Nella tua scia, preevata

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view post Posted on 23/2/2020, 20:33
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Sboccia nella neve mortale il fiore del ricordo
- Ti serve altro? -
Chiese il burbero e sgraziato barista, mentre si asciugava distrattamente le tozze mani su un grembiule sudicio. Sembrava avere fretta di servire il prossimo cliente, ma alla ragazza bastò buttare uno sguardo d'intorno per capire che in un giorno infrasettimanale la gente di passaggio per una bevuta era decisamente poca. Un quantitativo di ragnatele che danzavano da una trave all'altra come tende logore facevano da cornice perfetta al quadro di sudiciume e trascuratezza che era quel locale. Le assi schiodate rischiavano di farti inciampare ad ogni passo e le sedute scricchiolavano ad ogni minimo spostamento. Si avvertiva distintamente l'odore di alcol impregnato con insistenza sul legno del pavimento, come una vernice data a più mani, da anni di bevute e rovesciamenti. E chissà quale altro putridume si era annidato nelle fughe e nei pertugi. Tutto quel disagio architettonico misto ad un'igiene pressoché inesistente teneva alla larga gran parte delle persone, lasciando ai restanti il privilegio di una rara discrezione. E quello era principalmente il motivo per cui lo preferiva ad altri locali, quando a volte sentiva il bisogno di qualche goccia di solitudine. Nessuno badava a nessuno, teste basse sui piatti, sui propri pensieri e le proprie frustrazioni, silenzi infranti solo dal rumore di forchette e tintinnii di vetro. Nessuno sguardo addosso, nessuna predica, nessuna domanda.
Ma per quanto rinfrancante fosse quella sensazione, per lei quel giorno aveva in serbo altro. Sfilò dalla tasca poche monete, lasciando una discreta mancia sul bancone, poi raccolse la sua busta di carta e si avviò verso l'uscita.

Appena messo un piede fuori dalla porta del pub, l'aria le fece arricciare il naso tanto era fredda e pungente. Tutt'intorno un bianco abbacinante vestiva elegantemente i bordi dei tetti, pesando sulle grondaie come gatti grassi intenti a godersi il sole del pomeriggio. Lungo i lati delle case che affacciavano ad ovest si andavano creando dei piccoli rivoli d'acqua, generati alla fonte dalla neve che si scioglieva lentamente. Ben presto, al calare del sole, sarebbero diventate lucide piastre di ghiaccio, ma per il momento bastavano a saziare la sete di uccellini e piccoli animali. Mya li osservò un momento di più, mentre il freddo vento di febbraio le sfiorava la gola spoglia. Indossava abiti leggeri per la stagione, ma questo non sembrava toccarla eccessivamente. Strinse tra il braccio e il fianco la busta di carta brunita e infilò la destra nella tasca del lungo cappotto color cammello, avviandosi lungo la strada innevata. Hogsmeade era stranamente silenziosa, forse per via delle temperature o degli esami che stavano impegnando gran parte del corpo studentesco. I più audaci dovevano aver già raggiunto i tre manici di scopa o si erano rinchiusi ad accumulare grasso corporeo da madama piediburro, lasciando il piccolo villaggio al suo meritato silenzio. Non nevicava dalla notte precedente, e diverse paia di impronte si muovevano sul manto morbido che sostituiva il selciato. Il cielo era terso ed era facile percepire nell'aria il lieve rumore della vita invernale che riempiva il villaggio. Gocce d'acqua, sfrigolio di neve, rami percorsi da scoiattoli coraggiosi in cerca di cibo fra le fronde degli alberi e giù per le strade fino ai bordi dei locali. Era un giorno perfetto per ritrovarsi. Appena un passo in avanti e i suoi stivali affondarono di qualche centimetro nella neve, sancendo l'inizio di quel viaggio. Impronta dopo impronta la ragazza prese ad attraversare il villaggio con passo tranquillo. Teneva il mento alto e gli occhi chiusi, annusando l'aria così neutra e spoglia di odori, come se il freddo avesse questo oscuro potere di ottenebrare la vita stessa, soffocandola. Ma vestiva di bianco, come una sposa. E lei la accettava, oscura, fredda, bella, sincera. Più del sole accecante e rassicurante, in quel silenzio puro Mya si sentiva a suo agio.

Camminava lungo la via principale del villaggio lasciandosi guidare dalla memoria e dai suoi sensi, guidata dal corpo che tante volte aveva percorso quella stessa strada. Arrivata all'incrocio principale del villaggio riaprì gli occhi guardandosi attorno, constatando come anche nella zona più centrale non vi fosse nessuno. Imboccò la strada che portava verso destra e si lasciò l'area dei locali alle spalle, inoltrandosi così nella zona meno frequentata di Hogsmeade. Poco più avanti incrociò le insegne di Mondomago, il vialetto perfettamente pulito e un cartello "open" invitava i più coraggiosi clienti ad entrare. Le sembrò di intravedere qualcuno osservarla oltre il vetro appannato, ma così come un'ombra fugace svanì lasciandole solo un flebile dubbio. Strinse maggiormente l'involto al fianco e superò il negozio, avviandosi verso l'area in cui perlopiù vi erano case e botteghe dismesse. Si fermò un istante al centro della strada, guardando da ambo i lati come per attraversare, dopodiché si infilò nel vicolo sulla destra. Non appena svoltato l'angolo si fermò, avvicinandosi al muro di cinta di una vecchia bottega di pozioni in disuso da almeno mezzo secolo. Poggiò la busta di carta su una vecchia cassa di trasporto abbandonata e tirò fuori dalla tasca interna del cappotto la sua bacchetta. Con un movimento deciso incantò il manto nevoso in modo che le sue impronte svanissero fino al centro della via, cancellando la sua piccola deviazione e il suo stesso passaggio. Soddisfatta del risultato del suo incantesimo ripose la bacchetta nel cappotto, raccolse la busta di carta e riprese a camminare nello stretto vicolo. Con la luce calante del sole appariva anche più stretto e angusto del solito, puntellato qua e là da decine di tegole cadute, incastrate nella neve. La tassorosso alzò lo sguardo roteando poi sui suoi piedi, per poi osservare le cime dei muri, laddove sezioni intere di tetti erano svanite lasciando filtrare attraverso le strutture nude la luce ambrata del sole. Tutto si disfaceva, e veniva dimenticato, con facilità.
A differenza della natura, per l'uomo non sembrava esserci rinnovo, solo abbandono.




Hogsmeade - verso il tramonto
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Edited by ~mya - 23/2/2020, 20:54
 
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view post Posted on 25/2/2020, 14:58
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— 19 yrs ▴ Hogsmeade; late afternoonclothesL’anziano Mago scosse la testa, togliendosi con un gesto stanco gli occhiali da vista. Se li pulì sulla tunica verde pino, non prestando particolarmente attenzione al ragazzo che, a braccia conserte, lo osservava con un cipiglio infastidito. 
« Te l’ho detto, Lysander, ci ho provato a convincerla, ma quella vecchia Megera non vuole vendere l’astrolabio. » Horus spostò il peso da una gamba all’altra, massaggiandosi distrattamente le mani fasciate. 
« Oooh, miss Blythe vuole venderlo, ma non vuole venderlo a me. Non ti sei impegnato abbastanza, ragazzo! » Lysander si rimise gli occhiali cerchiati d’oro e guardò severamente il giovane commesso. Innervosito, Horus dovette appellarsi a tutta la sua buona volontà per non lasciarsi sfuggire una risposta acida. Si morse le labbra, socchiudendo gli occhi e contando fino a dieci, poi sospirò. Sapeva perfettamente che Lysander non gli aveva perdonato di averlo messo alle strette, costringendolo indirettamente ad assumere Megan come seconda garzona. Certo, il Mago era più che soddisfatto del lavoro della ragazza e, anzi, ne apprezzava lo spirito di iniziativa e la passione profusa nella vendita, ma Horus sapeva altrettanto bene cosa (o meglio, chi) Lyander avrebbe preferito vedere tra quelle mura. Anche se non l’aveva mai ammesso, l’uomo era convinto che Mya, la sua prediletta, avesse lasciato l’Ars Arcana per colpa di Horus (che, invece, dubitava altamente che Mya fosse così superficiale). Benché si guardasse bene dall’accusarlo apertamente, Lysander trovava sempre il modo di sbolognare a lui, Horus, i carichi più ingrati, e lui, dopo un po’, aveva fatto due più due.
Erano settimane che stava dietro ad un’anziana donna gallese per convincerla a vendere un antico astrolabio del XVIII° secolo, un pezzo più unico che raro, che Lysander desiderava da anni. Miss Blythe, tuttavia, provava un’insolita antipatia per il proprietario dell’Ars Arcana (Horus e Megan si erano convinti che ci fosse stato qualcosa fra loro, in gioventù –un paio di secoli prima) e così, chi ne faceva le spese era Horus. L’infinita trattativa ormai durava da giorni ed il ragazzo non sapeva più cosa inventarsi: aveva tentato con l’adulazione, con i Galeoni, persino con lo sfinimento, inviandole decine di gufi; niente, miss Blythe non cedeva.
« Prova a impietosirla. » Commentò improvvisamente Lysander, accennando col capo alla fasciatura che avvolgeva le mani di lui. Horus fece una smorfia.
« Potrei dire che mi hai colpito con un attizzatoio perché non ho assolto al mio compito. » Rispose sarcastico ed una parte di lui, un po’ ingrata invero, pensò che Lysander avrebbe potuto esserne capace.

Un’ora dopo Horus si Materializzò sulla via principale di Hogsmeade. Il freddo pungente del nord della Scozia lo fece rabbrividire sotto il pesante mantello di lana scura. Se lo strinse al collo, assottigliando le palpebre per abituarsi alla luce accecante riflessa dalla neve che imbiancava il villaggio. La sagoma cupa di Hogwarts piombava dall’alto come un enorme pipistrello troppo cresciuto ma, guardandola, Horus accennò un sorriso. Con una stretta allo stomaco si chiese se di lì ad un mese l’avrebbe rivista; sarebbe partito tra qualche settimana per villa Cavendish e nonostante si sforzasse di pensare in positivo, non poteva ignorare il timore che si annidava in fondo al suo cuore. Infine si mosse per il viale innevato, i suoi passi erano svelti nonostante gli ingombri soffici di neve e poche impronte si affollavano sulla superficie. Hogsmeade era tranquilla e sonnacchiosa e ad Horus non dispiacque camminare senza nessuno intorno. Le sue gambe si muovevano con fare automatico in direzione dell’abitazione di miss Blythe, in periferia, e ben presto Horus abbandonò la strada principale per imboccare il primo dei tanti vicoli. Superò Mondomago guardando distrattamente la vetrina, poi proseguì per qualche altro metro, svoltando a sinistra al primo incrocio.
Fu in quel momento che si rese conto di udire dei passi soffocati da qualche parte avanti o dietro di sé. Giungevano stranamente amplificati, come se in realtà il misterioso avventore fosse tutt’intorno a lui. Horus si arrestò, aggrottando la fronte e si strinse al fianco il piccolo pacchetto di carta marrone che conteneva la sua unica speranza di convincere miss Blythe. Tese le orecchie, i sensi all’erta, mentre la mano libera scivolava veloce verso la bacchetta nella tasca dei pantaloni. Dopo qualche minuto di assoluto silenzio, Horus si convinse di essersi immaginato tutto e così riprese a camminare. Tuttavia non poté fare a meno di accelerare il passo, mentre gli occhi grigi scorrevano rapidi i muri decrepiti della periferia. La sensazione di essere seguito tornò prepotentemente quando il ticchettio di scarpe riprese al suo avanzare. Nervoso, Horus cinse la bacchetta, ma non si fermò. Lì, dove le case si ammassavano con i loro tetti scomposti e cozzavano fra loro, condividendo tegole come due amici infreddoliti potevano dividere un mantello, la neve non era caduta fitta come sulla via principale, più sgombra di costruzioni. La luce del sole, in procinto di scivolare oltre l’orizzonte, filtrava attraverso i pochi spazi aperti, stillata con parsimonia dagli angoli e dalle finestre vuote.
In quella parte di Hogsmeade era più facile imbattersi in antiche case dismesse e negozi abbandonati; Lysander gli aveva raccontato che, quella, era la zona vecchia del villaggio, costruita molti secoli prima di ciò che ora consideravano il centro del paese. Benché a molti non sembrasse un quartiere raccomandabile, ad Horus non dispiaceva addentrarcisi. C’era qualcosa di antico e di remoto, fra quelle mura piene di muschi e mattoni scheggiati.
D’un tratto, Horus si arrestò di colpo e con lui si fermarono i passi. Estrasse la bacchetta e se la puntò ai piedi, eseguendo un incanto Felpato sugli anfibi dalle suole spesse, dopodiché, dopo essersi guardato intorno e non aver scorto nessuno, si infilò in una stradina, superando una vecchia bottega di pozioni dimenticata dagli Dei da chissà quanto tempo. Si affrettò a cancellare le tracce e piuttosto velocemente fece levitare una logora cassa di trasporto affinché sbarrasse l’entrata del vicolo. Non era un grande ostacolo, ma avrebbe rallentato di qualche secondo il suo inseguitore —se davvero c’era, un inseguitore— permettendogli così di scoprirne l’identità. Soddisfatto, Horus arretrò di qualche passo osservando la sua opera. Rimase immobile nell’ombra per qualche minuto, sentendo i passi riprendere in lontananza. C’era qualcosa di strano in quella camminata: sembrava incerta, strascicata ma pesante al tempo stesso ed echeggiava sinistra nel silenzio delle abitazioni. Se davvero si trattava di qualcuno che lo stava seguendo, pensò Horus, non doveva essere molto furbo. Infine, non vedendo nessuno, si strinse nelle spalle. 
*Forse sono solo paranoico…* Si rimproverò, deridendosi per quell’eccessivo zelo nel nascondere le tracce. Distrattamente riprese a camminare e si guardò intorno, nel tentativo di raccapezzarsi sulla strada, ma dopo qualche metro si rese conto che quella piccola deviazione gli era costata l’orientamento. Sbuffò ed una piccola nuvola di condensa si librò nell’aria gelida mentre il ragazzo si fermava, guardando le cime delle abitazioni alla ricerca di un punto conosciuto. I tetti dimessi e le case in rovina, tuttavia, erano la scenografia perfetta per il tramonto nascente ed Horus, richiamato dal dolce e tenue calore del sole, mosse qualche altro passo, affascinato dal piccolo spiazzo in cui si era ritrovato, momentaneamente dimentico della strada perduta. Guardò con malinconia le abitazioni dimenticate, chiedendosi chi, un tempo, avesse abitato quelle mura; che fine avevano fatto? Le loro famiglie si erano estinte? Oppure si erano trasferite da qualche altra parte, forse alla ricerca di fortuna? 
Horus infilò la bacchetta nella cintura e con con le dita affusolate bendate sfiorò la fredda parete ruvida, come se quel tocco fosse stato in grado di rispondere alla sua curiosità. Non si rese conto che un’altra presenza era lì, affascinata da come la Natura si stava pian piano riprendendo ciò che era sempre stato di sua proprietà. Il passo, reso silenzioso dal Felpato, non risuonò nella via, ma quello della ragazza sì.
Horus si arrestò, a disagio, quasi fosse stato scoperto in un momento sorprendentemente intimo. Guardò la piccola figura avanti a sé, avvolta in un pesante cappotto color cammello. Ne vedeva solo le spalle minute ed una chioma castana sciolta sulla schiena. Era forse lei, il misterioso inseguitore?
Indeciso sul da farsi —per quanto paranoico, il buon senso non invitava di certo ad accusare estranei—, Horus rimase immobile a fissare la ragazza, la mano ancora premuta sul muro, come se potesse proteggerlo alla vista. Sebbene lui ne ignorasse ancora l’identità, il cuore aveva già capito chi ella fosse, forse perché una dispettosa folata di vento aveva portato un profumo insolito in quella sterilità invernale: il sentore dell’uva spina e dei lillà in fiore, l’aroma selvaggio e fiero della primavera, di Beltaine.

◤A memory is a Star, or a Stain◥Code © Horus

 
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view post Posted on 27/2/2020, 23:38
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Sboccia nella neve mortale il fiore del ricordo

Una leggera folata di vento si spinse con decisione all'interno del vicolo, sollevando piccole nuvole di nevischio, via dal suolo imbiancato. Sottili mulinelli di ghiaccio vorticarono verso i suoi piedi, imperlando come gemme preziose i lembi inferiori del cappotto, per poi morire silenziosamente su di esso qualche attimo dopo. Lo stesso vento che ora le premeva contro gli zigomi arrossati e la fronte, scompigliando in parte i lunghi capelli. Come un amico preoccupato, che le intimava di volgere altrove lo sguardo, per accorgersi di quella figura che in lontananza la osservava. Ma in quel frangente nella mente della ragazza vi era solo silenzio e un sacrale bisogno di intimità, tale da non badare ad alcun riverbero che non fosse quello della natura stessa. Ascoltava il nulla provenire dalle mura marcite, limitari di un focolare oramai spento e senza più alcuna storia da raccontare. Scatole vuote di ricordi, di memorie estinte, se non attraverso piccole leggende tramandate di voce in voce. Quell'aura di abbandono, mescolata a mistero e sottile terrore, era bastato a rendere quel quartiere di periferia poco appetibile come meta.
Sfilando la mano destra dalla tasca del cappotto si risistemò parte dei capelli dietro l'orecchio, così da evitare che il vento divertito continuasse a schiaffeggiarle il viso. Lasciò scivolare un ultimo sguardo malinconico sul profilo dei tetti e delle finestre divelte, che come mura di un labirinto segnavano il suo percorso. Quell'unica strada che ormai conosceva bene possedeva lo strano potere di riuscire a stupirla ogni volta che la attraversava. Abbassò lo sguardo al sentiero e riprese a camminare, disseminando dietro di sé orme più leggere di quelle che aveva lasciato sulla strada principale. La neve che ricopriva il suolo era infatti andata diminuendo in quantità, complice forse le ridotte dimensioni del vicolo e dell'incapacità del sole di raggiungerlo. Le suole non affondavano più e il passo si era fatto più stabile. Il bianco andava diradandosi verso il fondo della stradina, perdendosi verso il suo limitare in una grossa ombra scura che sembrava bloccare il passo ai viaggiatori più sprovveduti. Ma non era affatto un vicolo cieco, seppur da lontano poteva dare quell'impressione. L'ombra altro non era che un tenace vischio, che aveva proliferato indisturbato nella quiete di quel luogo, estendendosi fra le case e percorrendo vorace il muro di mattoni che disegnava verso sinistra una nuova piccola traversa. Nascosto fra le sue foglie sempreverdi e ricche di vita, si scorgeva appena la linea sottile e piegata di un altro albero, al quale il vischio doveva essersi attaccato anni prima come un parassita, risucchiandone in parte la forza, e compromettendone lo sviluppo. Mya si avvicinò alla pianta, attenta a non sfiorare le foglie affilate, ma ne assaporò a fondo l'odore, ritrovandovi il profumo del vento di poco prima. Era evocativo, come ogni cosa in quel luogo. Aveva il potere di manifestare davanti ai suoi occhi echi di memorie, delle allucinazioni meno vivide di un sogno e maggiori di un dejavù. Le parve di percepire il muoversi ritmico di alcune foglie, smosse in ordine simultaneo come se qualcuno di coraggioso avesse trovato divertente saltare di stelo in stelo. Quella percezione, effimera e fugace, ebbe il potere curativo di dissolvere in parte la malinconia che ogni tanto le faceva visita, quasi alla sprovvista.

Allungò una mano per cogliere un rametto di bacche rosse da poter portare con sé, ma nel movimento forse troppo impacciato si procurò una piccola ferita sul dorso della mano fra pollice e indice. Osservò il taglio sottile aprirsi scarlatto sulla pelle chiara, bruciava come se a tagliarla fosse stata carta, ma il gelo di lì a breve avrebbe placato anche quel leggero fastidio. Tenne il rametto tra le dita, discostandosi dal grosso arbusto e prendendo la stretta via di sinistra. Era una stradina più ordinata rispetto alla precedente, con meno ingombri lungo il percorso e meno neve a rallentare il passo. Sulla sinistra le case avevano il medesimo odore di quelle incontrate poco prima, vecchie assi schiodate in diversi punti, ma nessuna finestra o porta che affacciasse sul retro. Sul lato opposto, ad offrirle un riparo maggiore si ergeva un lungo muro mattonato, percorso in maniera meno invadente dal vischio. Non mancava molto, poteva quasi contare i passi che la dividevano dall'accesso, camuffato con cura fra le sbozzature imperfette di un mattone rossastro. Non ebbe nemmeno bisogno di sfiorare l'effige, che questa reagì al suo solo passaggio, riconoscendo in lei uno dei membri della famiglia al quale era stato legato tramite un incantesimo. Il muro di mattoni, a pochi metri dallo stemma, iniziò ad attenuarsi fino a scomparire, liberato dall'incanto di camuffamento che lo preservava ad occhi estranei. Al suo posto comparve un antico arco di pietra largo circa sei piedi, costeggiato sui fianchi da edere rampicanti, soffocate dal peso dell'ultima nevicata. Si strinse nel cappotto pur non sentendo affatto freddo, ed entrò nel giardino eterno.

Ad accoglierla, come un amico di vecchia data, c'era la chioma di un grande ciliegio perennemente in fiore. Posizionato al centro del giardino e circondato da un basso muretto di pietra chiara, si stagliava fiero come guardiano e custode di quel luogo senza tempo. Una leggera coltre di neve spolverava i suoi rami, ma non ne intaccava affatto la forza né la bellezza. Un incanto di protezione lo rivestiva come un mantello, preservandolo dall'offesa degli agenti climatici e di quelli più terreni. Le sue fronde si muovevano con elegante lentezza, danzando fra le braccia del vento, produceva un delicato rumore tra le fronde e i petali. Tutt'intorno un prato imbiancato e sgombro di alcuna impronta lasciava percepire la totale assenza di vita animale nei dintorni. Il giardino infatti era circondato e racchiuso da una folta boscaglia, di arbusti e piante di ogni genere, che non lasciavano intravedere cosa vi fosse oltre. Era un santuario, quasi un luogo scollegato dal mondo terreno, privo di brutture. Tanto immacolato e puro da non lasciar capire se fosse solo una sensazione dell'anima, o quel luogo avesse davvero qualcosa di innaturale. Per Mya era casa, era silenzio, era calma.
Decise di infrangere in parte quella perfezione marchiando il terreno con le sue pedate, avviandosi proprio in direzione del grande ciliegio. Ma anzichè sedersi lungo il suo limitare lo superò di poco, spostandosi verso destra raggiungendo un piccolo cumulo di pietre ammassate. Poggiò la busta di carta brunita sulla neve morbida e si piegò sulle ginocchia, allungando le braccia per spolverare via la neve da quello che sembrava in rilievo un cerchio di sassi scuri. Le ci volle un poco per completare tutta la figura, segno che aveva lasciato cadere davvero troppa neve in quei mesi. Una volta completata la pulizia si spinse con le ginocchia all'interno del cerchio, sedendosi sulle sue gambe. Le punte degli stivali affondarono nella neve, ma non vi badò per nulla. Con la mano sinistra raccolse il sacchetto di carta e la portò all'interno del cerchio, ponendola a terra fra il suo corpo e una grossa pietra nera irregolare che sedeva sul lato opposto. Sopra di essa si trovava un secondo masso, di dimensioni notevolmente più piccole, grande poco più di un pugno chiuso. Era avvolto tutt'attorno dalla sua vecchia sciarpa di tassorosso, e la neve non lo colpiva, protetto dai rami protesi dell'albero custode.
La ragazza congiunse le mani poggiandole sulle gambe e socchiuse leggermente gli occhi, lasciando che un refolo d'aria bollente lasciasse infine la sua bocca.

- Sono qui - disse, sfiorando la sciarpa e portandola più vicina alla piccola pietra.




Hogsmeade - verso il tramonto
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view post Posted on 3/3/2020, 19:47
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— 19 yrs ▴ Hogsmeade; late afternoonclothesMentre me ne stavo lì, stretto alla parete come una specie di bizzarro ladro con il fetish del voyeurismo, mi sfiorò il ricordo di un pomeriggio di molti anni prima. 
Erano le vacanze di Natale o, per come la famiglia di mia madre l’ha sempre chiamato, Yule. Ero particolarmente annoiato e così vagavo nelle stanze della tenuta dei nonni con un libro in mano, svogliato, alla ricerca di un luogo dove rintanarmi senza essere scovato da nessuno. Deciso a tenermi lontano da mio nonno Domnhall, con cui non sono mai andato particolarmente d’accordo, avevo deciso di rifugiarmi nella stanza di nonna Sinéad, convinto di trovarla vuota. Mi piaceva la sua camera: profumava di lavanda ed il camino era sempre acceso, a dispetto del resto della casa, spesso fredda. Non mi aspettavo di trovarla in poltrona, così quando mi accorsi del suo profilo, mi fermai sul limitare della soglia, pronto a fare marcia indietro. Mi trattenne una melodia, il suono del pianoforte e dei violini che, insieme, creavano il pathos tipico di un’opera teatrale. Nonna sedeva tranquilla, ad occhi chiusi, ed ondeggiava la testa lentamente, a tempo di quella musica antiquata e bellissima che proveniva da una piccola radiolina di legno. D’un tratto ebbi la visione di lei non come la conoscevo, rugosa, piccola e curva, ma com’era un tempo, come appariva dalle foto sparse per la casa: bellissima in un abito rosa antico, i dolci occhi azzurri che scrutavano un infinito lontano, distante, i capelli biondo rame sciolti sulle spalle piccine e aggraziate. “Tua nonna avrebbe tanto voluto fare la ballerina, ma tuo nonno non glielo permise” mi aveva raccontato un dì mia madre con aria triste; fu facile capire che in quel momento, nonna Sinéad danzava sulle note della sua malinconia. Ero così assorto dalla bellezza di quella visione, che lasciai cadere il libro. Atterrò sul parquet con un tonfo sordo e mia nonna sussultò. Scappai via senza neanche rendermene conto, il viso in fiamme. Non so perché m’imbarazzai a tal punto da fuggire agli occhi di mia nonna, ma corsi finché non fui molto lontano da lei. Il giorno dopo avevo già rimosso l’accaduto e l’ho così sepolto nel tempo.
Fino ad oggi.
Quella volta fu come se mi fossi intromesso nei pensieri di mia nonna, intrufolatomi in un’intimità non intesa nel più classico dei suoi significati, ma in un mondo diverso, così privato da non dover essere condiviso con nessuno. Quel che sentivo in quel momento, nel vicolo di Hogsmeade, era lo stesso identico sentimento. Mi sembrava di essermi addentrato, non volendo, nel mondo della ragazza che mi era di fronte. Chiusi gli occhi per un istante, convinto così di poter riprendere il controllo del mio corpo intirizzito dal freddo e fare dietro-front con discrezione. Eppure quando li riaprii, colsi un movimento del braccio della fanciulla e immediatamente capii nel mondo di chi mi ero intromesso. Non fu il viso, ancora parzialmente nascosto, a darmene conferma, ma il gesto che ella compì; fu il modo in cui si portò una ciocca all’orecchio, a farmi comprendere quello che, in realtà, avevo già capito.
Mya
Il suo nome mi rimbombò nella testa come un sasso che cade giù da un dirupo. Deglutii e, paradossalmente, sentii il mio corpo irrigidirsi. Nonostante tutti gli anni passati, ciò che era rimasto in sospeso fra noi aveva sempre gravato sul mio cuore. Non mi sono mai soffermato ad indagare sui sentimenti che provavo al suo pensiero: credo di essere stato animato in un primo momento dal rancore e dalla codardia poi. Infine, sono semplicemente scivolato nell’abitudine di un’apatia ostinata. Da quando era tornata se la vedevo nei corridoi, i miei piedi cambiavano automaticamente strada; se ci incrociavamo in Sala Comune, la mia testa si voltava in un’altra direzione, come magicamente attirata dal punto opposto al quale lei si trovava. Ignorarci era diventato un rituale e mi andava bene così. Probabilmente era così insito in noi che probabilmente per questo motivo lei non si era accorta di me. Certamente il Felpato che ho eseguito su i miei piedi doveva aver influito, eppure Mya era così immersa in quella dimensione, che per lei non esisteva null’altro. Mi venne quindi naturale chiedermi cosa diamine avessero in mente gli Dei, per farci capitare entrambi nello stesso posto dimenticato ed abbandonato da tutti. La coscienza mi spingeva ad andarmene e terminare il mio compito, eppure… eppure la seguii. Lasciai il muro come fosse stata fino a quel momento l’ancora di salvezza e poi mossi qualche cauto passo a debita distanza, gli occhi fissi sulla sua schiena. Una strana calma abitava il mio cuore, quando invece mi sarei aspettato molta più agitazione. Forse, mi dissi, era perché la mia maledetta indole curiosa vinceva su tutto, persino sulla sgradevolezza del confronto che temevo da anni.
Ben presto ci lasciammo alle spalle il suggestivo squarcio di Hogsmeade in cui ci eravamo fermati ed imboccammo un’altra strada sgangherata. Nemmeno una volta Mya si voltò indietro e io continuai a chiedermi, per tutto il breve tragitto, cosa la spingesse a muoversi a tal punto da ignorare completamente ciò che la circondava. Proprio questo mi costringeva a guardare il suo profilo con lo sguardo corrucciato: non era la Mya cui mi ero abituato. Era sempre stata una ragazza diffidente, guardinga e da quando era tornata dal suo misterioso viaggio era sembrata molto più scostante di quanto non fosse mai stata. Quel comportamento anomalo mi disturbava, benché sapessi, con un po’ di vergogna, che probabilmente agiva così perché si aspettava di essere sola. Non ebbi tempo di provare un senso di rimorso però, perché quando finalmente raggiungemmo la fine della strada, la visione che mi si presentò davanti agli occhi mi tolse il fiato.
Fu come se il Platano Picchiatore mi avesse colpito in pieno viso. Barcollai, smarrito e mi appoggiai allo sgangherato muro che delimitava la fine del viottolo.
Conoscevo il posto in cui Mya mi aveva condotto suo malgrado: non l’avevo mai dimenticato.
Avevo solo undici anni e proprio sotto quel ciliegio avevo compreso molto più di quanto mi fosse stato concesso dagli Dei fino a quel momento.
Avevo visto il falco, l’avevo creduto il mio Ra e le mie speranze si erano infrante quando mi ero accorto di quanto piccino fosse l’esemplare che avevo inseguito per mezza Hogsmeade. Nonostante questo a quella creatura, minuta come lo ero stato io, avevo confidato le mie paure, i miei desideri, tutto ciò che non avevo trovato il coraggio di rivelare nemmeno a me stesso. I fiori del ciliegio erano scesi come una pioggia sopra la mia testa e ricordo di aver riso, riso così tanto da farmi venire le lacrime agli occhi, il cuore molto, molto più leggero di quella piuma che mi portavo al collo come un fardello.
”Mi basterebbe volare in alto come fai tu”
Mi sembrò quasi di vedere il fantasma di quel ricordo ai piedi del ciliegio. I lunghi capelli rossi, il viso femmineo, le mani piccole e fragili. Quando avevo trovato il coraggio di abbandonare quel luogo, mi ero sentito un po’ più grande, un po’ più coraggioso, convinto che quel piccolo falco fosse un guardiano, un messaggero che mi avrebbe protetto dall’Oscurità.
Lo avevo cercato così tanto in quei primi anni, invano.
Solamente quando ho affrontato il mio percorso con Cernunnos avevo scoperto tra le pagine di un libro che non era un falco qualunque, quello che da bambino avevo visto, ma un gheppio. Tuttavia mai mi sono spiegato la presenza delle tre piume rosse, un’incognita che mi aveva perseguitato e che poi, semplicemente, avevo dimenticato nel susseguirsi degli eventi.

Ed ora… ora ero lì. Ora possedevo le ali e l’arroganza che mi aveva quasi portato a perderle, come i dolori del mio corpo mi ricordavano costantemente anche in quel momento.
Senza rendermene conto, avevo mosso un passo e rinfoderato la bacchetta, portandomi la mano alla gola. La ruvidezza delle garze sulle dita mi infastidì, ma non riuscivo più ad avere alcun controllo sul mio corpo. Il pacchetto che avevo stretto fino a quel momento cadde a terra, come in una pantomima che riprendeva il ricordo che mi aveva infine spinto a seguire Mya. Il suo tonfo venne attutito dalla neve ed i bordi della carta presero ad inzupparsi, senza che io vi badassi.
La consapevolezza fu tanto improvvisa quanto lo era stato lo shock di rivedere e rivivere quel luogo.
« Eri tu… »
La mia voce era un sussurro, più debole di un innocuo mulinello di neve, eppure risuonò nella mia testa come un grido.
« Sei sempre stata tu… »
Riportai gli occhi su Mya, inginocchiata davanti a delle pietre e in quegli occhi d’ametista rividi il mio fantasma.

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Sboccia nella neve mortale il fiore del ricordo
La solitudine aveva lo strano potere di accrescere, oltre i confini della memoria, la conoscenza che si aveva di qualcuno. Nell'assenza si andava creando un filo di ricordi ben nitidi, che affioravano dalle profondità di una quotidianità ritenuta il più delle volte banale. Gesti consueti, o atteggiamenti cui non si badava per più di un attimo, eppure accadevano, esistevano. Nella loro semplicità componevano l'essenza di quella presenza. Così era per Lei, così era per loro.
Se ne era resa conto solo quel pomeriggio, quando entrata alla testa di porco per una bottiglia di burrobirra, si era lasciata catturare da un cestino di arachidi dimenticate sul bancone. Aveva chiesto al barista di metterne una manciata nella busta della bibita, e aveva lasciato il locale accompagnata da quel minuscolo frammento di ricordo. A lei nemmeno piacevano molto quelle noccioline dal sapore troppo salato, ma Amina amava saltarci sopra di peso col suo corpo roccioso, per infrangerne il guscio e lasciare che lei ne mangiasse il contenuto. E Mya la lasciava fare, incapace di mettere un freno a quel gioco divertito. Erano passati anche giorni tristi e grigi, soprattutto dopo quel terribile evento di molti anni prima. Giorni nei quali la tassorosso non era riuscita quasi nemmeno ad alzarsi dal letto o trascorreva le sue giornate ad osservare l'esterno di una vetrata, con una tazza di the ormai freddo tra le mani.E quel piccolo passerotto, scheggiato e fragile, le era sempre stato attorno con una nocciolina stretta nel becco scalfito. Solo per divertirla, solo per richiamarla, solo per salvarla. Aveva mai dato reale valore a quei momenti, o li viveva solamente ora nel silenzio di un sentimento incompiuto?Aprì la busta di carta che aveva davanti alle gambe e ne tirò fuori una manciata di arachidi, lasciandole cadere sulla grossa pietra, e a ridosso della sua vecchia sciarpa. - Non ne ho prese di più, mi dispiace. Ma ti ho portato anche qualcos'altro! - disse avvicinandole anche il vischio, con una voce animata, come se lei potesse realmente sentirla. E forse era così, sarebbe bastato allungare una mano e Laguz avrebbe potuto rispondere a quella domanda per lei. Ma il timore di poter percepire solamente il vuoto più sordo l'aveva sempre fermata. Le piaceva chiacchierare con lei, parlarle di ciò che le accadeva, recuperare quel tempo che in passato sapeva di aver bruciato con il suo arrogante egoismo. Era anche quello egoismo, in una forma più matura. Amina era la pietra sulla quale aveva cercato di ricostruire sé stessa, più forte e fragile al contempo, senza il timore che questo rappresentasse un ostacolo.

Congiunse le mani. Nella mente un antico prego celtico prendeva forma, pronto ad uscire dalle sue labbra accaldate. Quando un suono sordo, come un eco disperso, non infranse la bolla sacra nella quale era discesa, vincolando la sua anima ad un rituale commemorativo. Allertata da un istinto primordiale, che fino a quel momento beffardo era rimasto in silenzio, Mya trascinò forzatamente la coscienza fuori dal limbo mistico che aveva creato. Qualcosa aveva impattato sul soffice manto nevoso alle sue spalle, in distanza. Ben conscia che non potesse esserci alcun animale, la ragazza era subito scattata sulla difensiva, ma ancor prima che potesse girarsi una voce la trafisse alla nuca. Una voce leggera, quasi un sospiro, trasportato dal flebile vento che ostinatamente continuava a spingere quei passi, su strade inattese. Ancora una volta non si sentì padrona del suo destino, come era accaduto anni prima. Come se ogni ostacolo sul sentiero fosse stato posizionato appositamente, e lei non avesse il potere di scegliere alcunché.Si voltò, quasi più per abitudine, che per sincerarsi che la sua intuizione fosse corretta. Non aveva modo di sbagliare, perchè quella voce al pari del peso di Amina su una mano, le era impressa indelebilmente nella memoria che quel suo corpo aveva. Non la udiva da anni, colpevole la distanza che lui stesso sembrava aver messo, come pegno da pagare per quel suo rientro al castello. Eppure il suo riverbero nell'aria era così definito, così reale, da escluderle l'ipotesi che fosse uno strano scherzo dell'albero guardiano. Già in passato era accaduto che quel misterioso ciliegio intrappolasse dentro di sè parole e promesse che sotto le sue fronde erano state pronunciate. Forse credendo fosse un gradito dono regalare agli umani frammenti delle loro memorie. Ma quello che probabilmente non sapeva, quale spirito alto, era che gli esseri umani vivevano di menzogne e di parole fragili, sorrette da cuori ancor più incerti. Così quei ricordi divenivano tarli di rimorso al solo udirli, ti logoravano e sfinivano nella maniera più crudele. Colpe proprie, colpe di altri, che importanza aveva mai? Sentimenti calpestati, come si calpesta un fiore mentre si guarda alla meraviglia di un prato.

Alla fine di quel movimento, che le sembrò esasperante nella sua infinita lentezza, la tassorosso finì inesorabilmente in quegli occhi grigi che tanto bene aveva conosciuto trovando in essi un'emozione nuova, diversa, incomprensibile. Eppure più che il suo sguardo, furono le parole di lui a rimettere in moto i meccanismi eccessivamente rilassati della sua mente. E se in un primo momento le erano apparse senza senso, così improvvise da destare in lei più domande che altro (complice anche la completa assenza di dialogo che i due avevano da più di due anni), in un secondo tempo la colpirono come uno stupeficium in pieno petto. Non aveva idea del perchè quel beffardo fato avesse portato il ragazzo nel giardino eterno, ma non le ci volle molto per riallacciare i collegamenti mentali che lui doveva aver fatto. Quel luogo segreto che li aveva visti conoscersi anni prima, in vesti diverse, e probabilmente più sincere di tutte quelle che avevano indossato da quel momento in poi. Quel luogo che era stato tempio di paure, di fragili speranze e di coraggiosi propositi, ora li riportava l'uno davanti all'altra per un confronto che forse entrambi bramavano da anni.Nei suoi occhi violacei scorreva chiara l'emozione di smarrimento, come se a mancarle fosse stata la terra sotto al corpo, il cuore le risuonò nel petto con battiti sempre più profondi e lenti. Si sentì scoperta, nuda sotto una pioggia di vetro che non poteva evitare in alcun modo. C'era stato in passato un tempo giusto per rivelare quel lato del suo doppio spirito, lo aveva desiderato in più occasioni, ma qualcosa l'aveva sempre fermata. Il timore che lui non potesse davvero comprendere quella sua natura bestiale, e potesse amarla solamente a metà. Ricordava lo sguardo affascinato del bambino di undici anni, ma la differenza tra ammirare un animale e vedere qualcuno trasformarcisi era abissale. O forse andando più a fondo, nella ricerca del motivo che l'aveva spinta al silenzio, c'era stato un più profondo e vile terrore di vedersi incatenare da quel sentimento, al punto da non riuscire a desiderare la libertà con ogni piuma, come era sempre stato nella sua vita. E non era stato proprio questo desiderio, quasi perverso, quasi inumano, a toglierle quelle stesse ali? Lo aveva chiamato il suo Cielo, con l'innocenza sciocca di una ragazzina, senza rendersi conto di star ricercando in lui quell'unica motivazione per restare a terra. Per restare umana.

I suoi occhi erano ancora fissi in quelli di lui, sapeva di dover dare una risposta a quelle affermazioni. Una parte di lei credeva che un " non dovresti trovarti qui" avrebbe premuto sulle sue labbra per uscire, agitato e irriverente come era sempre stata, ma misteriosamente scoprì che oltre al silenzio non v'era molto altro nella sua testa. Questo forse le lasciava la possibilità di pensare con chiarezza, di fare la cosa giusta per la prima volta con la dovuta lucidità. Troppe erano state le volte nelle quali aveva evitato domande dirette, o quando con arrogata arroganza gli aveva chiesto di dimenticare un determinato episodio, o un momento. Come se i sentimenti altrui fossero in tal modo facili da comprendere, e lei ne potesse armeggiare come meglio credeva. Non era più quella ragazza superficiale e spaventata oltre il limite che credeva, in realtà non sapeva bene cosa fosse diventata. Ma tutto il percorso fatto, le perdite che aveva continuato ad ammassare come pietre intorno ad un cerchio, l'avevano in qualche modo risvegliata. Aveva compreso di non desiderare affatto il perdono per gli errori passati, ricercando piuttosto la sua personale redenzione. Ma era stato come trovarsi tra le mani la chiave di una porta, di una serratura che a tutt'oggi non aveva ancora trovato. Eppure la stringeva.
Non aveva più voglia di nuove bugie, un nuovo teatrino di menzogne e meschino gioco. E men che mai sentiva di voler offendere l'intelligenza di Horus, né di farsi beffa del suo orgoglio. Era stanca delle bugie, e stanca che quel peso opprimente continuasse a gravarle sulle ali e sul cuore, impedendole di godersi semplicemente il viaggio, ovunque la stesse portando. Stanca di preoccuparsi dei "se" e dei "ma", le probabilità erano diventate scelte sbagliate e i rifiuti si poggiavano sulla sua anima come occasioni perdute. Come il tempo di Amina che aveva perduto. Tutto era freddo, eppure era ancora vivo.
- Ha importanza? - rispose semplicemente, con un tono di voce più fermo di quel che temeva. Lo sguardo non aveva abbandonato le iridi di lui, decisa a non farsi più indietro. Ha importanza? si chiese, capendo come quel momento fosse straordinariamente simile al confronto avuto molti anni prima, solo a parti inverse. Ha importanza? si chiese, riguardando a quella figura di bambino spaventato che si miscelava, come un alone in trasparenza, al suo corpo più adulto e provato. Si era sentita importante in quel giardino, capace di salvarlo da quell'oscurità da cui lui si sentiva seguito, e in parte ammaliato. Ma aveva fallito. Ha importanza? si chiese, ora che erano poco più che sconosciuti, divisi dalle bugie. Ha importanza? Lo chiedeva a lui, perchè in verità lei non sapeva darsi una reale risposta
Ma spogliata da quel sottile assenso ora si sentiva nuda ai suoi occhi.
Per la prima volta però le sembrò di respirare davvero.



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— 19 yrs ▴ Hogsmeade; late afternoonclothesHa importanza?
Tutto.
Tutto aveva avuto importanza. Piccoli gesti casuali e fortuiti incontri avevano generato una serie di eventi a catena che lo avevano portato fin lì, alla vigilia di una missione complicata, di una Verità che cercava da troppo tempo ma per cui non aveva davvero trovato il coraggio prima di quel momento.
Aveva avuto importanza il giorno in cui aveva messo piede sulla carrozza semi-vuota dell’Espresso di Hogwarts, dove una ragazzina imbronciata se ne stava seduta scomposta sui sedili. Aveva avuto importanza la scelta del Cappello Parlante che aveva sviato i suoi desideri e lo aveva infilato proprio lì, in quella Casata che ora non avrebbe cambiato per nessuna gloria e onori al mondo. Aveva avuto importanza il volo del gheppio tra le nubi d’inverno, dove il vento l’aveva guidato laddove due ragazzini, troppo piccoli, giocavano con la Morte e un libro proibito, velenoso, che avrebbe forse condannato uno dei due, ancora in tempo per essere salvato.
E aveva avuto importanza quella corsa sulle scope in un pomeriggio di primavera, quando le colline attorno ad Hogwarts erano piene d’erica in fiore e il fragrante profumo dell’aria scompigliava loro i capelli, mitigava il rossore delle gote, i battiti del cuore, allontanava le loro innocenti labbra di ragazzini.
Aveva avuto importanza la lettera di Sivra e il suo abbandono proprio la sera prima del ballo di fine anno, la scelta di scendere in Sala Grande nonostante la solitudine, alla ricerca dell’unico sguardo che l’avrebbe reso felice, per vederselo passare davanti, fra braccia che non erano sue. Erano state importanti tutte quelle persone che erano sfrecciate nelle loro vite, che erano giunte solamente per una danza o un bacio umido in Guferia, un’esistenza salvata, altre distrutte per sempre fino a quel secondo, quell’attimo.
Aveva avuto tutto così importanza che in quel momento, mentre la voce di Mya era diventata solo un’eco nelle sue orecchie, Horus si rese davvero conto degli anni trascorsi. L’albero, in fiore nonostante la neve, sembrava essersi tramutato in un grande, limpido specchio. Non era come quello che aveva visto al Ballo delle Ceneri e non rifletteva una versione di sé crudamente reale. Era un semplice specchio che rimandava l’immagine di come era cresciuto e di ciò che aveva affrontato fino a quel momento. Dove era arrivato con i suoi piedi, certo, ma anche l’aiuto, la fiducia, l’affetto, l’amore di chi l’aveva sostenuto durante quella sua egoistica crescita.
Le labbra si schiusero e fu come se fossero rimaste sigillate per tutto quel tempo, per tutti quegli anni.
Ha importanza?« No. » si sentì rispondere Horus. La sua voce era semplice, delicata eppure sorpresa. Corrugò le sopracciglia rosse, sgomento in un primo istante per la semplicità di quel responso e poi, accettandolo con tutto se stesso, ripeté: « No. Non ha importanza. »
Scosse il capo e dai riccioli rossi cadde qualche fiocco di neve che vi si era depositato: in quel gesto sembrò quasi che Horus avesse deciso che tutto dovesse scivolare via. Poi si chinò, con calma, senza fretta, e raccolse il pacchetto caduto. Lo spolverò con il dorso della mano, guardando l’incarto bagnato e se lo mise nella tasca del cappotto. Allora Horus alzò il viso e non vide più lo specchio, ma solo il grande, fiorente albero. Con i suoi rami sembrava voler abbracciare entrambi i ragazzi, beandosi di vederli cresciuti, come una madre che silenziosa ha assistito con fiducia allo scorrere del tempo. I petali morbidi scendevano lievi come fiocchi di neve, smossi da una folata di vento gelido che spazzò quella piccola corte fragile e preziosa.
Mya lo osservava e in quegli occhi d’ametista non fu difficile rivedere quelli del falco, quella piccola creaturina che, a sua volta, ne aveva aiutato un’altra molto più fragile. Il rancore, la rabbia, il rimorso defluirono dall’anima di Horus, traboccante, ora, di un sentimento sopito, dimenticato: Riconoscenza.
« Dove siamo? » Le chiese affiancandola, le iridi d’argento che sfioravano il profilo di Mya, i fiori, la grossa pietra e infine la sciarpa di Tassorosso. 
Sul viso pallido, di uomo, si delineò un’espressione indecifrabile, puerile, quasi avesse compreso in cuor suo cosa si celasse sotto quella coperta calda, e avesse paura della risposta.

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Scusasse per i continui cambi stilistici. :ihih:
 
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Sboccia nella neve mortale il fiore del ricordo
Immobile e calma se ne restava, nel brivido freddo di quel pomeriggio invernale. Eppure dentro di lei, ingombranti sensazioni avevano iniziato a serpeggiare, in quella quieta pace. Era certa di essere pronta ad accettare qualunque verità quelle labbra avessero proferito. Non perché fosse lui, ma perchè il tempo del raccolto era giunto. Ogni passo, ogni scelta, ogni errore. Che fosse stato il Fato o meno a metterci lo zampino poco importava. Erano la conseguenza di sentieri intrapresi con consapevolezza, e dovevano risponderne in quanto esseri umani. Ma il silenzio di lui non faceva altro che aumentare quel sottile stato di tensione.
Cosa stava significando dunque per Horus quella rivelazione? Le iridi viola scivolavano da un occhio all'altro del ragazzo, cercando nel suo sguardo quelle risposte che tardavano ad arrivare. Li vide colorarsi di diverse sfumature, da ombre incerte e rughe di un pensiero più oscuro, per poi virare verso una luce diversa più consapevole e viva. Sembrava attraversato da un fiume in piena di emozioni, forse ricollegando fra loro tutti i frammenti di ricordo che aveva condiviso con la sua versione piumata. Ne stava provando vergogna, e ribrezzo?
Poi la risposta arrivò, e parve avere su Mya l'effetto di una manciata di neve infilata nel colletto della maglia. Continuava ad osservarlo mentre lento avanzava verso di lei, sul volto era scomparsa ogni traccia dello smarrimento. Il vortice di emozioni che aveva travolto il ragazzo sembrò confluire in una bolla di estrema tranquillità, che aveva ben poco della finta compostezza che tante volte gli aveva visto indossare. Le disse che non aveva importanza, forse perchè come aveva precedentemente realizzato lei stessa, il legame che divideva ciò che contava da ciò che non contava era stato spezzato da tempo. E quindi una simile rivelazione, non aveva in effetti alcuna valenza.
Mentre nell'opposto vi era la voce di una seconda ipotesi, ovvero quella che passava per l'accettazione completa del suo essere. Mya e il gheppio erano la stessa cosa, ed andava bene così. E quella seconda scelta la rendeva più serena di quanto non desse a vedere. Per anni lui aveva continuato a chiamarla Vento, forse con strafottenza o superficialità, al punto da farle quasi pensare che in realtà sapesse. Ma non aveva mai davvero compreso quanto vicino ci fosse andato. Non fino a quel giorno, che beffardo o meno, non solo aveva rimescolato le carte, ma le aveva lanciate tutte sul banco senza ordine. Essere accettata per quell'essere imperfetto che aveva capito di essere, e che valeva più di ogni stupido timore al quale in passato aveva lasciato le redini. Era in equilibrio fra il cielo e la terra, figlia di entrambi i mondi e padrona della sua esistenza. Era questa in fondo la verità che gli aveva promesso, quel lontano pomeriggio all'ars arcana di quattro anni prima. Aveva infine spezzato quel vincolo.

Lasciò che si avvicinasse discostandosi appena perché ci fosse abbastanza spazio tra il recinto del ciliegio e il suo corpo. Le distanze erano tornate a formicolare come in passato, anche se ora più che fastidio erano più simili a disagio. Due passi laterali sarebbero bastati a creare quel rispettoso vuoto, lasciandogli anche più visuale sul circolo di pietre sul quale stava quasi per inciampare. « Dove siamo? » le chiese, e la sua voce vibrò nelle orecchie con familiarità, senza più nemmeno un accenno delle incertezze precedenti. Sembrava sinceramente curioso, forse deciso a cogliere l'opportunità di qualcuno che poteva rispondere in maniera verbale ad una curiosità che portava dentro dalla fanciullezza. Mya seguì i suoi movimenti fino ad incrociare nuovamente le iride argentee del ragazzo, e quella voglia rossastra che ancora trovava estremamente affascinante. Sperò che lui non si accorgesse di quanto quella stupida "debolezza" fosse ancora presente in lei, e distolse con calma lo sguardo verso il basso, rispondendo allo stesso tempo alla sua domanda.
« È un santuario » disse, infilando le mani nelle tasche del cappotto, e osservandolo di nuovo di sottecchi. Il divario fra le loro spalle si era fatto immenso e raggiungere il suo profilo senza dare nell'occhio sembrava diventata un'impresa eroica. Fortunatamente Horus sembrava rapito, in maniera più o meno spiacevole, da quello che aveva colto nel cerchio di pietre. Quello sguardo le strinse debolmente il cuore, al ricordo di quanto quella piccola creatura aveva significato anche per lui. Le aveva voluto bene con una tale sincerità, lo aveva visto in ogni gesto o gioco che le aveva concesso. Mai l'aveva guardata con pena o compassione, sempre con affetto e curiosità. Scorgeva lo sgomento nei tratti duri del ragazzo e non poteva biasimarlo, un sentimento con il quale lei aveva fatto i conti per tanti e troppi mesi.
Dischiuse appena le labbra e un refolo di aria rovente ne uscì, disegnando una vistosa nuvoletta nell'aria. Avere una temperatura corporea talmente alta, al punto da sembrare una febbre, aveva i suoi vantaggi in inverno. « Sarà felice di vederti qui » Si abbassò sulle proprie ginocchia, avvicinando una mano all'involto e discostando i bordi della sciarpa perchè fosse più visibile. Dell'uccellino di pietra che il ragazzo ricordava era rimasto ben poco, niente più ali ai lati del corpo, né un piccolo becco affilato, e neppure quegli occhi scuri come gemme nere incastonate nella testa. Di Amina restava la forma sbozzata di una pietra qualunque, una di quelle che ti capitano lungo il sentiero e cui non presti nemmeno attenzione fin quando magari non ci inciampi sopra, e con un calcio la spedisci lontano. Ma non per Mya, quella pietra aveva più valore di qualsiasi altra esistenza, pura e temeraria la teneva ancorata a sè stessa e alle promesse fatte. Prese tra le dita due noccioline americane dal bordo del masso e si risollevò, porgendone una ad Horus. « Tu le piacevi davvero molto » Una piccola confessione che sentiva di donare al ragazzo, pur consapevole che probabilmente lui l'avesse compreso da sè. Amina, a differenza di lei, non aveva mai avuto problemi con le dimostrazioni affettive, talvolta discretamente violente data la sua solida consistenza, ma sempre spontanee e sincere. In quel momento la frase appena detta le parve un inadeguato quanto codardo parallelismo. Strinse tra le dita la nocciolina fino a frantumarne il guscio e lasciò cadere le briciole sul manto innevato, infine congiunse le dita fra loro ed intonò con voce delicata e flebile una preghiera.
** «Possa la strada venirti incontro,
e il vento sospingerti dolcemente,
possa il mare lambire la tua terra
e il cielo coprirti di benedizioni.
Possa il sole illuminare il tuo volto
e la pioggia scendere lieve sul tuo corpo,
fino al nostro prossimo incontro.
» **
*fino al nostro prossimo incontro* ripeté mentalmente, ringraziando la discrezione e il rispetto che il ragazzo stava dimostrando in quel frangente e in quel luogo. Non si sarebbe mai perdonata di permettere che l'odio insozzasse quel luogo sacro.


** pronunciato in lingua celtica




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— 19 yrs ▴ Hogsmeade; late afternoonclothes Aveva colto di sfuggita il suo sguardo su di sé. Quegli occhi liquidi e straordinariamente comunicanti avevano sfiorato la voglia rossa sul viso, come tante volte avevano fatto in passato.
A differenza di molti, tuttavia, fin da quel primo giorno sull’Espresso Mya lo aveva guardato non come un fenomeno da baraccone e nemmeno come un curioso caso da studiare, ma con l’interesse innocente di una ragazza che percepisce un’anima affine.
Aveva lasciato, così, che lei lo guardasse ancora, ma volutamente Horus non aveva incrociato le sue iridi d’ametista. Osservava, piuttosto, quel cumulo di rocce con il cuore che sembrava essersi tramutato nel medesimo materiale. Ancora prima che Mya lo confermasse, lui aveva capito chi dormisse fra le pietre e cosa fosse, in realtà, quel luogo.
Un santuario.
La voce di Mya gli rimbalzò nelle orecchie come un’eco lontana.
Horus aveva appena riconosciuto i frammenti di Amina e un tonfo all’altezza dello stomaco gli comunicò che non si sarebbe mossa, non più. Schiuse le labbra ed una piccola nube di condensa si liberò dal suo respiro, senza lasciar sfuggire nemmeno un suono. Si rese conto che non c’era davvero nulla da dire, perché il dolore spegneva le parole.
Se Horus avesse chiuso gli occhi, si sarebbe potuto ritrovare sul promontorio al limitare della Foresta Proibita, ad osservare un uccellino di pietra rivelare una profonda crepa sulla minuta ala alla sua piccola amica umana. L’empatia che aveva provato in quel momento di tanti anni prima, refluì dentro di lui e lo sguardo di Horus si posò dalla piccola tomba, alle sue dita fasciate. Un sorriso malinconico increspò le sue labbra mentre osservava rapito la propria mano. Grande, ma delicata e affusolata, come un’ala: e, così come lo era stata quella di Amina, anche la sua era stata ferita. Fu inevitabile chiedersi, mentre abbassava il braccio e tornava a guardare quel soffice fagotto di lana giallo-nera, se il medesimo destino sarebbe toccato anche a lui.
Ma la voce di Mya lo strappò a quei cupi pensieri e lui sobbalzò leggermente, come se lei fosse comparsa all’improvviso e lo avesse colto a fare qualcosa di proibito. Si era voltato verso di lei, gli occhi che osservavano il suo viso arrossato dal freddo e ne seguivano i movimenti. Il sorriso cambiò forma e divenne più dolce, tenero. Avrebbe voluto dirle che anche lui sarebbe stato felice di vedere Amina, se solo l’avesse trovata a volare e non lì, per sempre relegata alla terra. Invece rimase in silenzio, senza trovare il coraggio di formulare la domanda che gli premeva sulla gola per uscire. Si avvicinò ancora di un passo e prese dalle mani di Mya la nocciolina che gli aveva porto.
« Anche a me piaceva molto. » Rispose nostalgico, ricordando i buffetti che la piccola Amina si divertiva a dargli ogni volta che lo vedeva.
« Ho ancora la cicatrice del suo ultimo bacio. » Ridacchiò con leggerezza, scostandosi un ciuffo di capelli rossi e mostrando a Mya una piccola, sottilissima cicatrice bianca poco sotto l’attaccatura della fronte. Amina lo aveva becchettato una sera, perché aveva osato addormentarsi mentre le carezzava la testolina di pietra davanti al calore del caminetto della Sala Comune Tassorosso.
Forse perché era immerso nei ricordi, ma non si rese conto del parallelismo fatto da Mya, non subito. Quando rimase in silenzio, con l’unico rumore della nocciolina sbriciolata dalla ragazza, il peso della loro passata relazione tornò a farsi sentire, come un terzo incomodo non invitato ad una festa. Avrebbe voluto arrabbiarsi con se stesso, perché finalmente sentiva di aver trovato un equilibrio e di aver sotterrato in fondo al petto quel rancore ostinato che aveva provato per com’era finita tra loro; ma non vi riuscì. Si disse che doveva essere l’aura che circondava quel santuario, a mitigare i sentimenti negativi. Non era successa la stessa cosa quand’era più piccolo? Proprio come per Magia, si era sentito sollevato da tutte le preoccupazioni che le aspettative altrui avevano generato. O forse… pensò guardando Mya con le mani giunte, era perché c’era stata lei, a sollevarlo da quei pensieri?
Horus chiuse gli occhi, le braccia lungo i fianchi, lasciandosi trasportare dal canto flebile di quella preghiera. Era lingua celtica, lo sapeva, e ne riconobbe alcune parole che aveva sentito udire da sua madre o da sua nonna: mare, cielo e terra, pioggia e sole e incontro.
C’era qualcosa di familiare in quella voce, e confortante: non aveva mai sentito Mya pregare prima di allora né, tantomeno, l’aveva mai sentita pronunciare qualcosa di diverso dal solito inglese —con una spiccata pronuncia irlandese quando soleva arrabbiarsi.
Dov’era stata in tutto quel tempo in cui era sparita da Hogwarts? Cos’aveva vissuto, lontano da tutti, lontano da lui?
Quando la sua voce si spense, Horus riaprì piano gli occhi e l’abbacinante lucore della neve gli punse le retine. Allora si sentì ristorato, come dopo aver bevuto dell’acqua fresca da una fonte limpida e posò la nocciolina in cima ad una delle pietre che circondavano il giaciglio di Amina. 
Estrasse la bacchetta e trasfigurò la nocciolina in un piccolo, liscio sasso che ne conservava ancora la forma. Poi, con la maestria che solo anni di esperienza da Ars Arcana gli avevano donato, vi incise sopra un’Ankh, la chiave della Vita e due geroglifici: un’ibis, l’anima, e uno scarabeo, una protezione.
«Colei che vive in eterno, nella luce degli Dei e del Sommo Amon possa risplendere.* » Mormorò, intascando la bacchetta e giungendo le mani in silenzio.
Rimase così per un lungo, lunghissimo momento, pregando Osiride affinché proteggesse lo spirito di Amina, il suo… e quello di Mya.

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*= nella lingua Antica d'Egitto
 
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Sboccia nella neve mortale il fiore del ricordo

Il vento pregava con lei, in un sussurro più armonico. Le fronde pregavano con lei, piegandosi in moti estatici in favore di quell'ancestrale richiamo. Il giardino si muoveva attorno a quel sacrario, e alle anime che in esso passeggiavano con ignara consapevolezza. Senza fretta, come se il tempo non fosse stato più una costante, come se non esistesse affatto. Raccolti in quel limbo pacifico, ogni oscurità era stata bandita. Che fosse una condizione momentanea, o più duratura questo non voleva saperlo. Le dita strette le une sulle altre raccoglievano al loro interno un nuovo calore.
Nel bianco e freddo inverno di Hogsmeade, quella preghiera le permetteva di sentire un sole più caldo, e nel vento il profumo delle primule sulle scogliere, e quello dei muschi nel sottobosco di Inis Mor. Riaccendeva in lei quella spiritualità capace di trasportarla laddove i ricordi più vivi risiedevano. Là dove Lei riposava, in una valle di eterna primavera, ad un passo dal suo cuore e dalla sua mente.

Amina si era spenta poco più di un anno prima, a pochi giorni dal Natale. Era stato suo padre a scriverle, preoccupato per le condizioni sempre peggiori in cui l'uccellino sembrava scivolare giorno dopo giorno. In tutta fretta la tassina aveva preparato uno zaino con le poche cose che le servivano, comunicando alla capocasa l'urgenza di partire il prima possibile. Aveva volato senza fermarsi fino ai confini del castello, riuscendo poi a smaterializzarsi appena oltre le barriere. Al suo arrivo, quasi non aveva salutato i suoi genitori, mollandoli sulla porta d'ingresso e chiedendo dove lei fosse. - Nella tua stanza, come sempre - le aveva detto il padre, non sforzandosi di rendere meno dura quella affermazione. Per mesi le aveva ripetuto di riportarla ad Hogwarts, al suo fianco, lì dove era il suo posto. Ma la ragazza si era rifiutata categoricamente, vedendola sempre più debole e ritenendo il castello un luogo troppo carico di stimoli e di pericoli per la sua piccola amica. Il suo nido era ad Inis Mor, un caldo tetto sopra la testa, vento tiepido ad ogni ora del giorno, niente caos, nessuna creatura violenta a rincorrerla e nessun ragazzino fastidioso nei paraggi.
Ma quella sicurezza valeva il prezzo di tanta solitudine? Quella domanda Mya non se l'era posta fino al momento in cui non aveva spalancato la porta della sua stanza, trovando Amina affondata in una sua vecchia sciarpa sul bordo della finestra. Le dava le spalle guardando il sole tramontare oltre l'orizzonte, senza accorgersi del suo arrivo. Sembrava immobile eppure era ancora viva, poteva capirlo dal pulviscolo pietroso che le aleggiava attorno, trasportato da un raggio di sole che tagliava in due la piccola stanza. Quel riflesso ambrato sfiorava le sbozzature della sua forma trasformando la dura pietra in una gemma preziosa. Chissà se sapeva quanto bella era in quel singolo istante, in quella silenziosa malinconia che la vestiva come la più eterea delle creature. Il respiro di Mya era immobile, quasi quanto il cuore che debole rintoccava, animato solo da una crescente paura. Aveva mosso qualche passo, di poco più pesante, per far sì che potesse sentirla arrivare, ma ancora non era riuscita ad avere la sua attenzione. Le era dovuta arrivare di fianco, e sfiorarle il corpo per farle girare debolmente la testa. Al suo tocco, per quanto delicato fosse stato, una nuova scheggia era saltata via scivolando fra i nodi di lana. La ragazza aveva allora ritratto la mano nel terrore di poterla distruggere irrimediabilmente. Amina era diventata di una fragilità indescrivibile, anche se il suo sguardo continuava ad essere vivo e intenso, pieno di quell'amore di cui le aveva sempre fatto dono. C'era una muta felicità sul fondo di quegli occhi scuri, eppure non possedeva la forza fisica di dimostrarlo, bloccata in quella prigione terrena che era il suo piccolo corpo di pietra. Una prigione che Mya stessa le aveva creato, per paura o egoismo, con la leggerezza e l'inesperienza di un cuore bambino. Improvvisamente il peso dei passati errori tornò a farsi vivo, schiacciandola a sedere sul pavimento.
Una consapevolezza che aveva intravisto molti anni prima, su una delle scogliere del castello, e che ora tornava a giudicarla con maturità ed intensità maggiore. Aveva creduto di avere ancora del tempo, tempo per rimettere assieme le cose, per crescere e ottenere il potenziale di cui necessitava per darle quel corpo vivo, e quella vita che meritava. Ma la verità era che aveva finito per scegliere sentieri egoistici, lasciando al tempo il potere di distruggere ciò che aveva lasciato indietro. Così come aveva fatto con tutti i suoi legami, con Horus, ed infine con Amina stessa. Quel sentimento le aveva inaridito il respiro, la tristezza non era mai fatta di lacrime e umido sollievo, somigliava più ad una sete inappagabile e una secchezza che ricopriva ogni parte del corpo. Si sentiva sgretolare dentro, spaccatura dopo spaccatura.
La sua dopotutto era solamente una sensazione, mentre il corpo dell'uccellino viveva quella medesima frattura in una maniera più crudele. Quanto le sarebbe rimasto ancora, prima che un'incisione più profonda la spaccasse inevitabilmente a metà? Poteva permetterlo? Per quanto il peso dell'errore, e dell'abbandono, le gravasse inevitabilmente sul cuore, Mya sentiva di non essere pronta a dire addio. E forse non lo sarebbe mai stata. Lasciare per ritrovare, per quanto dolorosa potesse essere come scelta, sentiva di non averne un'altra. O se ci fosse stata, non era disposta ad accettarla. Non un altro addio.
L'aveva raccolta tra le mani sollevandola con l'intero involto della sciarpa e si era spostata sul letto, incrociando le gambe sul letto. Le scarpe sporche lasciavano fango sul piumino di patchwork ma non aveva alcuna importanza. Solo Lei ne aveva. L'aveva poggiata delicatamente fra le gambe, come era solita fare quando nel dormitorio le raccontava delle avventure vissute tra le lezioni e le missioni archeologiche. Deglutì appena, cercando di contrastare quella ruvidità che aveva rivestito la gola e tutto il suo corpo. E prese a parlarle, come aveva sempre fatto, con euforia ed entusiasmo, gesticolando le raccontò tutto ciò che era accaduto negli ultimi mesi. Delle lezioni andate male, delle pozioni sbagliate, delle fughe notturne e degli incontri strani, di quel gufo che volava sempre a testa in giù e delle salse strane che avevano iniziato a servire insieme alle verdure, della pantofola introvabile e delle lezioni di volo che aveva dato ad un primino, lei proprio lei. Parlò tanto, fino a quando la voce non iniziò a grattare costringendola a tossire. Ma si era trattenuta quando si era accorta che l'uccellino si era addormentato, per quanto sapesse che non era possibile per lei riposare. Doveva solo essere l'effetto di quella stanchezza mortale, che iniziava a tenerla sempre più stretta tra le sue braccia. Il momento era quello, e lo sapeva. Non ne avrebbe avuto un altro, il coraggio stava svanendo.
Senza muoversi eccessivamente sfilò la bacchetta dalla tasca della giacca e nel muto silenzio la avvicinò al corpo della sua piccola amica.
Un sospiro nella mente richiamò un semplice incantesimo. *Finite* Anche se ad occhi chiusi, la mano e le gambe percepivano ancora il peso di quel piccolo corpo, eppure Amina non c'era più.


A sciogliere quel legame mnemonico, che si era stabilito attraverso quel fiume sacro che divideva il mondo terreno da quello ancestrale, fu la voce bassa e familiare di Horus. Parole dal significato sconosciuto le sfiorarono la mente, aggiungendosi come spuma leggera al fiume spirituale che sentiva scorrere tutto attorno. Riaprì gli occhi, osservando il ragazzo compiere un gesto inaspettato, ricurvo a terra. Un dono prezioso e importante arricchiva ora il nido di Amina, custodendolo dal mondo e dagli orrori. Non riconosceva il verbo pronunciato, anche se non era la prima volta che lo udiva, non gli aveva mai chiesto di tradurre qualcosa, reputandolo un limite intimo. Quell'espressione, quel modo di comunicare quasi interiore, aveva un che di sacro. Era parte dell'anima stessa, un costrutto inviolabile. Eppure, anche se non capiva l'esatto senso delle parole, avvenne qualcosa di particolare.
Non lo comprendeva, eppure lo capiva.
Non lo ascoltava, eppure lo sentiva.
Come se l'anima non avesse avuto bisogno di parole per comprendere il significato profondo di quelle parole arcane. Una connessione indescrivibile che non aveva mai provato, come una forma superiore di empatia, tra due preghiere, due anime, due cuori. Non capiva cosa stesse succedendo al suo corpo, ma si sentiva scossa da piccoli brividi ed un calore crescente le avvolgeva la nuca, per poi ridiscendere fino al petto. Bruciava, come se avesse avuto il potere di sciogliere quel rigido inverno e portare la primavera prima del tempo. Bruciava, risalendo i polmoni, fino alla gola e ancora più su verso gli occhi. Nemmeno il tempo di realizzare cosa stesse accadendo al suo corpo che una lacrima rovente era sfuggita alle sue ciglia, disegnando una piccola curva sulle gote arrossate. Mya d'istinto si era portata una mano al viso, sfiorando con le dita la guancia e raccogliendo l'intrusa. Era talmente calda da averle lasciato credere potesse essere sangue, ma era trasparente e umida. Non faceva in tempo a togliersene una dal viso, che la successiva sfuggiva all'occhio opposto, in una corsa incontrollabile. Quando capì che le mani non le bastavano più per tamponare la sorgente, lasciò che quel sentimento fuoriuscisse senza freno, scivolando goccia dopo goccia sulla sua maglia nera. Non riuscì ad incrociare lo sguardo di Horus, ma non per vergogna. Eppure da lui si stava lasciando osservare, come se non avesse nessun timore di essere giudicata, o non le importasse. Ricordava la volta in cui aveva pianto di spalle, nel silenzio, lasciandolo a parte di quel dolore come se gli fosse estraneo. Aveva sempre avvertito dentro quel bisogno di essere ostinatamente forte, come se mostrare le proprie debolezze avesse potuto compromettere il suo futuro, rendendola debole e vulnerabile. Ma quale dono le aveva poi fatto quella forza, se non delusione e rimpianti? Quella forza le aveva forse permesso di salvare Horus? E di salvare Amina? Perchè mai avrebbe dovuto lasciarle tanto potere nella sua vita?
Ogni lacrima sembrava alleggerirla di pesi che non sapeva nemmeno di avere sulle spalle. Le labbra prima arricciate per il debole imbarazzo, erano andate via via stendendosi in un sorriso che si disegnava dopo ogni lacrima. Con il viso rivolto verso l'alto e gli occhi chiusi, attendeva che il suo corpo sfogasse ogni sussulto e ogni riserva, mentre ne sorrideva quasi sollevata. Era viva, e aveva tutto il coraggio di cui aveva bisogno, il coraggio di fallire. Come le tante volte in cui si era lanciata ad ali dispiegate all'interno di una tempesta, senza porsi domande.
Quando le lacrime si fossero ormai seccate sulla sua pelle avrebbe riaperto gli occhi, riportandoli verso il nido di Amina. La pietra posta in sua protezione da Horus la accarezzava come un guardiano, rasserenando i suoi ultimi timori. Era stato un gesto tanto delicato, e sentiva di dover in qualche modo ringraziarlo. Dopo anni passati nel silenzio, quello che era accaduto in quei pochi attimi ancora le metteva sottosopra la razionalità, incapace di capire se fosse accaduto davvero. Tutta l'insofferenza e l'indifferenza cullata era davvero potuta svanire con una tale facilità? Troppe erano ancora le cose lasciate in sospeso, e ne era sempre più consapevole. Sollevò nuovamente entrambe le mani, questa volta per strofinarsi con i polpastrelli le guance, cercando di togliere quella fastidiosa salinità che le tendeva la pelle. Il modo in cui lo fece doveva apparire ad occhi esterni, estremamente buffo, al pari di un criceto che si massaggia il viso paffuto. Lo sguardo trasversalmente raggiunse il viso di Horus, quasi potesse mentalmente comunicargli "se ne parli a qualcuno ti trasfiguro il cuscino in un maialetto soffice".
Fu in quell'istante che gli occhi vennero calamitati da un elemento cui non aveva prestato attenzione fino a quel momento. Le dita di Horus erano avvolte e tenute strette da leggeri strati di garza medica, che gli impedivano di afferrare correttamente gli oggetti. Non ci aveva fatto caso quando ricurvo a terra lo aveva visto estrarre la bacchetta, ma ora quella specie di invalidità le era più percettibile. Ancor prima di formulare un pensiero al riguardo, una sorta di inevitabile e incontrollabile preoccupazione l'aveva colta.
- Cosa è accaduto alle tue mani? - gli chiese, senza pensare all'invadenza con la quale si stava forse intromettendo in qualcosa che non le riguardava. Il suo timbro appariva tranquillo, con un velo appena percettibile di curiosità mista a turbamento. Non c'era ferita umana che la magia non potesse guarire, questo lo sapeva bene. Eppure quelle bende richiamavano ricordi che credeva sopiti.





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— 19 yrs ▴ Hogsmeade; late afternoonclothes Sotto le ciglia rossastre, Horus rivedeva le ombre dei ricordi che avevano coinvolto lui e Mya. Non erano più tumultuose, scure e buie come una notte senza stelle, bensì di una calda sfumatura d’ambra, come se un filtro color seppia fosse stato interposto davanti ai suoi occhi. Le labbra, silenziose, si muovevano in una preghiera rivolta ai suoi Dei e con una traccia di sorpresa nel cuore, il ragazzo si rese conto di quanto fosse più semplice, ora, pregare per lei. Era stato il dolore per Amina o la sacralità di quel luogo, a lavare via il rancore che si era aggrappato a lui come un fungo sulla corteccia di un albero? Se così fosse stato, Horus glien’era grato e ringraziò Amon, per quell’incontro che lo aveva liberato da quel peso. Concentrato ed assorbito completamente in quella dimensione spirituale, inizialmente Horus non si avvide della sofferenza che aveva scosso il corpo di Mya. Non un singhiozzo era uscito dalle labbra di lei e così, quando lui si rialzò e si voltò verso la ragazza, rimase sconvolto per ciò che vedeva. Le lacrime, che mai aveva visto scorrere sul viso di Mya, scivolavano ora rapide, rincorrendosi in grosse gocce una dopo l’altra sulla guancia rosata. Impietrito, Horus la guardò sbalordito, imbarazzato non per la tristezza di lei, quanto più per essere lì, come un intruso intento a spiare la debolezza altrui. Chinò allora lo sguardo, rimanendo religiosamente in silenzio, volgendo le iridi chiare sulla pietra che aveva appena inciso, ma lontano mille miglia da lì. Ricordò il loro ultimo incontro all’Ars Arcana, quando entrambi avevano deciso di mettere un punto alla loro ormai morente storia. Sebbene fossero passati diversi anni, Horus ricordava bene quanta tristezza e al contempo rabbia avesse provato per lei: avrebbe voluto che avesse urlato, che gli avesse tirato contro un libro, aveva voluto meschinamente che avesse pianto per lui, per loro; che avesse dimostrato che teneva a lui davvero, che lo amava. Ma Mya si era mostrata fragile, era vero, ma mai spezzata, non davanti a lui. Persino quando si erano rivisti al ballo sotto al Lago Nero, vederla così a suo agio e divertita dall’incontro casuale riservatogli dal Fato, lo aveva infastidito tanto da spingerlo a chiedersi se lei lo avesse davvero amato, come lui aveva amato lei.
Resistendo alla tentazione di guardarla di sottecchi, Horus abbozzò un sorriso lieve, non per lo scherno, ma per la comprensione. Fu inevitabile chiedersi chi o cosa avesse fatto crescere così tanto Mya; cosa aveva passato, dove era stata, se era stata legata a qualcun altro, o a qualcos’altro. Qualunque fosse stata la risposta —o le risposte— Horus si sentì riconoscente per tutti quegli eventi che li avevano allontanati quando erano diventati incompatibili e che poi li avevano fatti rincontrare, quando erano cresciuti non solo i centimetri d’altezza (almeno per lui), ma anche le loro anime.
La natura serena di quei pensieri, tuttavia, non fu abbastanza da spingere Horus a rivelarli. Attese paziente che lei si sfogasse, lasciandole quantomeno la possibilità di farlo senza sentirsi giudicata, in quella poca intimità che lui aveva interrotto.
Si infilò la mano nella tasca dei pantaloni ed estrasse un delicato fazzoletto bianco e glielo porse, stendendo il braccio verso di lei senza però guardarla. Alzò il viso, fingendo parecchio interesse nello studio dei rami dell’albero. Avrebbe voluto prenderla un po’ in giro, perché non gli era sfuggito lo sfregare delle sue dita contro gli occhi umidi, rendendola assai simile ad un buffo criceto, ma preferì tacere, ancora indurito da tutti quegli anni di silenzio.
 Il cotone del fazzoletto era morbido, ricamato con le sue iniziali in un filo dorato, un dono piuttosto antiquato di sua nonna Sìnead, ma che lui si portava sempre dietro; profumava di sapone di Marsiglia, un odore che sapeva di casa, di amore.
Voltandosi finalmente a guardarla, Horus ne osservò le guance arrossate dallo sfregamento, il bavero della giacca bagnato; provò una grande tenerezza per lei, un sentimento totalmente nuovo e che lo stupì al punto da schiudere le labbra, quando invece aveva pensato di sigillarle.
« Sei cresciuta molto. » Si lasciò sfuggire con sua sorpresa e si affrettò a distogliere lo sguardo e a concentrarsi sulle proprie mani fasciate, verso cui l’attenzione di lei era fortunatamente caduta.
« Oh, queste? »
Ruotò la mano a mezz’aria, guardandosi le fasciature e muovendo le dita irrigidite con una certa lentezza e con apparente fatica. Il suo viso si incupì per un istante, mentre ricordava il dolore che aveva provato quando era stato attaccato da un enorme gufo reale.
Avrebbe voluto dirle che era in volo, non come uomo, ma come falco, e che aveva solcato i cieli di Hogwarts nella tempesta, fiero della sua forma e del suo corpo, felice delle sue ali. Le avrebbe voluto parlare di come ora capiva come si doveva sentire lei, quando parlava del Vento e di come avesse davvero imparato ad amarlo e a domarlo fra le sue piume. Avrebbe voluto ridere su quanto era stato stupido a credere di poter gareggiare con quella specie di cinghiale con le ali e di come per un momento avesse perso il contatto con la sua mente umana e fosse stato assorbito completamente dalla propria natura animale, al punto da provocare il gufo a suon di beccate; e le avrebbe voluto dire, non senza un po’ di vergogna, come quest’ultimo gliel’avesse suonate come solo un predatore sin dalla nascita sa fare, affondando gli artigli su di lui e sulle sue ali, mandandolo a sbattere contro un vecchio pioppo rinsecchito; di come ora non riusciva a trasformarsi e a volare per il dolore e di come avesse accettato di attendere di guarire, prima di solcare nuovamente il cielo.
La guardò e negli occhi passò tutto questo come un brillio nelle iridi d’argento; lei, era sicuro, avrebbe capito.
« Ho litigato con un gufo postino che mi ha beccato senza pietà. » Disse invece, stringendosi nelle spalle e puntandole l’indice bendato contro. « Non sei autorizzata a ridere, Lockhart. » La ammonì con severità, mentre ricacciava in fondo al petto il desiderio di condividere con lei quella familiarità di cui ora, improvvisamente, sentiva nostalgia.

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Sboccia nella neve mortale il fiore del ricordo

Il tessuto del fazzoletto, morbido e delicato, le avvolgeva completamente il viso, premuto sulle guance dalle sue esili dita. Un odore fresco le inondava i sensi, quasi rinfrancandola da quel momento di profonda tristezza in cui si era ritrovata qualche attimo prima. Era un profumo cui non era particolarmente abituata, preferendo di suo note più agrumate, eppure quella fragranza le provocava un senso di nostalgia, di un ricordo vivido seppur lontano. Le ricordava di una notte di molti anni prima, trascorsa proprio nell'abitazione del ragazzo, delle lenzuola candide nelle quali si era avvolta per cercare silenzio più che ristoro. Una casa che avrebbe dovuto visitare con la felicità di chi mette finalmente piede nella vita di chi ama, e non con l'angoscia di non sapere cosa il domani avrebbe riservato loro. Come se quell'abitazione fosse solamente un punto di ristoro, un'oasi sicura prima di scivolare fra le pieghe di uno sconfinato deserto. In quella stoffa profumata aveva lasciato il suo terrore, le sue angosce, incapace come lo era sempre stata di condividerle con alcuno. Ma il tempo le era stato maestro, severo e crudele, non aveva mostrato compassione né riguardo nei suoi confronti, trasformandola in una persona capace di accettare sè stessa, in ogni bruttura o debolezza, senza vergogna.
Persino Horus sembrava aver colto quel cambiamento, nonostante gli anni di lontananza e silenzi, e di quelle poche parole che si erano ora scambiati. Dovevano essere state le lacrime a fregarla, pensò, discostando appena il fazzoletto per lasciar sfuggire un leggero sorriso. Piangere come un bambino, era un modo di dire che mai si era abbinato alla sua persona, e ritrovarsi "grandi" per un pianto sincero le fece comprendere quanto la vita fosse strana e piena di contraddizioni. Accarezzò con il fazzoletto le guance per asciugare l'umidità restante, poi lo richiuse tenendolo però stretto nella mano destra. Nel mentre osservava il ragazzo catturato dalla fasciatura delle sue dita, come se stesse raccogliendo le idee per formulare la risposta più corretta, o storia più avvincente. Nei suoi occhi grigi, prima placidi come nubi stazionarie, si accese un guizzo di frenesia, come se stesse ripercorrendo le dinamiche che lo avevano portato a ferirsi. Ed essi non tradivano spavento o preoccupazione, ma eccitazione. Fu per quella sua attenzione curiosa che la risposta non la soddisfò quanto aveva ipotizzato. Certamente, avere a che fare con un gufo agitato ed uscirne unicamente con dei graffi alle dita, per quanto umiliante era comunque meglio di un occhio cieco o cicatrici in pieno volto. E percependo forse il suo divertimento in merito, Horus le aveva puntato un indice contro intimandole di non ridere della questione.
Al che Mya aveva semplicemente sollevato la mano sinistra, col palmo aperto in direzione del ragazzo, come uno stop. La pelle calda della sua mano sfiorò quella gelida del suo dito, spingendo appena perchè arretrasse. - Non hai giurisdizione in questo giardino, sono spiacente - sentenziò, con una vena leggera di divertimento nella voce. Scherzare come un tempo era davvero concesso loro? Perdonarsi, comprendersi, aiutarsi, erano cose in cui entrambi in passato avevano fallito, forse a causa della giovane età o di un'incompatibilità latente. Erano cresciuti indubbiamente, ma cosa e chi erano diventati nessuno dei due lo sapeva davvero. Erano echi nostalgici. La stessa nostalgia che si era risvegliata attraverso quel flebile contatto, innescando in lei reazioni involontarie, come il cuore che prendeva un battito in più o la pelle che sembrava farsi più calda in quel preciso punto del palmo. Là dove Laguz si stava accendendo di un rosso più scuro, apparendo in contorno oltre il dito del Tassorosso. Istintivamente Mya interruppe quel ponte, prima che quella maledetta runa potesse infrangere le barriere mentali del ragazzo, infilandosi senza riguardo nei suoi ricordi. Cercò di dissimulare quel movimento senza apparire eccessivamente turbata, ma approfittando del gesto per allontanarsi, circumnavigando il cerchio di pietre.
- Ma tranquillo, nemmeno io piaccio molto ai gufi... - disse sollevando la mano ed osservandola nello stesso modo in cui Horus aveva fatto con la propria. Ma a differenza delle bende candide, sulla sua si formarono diversi strati di piccole piume castane che sul dorso si fondevano con l'incarnato chiaro. Avere il completo controllo della propria mutazione le permetteva di lasciar uscire in parte quella natura bestiale senza che vi si abbandonasse completamente. Era la prima volta che mostrava quel lato di sè al ragazzo, eppure la cosa non la turbava. Lui aveva litigato con un gufo in fondo, provare repulsione per un gheppio non sarebbe stato poi tanto diverso. Decise di voler capire quanto lui fosse pronto ad accettarla, le sarebbe bastato un accenno di disgusto in volto o uno spasmo delle sopracciglia per avere la risposta che cercava. - ...deve essere a causa di questa mia natura - concluse la frase precedente, non distogliendo lo sguardo da Horus, ben consapevole che in quel frangente la sua attenzione sarebbe stata per certo altrove.





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view post Posted on 12/5/2021, 12:16
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— 19 yrs ▴ Hogsmeade; late afternoonclothesIl tocco flebile, delicato del palmo di lei contro il suo dito fu inaspettato e, come colpito da una scossa elettrica, Horus sussultò impercettibilmente, ritraendo l’indice.
Nel frangente intercorso fra quel contatto, infatti, il ricordo appena rivissuto dell’attacco del gufo gli era scivolato dalla mente alla mano e per un folle istante Horus aveva creduto che Mya avesse potuto vederlo e scoprire la verità. Per nascondere quella ritrosia di cui era stato vittima involontaria, finse un malore alla mano e se la massaggiò con l’altra, abbassando in fretta lo sguardo. Non rispose alla sentenza di lei, ma si limitò a sorridere con distrazione, chiedendosi cosa fosse accaduto. Si fissò intensamente le dita ancora una volta, provando la tentazione di liberarsi dalle bende, ma alla fine dei conti, mentre Mya si allontanava da lui, incolpò le ferite per quella strana, scomoda sensazione. Sollevato da quella scusa plausibile (che suonava, invero, più come una giustificazione), Horus poté allora alzare la testa e seguire il movimento della ragazza. Se gli era sembrato di aver varcato, in punta di piedi, il confine che entrambi si erano imposti di non superare mai più, ora si diede dello sciocco per averlo anche solo pensato. Avevano costruito quel muro molto, troppo tempo prima, e non sarebbe bastata la morte di Amina a distruggerlo; ecco, forse l’aveva incrinato solo un po’, quel tanto che bastava, ad entrambi, per sbirciarsi a vicenda attraverso la fessura creatasi. Così Horus non le si avvicinò come aveva fatto in precedenza, ma continuò a guardarla, proprio come se fosse davvero esistito quel passaggio fra i loro presente.
Nonostante questo, però, non riuscì a nascondere l’ammirazione —e l’invidia— quando vide comparire sul dorso della mano di lei piccole, morbide piume che sfumavano nella pelle con tale maestria da lasciarlo senza parole. Una mutazione così naturale denotava un controllo straordinario sulla propria anima di falco che lui, purtroppo, ancora non possedeva. Improvvisamente, Horus si rese conto di quanto tempo effettivamente Mya aveva passato a familiarizzare con la sua natura animale e quanto ne sarebbe dovuto servire a lui per riuscire anche solo a pensare di fare una cosa del genere. Sul filo di quei pensieri aveva lasciato indietro la precauzione del silenzio, così senza nemmeno avvedersene esplose in un’espressione genuinamente sorpresa.
« Vuoi dire che gli altri animali sanno che noi… » Tacque bruscamente, spalancando gli occhi grigi e rendendosi conto dell’errore. Poi, con la sua proverbiale lucidità, riprese con apparente sicurezza. « … Che noi Maghipotremmo essere degli impostori? » Era un’eventualità che non lo aveva mai, minimamente sfiorato. Aveva sempre creduto che la Magia era talmente potente in quell’abilità, essendoci di mezzo un Dio, da essere perfettamente in grado di fondere ogni umano con il suo spirito animale, senza che nessuno, nemmeno gli animali stessi, se ne potesse accorgere. Si spostò di qualche passo, camminando pensieroso sulla neve e lasciando caotiche impronte sul manto morbido.
« Tu riesci a comunicare con gli altri uccelli, con i gheppi? Nel senso… » Rimuginò un momento, ripensando a Ra: se solo fosse riuscito a trovare lui, se fosse stato ancora vivo… *Certo che lo è.* …Trovare informazioni su Osiris forse sarebbe stato meno complesso. Nel mondo animale, chissà, le cose sarebbero potute essere diverse e trovare un falco sacro, così raro, era forse più facile, se avesse comunicato con gli altri rapaci. Quella scoperta avrebbe potuto cambiare tutto, rivoluzionare i suoi piani, aumentare le probabilità di una riuscita, accorciando la distanza fra lui, Horus, e la verità su ciò che era accaduto a suo padre.
« Puoi chiedere loro delle cose, possono darti delle risposte? »
Acceso da una speranza che ne illuminava il volto pallido, lo sguardo di lui sfiorava la mano piumata di Mya e poi il suo viso ancora arrossato dal pianto.
Fu dimentico di tutte le imposizioni che si era rimproverato di seguire, dimentico persinodella nostalgia che l’incontro con Mya aveva rievocato. Ossessionato dalla sua ricerca, tutto aveva perso importanza per quel breve istante e senza rendersene conto l’aveva raggiunta e le aveva preso la mano, cingendole il dorso con incredibile facilità. Per quanto avrebbe voluto mantenersi impassibile, l’eccitazione della speranza seppur flebile agli occhi di lei, era percepibile da un lieve tremito delle dita bendate. Una volta le loro mani si eguagliavano in grandezza, ma ora lui riusciva a circondarla con la sua senza problemi.
« Come fai? » Le domandò accorato, non senza un pizzico di insolita impazienza, brutalmente vicini.
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view post Posted on 6/3/2023, 17:25
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Sboccia nella neve mortale il fiore del ricordo

lyNQCGR
D'un tratto, lento ma inesorabile, sottile come le ali di una libellula, l'atmosfera silenziosa e solenne che abitava il giardino parve farsi meno malinconica. Più rumorosa, quasi infantile. Misterioso incanto che pareva indurre alla sincerità, o la più pura essenza. Mya non aveva mai davvero compreso la natura magica di quell'albero, che suo padre raccontava di aver piantato durante gli ultimi anni scolastici a Hogwarts. "Può vedere il cuore" le aveva detto Aiden, inducendo talvolta quella bambina diffidente a temere i suoi stessi pensieri quando vi era al cospetto. Era accaduto anche che in alcuni giorni bui, in cui sentimenti oscuri affioravano nel suo animo, se ne fosse tenuta lontana, nel timore di vederlo sfiorire, avvelenato dal torbido male. Ma con gli anni aveva imparato a fare i conti con quella Verità, nuda, pura e selvaggia. Aveva compreso che il vero veleno, del mondo e dell'esistenza stessa, era la menzogna. E così se ne era spogliata, affidando a quel ciliegio ogni bruttura e ogni spigolo della sua persona.
Era semplice, e leggero il tempo che trascorreva nel giardino, le restituiva sempre una visione più chiara delle cose.
Ora quell'incanto sembrava avvolgere anche Horus, nello stesso tenero modo in cui lo aveva accolto anni prima, piccino smarrito e confuso. Lo ritrovava più grande, e più consapevole, ma con la stessa viva e bruciante curiosità del sè stesso undicenne. Mya ne fu quasi stordita, travolta dal fiume impetuoso che furono le domande di lui, al punto da non riuscire quasi a decidere quando fosse più opportuno introdursi e placare la sua curiosità. Erano interrogativi interessanti, si fermò a riconoscere la tassina, quesiti che non si era mai davvero posta vivendo quella capacità come naturale processo.
Si picchiettò il mento più volte mentre valutava la risposta meno stramba e più comprensibile, per qualcuno che vedeva il mondo da una prospettiva solamente umana.
Se posso comunicare ... sì, certo è possibile, e devo ammettere che si è rivelato utile in più di un'occasione" rispose, riportando alla memoria diversi viaggi esplorativi per l'Ars Arcana, in cui la fauna locale si era rivelata un vantaggio non da poco per la riuscita della missione. O anche di quella volta in cui uno scoiattolo nel parco del castello l'aveva avvisata di una trappola umana adolescenziale (comunemente detto scherzo) in cambio di due arachidi. "..anche se non devi aspettarti una conversazione estremamente complessa. Hanno una comunicazione molto basilare" concluse, sperando di aver raccolto in poche parole una risposta abbastanza soddisfacente. Ruotò nuovamente il corpo in direzione di Horus senza avvedersi di quanto vicino si fosse fatto nel frattempo, domanda dopo domanda, ritrovandoselo in un respiro ad un passo dal cuore e pelle sopra la pelle. Brivido.
Gli occhi scesero verso il braccio cercando la sua stessa mano, le esili dita quasi non si scorgevano avvolte per intero dalla grande mano di Horus che la teneva delicatamente ma con decisione, come qualcuno intenzionato a non mollare la presa fin quando non fosse giunto alla risposta bramata.
*Come faccio cosa* le venne da pensare confusa, travolta emotivamente da quel contatto repentino e indesiderato. Eppure una parte di lei doveva essersi abituata, così come era accaduto sul treno del loro primo incontro, poi nella biblioteca, poi sul campo di quidditch, quei contatti invadenti, improvvisi, che la rendevano vulnerabile e scoperta. Li odiava, li aveva sempre odiati, perchè non riusciva a odiarli davvero. E allora odiava lui.
Forse fu per quella tempesta emotiva che perse il controllo di Laguz.
Improvvisamente.

Si ritrovò a mezz'aria, senza più i piedi per terra, mancò un respiro. Stava cadendo, ma senza cadere. Sospesa. Il cielo sopra. Provò ad agitare le braccia ma non percepiva il suo corpo, era come uno spettatore inerme. Avvertì la sensazione di essere strattonata senza però percepire alcun dolore, Il mondo si fece sottosopra più e più volte, poi rumore di fronde e rami spezzati. Un grande gufo le venne incontro spingendola all'indietro, ancora nessun dolore. Istintivamente provò a sollevare gambe e braccia per schermarsi, ma anziché i suoi pantaloni vide due zampe artigliate protendersi per difesa. Artigli come i suoi ma ben più grandi. Poi piume che volavano confondendosi fra le foglie in tumulto, e giù di nuovo tra buio e frastuono.

Mya si riebbe nel giro di due o tre secondi, i suoi occhi dovevano essersi fatti vacui come succedeva ogni qual volta ghermiva il passato dal tocco di un oggetto. Si ritrovò con la mano destra aggrappata a quella di lui, sovrastandola come poteva e con dita serrate. Il suo cuore era ancora un treno in corsa e fermarlo sarebbe stato difficile, ora che la consapevolezza di ciò che aveva visto si era fatta Reale, tangibile. Le bende, le domande, la facilità con cui aveva accettato la sua natura. quella verità gridava nella sua testa mentre incrociava i suoi occhi grigi e li trafiggeva di dubbio.
Aveva mentito.
Come faccio cosa? Trasformarmi?
Aveva mentito, davanti alla sua sincerità.
È un istinto spontaneo, naturale
Aveva mentito, davanti ad Amina e a quel luogo sacro.
Come correre, respirare
Aveva mentito dopo aver sfiorato la sua vulnerabilità.
*Mentire*
Aveva mentito, come il resto del mondo aveva fatto con lei da sempre. Tutti mentivano, e ingannavano, e trafiggevano con parole gentili. Allora cosa le aveva fatto credere che lui fosse diverso? Cosa? Perché quella delusione sul suo cuore non faceva che allargarsi come una macchia di catrame putrido, insozzava i suoi sentimenti, li contaminava di disprezzo e amarezza. Si distaccò repentinamente da quel contatto fin troppo prolungato, senza bisogno di camuffare alcunché.
Credo sia arrivato per te il momento di andare, se non ti dispiace. Vorrei restare ancora un po' con Amina
Si stupì della formalità, e gentilezza con cui lo stava congedando. Stava decidendo, al cospetto di quel sacro albero, di non serbare rancore nei confronti di Horus. Che quel segreto carpito sarebbe stato la moneta di scambio, il prezzo che accettava per la menzogna.
Girò su sé stessa e tornò verso il santuario di Amina, chinandosi a terra per sistemare la sciarpa attorno all'uccellino, senza più alcun interesse di condividere. Chiusura.
Quella che forse avrebbero dovuto avere da tempo e che lei aveva continuato a ritardare, in nome di un desiderio forse troppo puerile. E che ora vedeva nella sua forma più vera.
Sfiorò la piccola pietra, dono del ragazzo, e un dolore più vivido le si conficcò nella pelle come una scheggia di vetro. Sapeva che il tempo avrebbe estratto quella scheggia per lei, lasciando solo una pallida cicatrice.














Edited by myüller - 6/3/2023, 19:17
 
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