardarlo.
«E così, vuoi per il Fato o la casualità, siamo qui» gli sorrise. «Fa male ma sto provando a fare un passo indietro. Provo a stringerti la mano mentre mi chiedi, in silenzio, di… di non andarmene.» Sul volto di Megan era dipinta la sincerità; gli occhi brillavano di un blu più intenso adesso.
Bisogna andare avanti, pensò di dire ma tacque. Lei non ne era stata capace né lo sarebbe stata; e così fino a che ogni tassello della sua vita non fosse tornato al posto giusto.
Tuttavia, si sentiva meglio. Il grosso peso che portava sullo stomaco parve sgretolarsi silenziosamente. Sollievo fu quello che provò in quegli istanti.
«Possiamo andare avanti» finì per dire. Nessuna imposizione, solo libera scelta. La mano che stringeva Pertrho accarezzò il fianco, fino ad aprirsi sotto agli occhi di Oliver Brior.

I need a place to hide, but I can't find one near.
I wanna feel alive, outside I can't fight myfear.

 
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view post Posted on 17/12/2021, 22:04
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Sotto una pila di maglioni, di sciarpe e di cravatte, Oliver aveva nascosto una corona di biancospino; l'aveva cristallizzata nel tempo, rinnegandone ogni fuga – un sortilegio a mezza voce, un sospiro, un pianto trattenuto. Vigilava l'ombra di memorie che non avrebbe potuto perdere e che tuttavia, in qualche modo, aveva desiderato allontanare per davvero. Almeno in parte, s'era detto. Almeno in parte aveva dovuto preservare quello che era stato e quello che forse, oramai ne era sempre più convinto, non sarebbe mai più stato. Di tanto in tanto ne scostava un lembo, una piega d'anonimo tessuto, come a chiedersi se la corona in fiore fosse eternamente in attesa, come a testimoniare al suo sguardo che non fosse scomparsa – un timore, quello, che scorticava il cuore fin nel profondo. Erano petali d'avorio, di gemme naturali, boccioli sfumati nel candore primaverile; biancospini in festa, strappati e recisi alla terra e nondimeno vividi come all'esordio più veritiero. Immacolati, confessavano una purezza mai perduta, scostandosi dall'eclissi che aveva profanato ogni altro ricordo. Nella semplicità dell'intreccio di corolla, rametti e foglie smeraldo, la corona altro non era che una decorazione – agghindata sulla fronte sognante di chi era stato, l'ultima regalità del Re delle Spine. Ed era stata vestigia d'eleganza almeno in principio, quando il Ballo aveva accolto l'ingresso cui gioiosamente s'era affidato.
Voleva, voleva esserci – la Danza delle Rose aveva annunciato l'infinito incanto ben prima del suo incedere, ben prima d'imporsi delicatamente ai Giardini di Hogwarts. Lungo l'arco del roseto che aveva fatto da apripista alle meraviglie della serata conclusiva, infatti, Oliver ricordava d'essere stato in pace – il suo vestito, il suo portamento, il suo più sincero affetto ad attenderlo ad un tavolinetto proprio nei dintorni. In anticipo sui tempi di un paradosso con cui tuttora tesseva conti grevi, avrebbe potuto dire di essere stato felice. Per poco, così poco, lo era stato. Ma l'armonia estiva era stata violata, spezzando l'illusione d'una misericordia che mai una volta gli era stata veramente donata. Le fiamme visionarie, l'invadenza delle tenebre finalmente in visibilio, perfino le macerie del sacrilegio, tutto aveva deturpato rapidamente un momento altrimenti festivo.
Sei responsabile, aveva concluso tacitamente; perché in cuor proprio sapeva di esserlo per davvero, di esserlo stato fin dalle prime insidie. Ne aveva avuto più di un assaggio, più di una prova concreta, e nel diniego cui aveva indugiato – placando l'animo, segregando ogni timore – aveva peccato d'orrore. , avrebbe voluto gridare. Sì, sono responsabile. Il necrologio delle vittime aveva bersagliato l'insonnia peggiore, tormentandolo in ogni modo possibile: nomi privi di volto e identità, giovinezze nascenti estirpate alla radice, famiglie distrutte dall'assenza. Più della morte, era il rimorso ad aver maledetto ogni parte di sé – il pentimento di non aver fatto di più, il rammarico di non aver demolito le fondamenta del Ministero per un aiuto immediato. Non mi crederanno, aveva ripetuto giorno e notte. Così com'era stato per i suoi genitori, così com'era stato per tanti altri ben prima – occulte presenze che avevano scelto un percorso migliore, un percorso necessariamente lontano dal proprio. Nella solitudine più viscerale cui s'era ritrovato, Oliver aveva sbagliato. Desiderò perdonarsi ancora, ancora, ancora una volta – per quello che aveva predetto, per quello che aveva visto. Non hai colpe, gli avevano detto.
E lui, blasfemo, non aveva mai prestato loro ascolto.
«Paura di essere ancorato al dolore.» Non s'accorse di aver parlato ad alta voce, di aver posto in concretezza quanto raccolto fino a quel momento. Mai prima di allora avrebbe potuto immaginare di ritrovare qualcuno in grado di comprendere – fino all'estremo, così intensamente. In altre circostanze avrebbe peccato di curiosità, giungendo a chiedersi quali condanne avessero pedinato la vita di Megan Haven. In altre circostanze si sarebbe soffermato al riguardo, ponendo in risalto tra uno e più pensieri quanto pronunciato dalla Corvonero. E invece... non una volta ne interrogò i motivi e il passato, non una volta desiderò esserne invadente: sentì la leggera stretta di una gola chiusa, di un petto che lasciava un sospiro trattenuto; sentiva il fardello di una confessione che aveva fatto e che aveva ricevuto più di semplice condivisione. Di più, molto di più: Megan aveva donato empatia, aveva compreso quello che lui stesso trascinava da così tanto. E allora, mentre la mano stringeva la Runa Kenaz, intravide un sentiero più longevo, più prezioso di ogni altro valore.
Megan Haven divenne un punto fisso nel tempo.
«Sei tra le persone più coraggiose che io conosca, invece.» Lo sussurrò, un tremito lungo il petto e dritto al cuore; un battito pulsante, qualcosa che infine scioglieva gli argini. Oliver Brior sentì d'essere libero – minimamente, soltanto in parte, ma libero. Il volto, declinato di lato, s'adagiò all'incanto della figura lì proprio accanto; spalle contro la fredda roccia del Castello di Hogwarts, voce in attesa e silenzio pieno di significato. Avrebbe voluto dirle tante cose, avrebbe voluto restare in quel corridoio, da soli, fino alla fine dei giorni; e parlarle, parlarle di una e più sensazioni, fino a svelare segreti che continuava a proteggere. Desiderò insinuarsi in memorie pericolose – di incendi, distruzioni e morte – fino a sviscerarne ogni paura, a renderle tangibili. Per la prima volta aveva trovato qualcuno che non scappava, qualcuno che aveva scelto lui, la sua storia, il suo passato. Qualcuno che capiva, qualcuno che... restava. Nulla avrebbe potuto esprimerne il coinvolgimento importante che stava sperimentando con ogni parte di sé. Allora tacque, e gli sembrò che le ultime parole di Megan sfumassero in un'eco infinitamente intima. Ne ebbe paura, perché lei aveva afferrato al di là del possibile; e ne ebbe rinnovato coraggio, perché in qualche modo lei aveva visto anche lui.
«Grazie Nella semplicità di un solo, ineguagliabile termine, Oliver manifestava il rispetto più sincero e, di certo, l'affetto nascente.
«Per tutto.» Non trovò necessario chiarirne i motivi, lei... lei avrebbe capito, ancora una volta. Quello che le aveva detto si pose scrigno in cuore e mente, lì dove pretese luogo tra memorie d'ombra. Nel pugno della mano tratteneva Kenaz, la Runa dei nuovi inizi. E sapeva che l'altra, l'altra Runa, mancasse all'appello; abbozzò un sorriso, il volto tumefatto sbocciava in un cenno di pace interiore.
«C'è un viaggio che ci aspetta, Megan.» Una casa, un albero, un serpente; un fuoco spento, e cenere, e tempio, e infinita bellezza. La tragedia di trame già scritte, la magnificenza di quelle in arrivo.
«E forse è un viaggio che percorreremo insieme. Fino ad allora vorrei che tenessi tu la Runa Perthro. Per me è di grande valore, non è una runa classica.» Le spiegò brevemente che si trattasse di una runa consacrata al plenilunio, di una runa che conteneva in sé magia antica. Una runa di biancospino, pensò tra sé. Il cerchio infine si chiudeva: una corona, un ballo incompleto, un nuovo orizzonte.
Provo a stringerti la mano. I misteri del tempo sfavillavano già tutto intorno. Cercami, bisbigliavano. Cercami, rispondeva lui. Cercò così di alzarsi dal pavimento, tornando in piedi e portandosi di fronte Megan. Le offrì una mano, la destra, lì dove sciolse il palmo a svelare la Runa del Fuoco, la stessa Runa del Principio.
«Non andartene, Megan.» Lo chiese, lo chiese davvero – la conclusione di una frase che aveva appena ascoltato dall'altra, la richiesta sincera di stringere, stringere la sua stessa mano. Sei qui, sottintendeva. Siamo qui. Poco dopo, alle battute finali, avrebbe sorriso ancora una volta; e a quel punto sarebbe andato via, congedandosi fino ad imboccare il corridoio per la Torre Grifondoro. No, avrebbe rinunciato ad ogni successiva lezione per quel giorno. In ritardo o meno che fosse, aveva bisogno di tempo per sé. Un ultimo sguardo, un ultimo intreccio verso Megan Haven.

Non andartene, sembrava allora comunicarle.
Sei qui, Megan. Lo sei davvero.

Siamo qui, sentiva.
Oltreconfine.

Trovai i miei limiti, ma non i miei confini; si esprimeva così il culto dei misteri, principio e fine, tasselli in congiunzione: le norne soffuse, le luci soffuse, i contatti soffusi. Oltreconfine, prologo e epilogo, la resa dei conti e ancora di più.

Ci sarebbero tante cose da dire, a partire dalle mie scuse per il ritardo. La verità è che role come queste, così intense, non possono essere svolte senza coinvolgimento; ed io ne sono stato infinitamente catturato – per te, per Megan, per tutto quello che questo intreccio abbia rappresentato fin dall'inizio. Anche se travagliata nelle tempistiche, è stata una trama meravigliosa. Anzi... è stato grazie a te e con te un viaggio oltreconfine.

E tu lo sei per me.
 
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